Dal Mar Nero al Mediterraneo: Quattromila anni di ininterrotta attività di spionaggio. Dalla guerra di Troia al conflitto ucraino.

Guerra di Troia: dalla guerra fredda alla guerra dichiarata.

La datazione ritenuta più attendibile per indicare la caduta di Troia, dopo un decennio di assedio da parte dei Greci, è quella del 1184 a.C. Ritenendo che il lettore abbia ormai metabolizzato la tesi secondo la quale il mondo, in tempi pre storici, era caratterizzato da una civiltà globale, per comprendere gli intrecci politici di un periodo cronologicamente così distante dal nostro, bisogna che il lettore si spogli per prima cosa dai condizionamenti esercitati dalle narrazioni poetiche dei fatti di quel periodo giunte fino a noi, in quanto difficilmente il lettore riuscirebbe a leggere nel poema la verità che si cela fra le righe del racconto, specialmente se questi racconti sono stati messi per iscritto dai vincitori quattro secoli dopo gli eventi accaduti. Il ricercatore deve, invece, assumere l’atteggiamento imparziale dell’investigatore privo di pregiudizi, tenere conto che gli schemi mentali appartenuti agli individui fin dall’apparire dell’Homo Sapiens non sono mutati e deve innanzitutto ricercare fonti alternative e possibilmente contemporanee ai fatti accaduti che non mancano quando gli accadimenti assumono posizioni di interesse globale. Infatti, grazie al confronto delle informazioni provenienti dalle parti in conflitto, contenute nei freddi, poco eleganti dal punto di vista poetico, ma realistici resoconti di Ditti Cretese e Darete Frigio, si può apprendere una versione alternativa a quella pedagogica elaborata dalla scuola di Omero. Dalla lettura dei testi provenienti dai sopracitati autori, testimoni oculari del conflitto – Darete viene citato dallo stesso Omero nell’Iliade- emerge che la causa della caduta di Troia verrebbe addossata al tradimento di Enea e a suo cugino Antenore, i quali aprirono nottetempo le porte della città al nemico. Su questo episodio non ci soffermeremo più di tanto avendolo già indagato nell’articolo “Enea alle pendici dell’Etna”, pubblicato anni fa su miti3000.eu. A noi qui interessa piuttosto indagare le correlazioni vigenti, fin da tempi immemorabili, tra l’irrequieta area geografica del Mar Nero e il Mediterraneo, che vide la Sicilia quale tavolo di trattative diplomatiche e manovre di controspionaggio.

Per comprendere il ruolo di Deus ex machina esercitato dai principi siciliani nella geopolitica durante il periodo che intercorre tra il II e il I millennio a. C., bisogna volare alle altezze dell’indomita aquila e, sorvolando la vasta area mesopotamica, anatolica, greca e siciliana, dall’alto scrutare i movimenti invisibili dal basso, che dietro le quinte svolgevano i governanti delle regioni prima nominate. Bisogna non trascurare il fatto che in tempi antichi, come ancora in alcuni casi nei tempi moderni, ogni guerra veniva combattuta sotto il grido di dio lo vuole, come a indicare che “ogni evento svolto quaggiù veniva prima deciso lassù”. Di conseguenza, mettendo sotto la lente d’ingrandimento la teogonia e la mitologia di quel tempo, potremo scoprire, grazie alla tramandata attività degli dèi che interferivano nelle umane attività belliche, le celate opere umane, che di quegli dèi – chiunque essi fossero– erano il prolungamento in terra, mostrando altresì, che poco avendo di divino, quelle divinità nutrivano più interessi in terra che in cielo.

Ora si dà il caso che nel periodo di tempo qui esaminato, e forse ancora oggi, gli dèi che intendevano risolvere ogni problema istigando gli uomini a combattersi erano in realtà due e ognuno di loro poteva contare sull’appoggio, oltre quello ovvio dei propri congiunti, della fazione degli uomini che avevano scelto di schierarsi per l’uno o per l’altro dio. I nomi di queste divinità dicotomiche erano identificabili con quelli di: Enki e Enlil in area mesopotamica; Poseidone e Zeus in area greca; in Sicilia, genericamente appellati Palici o Delli, potrebbero essere identificati con Enki ed Enlil quanto con i figli del primo, Thot e Marduk, venuti tutti in contesa tra loro. Le liti riguardanti i quattro, avvenute in tempi diversi, potrebbero essere state fuse in un unico mito nella tradizione siciliana o nella ricostruzione greca riproposta da Eschilo nelle Etnee. L’ipotesi di un conflitto tra i due fratelli divini su scala globale, con epicentro strategico in Sicilia, matura grazie alla lettura, fatta da una diversa angolazione, dei testi classici greci e dalla esamina della traduzione delle tavolette sumeriche fornite dagli accademici. Attraverso l’incrocio dei fatti descritti dagli autori dei suddetti testi, grazie al significato dei toponimi, dei teonimi e la decriptazione delle metafore contenute nei miti, siamo pervenuti a identificare l’Abzu, la sede occidentale di Enki, con la Sicilia – per l’approfondimento di questo tema rinviamo i lettori agli articoli precedenti-. Il fatto che nella teogonia siciliana pre greca non ci sia una divinità che con la sua presenza controbilanci il peso esercitato dal dio Adrano, potrebbe essere attribuito al fatto che l’isola potesse essere stata eletta a terreno neutrale (vedi il nostro articolo: “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, www.adranoantica.it), e tuttavia posta sotto la giurisdizione del dio affettuosamente chiamato dai Sicani nonno, avo, cioè Ano aggettivato odhr furioso. L’isola sarebbe stata, infatti, il luogo in cui avevano sede le dodici ambasciate divine, oltre che essere il laboratorio sperimentale abitato da quella equipe di genetisti di cui si fa esplicito riferimento nelle tavole sumeriche, diretto da Enki e successivamente da suo figlio Ningishazidda, corrispondente al dio egizio Thoth e al greco Ermete.

Eridu.

Nelle tavolette sumeriche si fa sovente riferimento ad una città edificata da Enki nell’Abzu, il cui nome era Eridu. Se fosse giusta l’interpretazione etimologica da noi azzardata per questo appellativo, cioè luogo in cui si è giurato o promesso (di mantenere la concordia) facendo derivare il toponimo da Ehre onore, reputazione, considerazione e Eid giuramento, promessa, ecco che sarebbe possibile immaginare che l’isola venisse scelta davvero come sede delle ambasciate divine e luogo esente da conflitti di ogni genere. Non solo, ma si comprenderebbe il motivo per cui tutti gli eroi e regnanti del mondo allora conosciuto, da Enea a Ulisse, da Ercole a Minosse, da Giasone a Medea venissero in Sicilia a conferire con la personalità più autorevole del tempo, quel Al Cened o Alcinoo, di cui diremo oltre, e che nulla si compisse nel mondo mediterraneo senza la sua approvazione o quanto meno senza prima relazionarsi con lui. Il fatto, poi, che nessuna tradizione storica e mitologica accenni a ostilità avvenute nel suolo siciliano prima della venuta dei Greci nell’VIII sec. a.C., durante cioè il lungo periodo sicano e che gli abitanti dell’isola venissero universalmente riconosciuti come un popolo pacifico, corrobora la tesi secondo la quale il divino giuramento, “Ehre Eid” , dovette reggere per qualche millennio e chiunque fosse stato tentato dall’infrangerlo, fosse stato pure il figlio di un dio come nel caso di Minosse, avrebbe espiato il sacrilegio con la morte. Naturalmente quel giuramento non impedìva che nelle ambasciate siciliane si intraprendessero azioni di controspionaggio , anzi, proprio il dio Adrano, se è giusta la identificazione di questa divinità col mesopotamico Enki, aveva in qualche modo inaugurato l’arte della contrapposizione occulta quando, aggirando il giuramento relativo alla catastrofe del diluvio, col fine di salvare il genere umano che il fratello Enlil desiderava annientare (Enki fu costretto a giurare che non avrebbe rivelato agli uomini l’imminente arrivò del diluvio), facendo finta di parlare con una parete di canne, rivolgendosi in realtà a Ziusudra, il Noè mesopotamico, rivelava i suoi piani per salvare il genere umano.

Eolo e i venti di guerra.

Siamo dell’avviso che Enlil, detto Eolo in Sicilia, imparata l’arte messa a punto dal dal fratello Adrano/Enki, cioè di poter aggirare i giuramenti senza essere tacciato di spergiuro, arte che i Siciliani ereditarono dal loro Avo divino, tanto da fare affermare a Cicerone nelle verrine che questo popolo era maestro nell’arte di lasciare intendere senza dire, lo emulasse. Nell’ambito della guerra fredda che serpeggiava tra i fratelli divini, uno degli obiettivi che si perseguiva nell’ambasciata siciliana di Enlil, qui chiamato Eolo, era probabilmente quello di portare aiuto al re Eeta, suo alleato nella Colchide, nel Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, senza per questo essere accusato di ingerenza nella politica di uno stato straniero. L’aiuto consisteva nell’inviare un misterioso oggetto nascosto nell’isola che da lui prendeva il nome, Eolia, dove era ubicata verosimilmente la sua ambasciata. Il nome in codice di questo temibile oggetto era quello eufemistico di “vento sacro” ovvero Ve Hel, il famoso vello di cui tratta Apollonio Rodio nel suo Le Argonautiche. Il vento sacro o vello d’oro, doveva certamente rappresentare un’arma non convenzionale, qualcosa di simile a quella posseduta dai Giudei chiamata arca di cui nessun contemporaneo era ma riuscitoi a comprenderne né l’efficacia o la composizione, né gli effetti provocati, salvo il constatare che se qualcuno si a costava all’arca incautamente e senza prendere le dovute precauzioni rimaneva folgorato. Così il vello avrebbe certamente potuto essere determinante per il risultato di un eventuale conflitto militare che si sarebbe potuto verificare nella instabile area mediorientale con epicentro nel Mar Nero.

Integrando quanto qui supposto circa le presunte armi non convenzionali di quel tempo con quanto viene affermato nelle tavolette sumeriche, in cui si apprende che in Medio Oriente, nella città di Aratta, il re era in possesso dei famelici “me”, ritenuti dall’anonimo compilatore delle tavolette potenti mezzi di potere, non ci si allontanerebbe troppo dal verosimile se ipotizzassimo che il vello, parola in codice utilizzata nel linguaggio sicano in ambito militare , dovesse servire al re della Colchide Eeta per contrastare le armi, forse i me, possedute da un ipotetico suo antagonista.

Ma qualcosa era andato storto, forse venne supposto che Eeta non aveva intenzione di fare buon uso di quella pericolosa arma o forse mutati i rapporti di forza mutavano le alleanze, fatto sta che si optava per il recupero dell’arma. A tal fine venivano selezionati i migliori agenti che operavano nell’ambito del Mediterraneo, probabilmente ingaggiati da Enki/Adrano protettore del genere umano. Come si evince dal testo di Apollonio Rodio Le Argonautiche, i componenti dell’equipaggio erano imparentati sia con Eolo/Enlil che con Enki, essendo figli, nipoti e pronipoti dei due fratelli. Lo scopo della missione era quello di indurre, con le buone o con le cattive, Eeta a riconsegnare la micidiale arma. Enlil/Eolo dimostrava in questo episodio, così come lo aveva dimostrato precedentemente in quello relativo al diluvio, di essere insensibile alle umane sofferenze, e che, anzi, auspicava la periodica decimazione degli esseri umani, fornendo agli inconsapevoli gregari di volta in volta le armi di distruzione di massa. Questa strategia Enlil/Eolo l’avrebbe adottata ancora dopo, utilizzando l’astuto Ulisse. Infatti, all’eroe greco, stando al contenuto dell’Odissea e all’inedita interpretazione qui proposta, famoso per le sue doti di astuta mistificazione, Eolo consegnerà, due generazioni dopo la consegna del Vello a Eeta, l’arma chiamata Furore in codice (odhr in lingua sicana), ovvero il famoso otre che conteneva i malefici venti della distruzione, i quali, come è scritto nelle tavolette sumeriche, verranno utilizzate con efficacia sulle città sumeriche di Ur, Uruk, Nippur e tutte le altre tranne Babilonia, risparmiata dal vento contrario che inaspettatamente, soffiando in altra direzione, allontanò le pestifere radiazioni (?). Città distrutte dalle medesime cause saranno ritrovate dagli archeologi in altre aree geografiche: Moenjo Daro in Pakistan; Sodoma e Gomorra in Palestina; in India si trovano citazioni contenute nei testi sacri: i Veda. Ulisse, però, darà picche a Eolo, infatti quando il greco farà ritorno nell’isola del dio, per comunicargli il fallimento dell’operazione Furore, verrà cacciato dal palazzo a male parole oltre che a essere maledetto. Noi sospettiamo che dietro il fallimento dell’operazione Furore, ci sia lo zampino di Adrano/Enki, il garante della pace universale e protettore del genere umano. Infatti, il re dei Feaci Alcinoo, la cui reggia si trovava a Trapani, e che senza ombra di dubbio era un affiliato al clan di Enki, sarà colui che, dopo aver ospitato nella propria reggia il doppiogiochista greco, principe d’inganni e maestro di strategie, lo farà accompagnare incolume a Itaca a bordo delle imbarcazioni siciliane che si muovevano, afferma l’aedo cieco nel suo poema, col solo pensiero, senza l’ausilio di remi.

La Sicilia snodo di intrecci diplomatici e/o di spionaggio.

Sorvolando in questa sede sui numerosi riferimenti alla Sicilia contenuti nel poema di Apollonio Rodio Le Argonautiche, e sulle citazioni di toponimi che si trovano sia in Grecia che in Sicilia, che sommati ad altri indizi ci inducono a sospettare – e la riuscita operazione di sincretismo in chiave grecocentrica effettuata dai Greci in Sicilia a partire dall’VIII sec. a.C. ce ne dà forte motivazione- che il porto da cui partirono gli Argonauti sia stato quello di Ortigia a Siracusa, piuttosto che quello greco della oscura Jolco, rimaniamo comunque dell’avviso che Eolo/Enlil o Enki/Adrano, o entrambi essendo pervenuti ad un accordo di collaborazione, convocati i comuni parenti (la parentela tra Eolo e gli Argonauti è attestata nel lib. I, cap. 1094. Fanno parte dell’equipaggio anche Neleo e Peleo che Poseidone ebbe da donna mortale) li inviarono a recuperare la pericolosa arma che si trovava nel Mar Nero, nelle insicure mani del re Eeta, nelle quali l’avevano consegnata anni prima Frisso ed Elle, nipoti di Eolo, per disposizione dello stesso dio dei venti. Percorrendo la liquida strada che ormai veniva considerata una sorta di via della seta che metteva in comunicazione il Mar Nero con la Sicilia, gli Argonauti raggiungevano la Colchide riuscendo nell’impresa di recupero. Rientrati in possesso del non meglio identificato oggetto chiamato cripticamente ve-hel, vello, stando alla versione greca che voleva Greci i mandanti della missione, avviene un fatto inspiegabile: i cinquanta agenti, invece di recarsi in Grecia e chiudere a Jolco la missione ufficialmente voluta dal re di Jolco, e che avrebbe consegnato il comando della città al capo della missione Giasone, gli Argonauti continuano il periglioso viaggio alla volta della Sicania, lasciandosi alle spalle la Grecia. In Sicilia si recano a Trapani. Qui incontrano Al Cened o Alcinoo, re dei Feaci. Le contraddizioni insite nel racconto, a cui Apollonio non fornisce chiarimenti sufficienti, ci spingono a ipotizzare che l’arma dovesse rimanere nella neutrale Sicilia e per tal motivo doveva essere consegnata al saggio Alcinoo. La saggezza di questo re sicano, viene altresì celebrata sia da Omero che da Apollonio. Che il vello sia stato consegnato in Sicilia durante l’incontro col pio re sicano, emerge agevolmente attraverso la lettura del testo di Apollonio. Infatti, dopo la partenza dall’isola, il lettore si accorgerà che, continuando il racconto, l’autore si soffermera’ soltanto sulle difficoltà nautiche che gli eroi incontreranno sulla via del ritorno, senza fare più cenno al vello, come se un oggetto così prezioso avesse perso ogni interesse per coloro che lo avevano recuperato a rischio della propria vita. Ciò è plausibile soltanto se, ricordiamolo, avendo portato a termine la missione di recupero, il vello venisse consegnato al richiedente, in Sicilia.

Per spiegare la consegna della terribile arma ad Alcinoo, bisogna un attimo soffermarsi sul significato del l’appellativo apposto al mite re siciliano. L’appellativo del re dei feaci lascia infatti presagire il ruolo che questo illuminato principe avrebbe dovuto svolgere nella pacifica isola sicana, confermato tra le righe dal racconto Omerico, dove lo si dice a capo della confederazione di dodici – corrispondente al numero degli dèi del Pantheon sia greco che sumero – principi che governavano le dodici province sicane. Il re svolgeva il ruolo di un giudice di pace antelitteram; infatti il suo appellativo risulta formato dall’unione del lessema alla che in antico alto germanico significa tutti, e cened, vocabolo con cui nella lingua antico irlandese si indicava un gruppo umano legato da vincoli di sangue, come nel caso degli dèi sicani. Dobbiamo dedurre che il ruolo di garante della pace sia stato ancora una volta efficacemente svolto da Alcinoo se il derubato re della Colchide, inseguiti gli agenti sotto copertura fino alle coste siciliane per recuperare il vello, decideva di rimanere a largo della costa, desistendo dal dichiarare guerra, impaurito dalle “innocue” minacce verbali proferite contro di lui da Alcinoo. Ma forse Eeta desisteva dall’aggressione all’isola memore della fine che suo cognato Minosse aveva fatto in Sicilia una generazione prima, caso irrisolto che molto ricorda quello attuale del giornalista saudita Khashoggi. Dopo la breve attesa al largo delle coste siciliane, sperando in una pacifica restituzione del Vello, decisione che spettava ora ad Alcinoo, il re della Colchide rinunciava perfino a riavere il prezioso bottino, nonostante l’imponente flotta al proprio seguito. Anzi, da quello che emerge dal racconto di Apollonio, la flotta di Eeta, deliberava di rimanere a vivere in una delle isolette dell’arcipelago siciliano. La stessa cosa era avvenuta qualche anno prima anche con l’esercito dell’arrogante Minosse. L’esercito, privato del suo comandante, rimasto misteriosamente senza vita durante un colloquio con il principe sicano Cocalo, era rimasto a vivere in Sicilia rinunciando a rientrare nella patria cretese.

Eeta dovette dunque tornarsene da solo nella sua dorata reggia del Mar Nero e a mani vuote. Ma non per questo la guerra fredda tra Est ed Ovest era cessata, anzi era destinata ad inasprirsi a tal punto che, presentatosi il casus belli una generazione dopo, i Greci dichiaravano guerra, chiamiamola così, alla coalizione dei paesi dell’est guidata dai Troiani. Il “caso” voleva, che a partecipare alla guerra nel Mar Nero, con un ruolo da protagonisti, vi fossero i figli di quegli Argonauti che una generazione prima, sottraendo il vello, avevano forse creato i podromi della guerra ora combattuta dai figli. Era avvenuto un passaggio di consegne? L’epicentro della guerra si ebbe nella città di Troia per il motivo che lo spionaggio troiano aveva intessuto relazioni con la città di Trapani sulla quale, ricorderà il lettore, governava Alcinoo. Considerando che, sia Alcinoo che Cocalo, avevano indotto potenti armate straniere a desistere dalla aggressione all’isola di Sicilia utilizzando soltanto minacce verbali, si deduce che le capacità di deterrenza messe in atto nell’isola nei confronti di ogni aggressore, fossero allora notevoli, magari paragonabili alla deterrenza che oggi esercitano gli armamenti missilistici celati nel sottosuolo di Sigonella. A tal proposito, il riferimento fatto senza veli dal poeta cieco, alle navi feace, che si muovevano col pensiero e da Apollonio Rodio ai venti del terrore e/o del furore possedute dai sicani, aprirebbe nuovi scenari sulle reali tecnologie presenti nel mondo antico forse troppo sotto valutato.

Erice: la Cupola.

A Trapani, nel monte Erice, come sopra affermato, una generazione prima dello scoppio della prima guerra mondiale dell’Età del Bronzo, conosciuta come guerra di Troia, avevano posto il loro quartier generale alcuni Troiani transfughi, appartenenti alla famiglia di Enea, con al vertice Capi, fratello di Anchise, espulso da Troia dal cugino e re Laomedonte. Si presenta al nostro giudizio, l’inevitabilita’ dell’insorgenza di una cospirazione da parte dei transfughi, che, maturata a Erice, aveva come obiettivo l’abbattimento del regime troiano. A Troia agiva una fazione ancorata ai transfughi da motivi vari, capeggiata da Enea. La energica opposizione politica praticata dagli anchisiadi a Troia è molto documentata nell’Iliade.

Espugnata la città, Enea si recherà dalla ‘madre’, come viene definita nell’Eneide- intesa modernamente come loggia — Afrodite a Erice.

Accogliendo le indagini del giudice Carlo Palermo a proposito di mafia, politica e Massoneria, che fanno risalire la filiazione delle cosche a tempi antichissimi, riteniamo probabile che proprio in questa occasione si desse vita a quella Massoneria ante litteram, con ubicazione a Erice, che il Giudice nei suoi saggi afferma rappresentare ancora oggi il crocevia di intrighi internazionali, e che fa risalire la sua fondazione a tempi antichissimi, in cui i nomi con i quali veniva designata mutavano a secondo le nuove esigenze. Alle affermazioni del giudice Carlo Palermo, fanno eco quelle dell’avvocato Paolo Rumor, che nel suo sconvolgente saggio l’Altra Europa, avanza la tesi, adducendo l’esistenza di testi documentali e ricordi di confidenze a lui fatte dal padre Giacomo Rumor, componente nel dopoguerra del gruppo di lavoro per la costruzione dell’Europa post bellica, di certi programmi e operazioni di intelligence di gruppi antidiluviani sopravvissuti fino ai giorni nostri, che mischiando politica ed esoterismo, si ponevano l’obiettivo di ordinare e governare il mondo. Tali gruppi, afferma l’avvocato Rumor nel suo saggio, si formarono in un tempo senza tempo nell’area mesopotamica, per poi diramarsi in ogni dove nell’intero pianeta.

Enea e la Massoneria di Erice.

Dopo dieci anni di conflitti tra l’Est e l’Ovest, tra l’Occidente e il Medioriente, presi da stanchezza o da interessi personali, grazie a una operazione di controspionaggio tra i Greci e uno sparuto gruppo di Troiani, a capo dei quali c’erano Enea e il cugino Antenore, la guerra si concludeva con la vittoria dei Greci e l’azzeramento delle risorse umane e militari dei Troiani e dei loro alleati. La caduta di Troia, se ci è lecito il parallelismo, rappresentava per gli alleati dei Troiani, quello che per l’unione Sovietica ha rappresentato la caduta del muro di Berlino. Da lì a poco, infatti, il caos avrebbe regnato sull’intero Medioriente, provocando la dissoluzione dei regni più potenti di tutta l’area mediorientale, stremati e indeboliti dalla guerra troiana avendo ognuno inviato eserciti e ingenti risorse economiche. Lo sfacelo degli imperi iniziava da quello degli Ittiti e giù via via fino a sfiorare l’Egitto. Tra gli alleati dei Troiani, come si evince dal libro nono dell’Eneide, per i motivi sopra addotti, figuravano i Sicani, guidati da un certo Capi che, stando a Virgilio, era stato cresciuto nella attuale città di Adrano, alle falde dell’Etna – non nominata direttamente nell’Eneide- dove si trovava il santuario dedicato al dio Adrano (la reggia di Enki?). Dunque, i venti di guerra che spiravano da est, in qualche modo giungevano a ovest. Che la Sicilia temesse l’apertura delle ostilità nell’ isola, lo conferma l’archeologia. Infatti, come si evince dai reperti archeologici e dalla produzione di ceramica che si interrompe improvvisamente alla fine del II millennio a.C., di cui è cosparsa la periferia della città di Adrano, i numerosissimi villaggi edificati a partire dal settimo millennio a.C. attorno al grandioso tempio, venivano strategicamente abbandonati e gli abitanti confluivano nella cittadella dove era stato edificato il santuario (Eridu?) dedicato all’Avo, protetta dalle enormi mura poligonali di cui si conserva ancora un lungo tratto.

Il Padrino.

Non può in questa sede passare inosservato, che il nome di Enea sarebbe in realtà un appellativo riconducibile al dio mesopotamico Enki che, bisogna qui ricordarlo ai lettori, secondo la nostra ricostruzione aveva edificato la sua reggia, nominata Eridu, una sorta di laboratorio biogenetico posto nel Mediterraneo (Sicilia?), in un luogo che nelle tavolette sumeriche veniva descritto ricco di acque dolci sotterranee (caratteristica perfettamente adattabile alla città di Adrano); per tale motivo Enki veniva appellato Ea cioè acqua in sumerico. Il nome Enea, composto dall’unione dei lessemi En. Ea potrebbe perciò riferirsi al ruolo esercitato dall’eroe troiano in patria: il primo, il numero uno nell’acqua. Quindi, giocando con la polisemia del nome En. Ea, l’eroe troiano potrebbe essere stato un valente ammiraglio in patria, ma, in pari tempo essere considerato come il numero uno fra gli uomini di Ea/Enki che operavano per suo conto nel Mar Nero, quello insomma su cui Ea faceva affidamento per svolgere il suo programma nell’area mediorientale. Con la caduta di Troia le regole d’ingaggio venivano modificate e a En.ea si assegnava una missione nel Mediterraneo. La missione sarebbe durata dieci anni e sarebbe accaduto di tutto. Il suo primo contatto con i suoi parenti transfughi e cospiratori avviene in Sicilia, dove risiedeva la cupola di Erice, nel tempio della loggia madre dove ad attenderlo c’erano i suoi familiari esuli – dagli Scoliasti viene affermato che a Trapani Enea incontra Egeste ed Elimo- che gestivano le operazioni di intelligence. Ci si ricordi che Diodoro nella sua Biblioteca Historica afferma che a Erice esisteva già il culto di Afrodite ancor prima che vi giungesse Enea, e che erano i Sicani a prendersene cura. A Erice, ascoltato Enea, constatato che gli assetti politici nel Mar Nero erano mutati, si decide di inviare un’ambasciata nell’Africa settentrionale, a Cartagine, a capo della quale c’era Enea. Non siamo in grado di immaginare il contenuto del mandato affidato a Enea, fatto è, che a Cartagine la regina Didone perde la giovane vita. Da quel momento i rapporti tra i Cartaginesi e Siciliani si deteriorano al punto da scaturire in delle inestinguibili guerre. Afferma Diodoro che quella del 480 a.C., che si concluse con la pesante sconfitta dei Cartaginesi, viene meticolosamente preparata da questi per dieci anni, e viene condotta di concerto e contemporaneamente con la guerra che il persiano Serse portava in terra greca. In questa occasione i Persiani e i Cartaginesi, da alleati gestivano in comune la tempistica dell’evento bellico e le strategie militari. Alla luce di questo conflitto appare ora chiara la missione che era stata affidata secoli prima a Enea nel suo viaggio a Cartagine: il suo compito era quello di prendere accordi per formare una coalizione internazionale in chiave anti greca.

Con la caduta di Troia, in terra sicana, ricostruendo i fatti successivi, si desume che la cupola di Erice avrebbe optato per un accordo di non belligeranza tra le fazioni facenti capo a Enlil/Eolo e quelle facenti capo a Enki o Adrano che chiamar si voglia. In quella occasione si perveniva alla necessità di realizzare una fusione rituale tra le due fazioni in opposizione: i Sicani e gli Enliti, da cui nacque un nuovo ordine, una mafia antelitteram, a cui Tucidide, raccogliendo la tradizione orale del luogo, diede il nome di Elimi, anche se a noi pare che il nome di questa artificiosa coalizione conduca a una filiazione sotto la protezione di Enlil Eolo. Concluso in Sicilia l’accordo tra Sicani e Enliti, a Enea si affidava una nuova missione, quella di recarsi nel centro Italia per fondare una nuova ” sede” – non sappiamo con quali fini-. Nel centro Italia, come viene tra l’altro affermato nell’Eneide, esisteva già un piedaterre sicano dal momento che i Latini della prima ora, come i Sicani di Sicilia, onoravano Ano, considerato il loro progenitore, appellato dai Sicani del Lazio jah ovvero sensitivo, percettivo, intuitivo, veloce. Tra l’altro, nel luogo denominato Circeo, aveva verosimilmente posto la propria residenza una sorella dei rissosi fratelli, il cui nome sumerico era Ninmah, ma che dai popoli germanici che abitavano il Lazio veniva appellata Circe. Circa l’implicazione dei popoli germanici nella storia antica, nelle Argonautiche, Apollonio fa risalire il Danubio ai nostri eroi, ma poiché affrontare l’argomento in questa sede ci condurre be lontano dall’obiettivo che questa breve indagine si è posto, consigliamo il lettore a leggere il saggio Dalla Scania alla S(i)cania, gratuitamente fruibile nel sito miti3000.eu). Forse l’appellativo Circe faceva riferimento alla maga quale garante della pace familiare, cioè colei che era deputata a mantenere la concordia nella comunità legata da vincoli di consanguineità. Questo potrebbe essere il motivo per cui Medea dopo l’assassinio del proprio fratello ricorre a lei, sua zia. Dal significato del nome Circe deriva forse il vocabolo tedesco kirche che significa chiesa, comunità. Quanto sopra ipotizzato, sembra confermato da Omero che, nel libro decimo dell’Odissea, fa giungere Ulisse nell’isoletta di Eea presso il Circeo. Mettendo assieme i fatti narrati nell’Iliade e quelli narrati nell’Odissea, sembrerebbe che, come in un moderno film di controspionaggio in cui i protagonisti sono due spie rivali, Ulisse venga messo alle calcagna di Enea, poiché là dove si recava Enea, ecco giungere subito dopo anche Ulisse. Per dimostrare quanto intricati e trasversali siano stati gli interessi nel Mediterraneo durante l’Età del Bronzo, si fa riferimento al libro II, 539 delle Argonaute in cui si narra che Eracle aveva contratto matrimonio in Sicilia con Melite, figlia del re dei Feaci Nausitoo. Dal matrimonio era nato Illo, il quale era stato cresciuto presso la reggia del nonno materno. Il giovane era stato inviato successivamente da Nausitoo, per motivi di politica estera, nel Lazio. Il fatto che il nipote del feacio re si chiamasse Illo, nome accostabile a quello primigenio della città di Troia, Ilio, e che venisse inviato nel Lazio precedendo Enea come il Battista aveva preceduto Gesù nella predicazione che si proponeva lo stesso fine, non può che alimentare il sospetto di un collegamento tra la missione di Illo e quella di Enea, se non addirittura una continuità di intenti.

Anche nel Lazio, sul modello siciliano, isola a cui va il primato della sperimentazione politica se oltre duemila anni

Giano bifronte. Musei vaticani.

dopo questi fatti, si vedrà nascere il primo parlamento d’Europa, si ritenne opportuno attuare una fusione tra i due rami familiari, tra i Latini seguaci di Ano (Giano) da un lato e i nuovi arrivati dall’altro, portatori di istanze innovative fuori dalla tradizione dichiarata ormai obsoleta. Così, come narra Tito Livio, le due logge, quella troiano/ericina e quella latina si fusero, col patto però, come si afferma nell’Eneide, che lo statuto a rimanere in vigore fosse quello Latino. È plausibile che

Tavoletta sumerica. Divinità dà udienza a individuo bifronte.

l’accordo sigillato presso il tempio di Giano garantisse un periodo di tranquillità e prosperità, ricordato o associato al mitico periodo dell’età dell’oro, periodo in cui nel Lazio governavano di comune accordo due re dèi: Saturno e Giano Bifronte (una tavoletta sumerica porta l’immagine di una divinità con due facce).

È possibile, dunque, che agli scorci del II millennio a.C., alla iniziale guerra fredda in corso tra i due fratelli (appellati Palici in Sicilia, figli della lupa nel Lazio), seguisse una tappa di arresto e si addivenisse ad un giuramento reciproco di non belligeranza. Il giuramento veniva altresì sancito anche attraverso la fusione delle due famiglie, realizzando matrimoni misti. Infatti, apprendiamo dalle tavole sumeriche, che il figlio di Enki, Dumuzil, convolava a nozze con la nipote di Enlil, Inanna (la Proserpina siciliana?), e che altri figli e figlie dei due fratelli si sposavano tra loro.

Guerra e pace eterna.

Da quanto sopra affermato sembrerebbe che i problemi siano stati risolti, ma i figli sono portatori per i genitori di gioie e dolori e le loro ambizioni superano spesso quelle dei padri. Marduk, figlio di Enki, non si ritiene soddisfatto delle condizioni che conducono alla pace familiare, in quanto il ruolo a lui assegnato viene ad essere marginale rispetto a quello ottenuto dai cugini. Egli desidera di più! Attraverso una guerra non più politica ma distruttiva, il giovane principe riesce a spodestare lo zio. Probabilmente la guerra raccontata nelle tavolette mesopotamiche è la stessa di quella vergata nei papiri egiziani in cui lo scontro avviene tra Set e suo nipote Horus; nel Lazio riportata da T. Livio, dove Romolo depone lo zio e ripristina il trono usurpato, e ancora in India quella descritta nel Mahabharata tra i Kurava e i Pandava; in Persia tra Ciro e il nonno materno ecc. In effetti Marduk non aveva forse tutti i torti a lagnarsi per il suo ruolo di sottordine. Infatti, come si apprende dalle tavolette sumeriche, era stato suo padre Enki ad avere avuto il mandato dal nonno Anu di migliorare le condizioni di vita sulla terra e portare l’ordine fra i rissosi dèi che cominciarono ad abitarla, e infine creare l’uomo, salvandolo poi dall’estinzione che gli avrebbe provocato il diluvio e risolvendo un bel po’ di problemi terrestri. Per complicati meccanismi di ereditarietà, però, ad avere il comando sulla Terra veniva designato il fratello minore di Enki, Enlil. A questi era stato dunque servito su un piatto d’argento un regalo così grande quanto immeritato. La guerra condotta contro lo zio, come confermato dai miti di tutto il mondo ed esplicitamente messo per iscritto nel racconto sumerico denominato Enuma elish, si conclude con la schiacciante vittoria di Marduk.

Ripresa delle ostilità: nuova guerra fredda.

Naturalmente Enlil cede a malincuore a Marduk il posto al vertice del Pantheon. Egli, tra l’altro, nei suoi taciti programmi aveva destinato in cuor suo ai propri eredi il regno terrestre. Pertanto, gli Enliti non rassegnati alla schiacciante vittoria ottenuta da Marduk, cominciano a cospirare contro il nuovo signore. Ancora una volta le ostilità riprendono in modo velato dalla Sicilia, forse decise nella loggia ericina. A metà del principato di Marduk, che aveva spostato la sua corte a Babilonia, facendola diventare capitale del nuovo regno, in quanto la Sicilia tradizionalmente era sede del padre Enki/Adrano ed era considerata neutrale in forza del divino giuramento, gli Enliti brigano con i Greci perché questi si sostituiscano ai prischi Sicani nel governo dell’isola.

Iniziava il gioco sporco! Si erano rotte le regole, violati i giuramenti sacri: l’intoccabile terra, dimora di dèi, non veniva ora risparmiata dalle guerre combattute con le armi. Nell VIII sec. a.C. nasceva in Sicilia la tirannide sotto l’emblema del toro. L’animale facente parte della costellazione dello zodiaco, era il segno che caratterizzava Enlil. I Greci (la Grecia veniva chiamata Hellade forse in omaggio alla stirpe degli Enliti loro patroni) riuscivano a infiltrarsi in alcune coorti sicane. Vantando legami di parentela con i pii re sicani, lentamente e in modo prima indolore, si sostituivano a questi. L’isola si divideva ancora più nettamente in due fazioni. Il prezioso racconto dello storico Polieno, che si sofferma sullo scontro avvenuto nel VI sec. a.C., tra il sicano Teuto e il tiranno di Agrigento Falaride, ci permette di individuare gli schieramenti contrapposti grazie ai vessilli che le parti schierano tra le loro fila: Falaride aveva come emblema il toro di Enlil. Anche grazie a Diodoro è possibile individuare nella sua Biblioteca Historica gli schieramenti che nell’isola si distribuivano a macchia di leopardo. L’epicentro delle forze Enkite rimarrà fino alla venuta dei Romani nel 263 a.C., il luogo in cui era stato edificato il suo santuario nell’attuale città di Adrano, che tutti i tiranni greci da Falaride a Jerone, da Dionigi a Iceta con alterne fortune tentarono di Espugnare, e i Sicani, da Teuto a Ducezio di difendere. Il resto è storia: i Romani, che a buon titolo si dicevano discendere da Enea, riuscivano a realizzare il Nuovo Ordine Mondiale, insediando nei regni di tutto il mondo allora conosciuto, reucci fantoccio ai loro comandi. Non andremo oltre la constatazione che oltreoceano, da tempo si investiga sugli errori commessi dai Romani che causarono la caduta dell’impero, affinché il vertice del nuovo Ordine non abbia a ripeterli oggi.

Gli antichi venti di guerra.

Ci chiediamo se i venti del terrore contenuti nell’otre, consegnati a Ulisse senza che questi riuscisse – o non intendesse– a sortire gli effetti desiderati dal mandante, se quelle armi che Enlil avrebbe voluto criminalmente e cinicamente utilizzare in odio al genere umano, eufemisticamente chiamate “il sacro vento”, Ve. Hel, vello e Furore, si trovano ancora nell’isola, nelle mani scellerate degli eredi dell’odiatore dell’umanita’. Sono forse quelle armi nascoste nel sottosuolo di Sigonella, puntate ancora in direzione dell’antica Colchide, contro il re Eeta oggi Putin? Noi, eredi del dio protettore dell’umanità, Adrano, del compassionevole Enki, vi ammoniamo: che non sia il sacro suolo siciliano a dover pagare il prezzo della vostra scelleratezza. Sappiate voi demoni del male, ovunque vi nascondiate sotto mentite spoglie, che l’ira del giusto trascende ogni potenza di cui il malvagio si avvale, vi riconosceremo, vi scoveremo. Con l’autorevolezza che promana dal giusto, non acconsentiremo che questo nostro paradiso venga sacrificato a Molok per questioni di effimero potere. Perciò terremo saldo il polso del dio Mitra, guideremo il pugnale che bandisce sicuro verso il collo del toro, lo sacrificheremo al dio compassionevole che ha a cuore le sue creature e, come recita il passo biblico, le forze del male non prevarranno. Come riconoscere queste ultime ci si chiederà. La domanda legittimamente posta in un contesto di mistificazione quale è quello odierno, trova la risposta nel simbolismo, che difficilmente può essere mistificato, e quello negativo della furia incontrollabile del toro è oggi più che mai palese. È questo simbolo, il toro scomposto nella furia del suo scalciare, l’emblema del dio che intende decimare l’umanità. Egli, il dio zaratustriano della distruzione, si ripropone oggi con la stessa furia manifestata millenni fa, evidenziando gli atteggiamenti di sempre: uso della violenza, indifferenza alle altrui sofferenze, cinismo, sterminio indiscriminato, invenzione di strumenti segregativi, controllo dispotico del sottoposto, magistrale utilizzo dei doppiogiochisti, gestione della ricchezza e suo utilizzo quale strumento di ricatto e di corruzione. “Dai suoi frutti si riconosce l’albero”.

Ad maiora.

CHIARIMENTI E CHIAVE DI LETTURA.

Chiediamo venia al lettore se in qualche luogo della rilettura degli eventi, sopra azzardata, la farraginosita’ dell’esposizione dei fatti ha creato qualche contraddizione irrisolta. Ma non poche sono state le difficoltà in cui siamo incorsi nel tentativo di comparare le divinità locali che sarebbero scese in lizza nei conflitti tra le nazioni, fornendo il loro sostegno ora all’una ora all’altra fazione. La stessa difficoltà si è avuta nella ricostruzione genealogica dei personaggi chiave e la esatta cronologia dei fatti raccontati. Il tentativo, poi, di separare il loglio dal grano, ce ne rendiamo conto, è rimasto irrisolto in alcuni casi, come quello degli dèi Palici in Sicilia. Forse in questo mito sono confluiti eventi simili svolti in tempi diversi. Il mito siciliano dei Palici, potrebbe aver fuso in un unico evento il conflitto avvenuto tra i fratelli Enki ed Enlil e quello successivo avvenuto tra Marduk e Thoth figli di Enki, cresciuti entrambi in Sicilia, a patto che non si sia incorso in errore nell’identificare l’Abzu con la Sicilia. Una ulteriore complicazione l’ha fornita il termine Anu, che da sostantivo, riferito al genitore di Enki e Enlil, potrebbe essersi trasformato in aggettivo applicato a Enki. Infatti, il termine Ano, che nella lingua tedesca parlata nel medioevo significava nonno, progenitore, avo, antenato (Ahne nel tedesco moderno), potrebbe essere stato applicato a Enki con il significato di creatore dopo che, stando al mito sumerico, egli aveva creato gli esseri umani. L’atto creativo, descritto nei testi sumerici come una serie di tentativi attraverso manipolazioni genetiche, avrebbe conferito una paternità al dio, e gli uomini lo avrebbero ricambiato conferendogli affettuosamente l’appellativo di nonno, avo, antenato, Ano appunto. Questo ha fatto sì, però, che il teonimo Adrano, composto dall’unione dell’aggettivo odhr furioso, con il sostantivo Ano avo, non rendesse chiaro quando, di volta in volta, l’appellativo si riferisse al padre piuttosto che al figlio. Lo stesso vale per il toponimo Adrano, non si riesce a comprendere se la città venisse intitolata al padre o al figlio. Una ulteriore difficoltà consiste nel fatto che le divinità venivano evocate utilizzando molteplici appellativi, alcuni dei quali venivano assunti poi anche dai governanti umani. Così come i Greci per Poseidone utilizzavano appellativi quali l’Ennosigeo piuttosto che Maremoto o dio dalla capigliatura azzurra, non escludiamo che lo stesso avvenisse per Enki detto Ea e forse, come sopra affermato Ano e ancora Al Cened (Alcinoo) e tanti altri fino a quaranta, numero assegnato al suo rango divino. Si tenga infatti presente, che ci è pervenuta la lista dei cinquanta nomi con cui i Sumeri appellavano Marduk.

Tuttavia, riteniamo che qualora qualche quesito sia rimasto irrisolto, tale deficit, nell’economia generale della interpretazione dei fatti storici e mitologici tentata attraverso i nostri articoli, atti a dissipare le tenebre che avvolgono la nobile storia degli antenati, non andrebbe a minare la bontà di quanto fin qui è stato realizzato. .

Una ulteriore difficoltà deriva dalla polisemia di taluni vocaboli. Tuttavia, tale difficoltà si dipana nel momento in cui il vocabolo viene contestualizzato nel senso generale del discorso in cui è inserito.

Per ciò che concerne la longevità delle ostilità qui narrate, presentate una come conseguenza dell’altra, cosa che potrebbe creare qualche remora di credibilità nel lettore, crediamo che essa sia resa possibile nella misura in cui la visione del mondo, basata sulla dicotomia o necessità degli opposti: luce buio, notte giorno, bene male, salute malattia, spirito corpo, faccia parte dell’essere di ogni individuo. Eternamente gli individui, per affinità elettiva, vengono chiamati a schierarsi da una o dall’altra parte, come la notte che eternamente insegue il giorno, alternandosi nella “vittoria”.

Per ciò che concerne l’ipotesi che alcune parole potrebbero presentarsi come parole in codice o metafore – metodo utilizzato da sempre in ambienti di intelligence e negli scenari di guerra fin da quella del Peloponneso raccontata da Tucidide o gallica da Cesare- come vello, otre ecc. il lettore conosce già il nostro metodo interpretativo che utilizza la lingua germanica come lingua di riferimento, ritenendola quella che più ha conservato familiarità, a nostro avviso, con una lingua primordiale parlata dai popoli prima della deriva linguistica. Il linguaggio in codice, rinvenuto nei testi esaminati, è, a nostro avviso, perfettamente compatibile con gli eventi narrati e la loro interpretazione coerente. Il termine otre, per esempio, da noi tradotto come contenitore il cui contenuto se lasciato libero provocava un vento furioso, mortale, trova tale logica interpretazione nel momento in cui si accetta la traduzione del termine fornita da Adamo da Brera. Lo storico tedesco afferma che Odino, quando scatenava la sua ira veniva aggettivato il furioso, odhr. Poiché abbiamo sostenuto l’affinità linguistica tra i Sicani e i popoli germanici, ecco che il termine otre si adatta perfettamente alle caratteristiche del recipiente consegnato da Eolo a Ulisse e ben descritte nell’Odissea. L’otre, ancora oggi utilizzato in Sicilia come contenitore, viene realizzato esattamente secondo le modalità descritte nell’Odissea. Lo stesso ragionamento va applicato al termine vello, anch’esso spiegabile utilizzando la lingua germanica. Si tenga conto che nell’Iliade, Omero faceva già riferimento ad una lingua parlata dagli dèi, di cui il poeta lasciava tracce nel poema, non riportando la traduzione del termine che, probabilmente, non aveva corrispondenza nella lingua greca.

Per ciò che riguarda gli schieramenti che si combattono per affermare la propria visione del mondo, l’adesione all’uno o all’altro dipende da un sincero riconoscersi nel programma portato avanti per governarlo. Crediamo di non essere incorsi in errore se per riconoscere gli schieramenti ci siamo avvalsi del simbolismo a cui, crediamo, i poeti hanno velatamente fatto ricorso. Nel simbolismo si rende altresì manifesto il metodo che si intende adottare per risolvere gli eterni problemi che affliggono l’umanità, e che sono sono sempre i medesimi: disordine, sovrappopolamento ecc. Le due fazioni entrerebbero dunque in contrapposizione sul metodo da adottare per raggiungere il medesimo fine, come farebbero due medici di scuola diversa per guarire un arto malato: optando per l’intervento chirurgico l’uno, per la medicina curativa l’altro. Crediamo di non aver errato e se al simbolo del toro abbiamo associato il metodo violento, traumatico, forse più facile e veloce per risolvere il problema. Chi si contrappone al metodo violento, è altrettanto individuabile per il tipo di lotta che mette in atto per ostacolare la violenza: Gilgamesh, Mitra, Giasone, Teseo, forse Mosè sacrificano il Toro, lo vincono nello scontro o lo aggiogano. Dal sacrificio del toro che arriva puntuale dopo che la furia dell’animale ha sconvolto il mondo per un certo periodo di tempo, si desume il giungere della vittoria finale da parte di chi compassionevolmente intende preservare il genere umano. Se, dunque, il Toro è l’emblema di Enlil, il sacrificio dell’animale non può rappresentare che l’offerta fatta a Enki, che nel mito conserva sempre il ruolo di difensore del genere umano.

Nella versione greca, Enki/Ea dovrebbe corrispondere al dio delle acque Poseidone: a questa divinità greca Nestore, nella spiaggia di Pilo sacrifica un Toro; Teseo è uno dei suoi figli, concepito con una mortale, anche lui sconfigge un toro custodito dal re di Creta Minosse.

Il viaggio compiuto dagli Argonauti appare fin dal suo inizio, attraverso l’invocazione di Apollo e la promessa di Giasone di sacrificagli i tori al suo ritorno, una operazione atta a ristabilire l’ordine compromesso. Argo, il costruttore della invincibile nave che da lui prende il nome, porta sulle spalle un mantello ricavato dalla pelle di un toro scuoiato.

Ad maiora.

Il toro del cielo

F. Branchina, il dott. Giuseppe Fumia e il dott. Tradito. Alle spalle il menhir dell’Orgale.

Raccogliendo lo stimolo all’approfondimento, indotto dall’ottimo dott. Giuseppe Fumia, attento giornalista, baciato dalla Musa, che, oltre a dedicare i suoi ultimi articoli alla vetusta quanto sconosciuta fase evolutiva della primordiale antropizzazione delle contrade etnee, ha voluto toccare con mano le antiche rocce – altari primordiali degli Avi nostri– su cui abbiamo non poco indagato, siamo ritornati sul luogo, dico nelle amene campagne di Castiglione di Sicilia. Ebbene, il benevolo Genius loci, forse in omaggio al nostro intraprendente giornalista che non si accontenta di scalfire la superficie della storia atavica, ci mostrò un nuovo aspetto del luogo che illusoriamente credevamo di ben conoscere. Il dott. Gaetano Tradito, attento osservatore dei particolari, noto’ che

Grotticella funeraria.

nella roccia di morbida arenaria in cui era stata scavata la camera funeraria, sul lato destro, erano stati creati dei gradini. Questi, ormai consunti dal tempo – erano per questo passati inosservati durante il primo sopralluogo– conducevano alla sommità della roccia. Nel contempo, il sottoscritto, trovandosi “casualmente” nella giusta

Profilo zoomorfo della roccia.

prospettiva, notava la forma zoomorfa assunta dalla roccia. Il masso di arenaria, osservato da quella prospettiva assumeva le sembianze della testa di un toro o di un cavallo; i compagni condivisero questa interpretazione. Dal lato opposto a quello dove erano stati ricavati i gradini, di fianco

volti (?). Acropoli di Cerami.

rispetto all’apertura della camera funeraria, dentro ad una nicchia ricavata nella roccia, ancora il dott. Tradito individuava un bassorilievo dalle evidenti sembianze di un volto umano, realizzato, forse, con intento apotropaico. Dal contenuto di

foto presa dal web. Volto apotropaico (?) roccia presso le campagne di Francavilla. 

alcune tavolette sumeriche si apprende che era abitudine dei popoli mesopotamici scolpire dei volti presso il luogo di sepoltura, di solito una grotta naturale, o in parte rimodellata – sulle affinità culturali intercorse tra i Sumeri e i Sicani ci siamo già soffermati altrove-. Saliti i

gradini

gradini, notammo che lo scalpello sapientemente guidato da mano umana aveva volutamente percosso la roccia in quella parte che coincideva con la testa del presunto toro, in modo da realizzare un piano perfetto il quale, secondo la nostra interpretazione, doveva servire come piano d’appoggio per le offerte votive ivi deposte. A noi parve, pertanto, che il grande masso avesse avuto la doppia funzione di sepolcreto e di altare per la deposizione delle offerte. Ci rammaricammo che il portellone posto a chiusura della camera sepolcrale non fosse giunto fino a noi, ci saremmo aspettato, infatti, di trovare scolpito su di esso, sulla scia del portellone ritrovato a Castelluccio, un bassorilievo che lasciasse intuire la destinazione d’uso di quel misterioso luogo.

Naturalmente qualsiasi interpretazione da noi oggi tentata di quel luogo, rientra in un mero esercizio di fantasia, e tuttavia, se ben dichiarata, pure l’immaginazione, quale contributo afferente alla decriptazione della funzione della struttura, se supportata dalle discipline scientifiche, torna utile per l’elaborazione di tesi atte ad indagare la nobile weltanshauung degli estinti nostri antenati. Ricostruire quest’ultima, per quanto riguarda i prischi Sicani, per la verità non ci appare un’impresa impossibile e crediamo che molto sia stato da noi già fatto in proposito. Immaginando che la presunta figura zoomorfa modellata nella friabile roccia raffiguri un toro e che essa non sia opera dello sfaldamento naturale dell’arenaria, bensì scolpita dall’uomo affinché il rito assumesse una maggiore efficacia, ci accingiamo ad esporre alcune considerazioni sul simbolismo del toro, associato alla ingovernabile furia dell’autoaffermazione. La rappresentazione di questo animale fu molto presente nel mondo indoeuropeo e nell’area mediterranea in particolare: dall’Anatolia nel sito di Catal Huyuk datato al settemila a. C. accostato alla dea madre quale simbolo di fertilità, alla Grecia, ove veniva utilizzato come animale da sacrificio particolarmente gradito da Poseidone (vedi il mito di Minosse e il sacrificio effettuato da Nestore nell’Odissea), e a Creta, fino all’Iberia e alla Sicania, ove la furia taurina veniva simboleggiata anche attraverso le sole corna di terracotta attualmente esposte in una vetrina, nelle sale del prestigioso museo del Castello Normanno di Adrano, assieme a reperti datati al IV millennio a.C.

L’era del toro.

Proprio da questa data, il IV millennio a.C., vorremmo iniziare il nostro excursus, in quanto questa lontana datazione coincide con l’era zodiacale del toro. Delle dodici case dello zodiaco quella del toro viene a coincidere cronologicamente tra il quattro e il duemila a.C. Questa era dovette manifestarsi, se dobbiamo accettare il simbolismo a cui viene associato l’indomito animale, come un’era di travaglio per l’intero pianeta dal momento che la rappresentazione del toro appare contemporaneamente in tutte le civiltà della terra. All’era del toro sarebbe seguita quella dell’ariete. Quest’ultima si sarebbe conclusa nell’anno zero, che coincideva, come è noto, con l’inizio dell’era dei pesci e con l’instaurazione del Cristianesimo. Ora, noi siamo dell’avviso che ogni era, quale foriera di nuovi accadimenti, veniva celebrata, attenzionata e indagata dai nostri Avi astronomi e ogni era veniva associata ad una particolare divinità: quella del leone in ambito sumerico ad Anu, del Toro ad Enlil, dell’Ariete a Marduk; in ambito semitico il pesce, ritrovato inciso in molte catacombe, al Cristo. Queste affermazioni trovano riscontro nel poema sumerico Enuma elish in cui, alla fine del racconto, la iniziale elaborazione cosmogonica si fonde con quella teogonica al punto che il dio Marduk e il pianeta Nibiru diventano l’uno l’incarnazione dell’altro.

Sumeri e Sicani.

A più riprese nei nostri saggi abbiamo fatto riferimento ad una consanguineità culturale intercorsa tra gli eredi mesopotamici del dio Anu e gli eredi sicani dell’avo primordiale adr. Ano.

L’iniziale evidenza di questa parentela venne successivamente offuscata, in quanto la mitologia sicana fu artatamente rielaborata dagli storici greci a partire dal’ VIII sec. a.C., cioè da quando i profughi e i coloni Greci vennero accolti come supplici dai pii Sicani.

Il tentativo nostro di ricostruire il firmamento teogonico sicano, oscurato dai prezzolati mistificatori greci, si avvale oggi della possibilità di utilizzare le diverse discipline scientifiche che, anche in questa occasione, trovano ampio spazio di applicazione. Inoltre, delle migliaia di tavolette ritrovate in Mesopotamia, incise con caratteri cuneiformi, alle numerose traduzioni effettuate nel secolo scorso dal noto sumerologo Samuel Kramer, se ne sono aggiunte molte altre che hanno contribuito notevolmente ad allargare le conoscenze sulla civiltà sumerica, spostando anche l’ottica interpretativa a un punto di vista più laico grazie al contributo di ricercatori indipendenti dalle ampie vedute. Chi ci ha seguito nelle ricerche sa che le nostre tesi si fondano su un assunto, sull’esistenza cioè di una civiltà globale che conferiva una omogenea forma culturale al pianeta terra fin dai tempi pre diluviani. Dopo il diluvio cominciò una graduale cesura tra i sopravvissuti e un adattamento della primordiale cultura alle nuove esigenze dei popoli che andavano formandosi. Tuttavia abbiamo buone ragioni per credere che fino alla data del quattromila a.C., le civiltà mediterranee post diluviane conservassero ancora lingue e tradizioni affini, sebbene adattate a esigenze ambientali diverse. La vicinanza culturale tra la Mesopotamia e la Sicania è stata da noi indagata abbondantemente, quindi vi faremo qui soltanto brevi passaggi in quanto utili allo studio che questo articolo si è proposto di esporre. La ricerca riguarda una “guerra fredda” combattuta tra due fratelli, iniziata in illo tempore e continuata fino ad oggi dai rispettivi eredi se dobbiamo dare credito alle rivelazioni di Paolo Rumor, rispettabilissimo autore del saggio “L’Altra Europa”. I due fratelli furono conosciuti nell’isola sicana attraverso l’appellativo di Palici, detti anche Delli ovvero i sotterranei, figli di a.dr.Ano; in Mesopotamia i fratelli, figli di Anu, venivano chiamati Enki ed Enlill; in Grecia sarebbero da identificare con Poseidone e Zeus nipoti di ur.Anu. Il lettore avrà notato che An, L’avo, rappresenta il comune denominatore delle civiltà citate. Anche nel centro Italia una primordiale tradizione, poi fatta propria dai Romani, faceva riferimento a due fratelli in conflitto tra di loro per motivi di ereditarietà; anche la stirpe di questi era riconducibile a un dio Ano, appellato dai Latini jah, cioè percettivo, sensitivo, veloce. La casa zodiacale dei gemelli o fratelli divini, faceva ingresso nel 6.000 a.C., circa; il periodo di tempo intercorso tra il seimila e il quattromila prima dell’era volgare, dovette rappresentare, secondo la valutazione del progresso umano avanzante, un periodo di tranquilla collaborazione tra i due fratelli.

L’ era del toro e il simbolo della tirannide.

Ma Ritornando al simbolismo del toro e al suo ingresso nella casa zodiacale avvenuto intorno al 4000 a.C., non può essere qui ignorato lo sfogo avuto col padre dell’adirato Marduk. Questo irrequieto figlio del dio esautorato Enki, “che tanto male procurerà agli Annunaki” e agli umani, volendo riscattare il padre che era stato messo in disparte da Enlil nella gestione del potere, dopo aver condotto una guerra contro lo zio usurpatore, lamentandosi col padre per l’insuccesso riportato, nel ricercarne le cause si sente rispondere che la sua colpa consisteva nella fretta che egli aveva avuto nel dichiarare la guerra. Infatti, Enki faceva mestamente osservare al figlio, che il suo tempo non era ancora giunto poiché non si era ancora entrati nell’era dell’ariete, il suo segno, ma il toro stazionava ancora nella casa dello zodiaco. Infatti, secoli dopo – un secolo degli umani equivaleva a un giorno degli dèi – quando il segno dell’ariete si avvicendo’ a quello del toro nella casa zodiacale, Marduk dichiarata guerra allo zio, effettivamente riportò la vittoria regnando per i prossimi duemila cento sessant’anni, cioè fino all’ingresso dell’era dei pesci. Sebbene nella tavoletta sumerica intitolata La Discesa di Inanna agli Inferi, si legga che Marduk ottenesse i cinquanta nomi o titoli appartenuti a Enlil, dall’ analisi degli eventi successivi si evince che quest’ultimo avrebbe comunque continuato per vie occulte una opposizione nei confronti del nipote (nel mito egizio la contrapposizione tra Set e Horus?). Per ciò che concerne la Sicania, luogo in cui ipotizziamo si trovasse la sede di Enki, denominata Abzu nelle tavolette mesopotamiche, e di cui abbiamo già parlato nei precedenti articoli, riteniamo che i Greci qui giunti nell’VIII sec. a.C., rappresentassero il braccio armato di Enlil (Eolo?) e che avessero avuto la missione di iniziare in Sicilia una azione di intelligence, lentamente sfociata nell’affermazione delle tirannidi, il cui simbolo, come vedremo, era rappresentato dal toro, emblema di Enlil. I Greci, dunque, sotto le mentite spoglie di supplici (vedi Archia a Siracusa) o di coloni (vedi la calda accoglienza riservata ai Megaresi da parte di Iblone), lentamente riuscirono a infiltrarsi nei gangli della politica e nelle corti locali sostituendosi ai politici e ai generali autoctoni alla guida delle Polis, dando vita, come si è detto, alla tirannide, di cui Falaride, tiranno di Agrigento, vissuto nel VI sec. a. C., risulta essere il più orribile rappresentante di questa istituzione sconosciuta ai democratici isolani. Come racconta Polieno, Falaride, famoso per la sua ferocia e per l’invenzione del famigerato toro di bronzo quale raffinato strumento di tortura, aveva portato guerra al principe di Innessa Teuto. Ci chiediamo: Teuto era forse un sacerdote presso il tempio del fratello di Marduk, Thoth per gli egiziani, Teuty per i Greci? Figlio di Enki, Thoth, oltre all’indole compassionevole aveva ereditato dal padre anche la conoscenza delle scienze che lo rendevano potente e temuto. Thoth, come viene affermato nelle tavolette sumeriche, collaborava col padre nella sede dell’Abzu. In questa sede, poco dopo il suo trasferimento, molto tempo prima, Enki era stato raggiunto dalla moglie Ninki col figlio primogenito Marduk. Se abbiamo visto giusto, e l’Abzu è da identificarsi con la Sicilia, ecco che si giustificherebbe la presenza del principe sacerdote Teuto nella città dove sorgeva il santuario dedicato ad Ano (Adrano). Si giustificherebbe così anche l’attacco di Falaride a Teuto essendo devoti a divinità rispettivamente antitetiche. Il lettore non avvezzo agli intrighi dinastici antichi quanto moderni, potrebbe ritenere fantasiosa questa ricostruzione, se non fosse che la storia è cosparsa di operazioni di intelligence. Basti ricordare l’episodio raccontato da T. Livio a proposito di Silla che, intrufolatosi nell’accampamento nemico, aiutato dalle sue caratteristiche somatiche celtiche, spacciandosi per un Gallo, riusci a carpire preziose informazioni o, come abbiamo ricostruito nel saggio Il Paganesimo di Gesù, gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu, l’episodio di Giuseppe Flavio e Paolo di Tarso, che con la collaborazione di Seneca crearono i presupposti per la nascita di una religione da contrapporre a quella giudaica, giudicata concordemente affetta da un pericoloso fanatismo e quindi da estirpare. Tornando in Sicilia ricordiamo al lettore che non si intende mettere in discussione la fede su un credo o una divinità, ma si vuole, semmai, mettere in evidenza che in nome di essa si schiavizzano ancora oggi gruppi umani e, ricorrendo ai medesimi condizionamenti mentali, si utilizzano sempre le medesime politiche per governare, indebolendo i popoli, indotti a odiarsi e a contrapporsi. Partendo da questa premessa, allora come oggi, non potevano mancare dunque le fazioni. La contrapposizione politica e militare intercorsa in Sicilia tra i Greci e i Sicani, potrebbe essere interpretata come una opposizione già maturata su un piano metafisico, combattuta tra i due fratelli divini appellati in Sicilia Palici e continuata dai rispettivi eredi? Ci appare adesso più che mai appropriata la metafora secondo la quale nella tradizione orale sicana, raccolta da Eschilo nelle sue Etnee, sebbene rielaborata in chiave grecocentrica, i due fratelli, presso l’ara a loro dedicata nella periferia della città di Adrano, occultati nel sottosuolo sotto forma di acque carsiche, nel ritornare alla luce come acque di sorgente venissero appellate chiara l’una e oscura l’altra, proprio a indicare dicotomica visione del mondo.

Ma tornando ai tiranni, come sopra affermato, essi, di etnia greca, rappresentavano in Sicilia il braccio politico e militare del dio Enlil (Eolo?), a tradire tale ruolo è lo stesso etimo. Infatti, l’infame appellativo deriva dal germanico stier che significa toro, animale totemico assimilabile a Enlil/Zeus. Si ricorderà il lettore, che Zeus, nel mito greco, per rapire Europa, fuor di metafora la Sicilia, l’Occidente o il regno del fratello, si trasforma in un toro.

Tavoletta babilonese: Gilgamesh sconfigge il toro celeste.

Il toro appare ancora nel poema babilonese di Gilgamesh. Scatenato dalla dea Inanna con il permesso del bisnonno Anu, l’animale appellato toro del cielo ovvero stier.Anu, da cui tir.anu e infine tiranno, verrà abbattuto dall’eroe positivo babilonese. Se nel mito, e la storia concorda in questo, il destino del toro è quello di essere infilzato, sacrificato, abbattuto, sconfitto o domato, ebbene, l’infausto momento storico presente, che ancora una volta lo vede protagonista, non potrà concludersi che con il medesimo rituale della sua inevitabile sconfitta.

Ad maiora

Circe e i Neanderthal

Circeo: un laboratorio genetico della preistoria.

Nella ipotesi di lavoro esposta negli articoli precedenti si riteneva che l’Abzu, una sorta di laboratorio di ricerca e di sperimentazione, alla cui esistenza si fa cenno nelle tavolette sumeriche, per i motivi addotti negli articoli precedenti, potesse trovarsi nel Mare Mediterraneo e che la Sicilia potesse essere fra i luoghi candidati ad ospitarlo. Questa intuizione nasceva dalla constatazione – ma non è l’unica – che la Trinacria (il simbolo che raffigura la Sicilia affonda le proprie radici nella preistoria) sia ancora oggi caratterizzata dalla presenza di una biodiversità che non ha pari in altri luoghi del Mediterraneo e men che meno in Medio Oriente, in particolare nella Mesopotamia ove gli studiosi che si sono cimentati nella traduzione delle tavolette cuneiformi hanno tradizionalmente collocato l’Abzu.

La descrizione che di questo luogo viene fatta nei miti sumerici, si presta altresì alla interpretazione del toponimo da noi tentata e che si potrebbe liberamente tradurre con “andirivieni”. Infatti, l’etimo risulta composto dai lessemi ab e zu, che nella lingua tedesca moderna, affine a quella sumerica e accadica, corrispondono alle preposizioni da e per, verso, in direzione di, rimandando all’idea di un luogo da cui si va e si viene, un luogo in cui non manca la possibilità dell’interscambio e la voglia della ricerca sui diversi piani dello scibile. E ancora, utilizzando un lessico religioso, non certo in disuso in quell’antico mondo popolato da dei, potrebbe essere utilizzato per indicare il salire e lo scendere dal cielo di anime incarnate e disincarnate.

L’Abzu, come si evince dalle traduzioni delle tavolette a cui parteciparono eminenti studiosi, per citarne uno su tutti Samuel Kramer, si presta ad essere interpretato secondo l’ipotesi in altri articoli formulata e qui ripresa, in quanto Kramer afferma che nella tavoletta si sostiene che l’edificio era stato edificato con lo scopo di conservare i segreti dei poteri custoditi da Enki. L’Abzu era la sede in cui egli, definito il vivificatore del paese, decideva i “sacri destini”. Insospettisce e afferisce alla tesi secondo la quale Enki operasse in Sicilia, presso il vulcano Etna, il tipo di materiale edile utilizzato per la costruzione della reggia: oro, argento, lapislazzuli e stranamente canne per le pareti; c’è da sospettare che questi materiali servissero agli scienziati per le loro qualità di buoni conduttori di energia elettrica e magnetica (vedi gli studi di Paolo Debertolis sull’archeoacustica), anzi ne siamo certi poiché viene affermato che la azurite, un materiale funzionale alla costruzione del laboratorio, serviva a contenere i raggi. La azurite è un minerale piuttosto raro ma in piccole quantità si trova nell’area vesuviana. La corniola utilizzata per la base della costruzione, una pietra che si trova in terreni vulcanici (Etna?) veniva a sua volta impreziosita con l’azurite. Afferma Kramer, che il palazzo così costruito, che a noi ricorda quello di Alcinoo edificato in Sicilia in cui il poeta greco metteva in evidenza i metalli preziosi al suo interno, visitato da Ulisse e descritto da Omero con le modalità poetiche che richiamano lo stile della tavoletta qui indagata, era stato edificato sul mare, sulle acque, elemento questo con cui Ea/Enki veniva identificato e che era invece assente a Sumer. A Sumer Ea aveva edificato l’Eridu, la reggia omonima a quella siciliana (?). Assente era in Mesopotamia anche la presenza delle pietre minerali sopra menzionate. Il luogo o area di pertinenza in cui si trovava il palazzo di Enki nel Mediterraneo(?), che veniva anch’esso chiamato Eridu, viene da noi tradotto, secondo il metodo noto ai lettori, con il significato di: il giuramento o la promessa del signore o il nobile giuramento, da Er signore, nobile ed eid promessa, giuramento, parola data. È da notare che il giuramento rappresenta un leit motiv nella vita di Enki. Grazie a un giuramento disatteso da parte di Enki, a cui il dio fu costretto dal fratello a aderire, salvò il genere umano dal diluvio. L’attributo Poseidone, utilizzato dai Greci per indicare Enki, contiene anch’esso il lessema eid giuramento: böse-eid-one ovvero adirato per il mancato giuramento.

Per i motivi sopra addotti, l’Abzu nel Mediterraneo potrebbe essere stato scelto come sede da una equipe di ricercatori guidati dai fratelli divini, Enki e la sua sorellastra Ninmah. Quest’ultima, appellata anche come Ninhursag, come si evince nelle tavolette denominate Enuma elish svolse la parte più importante nella creazione dell’uomo, tanto che nelle tavolette sumeriche la ritroviamo indicata con l’appellativo di “Madre del genere umano” e probabilmente le statuette di argilla che raffigurano le donne corpulenti, appartenenti all’epoca paleolitica, denominate le veneri del Paleolitico, si riferiscono proprio a lei. È plausibile che fratello e sorella, nella terra Sicana che identifichiamo con l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, venissero appellati con nomi diversi rispetto a quelli adottati in Mesopotamia, in quanto gli appellativi nascono spesso come conseguenza del ruolo socialmente svolto. Infatti è risaputo che gerarchicamente il numero degli appellativi con cui gli dèi venivano indicati decresceva man mano che dal vertice, occupato da Anu, si scendeva verso la base (Enki che occupava il terzo grado del sistema gerarchico a base sessagesimale, veniva appellato con quaranta epiteti, mentre Anu con sessanta ed Enlill con cinquanta). In questo ipotetico laboratorio primordiale chiamato Abzu, potrebbero dunque essere stati iniziati quegli esperimenti genetici di cui si parla nei testi sumerici detti della creazione, Enuma elish in sumerico. La possibilità che questa ipotesi di studio possa trovare conferma, presuppone la capacità da parte del ricercatore moderno, di sapersi denudare di alcuni preconcetti nei confronti dell’uomo antico, che questi fosse cioè alieno da conoscenze scientifiche. Questa affermazione non sarebbe di difficile accoglienza se si tiene conto dei numerosissimi reperti, così detti fuori dal tempo per la loro anacronistica complessità, che sono stati ritrovati negli ultimi decenni. Molti di questi oggetti, invece, troverebbero la giusta collocazione nei miti e nelle storie se queste venissero lette attraverso una formazione culturale più laica. In tal modo apparirebbero meno incongruenti gli intercalari di fatti di cronaca nella storia di Roma raccontata da T. Livio, allorché lo storico romano fa riferimento ad una botte d’argento che, avvolta da fiamme e fuoco, calata dal cielo nel bel mezzo degli schieramenti romani, durante la guerra civile tra Mario e Silla, in Spagna, induce le legioni a fuggire e rimandare lo scontro; oppure il riferimento di Omero alle navi feaciche che si muovevano nel Mediterraneo a velocità fuori dall’ordinario, senza remi e guidate con il pensiero. Quest’ultimo riferimento induce a maggior riflessione riguardo ad un meccanismo metallico dentellato, ritrovato negli abissi delle acque greche, presso una nave greca naufragata, identificato dagli studiosi come una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo e denominato meccanismo di Antikitera.

Antikitera e i sommergibili della storia.

Trattando di questo ritrovamento, aggiungendo alcune nostre riflessioni, si invita il lettore a riflettere anche sull’ipotesi che la famosa arca del diluvio potesse nulla avere a che fare con l’immagine che noi abbiamo delle imbarcazioni di epoca antica. Infatti, nel testo sumerico si legge che Enki, dettando al Noè mesopotamico le misure utili per la costruzione dell’imbarcazione, appella la stessa “su e giù” cioè ab-zu. Questa imbarcazione, quindi, avrebbe dovuto resistere, assecondare e sostenere i flutti sprigionati dal diluvio, i quali avrebbero certamente spinto l’imbarcazione anche al di sotto dell’acqua. Questo tipo di movimento è consentito ai sommergibili. Inoltre, nella versione sumerica del diluvio, vista la strana imbarcazione che Utnapistim costruiva, il Noè sumerico fu costretto a giustificare ai curiosi osservatori la costruzione di quella strana ed enorme imbarcazione, fuori dai canoni di quelle più modeste che venivano costruite per solcare in superficie le placide acque del Tigri e dell’Eufrate. Utnapistim rassicura quindi i curiosi osservatori, affermando che l’imbarcazione gli sarebbe stata necessaria per raggiungere il suo dio Enki il quale, lasciando Sumer a motivo delle liti che aveva avuto col fratello Enlill, si era recato nel mare vicino, dove ora lui lo avrebbe raggiunto. Ebbene, il mare in cui Enki dimorava, ci chiediamo: ha le caratteristiche per essere identificato con il Mediterraneo? Le tecnologiche navi di Alcinoo, solcavano i mari già prima di quelle sumeriche? Queste ultime erano attrezzate secondo i canoni moderni con a bordo bussole, computer e carte nautiche? Si noti che nel racconto sumerico viene affermato che Enki invio’ a Utnapistim un nocchiero perché guidasse l’imbarcazione e la conducesse nel luogo che egli aveva indicato al nocchiero. I marinai del periodo sumerico al servizio di Enki erano dunque esperti navigatori! Conoscevano le rotte, avevano stilato delle carte nautiche che indicavano le coste, gli approdi, i continenti. A questo punto si giustificherebbe la presenza di carte medievali, redatte in tempi ancora anteriori, arrivate fino a noi, che mostrano l’Antartide priva dei ghiacciai che, ormai da migliaia di anni, la ricoprono e le coste delle Americhe scoperte ufficialmente pochi secoli fa.

Analizzando perciò il mito sumerico sotto una nuova luce, senza distogliere lo sguardo dai racconti vedici, che ai racconti sumerici, avestici, biblici e greci sono complementari, e che descrivono con dovizia di particolari l’esistenza di civiltà tecnologicamente avanzate, si riscontra che in esso vengono descritti con ricchezza di dettagli, degni di un cronista scientifico dei tempi nostri, i primi risultati condotti dal dio scienziato Enki, coadiuvato, come si è sopra affermato, dalla sorellastra Ninmah che un ruolo determinante avrà nei successi raggiunti. Gli esperimenti vennero condotti a discapito o a beneficio, a seconda il punto di vista, di un bipede che Enki, durante i suoi viaggi di esplorazione, aveva incrociato nelle foreste Africane. Analizzando la lettura delle tavolette, riguardo ai primi imperfetti risultati degli esperimenti genetici, si nota già manifestarsi la nobile e compassionevole natura del creatore del genere umano Enki. Il dio, lo scienziato, infatti, mostra di possedere un non comune sentimento di pietà nei confronti delle creature malferme da lui create, tale da fare trasparire nello scienziato un concetto di sacralità attribuibile ad ogni forma di vita in quanto tale: Enki amava le proprie creature indipendentemente dalla forma da esse assunta e conferiva ad ognuna di quelle creature, frutto di errori genetici, comunque un diritto alla vita investendole di ruoli sociali adatti alle loro condizioni psico fisiche.

Enki il dio compassionevole.

I primi tentativi di creazione non andarono a buon fine, gli individui creati in virtù del mescolamento tra il genoma divino – appellativo con il quale questi scienziati della preistoria amavano definirsi- con quello degli ominidi africani, furono non tutti eccellenti; gli individui che ne derivarono non erano infatti in grado di essere autosufficienti. Enki edificò per loro degli ospedali e impose ai suoi assistenti di prendersi cura di loro con amorevole compassione. Da quanto ci è dato capire attraverso la lettura della traduzione dei testi sumerici in cui si sono cimentati gli studiosi, Enki allontanò dal laboratorio la sorella Ninmah, a motivo degli atteggiamenti di questa, considerati poco compassionevoli nei confronti dei soggetti che venivano studiati. Infatti Enki aveva concesso a Ninmah di condurre degli esperimenti sul genoma per proprio conto. Dai testi sembra che Nimah producesse alcuni esseri mostruosi, pare volontariamente, poiché, interrogata, affermò che ella creava esseri come il suo cuore le dettava.

Ciò avveniva in un luogo solitario che tenteremo di individuare proseguendo nelle nostre ricerche. La dea, animata soltanto dalla propria sete di conoscenza, non mostrava per le creature oggetto dei suoi esperimenti la stessa sensibilità mostrata dal fratello: incurante delle sofferenze delle proprie cavie, le incatenava e le segregava. Enki, venuto a sapere del comportamento della sorella, recatosi presso di lei e avendo constato personalmente gli impietosi metodi da lei messi in atto nei riguardi delle cavie, con atto imperioso derivante dal ruolo ricoperto di capo della equipe di scienziati, le impedì categoricamente di continuare ad esercitare la professione di genetista, irelegandola, come viene affermato nella traduzione del passo sumerico, in un territorio definito come “colto da sfortuna”. Da quel momento Enki non degno’ la sorella di ulteriori visite. Ninmah, come si afferma nella tavoletta, ne fu molto afflitta e pregò il fratello di rivedere il suo atteggiamento ostile nei suoi confronti; probabilmente è in questa occasione che Ninmah compone l’inno adulatorio nei confronti del fratello, tradotto da S. Kramer con il titolo di Ninmah ed Enki, ain cui è evidente la captatio benevolentiae che Ninmah esercita nei confronti di Enki. Il compassionevole creatore dell’umanità in effetti venne ammorbidito dalle lusinghe della sorella e le fece delle concessioni, rivedendo così in parte la propria drastica posizione. Tuttavia le impose di liberare le creature malferme che ella teneva recluse e di prendersene cura come si conveniva. Il dio adirato chiuse infine l’incontro con la sorella pronunciando le tremende parole: “La tua opera sia maledetta, avevi giurato di migliorare la mia opera (cioè la creazione dell’uomo attraverso l’innesto del DNA divino negli ominidi), dammi dunque indietro gli uomini malfermi affinché io provveda a loro”. Ed Enki, ottenuti i malati, costruì una casa in cui veniva prestata a loro la dovuta cura”.

Circe e il Circeo.

A questo punto della narrazione è possibile integrare al racconto sumerico quello greco riguardante l’incontro di Ulisse con la maga Circe. Il racconto omerico potrebbe rappresentare un adattamento poetico, a cura del poeta cieco, di un mito antichissimo trasmesso oralmente per millenni. Infatti, dal racconto sumerico risulta difficile non accostare alla omerica Circe la sumerica Ninmah: entrambe erano manipolatrici del genoma umano ed entrambe insensibili alle sofferenze delle loro cavie. Entrambe, nei miti che le vedono protagoniste, vengono costrette a rivedere il loro comportamento in virtù di una imposizione che deriva da una autorità superiore. Il sospetto che il mito greco possa derivare dalla fonte sumerica o entrambe da una fonte comune ancora più antica, appare dunque sempre più probabile. Omero potrebbe aver utilizzato e rielaborato il racconto sumerico in cui Enki si reca dalla sorella per liberare le cavie per adattarlo all’eroe di Itaca.

La domanda che qui ci si pone è quella che riguarda la collocazione della dimora di Circe/ Ninmah, che nelle tavolette viene definita come un “luogo colto da sfortuna”, appellativo che dice tutto e nulla nello stesso tempo se non fosse che, grazie all’approccio multidisciplinare che guida i nostri studi, a noi pare di poterlo agevolmente individuare là dove la tradizione e la toponomastica lo indicano: il centro Italia, nell’attuale Lazio.

 Il Circeo: laboratorio genetico preistorico(?).

L’appellativo di “luogo colto da sfortuna”, dove la scienziata Ninmah prende dimora, si adatterebbe assai bene ai Campi Flegrei, i quali vengono definiti ancora oggi dai geologi come il luogo più pericoloso e infernale del pianeta, ma in pari tempo esso è un luogo ricco di acque termali che posseggono notevoli proprietà curative e ove sono presenti purissime argille utilizzate per la cosmesi. L’argilla, secondo la Genesi, venne utilizzate da Jahve’ per la creazione dell’uomo. Le argille dei Campi Flegrei, grazie alla loro purezza, vengono utilizzate come prodotti per la cosmesi soprattutto per il “ringiovanimento” della pelle. All’uso delle argille, per gli scopi su detti, si addice il mito secondo cui la Sibilla Cumana avrebbe ottenuto da Zeus una lunga vita, ma non la giovinezza di cui si era dimenticata di fare richiesta. I biologi hanno osservato che nella fangaia di Pozzuoli, a temperature proibitive, riesce a sopravvivere un batterio che gli studiosi credono rappresentare se non la prima forma di vita che si sia manifestata sulla terra, comunque una delle prime e per questo il batterio viene chiamato archeobatterio. I luoghi su citati, se visti da una ottica divina, non distano molto dal Circeo, un promontorio attualmente facente parte della Regione Lazio, in cui la tradizione assegna la dimora della maga, o scienziata che dir si voglia, proveniente, secondo quanto Apollonio Rodio afferma nel suo poema le Argonautiche dalla Colchide. La Colchide è identificabile con l’attuale Georgia presso la costa orientale del Mar Nero, terra ancora oggi popolata da maghi e sciamani. L’area del centro Italia è intrisa ancora oggi di mistero. A Pozzuoli esistono i resti di un tempio dedicato a Iside (il lettore ricorderà che nel mito egiziano, il cadavere smembrato del marito Osiride, era stato “nascosto” – Lazio deriva dal verbo latere, nascondere- da Set nel Mar Mediterraneo) e un altro a Serapide, mentre il basso Lazio è caratterizzato dalla presenza di un numero spropositato di città recintate con mura ciclopiche edificate in tempi primordiali. L’edificazione di cinque città in particolare, denominate saturnie, viene attribuita direttamente al dio Saturno. Nei campi Flegrei, l’antico mito collocava la porta – una delle tante presenti nel pianeta- per la discesa nell’Ade. Non va sottovalutato il significato del rito che bisognava compiere per poter avere accesso nell’Ade. Il rito non poteva prescindere dal versamento del sangue di un animale sgozzato. In epoca romana furono molti i poeti che si occuparono del triste luogo, tra questi Virgilio veniva additato come mago a sua volta e tale era la dimestichezza ch’egli aveva con le potenze infernali che Dante nel suo famoso canto lo sceglierà come guida per il proprio viaggio negli inferi. Nelle vicinanze del Circeo si trova l’isola di Ea, il lettore ricorderà che questo era l’appellativo di Enki; ma proprio sul monte Circeo esistono ancora i resti del tempio dedicato dai Romani a Giove Anxur (An cielo o Avo e zur verso, in direzione di), edificato – o soltanto rinominato e riadattato dai Romani–sopra le rovine di un tempio preesistente di epoca preistorica.

Occorre qui segnalare che nella stessa area, a testimonianza di quanto antica sia la frequentazione umana del luogo, vennero ritrovate negli anni cinquanta del XX secolo, in una delle tante grotte che si trovano nei pressi del Circeo, rimasta sigillata da un crollo avvenuto sessantamila anni fa, numerose ossa di uomini appellati di Neanderthal dal primo ritrovamento di questa specie nella città tedesca. Si tratta di nove individui di diversa età e sesso, la cui datazione include un periodo che va dai quattrocentomila ai settanta mila anni fa. Ma la cosa straordinaria consiste nel fatto che assieme alle ossa di uomini do Neanderthal, nella medesima grotta in cui giacevano, vi erano le ossa di un individuo identificato dagli antropologi come Sapiens. La cosa che ha richiamato la nostra attenzione, è la contemporanea presenza delle ossa di Neanderthaliani e di Sapiens nella grotta, motivo per cui la nostra immaginazione non poteva evitare di spingersi fino a Ninmah/CIRCE, ai suoi esperimenti e alla segregazione delle sue cavie. Bisogna dire che gli studiosi, a nostro avviso, tentando di semplificare, come è loro consuetudine fare quando si trovano in presenza di ciò che non può essere spiegato con metodi scientifici, addebitano la coesistenza delle ossa al trasporto di esse da parte di un animale predatore. L’animale, una jena, a loro dire, avrebbe trasportato i resti degli uomini nella propria tana, ma trattandosi di resti che appartengono a individui separati gli uni dagli altri da enormi distanze temporali, a noi non esperti, tale tesi appare assai improbabile. A questo si aggiunga che gli stessi studiosi che hanno elaborato questo escamotage, si accapigliano intorno alle rispettive conclusioni circa i segni di scalfiture osservati nelle ossa: alcuni li attribuirebbero alla pressione esercitata dai denti della Jena, altri a segni di cannibalismo rituale. Tra contraddizioni di tale natura, la fervida immaginazione del libero ricercatore non ancora contaminato da pregiudizi, non può non intersecare il racconto del mito che spesso si è rivelato il più aderente alla realtà dei fatti.

A tal proposito, avendo tirato in ballo la frequentazione di alcune caverne da parte di un non meglio conosciuto Homo del Paleolitico, crediamo che anche le incisioni nelle pareti della grotta dell’Addaura, in Sicilia, datate a ventimila anni fa, vadano riviste sotto una luce diversa e magari collegate ad una frequentazione dell’intero Mediterraneo che, come il suo nome suggerisce (vedi glossario etimologico) nasconde molti misteri.

Ad majora.

GLOSSARIO

ABZU. Il toponimo risulta formato dall’unione delle preposizioni di derivazione germanica ab, che indica provenienza, da, e zu verso, in direzione di. Presumibilmente il toponimo soleva indicare un luogo sì geografico ma anche di interscambi, che potevano essere di informazioni, culturali, di merci, scientifiche e, perché no, di tipo metafisico dal momento che, utilizzando un lessico religioso, sovente riferito alle anime degli uomini, si può affermare di esse che salgono e scendono. Pertanto, utilizzando una libera traduzione, si potrebbe tradurre il termine abzu con “andirivieni”. Molti elementi forniti dai testi sumerici lasciano sospettare che questo luogo, in cui venivano custoditi i segreti del dio Enki e in cui il dio aveva costruito la propria dimora, si trovasse nel Mar Mediterraneo. La letteratura antica fornisce una serie di indizi che porterebbero in Sicilia, quale sede più accreditata, per individuare la dimora di Enki, che, naturalmente, nell’isola sarebbe stata conosciuta attraverso epiteti diversi da quello sumerico. Tra i luoghi della Sicilia che avrebbero potuto ospitare il palazzo di Enki, appellato come quello sumerico Eridu, ovvero il luogo in cui si presta il giuramento al signore (Er signore, eid giuramento, promessa), la zona etnea sarebbe quella candidata, se non altro, per il continuo riferimento alla montagna sacra ( l’Etna?), in cui gli dèi che intendevano interloquire con Enki dovevano recarsi. Inoltre, le pietre minerali occorse per la costruzioni di ambienti particolari dell’ Eridu, azurite e corniola, si trovano nei territori vulcanici. Non è superfluo qui far notare al lettore per le relazioni che intercorrevano tra la Sicilia e l’Egitto, che nella terra dei faraoni, la corniola era ritenuta probabilmente l’emblema della vita oltre la morte; infatti gli antichi egizi usavano inserirla nelle tombe con lo scopo principale di accompagnare i defunti nell’aldilà e per propiziare e celebrare la nuova vita.

Per ciò che concerne il palazzo di Enki, si prenda in considerazione il fatto che, in Sicilia, il santuario dedicato all’antenato, all’avo sicano, che porta il nome del padre di Enki, Ano, si trovava presso l’Etna, nella città di Adrano (il termine Ano veniva utilizzato ora come nome, ora come appellativo). Infatti, nella IV tavoletta dell’Enuma elish, viene detto che Marduk ricevette da suo padre Anu (Enki) alcune delle potenze a lui necessarie per sconfiggere Tiamat. La tradizione letteraria, poi, vuole che l’Etna fosse considerata la fucina degli dèi ove i Ciclopi svolgevano le mansioni di aiuto fabbri a quel dio che in età greca venne denominato Efesto. Nel poema lo Scudo di Eracle, composto da Esiodo nell’ottavo sec. a.C., emerge chiaramente che in quel lontano secolo, in Grecia e in Sicilia, si possedevano insospettabili conoscenze scientifiche. Efesto, secondo il racconto del poeta di Ascra, sarebbe stato in grado di costruire due ancelle di metallo (robot?) del tutto simili agli umani, tanto da non essere distinguibili da questi. Enki, nel racconto sumerico intitolato Il Viaggio di Inanna agli Inferi, fa la stessa cosa. Nella letteratura greca antica, sono citate numerose invenzioni di Efesto che, se lette alla luce delle recenti scoperte archeologiche, potrebbero far

prospetto della Chiesa Madre. Una antica tradizione orale vorrebbe che le colonne interne siano quelle dell’ antico tempio di Adrano.

 

 rivedere ai moderni il concetto di preistoria che ci si era fatto. La città siciliana di Adrano, edificata in illo tempore su una balza lavica perfettamente piatta, alle falde dell’Etna, sede, come si è sopra affermato, del grandioso tempio della divinità sicana, di cui fanno menzione Plutarco, Ninfodoro, Eliano ed altri, era cinta da mura ciclopiche, di cui sono ancora visibili possenti resti, realizzate con enormi pietre squadrate ricavate dal duro basalto. La città , nella sua vicina periferia, è ancora oggi ricca di canneti ed acque di falda che affiorano in

cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
fiume Simeto nei pressi del tempio di Marte ad Adrano.

superficie oltre che di fragorose cascate ancora presenti agli inizi del secolo scorso. Uno degli appellativi di Enki, è bene ricordarlo, era Ea, cioè acqua; sarà forse una coincidenza che l’etimo Adrano, il nome del dio sicano, scomposto nei lemmi A-dr-Ano si riferisca al furore delle acque (?). Queste, non solo scorrevano – in parte lo fanno ancora oggi- copiose in ogni luogo della città, ma riversandosi dall’alta rocca lavica, fino a raggiungere il sottostante fiume Simeto, formavano “furiose” quanto fragorose cascate e i fiumi così alimentati, pullulavano di vita.

Per quanto concerne recenti studi condotti sulle qualità dell’acqua, le modificazioni chimico fisiche in cui andrebbe incontro se stimolata, studi condotti da scienziati che aderiscono al progetto Tesla, hanno potuto verificare che l’acqua ha capacità di immagazzinare la memoria fornita da impulsi elettromagnetici. Questi ultimi verrebbero ceduti alle piante che verrebbero così liberate da parassiti fornendo produzioni superiori anche del 300%. In uno dei testi sumerici si apprende che Enki era riuscito a soddisfare le esigenze alimentari dell’umanità in aumento demografico esponenziale, intervenendo e ottimizzando la produzione agricola.

Per quanto concerne la carica elettrica e la memoria dell’acqua di cui tratta il podereso studio del professor Roberto Germano, rinviamo all’autore chi volesse approfondire l’argomento. A noi qui, basta acquisire la consapevolezza che l’epiteto Ea acqua, apposto all’Avo scienziato, venga messo in relazione all’elemento indispensabile alle sue sperimentazioni e che pertanto la scelta, nel costruire il proprio laboratorio, in parte all’aperto onde poter osservare direttamente e per via naturale lo studio degli elementi naturali, appaia al lettore come una semplice ovvietà.

L’ipotesi di una città presso l’Etna, abitata dal dio Enki o/e dal figlio Thot che segui e continuò le ricerche del padre, verrebbe corroborata dal ritrovamento in una grotta di scorrimento lavico nella periferia dell’antica città, di pitture e incisioni su vasellame del VII e IV millennio a. C., che alla luce di nuove e inedite interpretazioni, potrebbero essere spiegate come motivi simbolici, riferendosi appunto a conoscenze scientifiche di cui si è affermato sopra. L’occhio in questione poi, inciso in un frammento di ceramica, datato dagli studiosi al VII mill. a.C., potrebbe riferirsi al concetto di onniscenza, ed essere considerato un prototipo siciliano dell’occhio riproposto successivamente in Egitto, attributo sia del dio Ra che del di lui fratello Toth. Tra l’altro, proprio il nome sicano di Toth, Teuto, si ritrova ad Adrano inciso su una stele del V sec. a. C., e ancora in una citazione di Polieno con riferimento al principe sicano che nel VI sec. a.C. governava la città di Innessa rinominata in Adrano nel 400 a.C. Il caso vuole che la città di Adrano sorga nei pressi della confluenza tra i fiume Simeto e il fiume Salso. Questa casualità induce inevitabilmente a fare un parallelismo tra la città di Eridu edificata a Sumer, sede di Enki , anch’essa edificata fra due fiumi: il Tigri e L’eufrate e l’ipotizzata omonima dimora siciliana di Enki tra i fiumi Salso e Simeto. È infatti sconcertante notare come oltre ai teonimi Ano, Bal da cui deriva il toponimo Belice, Ur (Urio è il nome di una divinità siciliana attestata da Cicerone nelle verrine) anche l’antroponimia trova dei punti di contatto tra la Sicilia e la Mesopotamia. Si fa qui veloce riferimento alle ricerche di studiosi che hanno ipotizzato l’affinità tra Etna, probabile nome della figlia di Teuto, principe sicano di Innessa (futura Adrano), ed Etana, re della città mesopotamica di Kish. È ancora la toponomastica siciliana a ripetersi con inusitata frequenza in area mesopotamica: Ebla, Acate (Agate), Assoro (Assur), Enna (Eanna), Erbita (quello di Eribbiti era l’appellativo della casta sacerdotale babilonese), Eloro, antico insediamento presso Siracusa (Aloro era il nome del primo re mitico della Mesopotamia) al punto da immaginare un integro cordone ombelicale che univa l’Oriente all’Occidente ancora fino al IV sec. quando cioè in Sicilia il culto professano nei confronti della dea Iside, contendeva il primato a quello della cristiana Maria. Ipotizziamo ancora, che il mito sicano degli dèi Palici, figli di Adrano, cantati da Virgilio nel IX libro dell’Eneide e da Eschilo nelle Etnee, sia la versione sicana del rapporto dicotomico intercorso tra i fratelli sumeri Enlill ed Enki. Sarà ancora un caso che la sede più influente del culto di questi fratelli si trovasse nelle campagne della città di Adrano presso il santuario del padre, proprio sul fiume Simeto e presso le acque – l’elemento naturale di Ea/Enki- sacre dette delle Favare denominate acqua chiara e acqua scura ad accentuare il rapporto antitetico tra i fratelli, ancora più evidente nel mito sumerico. Ora, si dà il caso che, come viene affermato nelle tavolette mesopotamiche, sia la sede sumerica di Enki, Eridu, che quella nell’Abzu (nel Mediterraneo?) custodissero: la prima i famelici “me”, oggetti o entità non identificabili capaci di attribuire un enorme potere al possessore, la seconda grandi poteri nascosti. Da ciò si deduce che questi poteri erano rappresentati da qualcosa che poteva essere facilmente trasportabile da una sede all’altra; la conoscenza.

Sicani: un laboratorio nel Mediterraneo.

Prima di proseguire nel tentativo di svelare un’altra pagina della criptica storia della Patria sicana è doveroso mettere in guardia il lettore da quanto qui verrà vergato, da noi ritenuto forse un maldestro tentativo di condividere alcuni risultati a cui siamo pervenuti. Le riflessioni qui esposte, potrebbero perciò diventare nel futuro, oggetto di revisione e/o smentita se, strada facendo, si approdasse a risultati contrastanti. Infatti, rispecchiandoci pienamente nelle affermazioni di Gandhi, che si definiva un campione di incoerenza a motivo delle mutanti condizioni politiche del suo paese in subbuglio, preghiamo il lettore che anche a noi venga concessa l’opportunità di rivedere, correggere e riproporre certe affermazioni alla luce di nuove scoperte che mai come ai giorni nostri si succedono con inusitata frequenza.
In mancanza di dati storici documentali antichissimi riguardanti la nostra Sicilia, ritenendo tuttavia che i nostri lettori abbiano ormai fatta propria la tesi secondo la quale, durante il periodo antico della storia del pianeta, lo stesso sia stato inizialmente abitato da una civiltà globale, rimane nostro convincimento il fatto di essere riusciti a ottenere preziose informazioni dalla lettura e reinterpretazione, alla luce di nuove scoperte, soprattutto nel settore della biogenetica, degli antichissimi testi ritenuti sacri dagli Avi nostri. Tra questi antichi testi, l’Avesta, a nostro avviso, fornisce riferimenti precisi circa la genesi delle civiltà umane che si sono susseguite e delle trasformazioni geologiche subite dal pianeta a partire dalle epoche glaciali, a causa delle quali, alcune civiltà furono costrette a migrare dai poli presso le più miti zone centrali (med) equatoriali della terra.
Ancora una volta, per tentare la ricostruzione dell’evoluzione dei fatti trascorsi in epoche così distanti dalla nostra, attueremo un approccio multidisciplinare, attingendo qua e là ad informazioni che studiosi accreditati hanno – con un non comune senso di altruismo- divulgato attraverso metodi a loro più congeniali. La mitologia aprirà l’excursus che ci accingiamo a percorrere.

Una indagine sulle conoscenze della genetica durante il periodo Preistorico.

I bassorilievi egiziani, in cui si osserva il prelievo spermatico da una figura umana itifallica, ci ha dato assai da

Bassorilievo egiziano di abido. Luxor
Bassorilievo egiziano di abido. Luxor

riflettere circa l’interpretazione che bisognava dare a tale criptica raffigurazione. Il recente superamento di nuove barriere nel campo della biogenetica, da parte di arditi ricercatori, ci è venuto in soccorso. Al di là dell’interpretazione più o meno logica che verrà fornita in questo breve excursus, osservando con attenzione le immagini di Luxor, che non possono essere interpretate, come è stato sopra affermato, se non come quelle raffiguranti un prelievo del liquido seminale maschile, con relativi spermatozoi messi ben in evidenza, bisognerebbe chiedersi di quali avanzate tecnologie, paragonabili nel caso specifico ai nostri microscopi da laboratorio, disponessero alcune civiltà vissute in epoche antichissime.

Il bassorilievo egiziano di cui stiamo trattando, ma ve ne sono di simili in Thailandia e altre parti del mondo, diventa assai loquace ed esplicativo se lo si integra all’interpretazione del mito di Horus. Il mito egizio racconta di come sia avvenuto l’accreditamento di Horus quale erede del dio Osiride e suo successore al trono di Egitto dopo che questo era stato usurpato dallo zio Set. Poiché bisognava dimostrare che Horus era il figlio segreto di Osiride ucciso da Set, nascosto dalla moglie Iside per evitare che l’usurpatore uccidesse anche Horus, ecco che per la dimostrazione viene chiamato in causa il dio Thoth il quale, prelevato il liquido seminale da Horus (come si evince dal bassorilievo), dopo averlo esaminato afferma solennemente che Horus era realmente il figlio di Osiride. A noi pare che il mito egizio intendesse trasmettere, tra l’altro, il messaggio secondo il quale, lo scienziato ante litteram il cui nome egiziano veniva fonetizzato Teuti nella lingua greca, corrispondente al germanico e al sicano Teuto e ancora al latino Tito, conoscesse i comportamenti del genoma umano e le leggi dell’ereditarieta’. La “storiella” egiziana, ricca di particolari raccapriccianti che risparmiamo al lettore, potrebbe essere considerata frutto della fervida fantasia degli antichi se non fosse per una molteplicità di indizi che si trovano sparsi anche in altre civiltà e di cui diremo sotto. Ma vi è di più: nel mito di Horus viene affermato che questo dio sia nato dal padre dopo la morte e lo smembramento del corpo di questi, cioè il dio Thot – sempre Lui- viene pregato da Iside affinché, utilizzando la sua scienza, ella potesse essere ingravidata col seme del marito Osiride, morto e sezionato da Set, ma del quale lei era riuscita a mettere assieme i pezzi tranne il fallo. Dunque, pare che il genetista Thot avrebbe estratto dal cadavere di Osiride alcune cellule, non certo dal liquido seminale dal momento che il fallo di Osiride era l’unico membro del cadavere che era andato perduto dopo lo smembramento e la dispersione dei pezzi. Per farla breve, Thoth, accolto il grido disperato di Iside, non insensibile al ripristino della giustizia, si mise a lavoro riuscendo a ingravidare Iside attraverso frammenti del dna estratti dal cadavere di Osiride. Se si tiene in conto che alcuni studiosi dei nostri tempi ritengono che si potrebbero riprodurre dei mammut attraverso procedimenti che ricordano il mito egiziano di Horus, la possibilità che ciò possa essere stato realizzato da civiltà antidiluviane progredite e poi scomparse, non dovrebbe stupire. Il mito greco della evirazione di Urano, e la nascita di Afrodite dalla schiuma emessa dal membro evirato, raccontato da Esiodo nella sua Teogonia, potrebbe essere una variante del mito egizio di Horus ed entrambi potrebbero rappresentare il ricordo di fatti antichissimi riconducibili a tentativi di applicazione di ingegneria genetica che non cessò mai di affascinare i genetisti di ogni epoca, fino a condurre il blasfemo scienziato russo Gustav Ivanovic Ivanov durante il periodo staliniano, a inseminare a loro insaputa, giovani donne africane con liquido seminale di scimpanzé maschi, col fine di creare un ibrido che potesse collaborare con l’esercito dell’armata rossa.

Poiché stiamo qui esaminando la possibilità che attraverso il mito, gli Avi possano aver raccontato alcuni fatti storici, non è a noi passato inosservato neppure il possibile collegamento che potrebbe sussistere tra il mito egiziano e il viaggio della speranza intrapreso dal patriarca Abramo in compagnia della sterile moglie/sorella, verso la terra dei faraoni, magari diretto in una qualche clinica egiziana specializzata nella fecondazione assistita, al fine di sottoporre all’intervento la sterile moglie Sara. Non può non essere sospetto, alla luce dei molti collegamenti qui esposti, il fatto che dopo questo viaggio, Sara avrà un figlio. Ci chiediamo: intende forse comunicare il bassorilievo di Abido, che l’inseminazione artificiale non rappresentava un tabù per gli antichi Egizi? e che anche i Sumeri e i Palestinesi ne facessero palesemente ricorso come si evincerebbe dalla lettura dell’Antico Testamento e delle tavolette sumeriche? Se così fosse, le tavolette sumeriche che raccontano di un mesopotamico Enki, dio scienziato, creatore dell’uomo ad opera di una inseminazione artificiale avvenuta grazie al liquido seminale prelevato dai ” figli degli dèi”, inoculato nell’ovulo delle figlie degli uomini, si inserirebbero ad incastro perfetto.

I Sicani: tra Genetica e Metafisica.

Se quanto affermato nella premessa, cioè che nella preistoria alcuni individui possedevano conoscenze di biogenetica, questi individui avrebbero potuto agire in diverse zone geografiche, magari indicate cripticamente nei miti, il cui nome opportunamente decodificato avrebbe condotto il ricercatore al luogo ambito. L’evoluzione linguistica a cui inevitabilmente è condannata ogni lingua, ci ha reso più difficile, ma non impossibile il tentativo di decifrare gli appellativi apposti a certi luoghi. Tuttavia, sebbene noi non abbiamo l’ardire di sostenere, al pari di Assurbanipal, che si vantava di aver imparato la lingua primordiale parlata dagli dèi, crediamo per lo meno di averne scalfito la superficie. Ebbene, se così fosse potremmo affermare che parte delle conoscenze divine fossero state deposte nel Mediterraneo, anzi, abbiamo buoni motivi per credere che in questo angusto mare avesse sede il laboratorio primigenio: l’Abzu. Nel nome stesso di questo mare si nasconderebbe, infatti, uno degli indizi che hanno costituito l’impalcatura della tesi sopra affermata. Rimandando il lettore all’articolo “La lingua dei Sicani” onde egli possa comprendere il metodo da noi utilizzato per la traduzione dei nomi, qui risulta che Il nome del Mare Nostrum risulta formato dall’unione del lessema med, che significa medio, con il lessema tarn, che significa celato, nascosto. Ora, In una tavoletta sumerica si legge che il luogo in cui venivano celati i “segreti” era il palazzo laboratorio di Enki, ciò viene detto dal fratello Enlill durante un banchetto. Quindi, mettendo assieme questa affermazione con quanto si sostiene nel mito di Osiride, e cioè che Set aveva chiuso il corpo del fratello in una cassa, poi “nascosta” nel Mar Mediterraneo, si potrebbe giungere alla conclusione che l’appellativo apposto al nostro Mare, indichi il luogo depositario di indicibili segreti. In una tavoletta sumerica, Enlil si lamenta con il padre Anu, per il fatto che il suo fratellastro Enki sia l’unico a possedere i poteri a lui preclusi, nonostante egli sia stato eletto a capo del Pantheon sumero. Se abbiamo visto bene, e il laboratorio di Enki si trovava nel Mediterraneo, come esposto negli articoli precedentemente pubblicati, ne consegue che il laboratorio di Enki rappresentava lo scrigno in cui erano nascosti i segreti.

A corroborare questa tesi si aggiunga quanto segue: nel testo sumerico denominato Atra Hasis, in cui si racconta del diluvio, Ziusudra il Noè sumero, per giustificare agli occhi dei suoi cittadini la costruzione dell’arca, afferma che l’imbarcazione gli sarebbe servita per raggiungere il suo signore Enki che si trovava nell’Abzu. Dunque, in questo passo viene confermato che la reggia di Enki si trovava distante da Sumer, in un mare che poteva essere raggiunto soltanto con solide imbarcazioni, che nulla avevano a che vedere con quelle più piccole utilizzate per solcare le acque del Tigri o dell’Eufrate. Il mare che si presta ad essere identificato con quello che avrebbe dovuto raggiungere Ziusudra, non può essere dunque che il Mar Mediterraneo (vedi l’articolo: “Sumer, gli dèi vengono da occidente”, miti3000.eu) e il laboratorio di Enki non poteva che trovarsi in Sicilia a motivo della biodiversità ancora oggi riscontrabile a millenni di distanza. L’importanza politica a cui assurse la Sicilia, forse grazie alla presenza di questo laboratorio scientifico, la si evince altresì dal fatto che nell’isola venisse edificata una reggia, l’E(a)nna. La reggia avrebbe dovuto ospitare il dio padre Anu, affinché vi dimorasse durante le sue visite (di controllo?). Ci chiediamo cosa sia mai accaduto in una di queste visite perché Anu venisse appellato il furioso cioè odhr, Odhr-Anu (Adrano). Forse che la rivolta dei semidei placata dalla saggia intercessione di Enki, di cui si racconta in una tavoletta sumerica, sia avvenuta nell’isola divina, allora quasi attaccata all’Africa tramite un ponte di isolette, successivamente sommerse a causa dello scioglimento dei ghiacciai, ricordato come il grande diluvio? Certo è, che alcuni passaggi della storia siciliana trovano corrispondenza nel mito comune di Egizi e Sumeri; infatti, il nome del figlio di Enki, Ningishzidda in sumerico, Thoth per gli Egizi, a cui il padre aveva trasmesso tutte le conoscenze scientifiche in suo possesso, ricorre in Sicilia ancora nel corso del VI sec. a.C. nella città di Innessa, rinominata in Adrano nel 400 a.C. Lo storico greco Polieno, nel suo trattato Stratagemmi, cita infatti il nome del principe sicano Teuto. Il nome del principe verrà successivamente ritrovato inserito in una iscrizione in lingua sicana, incisa in una lapide incastrata nelle mura di un sito archeologico della periferia della attuale città di Adrano (vedi saggio: “Dalla Skania alla S(i)kania” gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu).

Le cose potrebbero essere andate così.

Se la ricostruzione sopra tentata avesse una probabilità di attendibilità, si spiegherebbe, tornando alla genetica, la presenza del corredo funerario ritrovato in un sepolcro adranita, in cui ricorre un vasto e ricco simbolismo che non potrebbe essere altro che un linguaggio attraverso il quale si racconterebbe la storia isolana, la quale verrebbe a intersecarsi con eventi più globali.

La metafisica della morte nel simbolismo di Castelluccio e la genetica.

Tornando alla genetica, il lettore che ci ha seguito in questo lungo excursus, si ricorderà di quanto si affermava nell’articolo “IL SACERDOZIO MISTERICO PRESSO IL TEMPIO DELL’AVO ADRANO”. Nell’articolo si sosteneva la tesi secondo la quale il simbolismo riportato in un piatto facente parte del corredo funerario di un sicano adranita, forse uno scienziato dello staff di Enki o Thoh, equiparabili ad Adrano, si rifacesse all’elica del DNA. Ebbene, in chiave meno biologica e più metafisica, per quanto esso potesse essere diretto al mondo profano,

Portellone di tomba a Castelluccio

essendo posto in bella vista, inciso in un pubblico portellone che sbarrava l’ingresso di una tomba del II millennio a. C., presso Siracusa, a Castelluccio, venivano rappresentati gli organi riproduttivi maschile e femminile: lo Ying e lo yang della cultura sicana. L’effige siracusana riproducente gli organi sessuali maschili e femminili in un luogo di morte, sembrerebbe stridere se non si avesse la consapevolezza che nella religiosità degli Avi, la morte rappresentava l’indispensabile passaggio alchemico che conduceva l’essere a una nuova rinascita.

Se volessimo spingere oltre l’immaginazione del ricercatore, non troveremmoestraneo al mondo delle conoscenze genomiche sicane, il riferimento al DNA del pittogramma riproducente i rombi contigui, dipinti nel piatto del IV/III millennio a. C., a cui abbiamo fatto riferimento sopra.

Ora, tre sono gli elementi che compongono la sacra istituzione della famiglia, cioè l’organismo deputato a tramandare la continuità della stirpe e a trasmettere un patrimonio genetico esclusivo: il padre, la madre e figli. La sede del culto della triade divina si trovava nella capitale sicana Adrano, città in cui gli storici antichi: Plutarco, Ninfodoro, Polieno e altri, celebravano la grandiosità del santuario edificato all’Avo. Si dà il caso che di tre elementi, o lettere, come vengono comunemente chiamate, sono composte le informazioni contenute nel DNA decodificate da un messaggero detto RNA. Questo gruppo di tre lettere sembra altresì essere alla base di tutte le forme di vita sulla terra e forse dell’universo. Che la sequenza di rombi dipinti nel piatto adranita possa riferirsi al dna, lo si deduce ancora attraverso l’affinità parentale che abbiamo riscontrato tra i Sicani e i popoli proto germanici. Questi ultimi, come è stato dimostrato attraverso i nostri studi, erano accomunati ai Sicani da una lingua e da una medesima weltanshauung, pertanto non risulterà peregrino accostare i nostri rombi alla runa chiamata odal – un rombo con due code in basso, equiparabile a quello utilizzato nel simbolismo sicano- a cui si può attribuire un valore interpretativo affine a quello da noi riscontrato in Sicilia. Grazie agli studi del runologo

Runa Odal
Runa Odal

Kennet Meadows, si evince, infatti, che alla runa odal i popoli germanici attribuivano “I caratteri innati ereditati dalla genealogia spirituale”. Restando in ambito germanico e al significato misterico attribuito all’aggettivo tarn che compone la seconda parte del nome Mediterraneo, luogo in cui la divinità sicana aveva edificato la propria reggia laboratorio, a noi pare che possa vedersi un collegamento etimologico, mitologico e simbolico collegabile alla collina irlandese di Tara, luogo in cui dovevano recarsi i re prossimi all’intronazione e, forse, iniziati ai misteri (cioè alle cose “nascoste”) della divinità preposta.

Ad maiora.

Il sacerdozio misterico presso il tempio dell’ Avo Sicano Adrano

Da qualche secolo a questa parte, il territorio adranita, sovvertito per i motivi più disparati che vanno dalle esigenze agricole a quelle di edilizia popolare, consegna reperti archeologici che, pur “urlando” il proprio valore quale veicolo di testimonianza storica, nel senso che in essi vi sarebbero racchiusi dei messaggi utili alla interpretazione di come gli Avi nostri concepissero il mondo e il sovramondo, rimangono silenti, mentre gli accademici locali, accecati dal sole nascente guardano ad Oriente con più interesse.
Tocca dunque a noi neofiti, invocando il soccorso della Musa ispiratrice, tentare di assolvere al duro compito, a costo di pagare il pegno di essere tacciati di eresia come tutti coloro che, fuori dai salotti autoreferenziali, formano l’enorme schiera dei silenziosi ricercatori della verità.

Il culto e il sacerdozio.

Così come oggi sarebbe impossibile ignorare il ruolo che ha esercitato il Vaticano nel mondo cristiano, e non solo, nel corso del nostro studio non potremo riferirci alla città di Adrano ignorando che in essa era stato edificato il tempio del primordiale avo sicano, come affermano Diodoro Siculo e Plutarco, il cui appellativo era quello di Adrano, appellativo che in altri studi, dedicati alla lingua parlata dai prischi Sicani, abbiamo tradotto con “Il furore dell’Avo”. Come emerge dai dati documentali e dai reperti archeologici che esamineremo insieme ai nostri lettori, crediamo, infatti, che la città, essendo sede del Santuario della divinità “Onorata grandemente nell’isola”, fosse necessariamente la sede dei sacerdoti che amministravano il culto a Lui dedicato. Ora, è risaputo che i sacerdoti, a prescindere dal culto di appartenenza, in tutte le civiltà dell’antichità, erano i detentori di un sapere che veniva tramandato ai rispettivi successori, e soltanto a loro, non senza averli prima sottoposti ad una adeguata iniziazione. Ma un tale sapere, sebbene custodito gelosamente affinché, come viene affermato dal detto biblico, non si corresse il rischio di darlo in pasto ai porci e da questi calpestato, veniva in parte palesato e criptato attraverso un simbolismo che il profano non sarebbe stato in grado comunque di decodificare, e che, però, per gli addetti ai lavori era funzionale e indispensabile per esercitare alcune pratiche rituali, magiche o scientifiche che definire si voglia. È probabile che il sacerdote, il mago o lo scienziato che avesse utilizzato tali oggetti in vita, venisse seppellito con tali oggetti una volta che egli avesse abbandonato il mondo. Crediamo ancora, per i motivi che più sotto spiegheremo, di esserci imbattuti in interessanti reperti facenti parte del corredo funerario di una sepoltura in cui l’illustre ospite era un sacerdote dell’Avo Adrano, vissuto intorno al quarto millennio a.C.

Il corredo funerario: significato del simbolismo dipinto nella ceramica.

La sepoltura di cui ci occuperemo, una delle tante ricavate da grotte di scorrimento lavico che nella periferia della

Decorazioni geometriche sicane. Museo di Adrano. Corredo funerario del IV/III mill. a. C. Piatti con croci e sequenze romboidale.

città di Adrano sono numerose, è stata datata dagli studiosi intorno al IV/III millennio a.C. Già le dimensioni dello scheletro lascerebbero sconcertati gli studiosi: poco meno di due metri. Ma qui noi ci occuperemo del significato dei simboli ritrovati dipinti nella ceramica deposta accanto all’illustre personalità ivi deposta, che, come sopra affermato, potrebbe attribuirsi ad un sacerdote della divinità locale e nazionale appellata Adrano.
Per quanto concerne alcuni concetti generali di ordine sacro, meglio espressi dai giganti di questa tematica, quale era Mircea Eliade, non avendo le competenze che possano eguagliare questo ispirato autore, rimandiamo allo stesso coloro che desiderano approfondire l’argomento, noi piuttosto, azzarderemo in questo breve excursus, ad esporre la nostra inedita interpretazione della cultura sicana, così come l’abbiamo elaborata tenendo conto dei numerosi reperti adraniti appartenenti alla tarda epoca del neolitico e ancora all’inizio dell’età del bronzo, reperti che come sopra affermato, in molti casi vengono da noi considerati alla stregua di pagine su cui, per mezzo di una scrittura pittografica, maldestramente scambiata per elementi decorativi ed espressioni artistiche, sono state veicolate, invece, a nostro modo di vedere, in forma criptata, alcune delle conoscenze padroneggiate dagli Avi nell’ambito di molteplici discipline, da quella metafisica a quella astronomica e molte altre ancora. Se quanto qui asserito risulterà inverosimile ai più, non certo ai nostri lettori, essi sappiano che nel museo di Trapani (proprio a Trapani, Apollonio Rodio poneva la sede o una delle sedi, del popolo dei Feaci; un popolo di navigatori capace di muovere le navi con la sola forza del pensiero. Fuor di metafora..), viene esposto un teschio del III millennio a. C., ritrovato a Partanna, il quale porta i segni di un intervento di trapanazione chirurgica. La cosa stupefacente consiste nel fatto che l’intervento, che aveva lasciato un ampio foro nella parete frontale probabilmente ricoperto poi da una lastra d’argento per proteggere la massa cerebrale rimasta esposta, era perfettamente riuscito. Infatti, attraverso un’accurata analisi del foro praticato, è stato appurato dagli studiosi che il paziente era sopravvissuto dopo l’intervento ancora per un anno.

La croce preistorica.

Ma andiamo al simbolismo espresso nella ceramica adranita e al nostro tentativo di decifrarlo. Due piatti delcorredo funerario sono decorati con splendide e artistiche croci, simili del tutto a quelle adottate dai cavalieri gerosolimitani del Medio Evo. A motivo di precedenti nostri studi comparativi, che individuavano numerose, quanto sconcertanti affinità tra la cultura sicana e quella sumera, studi da noi condotti per via indipendente, siamo venuti strada facendo a conoscenza degli studi condotti anni prima dal sumerologo Zecharia Sitchin. Trovando questi ultimi in linea col nostro metodo e ritenuto un maestro ispirato questo grande sumerologo, abbiamo dalle sue intuizioni

Oggetto di ceramica del IV mill. a.C. rinvenuto a Susa

attinto a piene mani, specialmente per ciò che concerne i risultati da lui ottenuti con la traduzione delle tavolette contenenti testi astronomici, disciplina in cui i Sumeri, come è universalmente riconosciuto, eccellevano. Secondo lo studioso, la croce rappresentava il dodicesimo pianeta del nostro sistema solare, pianeta dal quale “gli dèi” provenivano. Il motivo per cui il pianeta veniva rappresentato con una croce era dovuto al fatto che, ogni rivoluzione che esso compiva attorno al sole, che durava tremila e seicento anni, era caratterizzata dall’incrocio ravvicinato col pianeta Terra. Il pianeta degli dèi denominato Nibiru, incrociava il pianeta terra, nel senso che gli passava pericolosamente vicino al punto da procurargli, essendo di dimensioni notevolmente maggiori, considerevoli perturbazioni d’ordine astronomico che si riflettevano inevitabilmente anche sull’assetto sociale. Questo era il motivo per cui tutti i popoli della terra tenevano incessantemente lo sguardo rivolto al cielo: essi aspettando il passaggio di Nibiru si interrogavano circa le conseguenze che avrebbe prodotto e se avessero potuto prendere le dovute precauzioni per prevenire i disordini sociali provocati dal nuovo assetto terrestre. Che Sitchin potesse avere ragione circa l’esistenza di un dodicesimo pianeta, invisibile ai più potenti telescopi in nostro possesso, e dunque non inserito dagli studiosi nel nostro sistema solare, ci viene fornito dalla strana presenza di tre prolungamenti disegnati all’estremità di ogni braccio della croce dipinta nel piatto rituale adranita. Essendo tre per ogni estremità, il numero di questi prolungamenti è dodici. Il dodici, come è risaputo, rappresenta un numero astronomico molto presente nella cultura di ogni popolo. Ma non è tutto. Il nostro sumerologo, abile decifratore dei testi cuneiformi, facendo riferimento ad un testo sumerico, detto della creazione: Enuma elis, afferma che la vita sulla terra sia stata portata da Nibiru grazie all’impianto del genoma degli “dèi”, cioè gli abitanti del dodicesimo pianeta, in quello degli ominidi che abitavano la terra. Se lo studioso ha visto bene – e gli darebbe a nostro avviso ragione il ritrovamento in diverse aree geografiche di decine di bassorilievi che fanno esplicito riferimento agli spermatozoi umani- la sequenza di rombi presenti nei piatti adraniti tra un braccio della croce e l’altro, potrebbe riprodurre stilisticamente le due eliche del genoma umano. In questo caso, utilizzando la fantasia, ingrediente che un ricercatore non deve farsi mancare, il simbolismo

Bassorilievo sumerico

riprodotto nel piatto, starebbe a indicare che la vita (la doppia elica del DNA espressa con la sequenza di rombi) sulla terra proveniva dal pianeta (Nibiru? ) indicato con la croce. Se dunque, tra le molte affinità esistenti tra la cultura sumerica e quella sicana messe da noi in evidenza in alcuni nostri studi precedenti e pubblicati nel sito web miti3000.eu, aggiungessimo la conoscenza del funzionamento della genetica, si trarrebbe la conclusione che, essendo stato Enki in Mesopotamia lo scienziato che diede vita al progetto della creazione dell’uomo, nell’isola sicana il suo equivalente dovrebbe essere stato Adrano. Il corredo funerario ritrovato nella grotta adranita, dovrebbe di conseguenza raccontarci per simboli, alla stregua delle tavolette sumeriche incise con i cuneiformi, la CREAZIONE DELL’UOMO.

Ad maiora e al prossimo “incrocio”.

Castiglione: il crepuscolo delle divinità Sicane

Le divinità sicane erano ormai invecchiate e stanche, quando nel 263 a.C., dalle vette dei Peloritani, si affacciavano nuovi e vigorosi dèi che camminavano sulle robuste gambe dei legionari romani. Si addivenne allora a un compromesso: alle giovani divinità venne fatto spazio nell’isola divina; a loro si eressero splendidi templi di umana ingegneria là nelle pianure, accanto ai porti, nelle città affollate, presso i mercati, mentre gli antichi dèi si ritiravano presso le cattedrali che la natura aveva scolpito per loro fra boschi, ruscelli e antidiluviana arenaria. Gli dèi sicani erano sì vetusti, ma ancora vigorosi e temuti, e quando nel 213 a.C. si aprirono in Sicilia nuove ostilità con i Romani, con i quali si era proficuamente convissuto per cinquant’anni grazie alla lungimiranza del saggio Gerone II, il padre degli dèi sicani Adrano era talmente temuto dai legionari che, constatato come dai suoi santuari provenisse una tale energia da rendere invincibili le schiere di soldati siciliani, il Senato Romano delibero’ di chiudere quei luoghi al pubblico culto.
Alla fine, le vetuste divinità sicane vennero però sopraffatte dai giovani dei romani. Le antiche divinità che per millenni erano riuscite a contenere le invasioni straniere, compresero l’irreversibilita’ degli eventi e si ritirarono allora sui monti, permettendo che il fato si compisse. Le primordiali divinità sicane sonnecchiano ora nelle acropoli di Nicosia, Nissoria, Cerami, Assoro, Gagliano… Castiglione di Sicilia. In quest’ultima nel 2004, il proprietario di estesi terreni di noccioleti e vigneti, il signor Nunzio Nicolosi, durante alcuni lavori di routine, escavando parte del suo terreno, dovette certamente irritare il Genius loci, Bacco, uno di quelle giovani divinità che, avendo sconfitto gli antichi dèi sicani, si erano radicate nelle amene contrade castiglionesi. Si imbatte’, infatti, il Nostro, in alcuni enormi tini di epoca romana, seppelliti nel terreno affinché il vino, come era di gusto per i commensali, invecchiasse per decenni prima di essere degustato nei luculliani convivi romani. L’onesto e patriota signor Nunzio Nicolosi, avvertì immediatamente la Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania. Gli archeologi effettuarono subito dopo un sopralluogo e successivamente furono fatti dei saggi di scavo. Purtroppo una lettura completa della storia del luogo e della società dell’epoca, non è possibile effettuarla sulla base dei pochissimi indizi a nostra disposizione. Da una nostra superficiale ricognizione dei luoghi fatta oggi in compagnia del dott. G. Tradito, presidente dell’associazione Trinacria di Calatabiano, appare tuttavia evidente che una antropizzazione del territorio di Castiglione di Sicilia, non solo la si può con certezza fare risalire fin dal periodo neolitico, ma si può affermare che non vi sia stata soluzione di continuità abitativa fino ai giorni nostri e che la vita in quei luoghi sia proceduta seguendo l’evoluzione dei tempi: dai tini di terracotta romani fino ai silos di lucente acciaio delle prestigiose e numerose cantine vinicole dei giorni nostri, che numerose insistono sul territorio dell”‘elegante” villaggio di Solicchiata.

Il lusso delle ville romane in Sicilia.

Molti cavalieri romani, al pari di quel prestigioso Lollio, citato da Cicerone nelle verrine, che ottuagenario ormai,

Tinai del castello della Solicchiata di Adrano dei Baroni Spitaleri.

dava ancora filo da torcere al ladrone Verre, abitante nella città di Etna, antico nome di Adrano a cui Cicerone fa riferimento per uno escamotage dialettico e di strategia processuale per enfatizzare il nobile ed eroico trascorso della vetusta città che ospitava il santuario dedicato al primordiale antenato dei Siciliani, Adrano, grazie all’ ausilio di manovalanza a basso costo rappresentata dagli schiavi, che in gran numero provenivano dai territori conquistati in oriente, avevano probabilmente continuato e perfezionato la viticultura che i Greci di Sicilia avevano a loro volta impiantato nei territori sicani. I su citati cavalieri romani, pari per rango ai Senatori, avevano raggiunto in Sicilia uno stato di benessere economico, evidente nel resoconto ciceroniano delle verrine, tale da potere quasi certamente attribuire a qualcuno di loro la proprietà della Villa del Casale di Piazza Armerina ed ora quella di Castiglione, i cui scavi, è bene ricordarlo in questa sede, non sono mai stati condotti scientificamente, alle quali vanno aggiunte le numerose ville ritrovate ad Adrano durante il periodo economicamente florido degli anni settanta e ottanta, che vide una selvaggia cementificazione, e che ora giacciono silenti sotto le colate di cemento delle prestigiose quanto abusive abitazioni di Via Catania. Chiudendo l’oscura pagina dello scempio culturale, storico e archeologico commesso da individui senza onore e senza patria, appartenenti a tutti i livelli sociali, eredi di quei reduci delle guerre servili capeggiate in Sicilia dal sirio Euno, al quale, segno dei tempi, è stata eretta una statua nella città di Enna, a noi non passa inosservato il fatto che, nonostante i Greci fossero rinomati produttori di pregevoli vini al tempo dei Romani, – nell’Odissea ricorre spesso la citazione dei vini che provenivano da Chio, Nasso, Rodi, Cipro ecc.. – tuttavia Omero, fa trasparire una superiorità della qualità dei vini siciliani rispetto a quelli greci e una tradizione enologica più antica dei posseduta dai primi. Infatti, nel capolavoro del poeta cieco, l’Odissea, viene mostrato dai Feaci all’ammirato e incredulo Ulisse, come essi fossero assai avanti nell’arte della vinificazione. Da ciò che ci è dato di poter interpretare dal racconto omerico, sembrerebbe che i Feaci fossero in grado di realizzare diverse qualità di vino. Dalla descrizione che fa il poeta greco del momento della vendemmia, si evince che in Sicilia si facessero più raccolte di uva a motivo della selezione dei vitigni utilizzati e a motivo della gradazione e del sapore che si voleva raggiungere. L’affermazione, poi, che si pigiavano uve che non erano volutamente lasciate maturare, ci ha indotto a sospettare che i Feaci producessero una qualche qualità di vino spumante.

La viticoltura a Castiglione durante il periodo romano.

Dopo la conquista dei territori del nord Africa da parte dei Romani, il grano siciliano ebbe un crollo del mercato, tanto da diventare antieconomica la sua coltivazione. Emblematico è l’episodio raccontato da Tito Livio circa un carico di grano proveniente da Cartagine e diretto in Sicilia. A conti fatti il ricavato della sua vendita non sarebbe bastato a pagare il costo del pedaggio e della mano d’opera necessaria per scaricarlo, tanto da indurre i commercianti importatori, di lasciarlo interamente nelle stive della nave come pagamento all’ammiraglio. Alla luce della mutazione della domanda del mercato, va da sé che la scelta di produzione dei beni agricoli da parte degli agricoltori siciliani, venne indirizzata su un altro genere di prodotti. Pertanto si dovettero adattare le colture dei campi alla domanda delle nuove classi sociali divenute più abbienti grazie alle conquiste di nuove e sempre più numerose nazioni. Si incremento’ così la produzione di olio d’oliva e si impiantarono nuovi vitigni. Nel campo dell’enologia, i Romani, diventati i padroni del mondo, dediti, come si evince dal “De re rustica” di Columella, ormai ai piaceri della tavola più che ai doveri nei confronti dello Stato, potevano inventarsi nuove figure come quella del degustatore di vini, chiamato “haustores”. Non ci soffermeremo sulla professionalità maturata in tempi non sospetti da questa antica figura che farebbe impallidire gli odierni sommelier a cui non era certo da meno. Per quanto riguarda la vinificazione, già nel periodo augusteo vengono contati decine di qualità di vino per colore, sapore e gradazione: vinum porpurum, sanguineum, album (bianco)… vinum dulce, vinum pretiosum (morbido), vinum humecti (insaporo), consistent, solidum… Come sopra affermato, i Romani prediligevano vini di lunghissimo invecchiamento, come per il Falerno che non si beveva prima di dieci anni d’invecchiamento o i vini di Sorrento invecchiati fino a venticinque anni. Questi due esempi ci fanno comprendere come la vitivinicoltura fosse diventata appannaggio di una classe abbiente che poteva permettersi lunghe attese per ottenere poi un lauto profitto economico. Lo stesso fenomeno si riprodurra’ durante il basso Medio Evo. In questo periodo, tutt’altro che buio, come si evince dal prestigioso trattato posto in essere dal Barone Arnaldo Spitaleri, Mille Anni di Storia Dei Migliori Vini dell’Etna, si evince che erano gli Ordini Cavallereschi Monastici, in particolare Templari e Ospitalieri oltre che i monaci Benedettini, ad avere il monopolio della coltivazione gradita al gioioso e giovane Bacco.

Concludendo il nostro excursus con la citazione del dio più gradito all’opulenta civiltà cristiana, la quale mutuandolo dal biblico re Melchisedek, millenni fa inserì durante lo svolgimento di in un rito questo felice quanto controverso prodotto della natura, a noi che è stato concesso di fare un tuffo nella Sicilia degli Avi, di inoltrarci tra i secolari boschi di querce e noccioleti, tra le fenditure delle pluri millenarie rocce di arenaria che si ergono come testimoni e in pari tempo custodi di storie umane e divine, piace credere che le rigorose divinità sicane, sorseggiando un rosso dell’Etna, osservino divertite, dalle antidiluviane vette dell’Orgale e della contrada Crasa’, luoghi fiabeschi del territorio di Castiglione di Sicilia dove esse si sono ritirate, gli ebbri Satiri al servizio di Bacco, inseguire per gli ordinati filari di viti che con sicura geometria attraversano i vulcanici pendii, le giovani Ninfe pigiatrici.

Ad maiora

Oceano ovvero la stirpe acquatica dell’Avo

Poiché la primordiale stirpe sicana affidava soltanto alla memoria, alla “forza della mente”, la propria perpetuazione spirituale e poiché il mito era la modalità attraverso la quale i nostri antichi progenitori rappresentavano la propria visione del mondo, a noi tocca tentare la decodifica di quella rappresentazione che gli Avi ci hanno tramandato utilizzando un linguaggio metaforico e plastiche allegorie. In questo breve saggio ci occuperemo del mito di Oceano, uno dei figli di Urano e, ancora una volta, nel corso dell’analisi sarà possibile constatare come una globalizzazione culturale informava le civiltà pre storiche che abitavano il pianeta. Sarà ancora possibile comprendere come attraverso l’onomastica, gli Avi intendessero veicolare interi concetti e tradizioni.

Etimologia del nome.

Il lettore avrà certamente riscontrato come spesso nell’onomastica si faccia esplicitamente riferimento, con orgoglio, alle proprie radici etniche. Ebbene, il nome Oceano non fa certo eccezione.
Nel mito greco, Oceano era figlio di Urano.
Ora, al ricercatore non sarà passato inosservato che entrambe i nomi sono formati con la radice An. Il sostantivo Ano, nella lingua antico alto germanico significa avo, antenato, nonno, ma anche cielo, sede degli antenati. Pertanto, se si scompone il nome della divinità marina secondo la lingua agglutinante tedesca, utilizzando la grammatica avremo la sequenza: ö-cened-ano. Chi ci ha seguito nelle ricerche dei significati etimologici attribuiti all’onomastica, ricorderà che Oannes era l’appellativo apposto dai Babilonesi agli uomini pesce, esseri questi, secondo il resoconto del sacerdote babilonese Berosso vissuto nel III sec. a. C., civilizzatori venuti dal mare occidentale. Gli Oannes venivano raffigurati nei bassorilievi mesopotamici come esseri per metà pesce e per l’altra metà del corpo uomini. Nella lingua sumera e babilonese acqua si scriveva ea; ignoriamo la fonetizzazione della sillaba, se non che si constata che nell’attuale lingua francese acqua si scrive eau e si pronuncia O. Non appare pertanto peregrina la tesi secondo la quale il prefisso O del nome Oannes indichi proprio l’elemento acqua. Per quanto riguarda il concetto di stirpe veicolato dal nome Oceano, si riscontra che in antico irlandese, il termine cenedl indica un gruppo umano accomunato da vincoli parentali. Del significato di ano si è già detto e dunque non ci ripeteremo. A questo punto si può azzardare una libera interpretazione del nome Oceano: scomposto in o-cenedl-ano, potremmo dedurre che esso fosse un appellativo per indicare una “stirpe di esseri acquatici” che, padroni dell’elemento acqua, si muovevano con grande padronanza in esso. Questa stirpe – cenedl- si riconosceva forse nel comune antenato – ano- il quale potrebbe corrispondere alla figura del dio mesopotamico Enki appellato Ea, cioè acqua. A corroborare questa intuizione afferisce la presenza di alcuni bassorilievi sumerici di tre o quattromila anni fa, in cui vengono rappresentati uomini che con l’ausilio di respiratori dalla forma di otri, esplorano i fondali marini. Ritorna utile alla nostra ricerca, constatare che filosofi dello spessore di Platone si siano interessati al mito del continente Atlantideo, sprofondato nell’Oceano.

Atlantide.

Il mitico continente sparito sotto i flussi del mare nel giro di una notte, secondo le notizie apprese dal filosofo greco del IV sec. a. C., e riportate dallo stesso in due suoi dialoghi, il Crizia e il Timeo, oltre che aver dato – o forse preso- il nome all’oceano che lo circondava, ha rappresentato un rompicapo per gli studiosi e ricercatori di tutti i tempi. Noi non ci occuperemo della veridicità del mito né faremo cenno ai reperti archeologici sottomarini ritrovati nell’area in cui si ritiene fosse sorto il mitico continente, né ci soffermeremo sugli studi condotti dai geologi che confermerebbero un innalzamento dei mari di 140 m. circa @lin seguito alla deglaciazione iniziata intorno al 10.500 a. C., innalzamento che ebbe come conseguenza l’inabbissamento di parte delle coste di terre emerse e la scomparsa sotto i fondali di intere isole, ma circoscriveremo la formulazione delle nostre tesi allo studio del significato che il mito intendeva veicolare e ciò grazie al contributo multidisciplinare.

La progenie dell’Avo.

Si è fatto sopra cenno al dio Enki, divinità mesopotamica, cosa che potrebbe apparire bizzarra se si volesse tentare un collegamento con Oceano, inteso questo sia come luogo geografico che, come affermato sopra, nome in codice per veicolare una storia comprensibile ad una cultura antidiluviana, etnicamente omogenea, che abitava allora il pianeta, e che si esprimeva per metafore. Per chiarire la nostra ricostruzione di fatti accaduti migliaia di anni fa, dobbiamo fare cenno alla gerarchia divina. In tutte le culture: mesopotamica, greca, romana ecc., le divinità occupavano un loro posto nella gerarchia divina, posizione che si traduceva in termini di potere oltre che di prestigio man mano che si saliva verso il vertice. La posizione occupata dal singolo dio nel Pantheon, veniva collegata ad un numero. Al numero assegnato alla divinità corrispondevano altrettanti nomi o appellativi. Nel caso della divinità mesopotamica Enki, il suo numero era il 40 che, come si è affermato, corrispondeva al numero dei nomi con i quali il dio era conosciuto. Dei quaranta appellativi, quelli che ricorrono con maggiore frequenza per indicare il Nostro, sono collegabili all’elemento acqua: Enki ed Ea. Il nome Enki è infatti composto dai lessemi En che nella lingua norrena significa uno, primo e Kiel che significa chiglia, parte importante di una imbarcazione, riconducibile per metonimia a nave. Dunque, l’appellativo Enki, ci racconta che il dio era considerato un abile navigatore: il primo, il numero uno sui mari, tanto da formare una unica cosa con l’acqua da essere appellato egli stesso acqua, Ea. In effetti, dalla traduzione delle tavolette sumeriche, emerge che il dio, dopo che il comando della terra era passato al fratello Enlil, si fosse dato all’esplorazione del pianeta attraversando i mari, giungendo fino in Africa. Tralasceremo in questa sede di raccontare l’odissea che il dio Enki avrebbe vissuto nel corso delle sue esplorazioni, navigando per i mari, e che, secondo le ipotesi esposte nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico” durante le quali avrebbe deciso, a motivo della biodiversità riscontrata nell’isola, di creare in Sicilia un laboratorio di biologia da cui sarebbero stati diffusi i risultati delle sue ricerche, per tornare al concetto di una globalizzazione della civiltà preistorica. Ma tornando al mito di Oceano, non si può qui evitare di gettare un ponte di collegamento tra il mito greco e il mito sumerico, in quanto Oceano potrebbe essere stato uno degli eredi di Enki emigrato verso occidente, come esporremo più avanti. Infatti, secondo quanto si legge nelle tavolette sumeriche, in quella parte intitolata dagli studiosi Epopea di Erra, a Marduk, il primogenito del dio delle acque, venne assegnato l’Egitto che dovette però abbandonare subito dopo a motivo dell’esilio a cui era stato condannato dal consiglio di dèi, accusato di aver provocato, sebbene involontariamente, la morte del fratello Dumuzil. In quella occasione il regno dei futuri faraoni passò momentaneamente ad un fratello di Marduk, Ningishzidda – Thot per gli Egiziani, Tehuti per i Greci, Teuto per i Germani e i Sicani. Tra i Sicani di Sicilia, nella città di Innessa, oggi Adrano, ritroviamo con questo nome un principe che governò la città nel VI sec. a. C. -. È ipotizzabile che nel regno egiziano, come avviene oggi per chi assume il vescovato nella religione cristiana, Ningishidda cambiò nome o gliene venne aggiunto uno nuovo, quello di Thot. Marduk, richiamato dall’esilio per intercessione dei suoi potenti consanguinei, ritornò in possesso del regno egiziano. A questo punto, una volta reinsediato Marduk al trono egizio, il fratello Thot, che si era ormai affezionato al ruolo di regnante e mal volentieri restituiva il regno, venne a propria volta inviato in esilio, oltremare, là dove fonderà un nuovo regno: Atlantide. Verosimilmente il nome con il quale Ningishzidda/Thoth, verrà chiamato nella nuova sede, sarà quello di Oceano, un appellativo in cui il sostantivo Ano diventa il denominatore comune per indicare coloro che appartenevano ad un medesimo ceppo familiare, quello a cui facevano parte i divini Urano, Oceano, Adrano, Jahno (Giano bifronte), Manno, Manu, Manitou, tutti nomi derivanti da Ano/u, dio citato nei testi sumerici ( Epica di Atra-Hasis) quale capostipite dei fondatori delle città mesopotamiche. Tra i discendenti di Anu potrebbero essere inclusi anche gli Anakiti, abitanti di parte della Palestina, citati nell’Antico Testamento e definiti appunto figli di Anak. Quanto qui dedotto trova una sua giustificazione anche grazie alle affermazioni di Esiodo. Il poeta, nel suo poema, Le opere e i Giorni, afferma infatti, che i figli di Oceano erano tremila, tra i quali figuravano i fiumi Nilo, Danubio, Po.. insomma tutti quei fiumi metaforicamente collegabili alla stirpe degli Indoeuropei: Egiziani, Germani, Italici… In tal modo verrebbe a giustificarsi anche il motivo per cui i Greci accomunavano il mare Oceano al mare Atlantico (Aristotile), identificandolo sempre col Mediterraneo Occidentale con il quale Oceano comunicava.

Dal diluvio alla covid 19.

È con sacro pudore che ci avviamo alla conclusione di questo excursus, accostandoci ad un argomento che apparentemente esula dalle iniziali intuizioni, rischiando così di sconfinare in un terreno scivoloso che potrebbe farci precipitare nella disistima di alcuni lettori. Facciamo pertanto appello a questi ultimi affinché vedano in noi la buona fede nella divulgazione delle ricerche operate.
Come è stato affermato più volte nei nostri articoli, citando il Vico, la storia è destinata a ripetersi ciclicamente, seppur si presenti con modalità diverse, adeguate ai tempi. Infatti, passando in rassegna lo svolgimento dei fatti odierni riguardo alla “pandemia” in corso, chi non intravede nelle modalità messe in atto per affrontarla un ripetersi di quelle messe in atto da divinità ostili al genere umano raccontate dai superstiti del diluvio? Il racconto sumerico della sommersione del pianeta, passato alla storia con il titolo di Epopea di Gilgamesh, poi fatto proprio da molte altre civiltà, descrive una catastrofe causata da fenomeni naturali, non provocata dunque dal volere divino come affermato nell’antico Testamento, e tuttavia dagli dèi conosciuta, cavalcata e nascosta agli umani affinché, il numero eccessivo di questi, ritenuto dagli dèi insostenibile per l’armonico procedere della vita nel pianeta, venisse sensibilmente ridotto.
Ma un dio compassionevole, Enki, biologo, il cui simbolo era quello di due serpenti che si attorcigliavano attorno ad un bastone, creatore del genere umano, costretto dal fratello Enlil appoggiato da un consesso di divinità, al giuramento di non comunicare ad alcun essere umano l’approssimarsi dell’evento catastrofico, trascorreva notti insonni, dilaniato dalla domanda se fosse giusto l’editto emanato dal congresso divino di annientare le sue creature. Giunto alla conclusione di quanto “disumana” fosse la determinazione divina, Enki pervenne all’idea di mettere in atto uno stratagemma che salvasse il genere umano senza venir tuttavia meno al giuramento rilasciato al divino consesso. Entrato dunque nella dimora dell’uomo più saggio della città di Uruk, Ziusudra, si pose di fronte a una parete dietro la quale si trovava l’uomo, e si mise a parlare alla parete, ma in modo che l’uomo potesse udire quanto egli diceva: “parete ho da dirti quanto segue… “, proferiva il buon dio, e raccontando quanto stava per accadere al pianeta terra, suggerì alla parete di mattoni di costruire una nave. Da esperto navigatore quale egli era, detto’ alla parete le misure e le tecniche di costruzione adatte affinché l’imbarcazione potesse resistere alle acque che da lì a poco si sarebbero abbattute sulle terre emerse e che avesse anche dimensioni tali da riuscire a contenere le specie botaniche e animali che potessero ripopolare il pianeta quando la catastrofe fosse cessata. Oggi non sono le acque del diluvio a minacciare il genere umano, ma un morbo, più o meno vero nella gravità della sua manifestazione. Esso, il morbo, si presta al medesimo ruolo che il diluvio svolse dodicimila anni fa: fungere da strumento per riorganizzare il pianeta. Ancora una volta, il motivo per cui gli “dèi” odierni, forse eredi di quelli dei tempi del diluvio, evocano un “reset” del pianeta terra, con la conseguente decimazione della popolazione, è rappresentato, a loro modo di vedere, dalla insostenibilità demografica.
E ancora una volta, il dio compassionevole che salvò, attraverso un escamotage, parte dell’umanità una prima volta, ripropone una seconda volta, attraverso modalità diverse adeguate ai tempi odierni, il medesimo sotterfugio, rivelando cioè, a registi, fumettisti, scrittori di romanzi, cantautori e artisti di vario genere, i piani degli odiatori del genere umano. Questi prediletti del dio, a loro volta, attraverso la produzione delle loro creazioni artistiche e letterarie: films, romanzi considerati di fantascienza etc. avviano la divulgazione in anticipo dei piani che gli odiatori del genere umano intendono mettere in atto. Il messaggio di salvezza diffuso attraverso le criptiche modalità sopra descritte, pur diretto a tutti gli individui, verrà purtroppo decriptato soltanto da pochi, tanto da rendere comprensibile il biblico messaggio secondo il quale “molti saranno i chiamati ma pochi gli eletti”.

Ad maiora.

I Sicani: La civiltà del Patriarcato

Prefazione.

Riteniamo necessario chiarire, in questo articolo, la posizione assunta dal prisco popolo dei Sicani riguardo a quell’atteggiamento dello spirito per il quale prestigiosi studiosi stabilirono se le società umane fossero fondate sul diritto paterno o quello materno.
Poiché lo studio qui esposto interessa più che i fatti storici una predisposizione dello spirito, costruiremo le nostre tesi sulla traccia dei simboli, dei riti, dei costumi fino a noi giunti numerosi e loquaci, e la dove fossero assenti le fonti storiche dirette, seguiremo il metodo dell’analisi interdisciplinare.
Sebbene siano stati sparsi numerosi indizi negli articoli da noi altrove pubblicati, che facevano riferimento alla visione del mondo incentrata sul diritto del padre nella società sicana, ci sembra, tuttavia, che il religioso pacifico atteggiamento del popolo sicano venga ancora interpretato come un pacifismo in una moderna era di stampo femminista. È pur vero che le civiltà ginecocratiche erano caratterizzate dall’assenza di discordie interne, ma se il disordine sociale non si manifestò nella società sicana siciliana, per lo meno fino al sopraggiungere nel VIII sec. a.C. dei rissosi e perfidi Greci, il motivo va ricercato, oltre che nella omogeneità etnica della popolazione isolana, nel saldo culto che aveva conformato la civiltà sicana. Il Pantheon sicano vedeva al vertice della scala gerarchica il padre degli dèi Adrano, il quale, aveva fatto del territorio siciliano quel laboratorio produttore di benessere, che avrà ancora in Federico II il fedele continuatore alchemico, capace di farsi eleggere re – di Gerusalemme– senza spargere una goccia di sangue. Ma di ciò è stato detto nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, a cui rimandiamo.
Ciò che ci interessa precisare in questa sede è che lo studio esposto non ha lo scopo di stabilire primati o promuovere una visione del mondo a discapito di un’altra, non è questo lo scopo che il ricercatore e lo storico si prefiggono, non noi, tanto che non ci soffermeremo sulla considerazione che l’epoca attuale, a nostro giudizio, stia assumendo sempre più i tratti di una condizione ginecocratica. Siamo invece convinti, che la coesistenza di entrambe le concezioni del mondo, rimanendo ognuna nell’ambito del proprio ruolo sia garanzia di equilibrio e armonia nella gestione del consorzio umano. Pertanto, certi che entrambe le visioni fossero armonicamente coesistenti nella vetusta società sicana fin dalla sua prima costituzione, riteniamo nostro dovere, in questo studio, fornire al lettore gli strumenti affinché egli, in autonomia, possa riuscire ad aprirsi una personale via di indagine, tenendo ben presente la problematica che pone lo studio di un periodo così lontano dal nostro.

Il Matriarcato.

Riteniamo che la parola matriarcato si debba intendere come un atteggiamento protettivo, conservatore, insito nella natura della madre, che accudisce e custodisce la propria prole, paurosa del cambiamento che con sé porta incertezze. La madre, per propria natura, teme il cambiamento, anche se questo potrebbe potenzialmente essere apportatore di benefici. Ogni novità, per la madre, è foriera di destabilizzazione del sereno, consolidato status quo. Su questa base, dunque, poggia la questione: tanto il matriarcato quanto il patriarcato, si identificano con un atteggiamento, una inclinazione dello spirito.
La questione non va posta perciò in termini di cromosomi. Immaginare come causa dell’affermazione del matriarcato il subentrare di atteggiamenti di mollezza ed effeminatezza assunti dal sesso maschile, sarebbe un errore. La mollezza, quale concausa, potrebbe essere soltanto l’aspetto più esteriore della decadenza interiore, della perdita di un centro di forza interiore che avrebbe dovuto esercitare un ruolo stabilizzante della propria identità. Ci sembra tanto vero quanto affermato che si può infatti notare nell’atteggiamento dei Cretesi dell’età del bronzo, guidati dal nerboruto re Minosse, come questo atteggiamento si conformi piuttosto ad una visione del mondo. Lo storico greco Erodoto, ci fa sapere, con suo personale sconcerto, che i Cretesi chiamavano “Matria” la Patria e che, al contrario dei Greci, onoravano le madri piuttosto che i padri. Lo storico di Agira Diodoro, ci porta a sua volta a conoscenza del fatto che, i Cretesi, giunti in Sicilia al seguito di Minosse, nel tentativo di rendere tributaria l’isola, sebbene venissero scoraggiati da questo tentativo dal re sicano Kokalo, dopo che Minosse era morto, rimanendo l’esercito cretese in Sicilia, fu concesso loro di fondare una città ove rendere onore alle madri. L’episodio citato dallo storico di Agira è tanto prezioso in quanto, tra le righe del racconto, lascia intendere come il culto delle madri non appartenesse al costume sicano, in caso contrario, infatti, non si sarebbe reso necessario che i Cretesi lo introducessero. Che la civiltà sicana si fondasse sul diritto paterno, e che questo perdurasse ancora fino a quando i Greci cominciarono a introdurre le tirannidi nell’isola, lo si evince da un passo della preziosa Biblioteca Historica di Diodoro Siculo. Lo storico narra che, dopo la battaglia di Himera del 480 a. C., Gelone, tiranno di Siracusa, per onorare gli Etnei, che con il loro contributo militare avevano deciso le sorti del conflitto a favore della coalizione greco sicula contro i Cartaginesi, fa costruire nella città di Etna, a proprie spese, un tempio dedicato a Demetra, che nella città mancava. Ricordiamo al lettore, che secondo le nostre ricerche, verificabili in quanto pubblicate, la città di Etna veniva rinominata nel 400 a.C, in Adrano.
Chiarito dunque il presupposto che non si aderisce al matriarcato o al patriarcato per una questione di corredo cromosomico, si deve ricercare il motivo di tale adesione in una affinità elettiva, dalla quale l’individuo viene spontaneamente attratto. Dopo tale premessa, e i postulati sopra elencati, spingiamo oltre la ricerca, col fine di tentare di comprendere a quale delle due visioni del mondo i Sicani aderirono.

Il Teonimo.

Premesso che della cultura sicana si conosce ben poco, avendo i Greci fatto tabula rasa delle fonti storiche e adattato i miti sicani alle proprie esigenze, stravolgendo i significati metaforici da essi veicolati, la nostra indagine deve necessariamente avvalersi della multidisciplinarietà e in particolare dello studio comparato dei miti e delle religioni. Riteniamo che lo studio della religiosità di un popolo sia molto importante per i fini che ci siamo dati in questo studio, poiché dalla sua comprensione si individuano i comportamenti sociali che di quella religione sono l’espressione. Pertanto, laddove non saremo in grado di consultare le fonti storiche per la loro assenza, chiameremo in causa il simbolo e il mito a cui spesso la stessa storia si rifà per risalire alle origini e ci affideremo all’interpretazione del significato dell’onomastica.

Significato di Sicano.

Il termine Sicano, oltre che indicare l’abitante dell’isola chiamata Sicania, cioè la Sicilia, indicava colui che orgogliosamente si riteneva progenie dell’Avo primordiale. Il sostantivo Avo, nella lingua sicana, secondo i risultati a cui siamo pervenuti attraverso gli studi della lingua parlata da questo popolo, da noi pubblicati su saggi e articoli, veniva reso con il termine Ano. In Sicilia il sostantivo sicano Ano, veniva preceduto dall’aggettivo odhr, cioè furioso. Sarebbe dunque sufficiente registrare la presenza del sostantivo Ano, cioè Avo, con cui si faceva riferimento al capostipite del popolo sicano, perché questo vetusto popolo, il primo che abitò la Sicilia, si possa assimilare alla grande famiglia degli Indoeuropei. La cultura di questi ultimi, infatti, era caratterizzata dal ritenersi gli eredi dell’Avo comune. La percezione di questo Avo comune, dalla Germania all’India, sotto l’influsso di adattamenti locali, veniva aggettivato dai Greci antico cioè ur: ur.Ano; percettivo o sensitivo dai Latini: jah.Ano (Giano bifronte); mentale dagli Indiani e dai Germani: mn.Ano, cioè Manu per i primi e Manno per i secondi da cui deriva l’etnico Alemanno; semplicemente Avo, Anu, dai Sumeri. Di più, il termine Sicano si spingeva oltre la semantica della genetica, esso intendeva esprimere, oltre al patronimico, grazie al pronome riflessivo sich, che significa sé, se stesso, che precede il sostantivo Ano, un concetto di consustanzialita’, volendo trasmettere una garanzia della continuità della stirpe e della tradizione atavica. Sopra si è fatto cenno al corrispondente teonimo romano: Jah.Ano, ovvero Giano bifronte, la citazione non è casuale, in quanto tornerà utile per le affermazioni che faremo più avanti. I Romani, che fondarono la propria civiltà sul diritto paterno, giunti in Sicilia nel 263 a. C., ebbero il primo scontro con la città di Adrano, la quale ospitava il grandioso santuario del dio eponimo. I Romani intuirono che il dio etneo era l’omologo del dio laziale Jah.Ano, un dio guerriero che Cicerone nelle verrine, anni dopo definirà “imperatore”, in quanto la statua da lui osservata a Siracusa riprendeva il dio sicano in atteggiamento marziale: armato di lancia, così come anche Plutarco (Vita di Timoleonte) l’aveva descritta quando nel 344 a.C., il dio siciliano aveva mostrato il proprio consenso al condottiero greco Timoleonte. La presenza del dio Sicano in Sicilia – Sicana era anche la divinità laziale- non può non accomunare la cultura Sicana di Sicilia a quella sicana del Lazio a cui fa riferimento anche Virgilio nell’Eneide e, dunque, alla civiltà di quei Sabini, che Cicerone, nel “pro Ligario” definiva “fortissimi viri” e romana, incentrata sul diritto paterno. Tra l’altro, l’affinità religiosa – e la religione conforma le civiltà– tra i Siciliani e i Romani, traspare dal principio di accoglienza e ospitalità che caratterizza anche il dio laziale, il quale, secondo il mito latino, condivise il regno con il transfugo dio Saturno fraternamente accolto. Lo stesso spirito di accoglienza lo si rinviene nell’atteggiamento dei regnanti siciliani quali furono Alcinoo, Cocalo, Iblone e l’infinita lista di altri ancora.

L’Avesta.

Nell’Avesta, il testo religioso dei Persiani, un documento per noi di estrema importanza, in quanto ci permette di comparare il dio creatore Haura Mazda con il dio sicano Adrano, si osserva come il dio di Zarathustra sia un dio che impone l’equilibrio, la misura, come del resto, l’etimologia del suo nome Mazda derivante dal germanico – in tedesco Maß, Mass significa misura-, lascia intendere. La religione mazdea, fondata sul diritto del padre, si oppone dunque a quello della madre in cui, la natura femminile, difficilmente trova un proprio punto di equilibrio e di misura, passando dal matriarcato alla ginecocrazia per finire agli estremi dell’innaturale amazzonismo. La posizione mazdea sul patriarcato ci appare così in linea con quella sicana, che essa poté esprimersi perfino attraverso la medesima lingua (vedi il saggio: “Il Paganesimo di Gesù” gratuitamente fruibile attraverso il sito www.miti3000.eu). Infatti, nello Yast zamyad del testo vedico, descrivendo l’origine delle montagne, fra quelle elencate ne figura una che porta il nome di Adarana. In un’area geografica europea, il nome Adrana veniva dato dai Germani al fiume che oggi si chiama Eder (da odhr furioso). La presenza dello stesso nome apposto a molti fiumi sia in Persia che in Germania, come in Spagna e in Sicilia, non deve stupire il lettore, dal momento che Erodoto citava la presenza di tribù germaniche in Persia al tempo di Ciro. Germani, Persiani e Sicani condividevano dunque sia la lingua originaria che la visione del mondo.

Discendenza Patrilineare.

La conseguenza di quanto sopra affermato, cioè l’identificazione del Sicano con il proprio Avo, determinato dal pronome riflessivo sich, sé, se stesso, contraddicendo gli studiosi che sostengono tesi opposte alle nostre, ma che nei decenni precedenti si sono affermate non tanto per le prove da essi apportate, ma per l’autorevolezza di chi sosteneva quelle tesi, fa del Sicano il più eminente rappresentante della famiglia indoeuropea, in quanto la successione veniva garantita per via patrilineare. Il Pantheon sicano non sembra essere affollato da un numero caotico di divinità che caratterizza la civiltà ginecocratica di altri popoli, esso si basa sulla triade divina: la famiglia, composta dal padre, dalla madre e dai figli, che in Sicilia in numero di due, gemelli, espressero il concetto di complementarietà di forze apparentemente opposte.
È vero che non possiamo attingere a fonti dirette che attestino quanto sopra affermato, tuttavia, frammenti di letteratura che ripropongono alcuni miti Sicani, seppur rielaborati in chiave greca, quale è quello de “Le Etnee” di Eschilo, ci autorizzano ad azzardare quest’ultima ipotesi. Nel mito sicano sopra citato, rielaborato da Eschilo, la successione non accenna ad una via matrilineare come accadeva, per esempio, per i Lici, tra i quali la figlia aveva una preminenza sul figlio; la sorella sul fratello, anzi, l’eredità femminile, nel caso del mito sicano dei gemelli Palici figli di Adrano, è completamente assente e le due forze che si oppongono l’una all’altra, scaturite come forze equilibratrici, emanazione della forza uranica del padre, a beneficio della discendenza umana, a differenza del mito greco dei gemelli divini Apollo/Artemide o di quello sumero Utu/Innanna e altri ancora, sono entrambi maschie.
La presenza in Sicilia di principi sicani, di estrazione aristocratica, a capo delle città stato dell’isola, dall’età del bronzo fino a quella greca, citati dagli storici greci, non lascia dubbi circa la gestione olimpico virile della società sicana. La citazione da parte di Polieno dell’antronimico Teuto, principe sicano, vissuto nel VI sec. a. C. – – vittima della perfidia del tiranno greco Falaride-, primus inter pares nella città di Innessa, poi rinominata Etna come afferma Diodoro siculo e infine Adrano come emerge attraverso le nostre ricerche, induce a pensare che la gestione della propria comunità, avesse da parte del principe Teuto una connotazione paternalistica; infatti, l’appellativo teuto significa padre del popolo. Il nome Teuto era frequentissimo fra i regnanti indoeuropei: Teuta era infatti il nome o l’appellativo della regina degli Illiri; Teutomato quello del re dei Galli Ambrogeni ecc. I re sicani, – compresi quelli del Lazio della prima ora, dei quali facevano probabilmente parte Latino e successivamente Numa- venivano scelti per le loro virtù e queste virtù erano garanzia del loro futuro operare a beneficio del popolo. Il re era altresì garante del mantenimento dell’armonia universale, rinvenibile ad Adrano e a Sumer nel simbolismo del numero otto, ad Adrano anche attraverso le spirali incise su capitelli di basalto esposti nel museo cittadino. Anche Thot, Theuth per i Greci, la divinità egiziana equivalente alla greca Ermes, elargiva gratuita conoscenza al proprio popolo. Dunque, il titolo di Theuth, padre del popolo, è collegabile al latino Tito, che nella sua forma originaria ebbe il significato di genio, come si evince dalla iscrizione cumana “Tito Sanquvos”, genio Sancus. Le incisioni rupestri della Val Camonica, a sua volta, si lasciano collegare a quelle svedesi di Tanum in Svezia. Nelle incisioni rupestri della Val Camonica, così come in quelle svedesi di Tanum, sono del tutto assenti figure femminili, mentre abbondano quelle maschili che brandiscono asce bipenne o sollevano ruote solari.

Il principio olimpico virile nel simbolismo dei Sicani.

Simbolo solare. Adrano.

Nell’ambito del simbolismo utilizzato dal popolo sicano, in Sicilia l’astro luminoso, cioè il sole, ebbe un ruolo di centralità, al punto che fra i tanti toponimi apposti all’isola figura anche quello di isola del sole, abitata dai figli del sole cui fa cenno Apollonio Rodio. Fin dal Paleolitico, come dimostrano i numerosi reperti (rocce bucate) per la celebrazione del solstizio e che sono stati definiti calendari solari, sparsi per il territorio isolano, il culto tributato al sole fu centrale nella cultura sicana. Questa civiltà, come si evince dal simbolismo adottato, paragonava la fissità dell’astro all’ideale uranico di immutabilità, incarnato dal padre, in opposizione alla mutevolezza della luna, collegata alla donna. Le espressioni lessicali sicane

Simbolo solare. Adrano
Simbolo solare

utilizzate nelle iscrizioni funerarie ritrovate ad Adrano non lasciano spazio a dubbi circa la visione olimpica che questo popolo aveva del mondo. Le epigrafi fanno sempre riferimento ad un regno del sole, che il defunto avrebbe dovuto raggiungere. Il regno di luce a cui si fa riferimento nei tegoli, così come in iscrizioni adranite riconducibili a formule rituali di iniziazione ai misteri, era il luogo in cui si trovava anche la sede di Ano, cioè, il regno della luce coincideva con il regno dell’Avo.
Infatti, il lemma An, che significa antenato, era sinonimo di cielo, motivo per cui il re, che dell’Avo celeste era la trasposizione terrena, veniva appellato figlio del cielo – in Giappone il titolo viene ancora utilizzato nei confronti dell’imperatore-. Un ricordo della cultura ancestrale che fa derivare l’uomo dal Padre Cielo, lo si ritrova pure nell’Antico Testamento. Dunque, era in torto Erodoto a meravigliarsi del fatto che i Cretesi chiamassero matria la patria, poiché essi erano nel giusto quando accostavano la terra alla donna, poiché l’antica patria dell’uomo fu considerata non la terra, ma il cielo e ad esso egli ambiva a fare ritorno.

Il Simbolismo attribuito al numero nella cultura Sicana.

Tavoletta mesopotamica. La croce richiama per stile le croci rinvenute nel territorio adranita

Come sopra affermato, per comprendere al meglio la cultura sicana, mancando le fonti dirette degli storici del tempo, dobbiamo ricorrere alla multidisciplinarietà e alla comparazione con i popoli affini. Uno dei popoli con i quali i Sicani condividevano conoscenze e tradizioni mitiche è quello dei Sumeri. Presso questo popolo, il quale adottava per il proprio antenato divinizzato lo stesso sostantivo utilizzato dai Sicani, Anu, all’Avo veniva attribuito il numero sessanta, che nella scala sessagesimale adottata dai Sumeri rappresentava il vertice del Pantheon.

Oggetto non catalogabile. Rinvenuto nel territorio adranita. Il n. 8 e lo stile con cui è stata realizzata la croce riconduce ad un simbolismo in uso anche in Mesopotamia.
Simbolo solare nel pavimento di una tomba a grotticella. Castiglione di Sicilia.

Il pittogramma che indicava il dio sumero Anu era un sole con otto raggi. Il Pantheon sumerico era formato da dodici divinità il cui numero doveva rimanere immutato, sebbene gli dèi che ne facevano parte potessero alternarsi.
La sposa di Anu, Antu, seguiva la scala numerica con il numero cinquantacinque; cinquanta era il numero assegnato al primogenito di Anu Enlil, destinato a regnare dopo il padre, e quarantacinque era il numero che contraddistingueva la di lui consorte, e così via fino all’ultima delle dodici divinità.
Come si può dunque constatare, il vertice veniva sempre occupato da una divinità maschile, mentre quella femminile veniva a trovarsi in uno stato di subalternità. .

Il Simbolismo della Trinacria.

La più antica rappresentazione delle tre gambe, ritrovata in Sicilia, il cui nome Trinacria significa le tre forze dell’Avo o del Cielo, è quella di Palma di Montechiaro. La Trinacria di Palma di Montechiaro è caratterizzato dall’aver un apparente senso rotatorio che va da destra verso sinistra, dettato dalla posizione dei piedi. Ora, nell’ambito simbolico, la destra corrisponde al simbolismo attivo, virile e uranico della natura. La suddetta Trinacria, dipinta su un piatto del XII sec. a.C., forse proveniente dalla reggia del re sicano Kokalo, ha ,dunque, lo stesso andamento apparente del sole, simbolo questo, è il caso di ricordarlo, associato alla componente virile, all’uomo. Anche la scrittura sicana aveva il medesimo andamento. Nella cultura indoeuropea, tutto ciò che proveniva da destra, aveva un valore augurale, rappresentava, cioè, un segno di benevolenza divina. Quanto affermato per la Trinacria vale pure per la svastica dipinta su un vaso esposto nel Museo di Caltanissetta.

Le Veneri del Paleolitico.

Il territorio adranita, a motivo della costruzione del tempio dedicato dai Sicani al capostipite Adrano, rappresenta il fulcro degli studi per la comprensione della religione sicana, in quanto, quale nucleo religioso isolano, grazie alla presenza della casta sacerdotale, le tradizioni ataviche si conservarono più a lungo che altrove. L’ampio territorio adranita, rappresenta altresì il centro più importante per gli studi preistorici in Sicilia, ciò grazie ai numerosi reperti dell’epoca ivi ritrovati. Dall’altro lato, a nostro parere, gli studiosi non si sono sufficientemente soffermati sul significato simbolico tracciato dalle pitture vascolari, liquidato semplicisticamente come decorazioni. A nostro avviso, questi manufatti trasudano, attraverso la simbologia espressa, la weltanschauung di cui ci stiamo occupando in questa sede. Le numerose asce martello, ritrovate nelle grotte laviche utilizzate come luoghi di sepoltura dal periodo Paleolitico al Neolitico, ricavate dal duro basalto lavico, alcune maneggevoli, di media grandezza, utilizzabili come arma di difesa e di offesa, non lasciano spiegazione alla presenza di altre asce martello di pietra di enormi proporzioni, non facilmente maneggevoli per uomini di media statura. È nostro parere che nel secondo caso, ci si trovi in presenza di asce utilizzate a scopo rituale – i patrizi latini durante il rito del matrimonio, usavano sacrificare un maiale colpendolo con una ascia di pietra–, la loro presenza testimonia, forse, la volontà di sottolineare che si faceva parte di una civiltà che fondava sulla forza e sul diritto virile la propria civiltà. Per lo stesso motivo asce giocattolo si depositavano in tombe di bambini, ritrovate in Svezia. Lo stesso dicasi per il considerevole numero di corna preistoriche riprodotte con argilla cotta, esposte nel museo adranita. Le corna simboleggiano la forza incontrollabile del toro, simbolo fatto proprio dai tiranni greci, ed è anche simbolo di virilità. Nessuna traccia di matriarcato è stata trovata nel territorio adranita, sono assenti gli idoli femminili, nessuna venere preistorica da venerare nel vasto territorio adranita che ospitava il santuario dell’Avo, progenitore della stirpe sicana. Non si è rinvenuto nel territorio dell’Avo, durante i numerosi scavi effettuati, nessun riferimento universalistico di tipo matriarcale che accenni a comunità promiscue; anzi, più in dietro si va nel tempo, più i reperti archeologici ritrovati testimoniano la presenza di una civiltà improntata sul principio della forza spirituale paterna, ostentata, perché no, anche attraverso simboli che, come le grandi asce martello, esprimevano la superiore forza fisica, garanzia di successo e stabilità.

Sepolture.

Particolare di un pithos con croci potenziate. Museo archeologico di Adrano

L’ascia martello, il simbolismo della croce nella duplice forma potenziata e a bracci che si allargano all’estremità, la sequenza di rombi che si susseguono prendendo la forma di serpi intrecciate che richiamano la sequenza del dna; tutti questi aspetti simbolici presenti nella tomba di quello che certamente doveva essere un nobile capo villaggio del IV mill. a.C., rinvenuta ad Adrano, sono intimamente connessi tra loro e tradiscono l’aspetto patriarcale della gestione della comunità sicana.

Ruota del sole su capitelli lavico in arte sicula. Adrano.

Colpisce in particolare la presenza della croce, che trova una forte analogia con le croci rinvenute in Mesopotamia. Lo studioso Zachariah Sitichin si è spinto ad interpretare questo simbolo ritrovato nell’area mesopotamica, in termini astronomici, indicante l’incrocio di pianeti.Certo è che lo studio degli astri era in Mesopotamia una pratica consueta ed importante, non c’è motivo alcuno per non considerarla tale anche nella terra sicana, taluni indizi, come la presenza dei simboli solari della ruota raggiata, le spirali, la svastica, i cerchi incisi nella

Ruota del sole in una sepoltura svedese.

pietra arenaria da noi rinvenuta, i calendari solari, il megalitismo, lo lasciano pensare. Abbiamo ritenuto che la Sicilia fosse un “crocevia” importante battuto da sempre da eroi di ogni età : Greci, Troiani, Cretesi; vi fecero scalo gli Argonauti, semidei come Ercole, Enea, Minosse, eroi come Ulisse.. Mito o no, i racconti afferiscono all’idea che la Sicilia rappresentasse nell’immaginario collettivo un luogo in cui bisognava recarsi per conseguire qualcosa che ancora ci sfugge.

Conclusione.

Quanto esposto sopra potrebbe far pensare alla forzatura narrativa di un ricercatore che, innamoratosi della tesi esposta, tenta di cancellare ogni forma di presenza matriarcale nella civiltà sicana, pur avendo sostenuto in principio la necessità di una compresenza equilibratrice delle due visioni del mondo. Ebbene, rassicureremo il lettore accennando alla presenza del culto tributato alla dea Hibla o Etna e di un principe sicano di nome Iblone che riteniamo essere stato un probabile sacerdote di questa divinità femminile in quanto, questo principe sacerdote incarna i tratti tipici del matriarcato: accoglienza dei profughi guidati da Archia per i quali fonda addirittura una città (vedi articolo: “La Sicilia preellenica: i Feaci e la fondazione di Sicher-usa (Siracusa)”, mostra compassione, è fondatore di numerose città intitolate alla dea (Hibla Major, Hibla Gereatis, Megara Hibla ecc.). La politica dl principe sacerdote Iblone dimostra che il culto della madre ebbe la sua importanza anche in Sicilia, terra feconda e generosa, equiparabile al grembo materno. Tuttavia, oltre agli importanti misteri di Demetra, celebrati ad Enna, dimora della dea, il culto che nell’immaginario collettivo sopravviverà fino all’avvento del dio dei cristiani, e che manterrà vivo tutto il proprio carisma, sarà il culto tributato all’avo Adrano, divinità che i Romani temettero ed equipararono al loro Avo primordiale Jah.Ano (Giano bifronte). Cicerone, come già affermato sopra, fa ancora cenno all’epoca sua, alla divinità indigena Urio, cioè l’antico, il cui tempio si trovava anche a Siracusa e dove si recavano i pellegrini Siculi provenienti da tutta la Sicilia, così come avveniva ad Adrano nei confronti del dio eponimo, tanto che si dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che Urio, l’antico, fosse uno dei tanti appellativi utilizzati per indicare l’avo primordiale o antico Adrano.

Ad maiora.

Sicania: Le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico

Premessa.

Leggendo le opere di alcuni storici antichi, di Omero piuttosto che di Apollonio Rodio, si ha la sensazione che questi ispirati autori raccontino gli eventi come se il loro svolgersi fosse osservato dall’alto, come se potessero dominare l’intero campo d’azione sul quale gli eventi raccontati si svolgevano: Omero lo sterminato campo di battaglia in cui si scontravano gli Achei con i Troiani, talche’ potesse osservare contemporaneamente la fuga di Enea e dall’altra estremità della sterminata pianura il bellicoso Aiace Telamonio fare strage di nemici; similmente, Apollonio, da sopra una nuvola, poteva osservare la nave Argo che veleggiava dalla Colchide alla Sicilia facendo scalo qua e là.
La medesima sensazione si prova osservando antiche carte nautiche, come la famosa mappa di Piri Reis che riprende le coste dell’Antartide priva dei ghiacciai che oggi le rende invisibili. Ebbene, nel gioco letterario che abbiamo intrapreso con i nostri lettori, abbiamo provato a staccare lo spirito dal corpo, immaginando che, vagando libero per l’aere, potesse guardare al mondo globale; vi abbiamo visto uomini e dèi interagire parlando un unico linguaggio, un linguaggio ancora in uso, e tuttavia compreso da pochi.

Le  Divine Ambasciate.

Quanto ipotizzato negli articoli precedenti, frutto di studi che vedevano nell’utilizzo della multi disciplinarieta’ l’inevitabile strumento di lavoro, ha fatto emergere che la Sicania, la terra di proprietà dell’Avo primordiale Anu, fosse stata scelta per essere la sede, diciamo così, delle ambasciate divine e, dunque, preservata da conflitti bellici che, invece, trovavano nel vicino Medio Oriente il proprio privilegiato campo d’azione. Le guerre cola’ combattute dal IV fino al II millennio a.C., quella di Arappa nella valle dell’Indo, la sumerica in Mesopotamia, la vedica in India ecc. furono talmente violente da cancellare intere città come Moenjo Daro, Sodoma, Gomorra e distruggerne altre come Gerico ecc. Posta la questione in questi termini, il lettore potrebbe trovare esagerato tale scenario se i ritrovamenti archeologici delle suddette città non confermassero tali affermazioni. Tralasciando di citare i testi sacri appartenenti alla tradizione di molti popoli, che parlano di guerre apocalittiche combattute da eserciti antidiluviani con l’ausilio di tecnologie tanto evolute quanto sconosciute – i vimana e il bramastra indiani-, ricordiamo al lettore che pone la sua fede soltanto al servizio della scienza moderna, che gli antropologi, sulla base del DNA estratto dai fossili di ominidi ritrovati in diverse aree geografiche del pianeta, hanno tratto le conclusioni che la terra sia stata popolata da almeno cinque razze di esseri umani e quella dell’ Homo Sapiens, a cui noi apparteniamo, sia l’unica ad essere sopravvissuta. Ora, noi, memori di quella rivoluzione copernicana che seguì ai roghi combinati da chi riteneva di possedere le certezze scientifiche o fideistiche nei confronti di tesi opposte alle loro, rivelatesi quest’ultime successivamente esatte, abbiamo scelto di rimanere laici di fronte alle tesi esposte dai così detti eretici, lasciando che siano le prove apportate dai sostenitori di tali tesi a fare si che siano accolte o respinte. Al momento, non è possibile escludere la possibilità che fra le quattro razze umane estinte, catalogate dagli studiosi, una di queste potesse aver raggiunto una evoluzione tecnologica talmente avanzata da essere in grado di costruire quei manufatti archeologici che noi oggi, nonostante le moderne tecnologie, non saremmo in grado di riprodurre (si consiglia di leggere il libro di Marco Pizzuti “Scoperte Archeologiche Non Autorizzate”). Ma torniamo alla ricostruzione che tenteremo di realizzare in questa sede sulla base della consultazione delle fonti sumeriche, fonti che utilizzeremo per comparazione essendo stato appurato ormai, che i Sicani e i Sumeri, erano rami dello stesso albero. Riteniamo che la Sicilia, mentre si combattevano guerre cruente in Medio Oriente, continuasse ad essere quel paradiso terrestre abitato da divinità legate tra loro da vincoli di parentela, tanto che nessuno tra gli storici antichi ha mai narrato di episodi di guerre intestine in seno all’isola combattute tra i popoli che l’abitavano. La pax deorum, dovette prolungarsi fino all’arrivo degli infidi Greci, in epoca relativamente recente, nel VIII sec. a.C., tanto da far presumere veritiera l’affermazione riportata nei testi vedici, secondo la quale il mondo, in illo tempore, venne suddiviso in quattro parti, tre abitate dagli uomini, la quarta, a occidente, abitata dagli dèi. L’ipotesi che questa quarta parte comprendesse il bacino del Mediterraneo e le sue isole, e che il suo epicentro fosse ubicato in Sicilia, potrebbe essere suffragata dalla tradizione tramandata fino al tempo di Cicerone che spinge l’oratore romano ad affermare che la Sicilia era ritenuta una terra abitata da dèi. Infatti, è stato da noi altrove supposto, che il dio mesopotamico Anu, appellato dai Sicani, in Sicilia, furioso, odhr, avesse posto la propria reggia, chiamata Aenna nella lingua sumerica, proprio nella citta’ siciliana di Enna, la quale è ubicata al centro dell’isola, mentre il tempio a lui dedicato, costruito fra le eterne lave di basalto, riteniamo affondasse le sue solide fondamenta alle falde dell’Etna, nella acropoli della città di Innessa, successivamente rinominata Etna, come afferma Diodoro Siculo, e in ultimo Adrano, come risulta dai nostri studi. Le divinità, in numero di dodici, come prevedeva il Pantheon dei popoli indoeuropei di cui i Sicani facevano parte, avevano scelto ognuno la propria sede in un luogo della Sicilia a loro congeniale: Eolo, l’Enlil sumero, aveva gettato le fondamenta della sua dimora nell’isolotto di Lipari e governava l’arcipelago delle isole che da lui prese il nome di Eolie; Urio/Enki/Poseidone conduceva i suoi esperimenti su tutto il territorio isolano, ma, fra le città candidate ad ospitare il suo tempio laboratorio, ci sarebbe la città di Innessa per i motivi spiegati nell’articolo “Come Adrano divenne la sede dell” Avo”.
La presenza della triade divina in Sicilia, Anu, Enlil, Enki, il primo padre dei due fratellastri, si trasformò, forse, in Sicilia nella espressione istituzionale per eccellenza, percepita dai Sicani come la più importante in assoluto: la famiglia. E dal momento che i testi sumerici parlano delle visite terrene di Anu in compagnia della divina consorte Antu, la divina famiglia siciliana sarebbe stata formata da Ano, da Antu, corrispondente forse alla dea siciliana Hibla e dai due fratelli, Enki ed Enlil appellati Palici dai Sicani, cioè i Signori. La presenza della triade divina, padre-madre-progenie, fece sì che la Sicania, ovvero la terra di Ano, godesse della pax deorum di cui si è detto sopra, e che l’isola fosse appellata anche Trinacria, ovvero le tre potenze del cielo. Noi supponiamo che le tre potenze a cui faceva riferimento il toponimo Trinacria, corrispondessero ai ruoli istituzionali assunti dai tre componenti maschili della famiglia divina. Infatti, le tre divinità maschili: Anu-Enlil-Enki, ovvero Adrano e i Palici, la cui centralità culturale non può dare spazio alla presunta civiltà matriarcale attribuita ai Sicani, ma a questo argomento dedicheremo un articolo a parte, si erano spartiti il dominio dei cieli, della terra e delle acque. Il cielo, che era toccato ad Anu/Adrano andrebbe inteso come luogo in cui dimora il potere assoluto, su tutti i piani: fisico e metafisico; Enlil/Eolo esercitava il suo potere sullo spazio, inteso come un luogo interposto tra il cielo e la terra. A Enlil spettava anche il comando sulle sorti del pianeta, mentre il dominio dell’elemento fluido era talmente connaturato ad Enki/Poseidone, da essere soprannominato egli stesso Ea, che nella lingua sumerica significa acqua, eau nella lingua francese, O in quella babilonese da cui facciamo derivare il nome delle divinità che avrebbero portato la civiltà a Babilonia, divinità che il sacerdote Beroso chiama O.anes, cioè gli antenati venuti dal mare o dall’acqua. Anche il nome Enki, che dai sumerologi è stato tradotto come, colui che comanda sulla terra (ki), da noi è stato supposto che si riferisca invece al suo primato sui mari, quale infaticabile navigatore; infatti, Ea viene descritto nei testi sumerici sempre a bordo di una nave alla ricerca di novità. Di conseguenza facciamo derivare l’appellativo enki dall’unione dei lessemi en, che nella lingua norrena significa uno, primo (ein in tedesco) e Kiel, la chiglia, che per metonimia indica la nave tutta. L’equivalente troiano dell’appellativo sumero en.kiel sarebbe stato quello di Enea: En primo ed Ea acqua, il primo nell’acqua, il migliore; Enea potrebbe forse aver coperto il grado di ammiraglio della flotta troiana che: “per viltà dei padri” , come fa dire Omero ad Ettore nel suo poema l’Iliade, non poté esprimere le proprie capacità nautiche. Ma torniamo alla Sicilia del periodo felice.

Museo archeologico di Adrano. III millennio a.C.

Riteniamo, per i motivi che verranno addotti durante il percorso dell’indagine, che intorno al duemila a.C. si consumarono sulla terra alcuni sconvolgimenti che resero necessaria una rimodulazione socio politica nell’area del Mediterraneo e nella affine società mesopotamica.

Essendo le fonti letterarie riguardante il secondo millennio a.C. inesistenti in Sicilia, ci avvaleremo della interpretazione del simbolismo

Ruota del sole su capitello lavico in arte sicula.  Museo archeologico di Adrano CT

riprodotto sulla ceramica adranita del III e II millennio a.C., oltre che, per comparazione, alla mitologia e alle fonti sumere. Le fonti letterarie del periodo qui indagato sono state ritrovate numerose in Mesopotamia. Esse, tradotte dai sumerologi, si prestano, grazie alla comparazione, ad essere utilizzate per tentare una lettura del periodo storico siciliano qui indagato. Il collegamento principale tra la Sicilia e la Mesopotamia, a cui abbiamo fatto più volte riferimento, è rappresentato dal teonimo Anu, il cui pittogramma era rappresentato da otto cunei che si dipartivano da un

Simboli all’interno di una tomba di Kivik in Svezia
Oggetto di ceramica del IV mill. a.C. rinvenuto a Susa

punto centrale. Riteniamo che il nome Anu sia diventato in seguito un titolo adottato dai principi preposti al comando, paragonabile al titolo di Cesare per gli imperatori romani e poi per i regnanti delle nazioni europee che si susseguirono. Anu, che letteralmente significa avo, antenato, nonno, è altresì sinonimo di cielo. Pertanto, tutte le volte che si incorre nel lessema Anu, per il significato che occorre fargli assumere, bisogna tenere conto del contesto dell’argomento trattato.

Le rissose divinità della seconda generazione.

Sostenevamo sopra che, alla fine del III millennio a.C., l’assetto sociale nel bacino del Mediterraneo cominciava a destabilizzarsi. Nuove divinità, dèi di seconda generazione, figli e nipoti della triade divina che aveva garantito la stabilità del potere in Occidente fino a quel momento, cominciavano a sgomitare per ottenere un regno tutto proprio. Marduk o Baal, il Signore, manifestava insofferenza per il suo destino, segnato dalle regole basate sulla ereditarietà del regno, per cui era destinato ad una eterna sudditanza nei confronti dei cugini, giudicati militarmente e politicamente meno capaci di lui. La sua insofferenza cresceva ancora di più, nel constatare che suo padre Enki (forse appellato Urio dai Sicani, e forse identificabile con il dio locale citato da Cicerone, la cui statua venne osservata nel tempio di Siracusa), lo scienziato che deteneva i poteri, i Me, di cui si è parlato negli articoli precedenti, nonostante fosse il primogenito di Anu dovesse essere subalterno al fratellastro Enlil. Enki/Urio/Poseidone, però, suo malgrado, rimaneva rispettoso delle leggi ancestrali, emanazione della saggezza degli Avi. Queste leggi stabilivano che l’erede al trono fosse non il primogenito, quale era Enki, ma colui che era nato dal rapporto avuto dal re con la propria sorellastra, a motivo di leggi d’ordine genetico ancora non chiare agli scienziati contemporanei e mai chiarite dagli storici antichi. Dunque, la discendenza regale di Anu camminava lungo la sequenza cromosomica di Enlil/Eolo. Marduk/Baal, intendeva però sovvertire le regole, introducendo quella che oggi noi definiremmo la meritocrazia. Così, il giovane principe, rampollo particolarmente amato da Enki/Urio/Poseidone, come testimonia il contenuto dei dialoghi tra padre e figlio impresso nelle tavolette di argilla, rinvenute in Mesopotamia, dette inizio alla propria scalata al potere. Le ambizioni dei suoi cugini, figli di Enlil/Eolo, non erano certo da meno; non lo erano quelle della vispa cuginetta Innanna/Proserpina e di tanti altri ancora. Anzi, a motivo dei matrimoni tra consanguinei, erano ostili a Marduk/Baal anche alcuni dei suoi fratelli, i quali, avendo sposato le figlie di Enlil/Eolo, erano entrati a far parte del diritto di successione dinastica . Insomma, durante la seconda e terza generazione divina, le questioni politiche tra gli dèi erano arrivati a una situazione disperata, di rottura senza possibilità di ritorno, tanto che i piccoli espedienti intrapresi dalle divinità minori, come quello di Innanna/Proserpina, concretizzate nel furto dei Me, i non meglio definiti poteri, custoditi da Enki/Urio, o il blitz di Jasone che porto’ via il vello al re della Colchide Eeta, e altre piccole scaramucce raccontate dai poeti greci successivi, presero una piega così pericolosa, da trasformare le rappresaglie in una guerra totale, con il risultato che vennero cancellate, come detto sopra, città con le rispettive civiltà.

I prodromi del mutamento sociale nella terra degli Dei: La Sicilia.

Da quello che emerge attraverso le interpretazioni mitologiche da noi tentate, l’ascesa al potere di Marduk riguardava soltanto l’area mediorientale, essa si arrestava nelle coste cananee della Palestina, non osando il dio di imbarcarsi nel mare siciliano, come Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, soleva definire il Mediterraneo. Le acque di questo mare fungevano da solco invalicabile, da confine primigenio interdetto alle contese. Un indizio che sancisce la inviolabile neutralità della Sicania, crediamo di averlo riscontrato grazie ai toponimi Assoro, in provincia di Enna e di Belice, da Baal, Signore, uno dei cinquanta appellativi dati a Marduk. Infatti, nonostante quest’ultimo si fosse imposto cultualmente e militarmente in Mesopotamia, soltanto gli Assiri, irriducibili avversari di Baal/Marduk, riuscivano ancora a contrapporre il loro dio Assur. Ebbene, Assur, ovvero Assoro, e Baal, ovvero Belice, città siciliane in cui le due divinità venivano onorate, non fecero registrare negli annali della storia siciliana, dissapore alcuno, in Sicilia, nelle loro dorate ambasciate, potevano sostenere soltanto scaramucce diplomatiche.
La terra di Sicania, grazie alla presenza in loco delle dodici residenze divine, si teneva dunque lontana dai conflitti armati, era questa considerata, terra neutrale. Le guerre, come sopra affermato, si combattevano violente, senza esclusione di colpi, in Medio Oriente; i partecipanti ai conflitti orientali, a loro volta, inviavano tutt’al più, ambasciatori in Sicilia (Argonauti), oppure arrivavano nell’isola esuli (Spartani, Greci, Cretesi) stremati, reduci delle guerre combattute in Oriente; vi trovavano asilo perseguitati politici come Dedalo ecc. Se qualcuno osava avvicinarsi all’isola divina con cattive intenzioni veniva subito messo fuori gioco, come accadde al temerario Minosse e al suo poderoso esercito. Tuttavia, il tentativo da parte del re cretese di invadere l’isola lascia comprendere come i tentativi di Marduk/Baal di sconvolgere l’ordine costituito, avevano comunque, in un mondo ormai globalizzato, creato un precedente; avevano provocato una lieve crepa nello scudo protettivo siciliano. La rottura con le tradizioni, perpetrata da Marduk, potrebbe considerarsi un precedente che incoraggiava i successivi tentativi di invasione, a iniziare da quella di Minosse, a cui seguì quella greca nell’VIII sec. a.C. Le mire egemoniche di Marduk, che avevano avuto parzialmente successo in Medio Oriente con l’assoggettamento di Babilonia, sono cronologicamente collocabili intorno al 2000 a. C., epoca in cui assistiamo alla sostituzione del culto tributato ad altre divinità mesopotamiche con quello tributato a Marduk. Il V sec. a.C., rappresenta una ulteriore svolta per l’assetto geopolitico e per quello mediorientale in particolare. Infatti, nel 539 a.C. Babilonia cadde sotto l’egemonia persiana, Zarathustra, il riformatore dell’antica religione, al seguito di Ciro, fece da battipista all’ingresso della religione che ancora oggi viene praticata da un terzo degli abitanti del pianeta, seppur adattata ai nuovi tempi. La Sicania, come affermato, grazie ai tiranni greci, cominciava a mostrare delle crepe nella tradizione atavica. Questi Greci, definiti spregiativamente dai Romani “contemplatori di statue”, eredi degeneri di quegli estinti eroi Micenei, accolti a partire dall’VIII sec. a.C. dai regnanti siciliani quali supplici, cominciarono ad infiltrarsi nei gangli della politica locale per sostituirsi poi agli autoctoni, e cancellare la tradizione, la lingua e mistificare la nobile storia dei prischi Sicani. La succinta e inevitabile citazione da parte degli storici greci, ancora nel V sec. a.C., di principi sacerdoti Sicani, quali furono Arconide, Ducezio e nel III sec. a.C. Adranodoro, addetti al culto delle divinità locali, e in particolare di Adrano e i suoi figli Palici, che tentano di arrestare l’ascesa politico militare degli infidi Greci, attesta come le tradizioni culturali sicane fossero durature e monolitiche fino a tempi relativamente recenti. Tuttavia, le divinità orientali, che premevano in occidente al seguito dei legionari, non più Romani, era destino che gettassero nel caos anche l’isola divina e che fra tutte le divinità orientali, che si accalcavano alle porte dell’isola sacra, l’avesse vinta quella che era a capo di un popolo, il più minuto sì, ma di una tenacia e virulenza senza pari.

Ad maiora.

Come Adrano divenne la sede dell’Avo

Prefazione.

Ora che i nostri lettori hanno metabolizzato la tesi secondo la quale, in tempi assai remoti, antidiluviani, la civiltà terrestre era caratterizzata dalla globalità culturale, si stupiranno sempre meno della comparazione che faremo in questa sede tra la civiltà sumera e quella sicana. Ripercorreremo i testi dell’epica sumera, applicando ai rispettivi contesti il contenuto delle tavolette anche alla Sicilia, convinti dal contenuto dei testi, che vi fosse in essi un riferimento al Mediterraneo, all’isola, a un rapporto di interessi reciproci tra le due aree geografiche e che, come abbiamo accennato negli articoli precedenti, in Sicilia si trovasse l’Abzu, cioè il laboratorio scientifico messo su dal dio Enki, spesso citato nelle tavolette sumere. La Sicilia, come altrove affermato, conserverebbe ancora oggi, attraverso la sua biodiversità, i risultati degli esperimenti del dio scienziato Enki. Ricordiamo a tal proposito, che il mito assegna al territorio di Enna il primato della coltivazione del grano, e che da questo territorio la dea Demetra/Cerere/Innanna, patrona della città, lo conducesse in Grecia e, conseguentemente, in Medio Oriente. Ricordiamo al lettore, capace di cogliere con mente laica il mito e le ricerche di frontiera condotte con coraggio da chi sa guardare l’ampio orizzonte, quanto affermato dai biologi con univoca voce: che il grano non può essere un derivato della spontanea mutazione genetica di un cereale cresciuto nell’isola, ma esso è certamente il risultato di una combinazione genetica artatamente voluta. Quanto qui affermato basti al lettore, che, se vuole, può raccogliere le briciole di informazioni da noi raccolte la dove possibile e poi sparse nei nostri articoli. Passiamo ora al nucleo dell’argomento secondo il titolo che abbiamo scelto quale passepartout.

Enna: La Reggia di Anu.

Rinvenimenti occasionali nel territorio adranita. Immagini 1, 2, 3, 4

Come affermato, per la ricostruzione e interpretazione dei fatti protostorici o mitologici, ci serviremo dellacomparazione e utilizzeremo in abbondanza le fonti sumeriche, cioè le tavolette in cui è incisa la storia, le mitologie e la letteratura sumera. Il contenuto delle tavolette è stato interpretato da studiosi seri, tra i quali emerge tra tutti, lo studioso G. Pettinato, il quale, con non comune umiltà, ricordava agli stregoni che detengono la certezza dellaverità assoluta, che la lingua sumera conserva pur sempre una difficoltà interpretativa.

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Volendo prevenire la domanda dell’arguto lettore, riteniamo che anche in Sicilia si praticasse la scrittura, magari diversa da quella sumera, forse pittografica, essendo questa antichissima, al punto che il re Assurbanipal si vantava di essere in grado di conoscere il significato delle iscrizioni incise sulla roccia, di memoria antidiluviana. Nel museo archeologico di Adrano, la ceramica del neolitico fino a quella dell’età del bronzo è caratterizzata dallapresenza di una “decorazione”, segni che per noi hanno una certa familiarità e che per questo abbiamo

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immaginato trattarsi di scrittura pittografica o di segni che gli addetti ai lavori dell’epoca sapevano interpretare così come i chimici dei nostri tempi possono tradurre disinvoltamente le loro formule incomprensibili ai profani. Del resto, se vogliamo abbracciare l’idea che in Sicilia il dio scienziato Enki avesse costituito il proprio laboratorio, lo stesso non poteva non esprimersi se non con formule, dirette soltanto ai suoi stretti collaboratori.
Per comprendere come la città di Enna diventasse la reggia di Anu e successivamente la città della dea Innanna/Demetra/Cerere dobbiamo ricorrere al testo sumerico intitolato dagli studiosi “‘Innanna ed Enki”. Il testo afferma che era stata costruita per il dio Anu, padre di Enki, una reggia terrena onde trascorrere il periodo di permanenza sulla terra quando questi decideva di visitarla con la consorte Antu. In una di queste visite si affeziono’ particolarmente alla pronipote Innanna, al punto da decidere, poiché la reggia, chiamata Eanna in sumerico, serviva al dio soltanto per un breve periodo e in rare occasioni, di farne dono alla piccola e vispa nipote. Ma la piccola divinità cresceva assieme alle sue grandi ambizioni da desiderare un regno tutto suo e non meno importante di quello dei propri simili. Intendeva a tal fine, trasformare da una semplice reggia ad una città stato la sua dimora terrena, l’Eanna. Per ottenere potere e carisma, aveva però la necessità di possedere gli stessi attributi che avevano le altre città stato in cui imperavano le divinità maggiori. Il custode di questi poteri, chiamati ME, e che se vogliamo ricorrere all’ipotesi interpretativa da noi elaborate circa la lingua primordiale, che il lettore conosce, starebbe per Men mente, memoria, cioè qualcosa che poteva conferire conoscenza ed essere trasmessa senza troppe difficoltà e senza privazione delle stesse da parte di chi li custodiva. Si trattava, dunque, di una semplice condivisione di segreti attraverso i quali si acquisiva potere. Innanna, continua il testo, si reca da Enki nel suo Abzu ed ottiene senza problemi alcuni dei su detti ME custoditi dallo scienziato, ma l’ambizione della giovane dea andava oltre ogni misura e non ritenendo sufficiente quanto ricevuto, mettendo in atto le arti intrinseche alle donne avvenenti che sanno di esserlo, circuisce l’anziano dio, che gli era anche zio, al punto che il canuto è avvinazzato scienziato, tra le traboccanti coppe e le sinuosità della giovane, come Erode a Erodiade, concesse, salvo poi pentirsene, ciò che avrebbe fatto bene a custodire. Ecco, dunque, che l’Eanna assurse da reggia residenziale a potente città stato e sede stabile della dea Innanna/Demetra/Cerere. Questo episodio dovette essere stato tramandato dagli antichi abitatori dell’isola, i Sicani, fino ai tempi di Cicerone, il quale ricorda nelle verrine il mito di Cerere, affermando altresì che la città di Enna era stata da sempre abitata da dèi, che ancora vi abitavano, e che la mitologia siciliana era la più antica.

Adrano: Sede Templare di Anu.

Se, dunque, Anu cedette la propria reggia alla nipotina, va da sé che egli doveva comunque essere accolto in un luogo durante le sue visite terrene. Crediamo che egli durante le sue occasionali visite terrene scegliesse di dimorare nel tempio che a lui era stato edificato alle falde del monte Etna – va distinta la reggia dal tempio, luogo di relax la prima, di culto il secondo-. Questa ipotesi viene corroborate, tra l’altro, dal fatto che nei racconti epici sumeri, si fa continuamente cenno “alla Montagna” in cui si recavano le divinità, magari per essere ricevute da Anu in udienza. A questa ipotesi fa eco quanto affermato da Plutarco nella vita di Timoleonte, che i pellegrini di tutta l’isola si recavano nel tempio di Adrano per rendere onore al dio. Per quanto riguarda la montagna frequentemente citata nei testi sumerici, fa specie che essa non abbia un nome e che ritorni con l’abitudine dei Siciliani di fare riferimento ad essa, quasi come una sorta di memoria di razza perdurata nei millenni, con il semplice appellativo di “a Muntagna” come se nel pianeta non potessero esservene altre da compararle e che rimaneva pertanto l’unica, la montagna per eccellenza, la sede dell’Avo con il suo tempio alle falde di essa.

Il laboratorio scientifico.

Intrecciando ancora gli indizi a nostra disposizione sorge la domanda dove Enki avesse costruito il suo laboratorio. Un centro studi di tale portata non poteva passare inosservato nell’isola e, di fatto, sebbene oggi, in un periodo di tempo così distante da quello qui indagato, poche siano le tracce rimaste, le riteniamo tuttavia sufficienti per azzardare le ipotesi che di seguito esporremo. È plausibile che il tempio sorgesse nella città di Innessa che Diodoro Siculo afferma essere stato il primo nome della città di Etna, e che noi, attraverso il risultato dei nostri studi pubblicati abbiamo identificato con la città di Adrano, rinominata così da Dionigi il vecchio, da Etna che si chiamava. Se si dà per buona la tesi circa le origini proto germaniche della lingua sicana, riconducibile a propria volta ad una lingua comune, parlata prima della dispersione dei popoli, il nome Innessa sarebbe formato dall’unione dei lessemi inna, che significa dentro, ed essen che significa cibo, messe, mangiare. Dai testi sumeri si apprende quanto il dio Enki si preoccupasse di sfamare le sue creature, gli esseri umani, e che per loro aveva creato i cereali, in questo caso non sarebbe peregrina l’ipotesi che proprio nella fertile Valle del Simeto, nei pressi di Innessa/Etna/Adrano, si mettesse in atto la sperimentazione, e che, il successo della semina facesse guadagnare al territorio messo in coltura, l’appellativo di Innessa, ovvero il cibo che cresce dentro (le viscere della terra). Naturalmente il laboratorio scientifico gestito da Enki e i suoi aiutanti, fece sì che questi, nell’immaginario collettivo, venissero guardati come sciamani o sacerdoti e le loro formule chimiche come simboli sacri: la sequenza di rombi (DNA) ; l’occhio nel triangolo e i chicchi di grano ecc. Le caratteristiche del territorio adranita, ricordate dallo storico greco Tucidide, a proposito dell’incendio doloso perpetrato dagli Ateniesi durante la Guerra del Peloponneso ai campi di grano degli Inessei, e poi ancora descritte dallo storico Strabone, erano tali, e lo sono ancora oggi nonostante l’avanzante desertificazione, da risultare compatibili con le esigenze agricole di ogni tempo: fertilità del suolo, ricchezza di sorgenti di acqua, clima mite, collinare, giustamente ventilato.. – ricordiamo che Adrano venne scelta, nel progetto europeo per le energie alternative, come luogo ideale per installare i primi pannelli solari sperimentali-.

Ad maiora.