Valle delle Muse: gli dei abitano ancora qui!

Il fiume Simeto, nascosto dalla flora, scorre tra la roccia lavica di destra e quella calcarea di sinistra. Nella roccia di sinistra sono visibili, scavate nel sasso, le due vasche e la scanalatura incisa nella vasca sottostante, dalla quale si versava nel fiume il sangue della vittima. Non sono visibili i gradini intagliati nella roccia che, procedendo dalla destra delle vasche, conducono all’estremità della roccia che fungeva da altare o pulpito, dal quale il sacerdote, braccia rivolte al cielo, evocava gli dèi e offriva loro il sacrificio appena compiuto.

A tre chilometri dal centro abitato di Adrano, sorge la Valle delle Muse. Lì vi è la dimenticata “Ara degli dei Palici”, realizzata su un gran masso di calcare, posto dalla Natura sul letto del fiume Simeto. In questo gran masso sono scavate due modeste vasche, poco profonde, poste l’una sopra l’altra e comunicanti tra loro tramite un foro. Ai lati della vasca soprastante, sulla roccia calcarea, si notano due fori rotondi, nei quali venivano calati i pali che sorreggevano una tettoia. Sotto questa tettoia, al riparo dal sole cocente, il sacerdote sacrificava la vittima prescelta, un toro o un agnello, al fiume Simeto, così come nella greca Ftia i giovani Mirmidoni sacrificavano al fiume Spercheo le loro bionde e fluenti chiome, secondo il loro uso. Il sangue della vittima, raccolto nella prima vasca, veniva convogliato nella seconda e da qui, tramite un foro da cui si allungava un canale che scendeva fino al fiume, scavato nella pietra, il sangue, colando lungo il grande sasso, alimentava le schiumose acque del fiume che, poco più sotto, a valle, avrebbero raggiunto, irrorandole, le fertili terre della valle del Simeto, accrescendo così le ricche messi degli Inessei (futuri Adraniti), abitatori  del regno dell’illuminato principe Teuto.

Come si può notare, il sasso posto al centro del fiume, su cui venne realizzata l’ara, è levigato dal flusso delle acque nella parte più bassa. A sinistra si può notare il materiale di riporto addossato sul sasso, che è servito per realizzare una stradina interpoderale. L’altezza del materiale di riporto coincide con l’inizio della levigatura del sasso avvenuta per mezzo delle acque fluviali. Pertanto, il sasso, come l’isola tiberina sul Tevere, doveva trovarsi al centro del laghetto. I cilliri, a bordo di zattere, avrebbero dovuto trasportare il sacerdote e la vittima sacrificale dalla riva del laghetto all’ara.
Si noti dai segni lasciati sulla pietra, come il livello dell’acqua fosse, in tempi antichi, più alto; motivo che ci induce a pensare che le due fonti formassero un laghetto e che questo si gettasse a sua volta nel fiume sottostante.

L’epigrafe, incisa su nero basalto, sotto il quale sgorga acqua limpida, è distante qualchecentinaio di metri dall’aradei Palici, accanto alla quale scorre l’acqua di un’altra fonte; le due sorgenti erano anticamente chiamate “Fonti dei Palici”. Secondo il mito,queste due fonti altro non erano che i Palici stessi, trasformati da Zeus in acque sotterranee che ritornavano alla luce, onde sottrarli all’ira di Era, moglie di Zeus, la quale non aveva accettato e perdonato al dio la relazione con la ninfa Etna-Talia, dalla quale sarebbero nati i gemelli Palici. Questo mito siè protratto nel tempo, conservando tracce di sé anche nel nome dato alla contrada in cui sgorgano le due fonti, che si chiama appunto contrada Polichello. A sopravvivere, da oltre tre millenni, credo non sia solo il mito, ma ilricordo ancestrale di un rito di purificazione legato alle acque che sgorgano dalle due fonti, visto che, a distanza di così lungo tempo, molti Adraniti, vi si recano per attingere le fresche acque che dalì si originano, acque da preferire a quelle che, più comodamente, potrebbero essereprelevate dai rubinetti di casa propria.

Epigrafe incisa su basalto
Epigrafe

 

 

 

 

 

Il fiume Simeto, tratto poco al di sopra dell’ara dei Palici. Sul ciglio destro, non visibile, poco distante, a scarpata sul fiume, vi è la chiesetta semidistrutta di S. Domenica, eretta in epoca cristiana sulle fondamenta del tempio della dea Venere. Sullo sfondo è visibile l’Etna.

Ma non sono soltanto le fresche acque – che, se non proprio risanatrici, sono di certo ristoratrici – a costituire unrichiamo per gli Adraniti. Infatti, gli spiriti più sensibili avvertono di certo la presenza delle antiche ed immortali Muse che, avendo rinunciato da tempo ai loro nove scranni scolpiti sul grande sasso di calcare (Petronio Russo, Storia di Adernò), si accontentano ormai della sporadica visita di pochi individui e delle loro meditazioni. Sono, questi individui, gli spiriti non ancora macchiati dal fascino che esercita l’effimero progresso; sono i bovari, eredi degli antichi siculi (sich khu vaccaro); sono i coloni, che hanno il privilegio di avere lì i loro campi da arare; sono i poeti, che si lasciano prendere per mano e condurre dalle Muse ovunque esse vogliano, fra le ondeggianti cime degli alti frassini e le fresche sorgenti che, riversandosi nell’arteria principale, ingrossano l’ampio letto del fiume un tempo navigabile; sono i sacerdoti che non sanno di esserlo, i quali realizzano lì, inconsciamente, sull’altare del loro irruento spirito, i sacrifici graditi agli dèi, divorati dalle fiamme dell’innato proprio ardore; sono ancora gli instancabili ricercatori di tutto ciò che serve a riempire, seppur parzialmente, il loro senso di incolmabile vuoto: conoscenza, saggezza, virtù, pietas.

Si avvertono Muse e Ninfe svolazzare fra le cime dei frassini e i rivoli d’acqua che precipitano dall’alta roccia lavica; fra tutte si avverte, imponente da ogni dove, la presenza di Lei, della ninfa Etna, sotto forma dell’immobile gigante pietrificato il quale, dopo aver irrorato e riempito la valle nei passati millenni col suo rosso, caldo sangue, sotto forma di antica lava ardente, ora come nero sangue raggrumato, si rivela a tratti sotto forma di nera roccia che,  sfaldata ormai in gran parte dall’inesorabile trascorrere dei millenni, si è trasformata in fertile terra. La  ninfa accudisce ancora la valle, la preserva dai dissacratori figli della tecnologia che, come antichi barbari, tutto distruggono. La prima volta che vi andai, mi sentii un iniziato introdotto ai divini misteri e coloro che, a mia volta, vi conduco, debbono essere certo degli affini.

La Valle delle Muse sorge a poche centinaia di metri dall’ingresso della porta sud del sito del Mendolito, porta ove, su uno dei due torrioni eretti a sua protezione, era collocata la stele che portava incisa la preziosissima epigrafe sicano-sicula, di cui abbiamo tentato la traduzione già  proposta ai nostri lettori in uno dei nostri precedenti articoli. Dal preziosissimo libro storico del Sac. Petronio Russo, compilato alla fine del XIX secolo, apprendiamo che, fra la Valle delle Muse e l’ingresso dell’insediamento del Mendolito, sono state ritrovate numerose epigrafi, purtroppo non ancora decifrate.

Nella foto Francesco Branchina, a sinistra, con il prof. Valerio Furneri, docente di linguistica presso le Università di Milano e Pavia, intenti a ricostruire l’epigrafe parzialmente cancellata dal tempo, ripromettendosi di tentarne la traduzione.

Il famoso cippo S. Filippo, dal nome del proprietario del terreno ove il cippo fu rinvenuto, porta incise nelle sue quattro facciate epigrafi rimaste a tutt’oggi intradotte, anche a motivo della corruzione dei caratteri ivi incisi, dovuta al trascorrere del tempo. Se il nostro intuito non ci smentisse, potremmo ipotizzare di trovarci di fronte ad un’iscrizione quadrilingue, magari cartaginese, greca, siculo\sicana e infine latina. Del resto Virgilio e Plinio, nei loro racconti, hanno fatto riferimento a luoghi identificabili con la valle delle Muse (Virgilio, nel libro IX, v. 845, dell’Eneide fa riferimento all’Ara dei Palici, sulle rive del Simeto). Se così fosse avremmo la certezza che la Valle delle Muse potrebbe essere stato un luogo di culto in cui convergeva un credo comune a varie etnie. Tale convergenza di popoli diversi potrebbe essere stato causato dal fatto che il Mendolito rappresentava un importante crocevia per gli scambi commerciali. Noi crediamo che il periodo in cui tale luogo assurse all’importanza strategica che gli attribuiamo coincidesse con l’epoca del principato del sicano Teuto (cfr. Polieno, Stratagemmi), tra la fine del VII e inizio del VI sec. a.C.  L’epigrafe posta sulle mura dell’insediamento del  Mendolito, caratterizzata da scrittura sinistrorsa e da un insieme di caratteri nei quali si legge con chiarezza il nome Teuto, lo confermerebbe. Del resto, che il culto del dio Adrano –  il tempio del quale si trovava a soli tre km a monte dalla Valle delle Muse (venti minuti a piedi, dieci a cavallo) – fosse già frequentato da molte genti provenienti dai paesi limitrofi, si evince chiaramente dal racconto che Plutarco ne fa nella Vita di Timoleonte.

Se si considera inoltre che in questo luogo è stata ritrovata un’iscrizione in caratteri greci su un capitello di colonna, tradotta dal Sac. Petronio Russo con il nome “Ercole”, e che nei dintorni, come attestato dalla tradizione orale, della quale il nostro sacerdote si fa portavoce, sorgeva sia il tempio di Marte collocato geograficamente nei pressi della Fonte dei Palici che l’attuale chiesa di S. Domenica, ricostruita sulle fondamenta del tempio di Venere, si avvalora l’ipotesi da noi sostenuta e precedentemente formulata intorno alla collocazione geografica e simbolica dei templi rispetto alla città. Infatti si noti che in questa valle, cioè fuori dalle mura cittadine della vetusta città di Adrano, trovano collocazione templi dedicati a dèi esclusivamente stranieri, in massima parte greci e, nel caso dei Palici, probabilmente cartaginesi; quanto alla presenza delle Ninfe, il cui culto è di chiara matrice indigena, appare ovvia in un sito  agreste. Il tempio per eccellenza, quello del padre della gente Sicana, dell’Avo primordiale, non poteva trovarsi invece che nell’acropoli, dentro la città, nel punto più elevato, dentro la cinta delle mura che, oltre a servire da baluardo da opporre ai nemici, costituiva un cerchio magico invalicabile.

Considerata la concentrazione di culti nell’area del Mendolito, nei pressi del fiume Simeto, non sarebbe peregrino sospettare che questo luogo fosse pure un emporio commerciale, nel quale avvenivano gli scambi commerciali fra città circostanti e popoli provenienti da altre aree geografiche del Mediterraneo, come già sostenuto in un nostro precedente articolo su “I Cilliri del Simeto”. Non perdiamo di vista infatti il punto geografico altamente strategico ove sorge il sito del Mendolito. Da qui si accedeva ai territori siculi che dal Mendolito si protraevano fino alla costa tirrenica della Sicilia, dove vi erano centri importanti quali Tindari, Alesa (fondata solo nel 403 a.C.), Cefalù, Himera, unica città greca, ma anche un’infinità di villaggi siculi citati da Tucidide e Cicerone. Ancora oggi questa via dell’entroterra che taglia i monti Nebrodi rappresenta un’importante arteria di comunicazione per accedere alla costa tirrenica, che consente di accorciare considerevolmente i tempi di percorrenza rispetto alla più comoda strada costiera. Si noti ancora che, a partire dalla valle delle Muse, il fiume Simeto, nel periodo di cui ci stiamo occupando, era certamente navigabile fino al porto di Catania, lo si deduce dalla distanza tra le due opposte rive del Simeto, le quali si rivelano all’osservatore corrose alla base dalle acque impetuose del fiume in piena.

Con la collaborazione di qualche geologo, si potrebbero ricercare i segni della presenza di un possibile piccolo porto fluviale sul Simeto, dai quali trarrebbe ulteriore conferma la nostra tesi relativa alla presenza di una consorteria di portuali o barcaioli ( i Cilliri), tesi fondata su considerazioni di carattere linguistico visto che il nome Cilliri, di cui rimane traccia nella città di Adrano, riconduce, in lingua nord-europea, ad un’area semantica che allude ad ambienti portuali (per approfondire l’argomento vedasi l’articolo: “I Cilliri del Simeto” ).

Crediamo altresì che il motivo per cui il sito del Mendolito non si sviluppò mai dal punto di vista architettonico, debba ricercarsi nel fatto che questo luogo rimase, come diremmo oggi, un’area di servizi per gli utenti e non divenne mai un vero e proprio insediamento. Qui si stoccavano le merci in arrivo ed in partenza, qui si potevano acquistare le vittime sacrificali, pecore, buoi, tori, colombi necessari per i sacrifici e che certo i supplici non potevano portarsi dietro dalle città di provenienza. Qui c’erano le fabbriche, i forni, i negozi dove si producevano e si vendevano gli ex voto per i pellegrini. Si spiegherebbe così anche il carattere piuttosto rustico dei manufatti che si ritrovano nell’enorme area del Mendolito, con le  imperfezioni dei disegni sui vasi, con le colature di colore. Gli oggetti, del resto, rimanevano solo qualche giorno nella cella della dea, dopodiché, per motivi di spazio, i sacerdoti addetti al culto, erano costretti a rimuoverli per fare posto alle nuove offerte.

Formazione lavica in una costa irlandese. La figlia del re irlandese Balor si chiamava Eitniu (nome simile a quello della ninfa siciliana). Eitniu aveva sposato Cian, il cui nome è identico a quello della ninfa siracusana Ciane, trasformata da Ade nell’omonimo fiume, al quale Eracle, durante il suo passaggio in Sicilia, secondo Diodoro, sacrificò un toro. Pale è il nome dato ad una contrada nei pressi di Dublino. Cù Cuhlainn è il nome di un mitico principe irlandese, molto simile al nome del principe sikano Cocalo. Nel sito del Mendolito sono state ritrovate due capitelli di colonne, nei quali sono incise le spirali, simboli che si ritrovano nell’Irlanda neolitica.

Quanto detto fin qui sulle Ninfe e sulle Muse – il cui culto veniva esercitato in quest’area del fiume Simeto che Virgilio, nel libro IX dell’Eneide, descrive boscosa (“Capi … l’aveva mandato di Sicilia il padre da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto, ov’è la mite, ricca di doni, ara di Palico”) – ci impone l’obbligo di indagare ulteriormente su queste divinità agresti, molte delle quali sembrano affini a quelle del mondo celtico, l’Irlanda in particolare. Terremo informati i lettori sui risultati delle prossime ricerche.

Ad majora.

COPIONE COMMEDIA DE “IL MATRIMONIO DI ETNA”

 

 

Poiché lo scopo di questo sito è quello della divulgazione gratuita

 sappia il regista che intendesse fornire l’opera sua,

  per RIEVOCARE l’illuminata reggenza del principe Sicano, Teuto, nella città di Innessa,

che l’autore è disposto a rinunciare ai diritti d’autore per la messa in scena dell’opera.

Ad Majora.

 

 

 

 

 

 

IL MATRIMONIO DI ETNA

 

ATTO I

 

SCENA I

Una ragazza alla toilette, aiutata  da due ancelle.  Destra della scena

 

VOCE FUORI CAMPO: Etna è il nome della giovane donna che vedete. Eccola mentre si prepara, in occasione del suo matrimonio.  È  figlia del principe Teuto, principe giusto, amato dal popolo.

Voce chiama da fuori Etna. Entra Teuto. I due parlano.

VCF: Teuto col proprio ingegno ha reso prospera la sua città, Innessa, e grazie all’amore profuso ai cittadini l’ha resa felice. Ora Innessa è tra le sette città più potenti dell’Isola.

Quando i Siculi, popolo di emigranti, si presentarono agli antenati Sikani di Teuto, questi li accolsero come fratelli e di fatto si integrarono formando un solo popolo con i Sikani.

 

Buio su Etna. Esce.

 

VCF: Il principe illuminato a lungo aveva aspettato la nascita di un erede. Gli dèi, che in tutto lo avevano beneficiato, lo avrebbero fatto attendere a lungo prima di concedergli questo dono.

La luce si sposta su un uomo alla sinistra della scena, siede su uno scranno con fare pensieroso.

VCF:  Trascorsero così lunghi anni senza che il nostro eroe e sua moglie potessero godere della compagnia di un figlio.

Un giorno, Teuto salì sul monte più alto e si ritrovò a osservare l’immenso cielo azzurro, sede dei suoi Avi.  Unico compagno quel gigante di pietra che si ergeva immenso e faceva da guardia all’isola.

Alzò le braccia verso il cielo, invocò gli Avi con parole sacre e piene di forza. Parlò come mai aveva parlato prima.

Invocò Odhr Ano,  che in lingua sikana significa “potenza dell’Avo”. A questo dio era stato dedicato un luogo sacro nella città di Innessa.

Teuto, certo che gli dèi non avrebbero mai concesso che una stirpe di tale valore si estinguesse, con queste parole si rivolse al dio.

 

Teuto: “Odhr Ano, concedimi un’erede. Tu conosci quali mali potrebbero sopraggiungere al popolo e alla stirpe in mancanza di questi: sarebbe un lutto per i padri che mi hanno preceduto, i quali non potrebbero continuare a  vivere attraverso la loro discendenza e di conseguenza ne verrebbe un male anche per te, Antenato, poiché il tuo culto si spegnerebbe assieme al fuoco della nostra stirpe. Concedimi dunque un figlio. Fallo non solo per me,  ma per noi.”

 

 VCF: Non aggiunse altro Teuto, conscio che ogni altra parola sarebbe stata superflua per un dio che sa vedere nel cuore di chi lo evoca. Quella stessa notte Teuto e la moglie avrebbero concepito una bambina, il cui nome sarebbe stato presto associato ad una grande città. Quel nome nella lingua dei padri significava “Colei che è stata invocata”.

 

Moglie (seduta o stesa su di un letto) con bambina in fasce e Teuto.

 

Moglie: Guarda, Teuto, com’è bella la nostra bambina!

Teuto: È bella, molto bella. E molte altre saranno le virtù di cui sarà dotata. Avrà la migliore delle educazioni, sarà una regina giusta e amata dal popolo. Gli dèi devono averla destinata a grandi cose. Non può essere altrimenti per un dono del cielo. Lei è colei che è stata invocata, e così sarà conosciuta tra le genti. Il suo nome è Etna.

 

 

SCENA II. L’ANNUNCIO DEL MATRIMONIO

 

Luce su Etna; buio su Teuto e moglie.

Etna è in compagnia della Balia e intenta in qualche lavoro domestico.

Entra il padre Teuto

 

Etna:  (posa il lavoro e guarda fuori dalla finestra) Non senti gli uccellini cantare?

Balia: Sì, e vorrei strozzarli. Mi hanno svegliata all’alba. In particolare ve n’è uno che odio più di tutti. Dev’essere la nota stonata del gruppo, perché stride come un’arpa male accordata.

Etna: Io li trovo molto graziosi. Sembrano preannunciare qualche lieto evento.

Balia: Non vedo cosa possa accadere di bello. Viviamo già una vita invidiabile.

Etna: Non so … Balia, non hai mai sentito l’esigenza di avere qualcuno accanto.

Balia: Gli dèi mi hanno fatto il dono di diventare la nutrice di una bellissima bambina. Da allora starle accanto mi ha sempre soddisfatta.

Etna: Credo che incontrerò qualcuno.

Balia: Si incontrano persone tutti i giorni.

 

Etna sospira e riprende il lavoro.

 

Etna: Balia, credo di avere sbagliato qualche nodo. (le porge un tessuto, con atteggiamento svogliato)

Balia: Fa vedere. Ah, ecco. Lo sistemo io.

Etna: Mi si sono stancati gli occhi. Vorrei smettere per oggi.

Balia:  Beh … d’accordo. Tra non molto ti attendono i precettori. Approfittane per prendere un po’ d’aria.

 

Etna si alza .Nello stesso momento entra Teuto accompagnato dalla moglie.

 

Teuto:  È permesso?

Balia: Re Teuto, Regina!

Teuto: Cara figliola, ho bisogno di parlarti.

(La balia fa per uscire)

Regina: No, Balia, non andare. Ascolta anche tu. Sei stata tanto cara e leale nei confronti di Etna, è giusto che tu sappia.

Balia: L’ho amata come fosse figlia mia. Gli dèi lo sanno.

Teuto: Non indugiamo ancora. Ebbene, figlia mia … Ormai sei  una donna ed è giunto il momento che tu prenda marito. Non spaventarti. So che è un passo grande e che andrai incontro ad una nuova vita, dovrai aver cura di te stessa. Tu che sei sempre stata protetta e al sicuro. Ma non temere. Sei la cosa più preziosa per tua madre e tuo padre e opereremo affinché tu sposi un uomo degno del tuo rango e del tuo valore. Tutti i principi, i re e gli aristocratici dell’isola stanno per essere informati. Poi organizzeremo una festa di matrimonio che tutti ricorderanno per sempre e consacreremo la vostra unione davanti agli dèi!

I messaggeri sono già in viaggio. Presto gli uomini più grandi dell’isola verranno in visita per vedere te portando con sé doni meravigliosi. Sceglieremo assieme tra i più valorosi.

Etna: Padre, se potessi rimarrei in casa vostra per molti anni ancora, ma se voi lo considerate opportuno, sarò pronta a prendere marito. So che terrete in considerazione il bene di vostra figlia e che saprete consigliarmi nella scelta.

Teuto: ( abbraccia la figlia) Non temere, gli dèi ci proteggono. Avanti! C’è molto da organizzare ancora!

 

 Teuto esce

 

Regina: (accarezzando la figlia). Sii felice Etna, non sono in molti i padri che concedono tanta libertà. Faremo in modo che tu possa essere soddisfatta del tuo futuro marito. Io ti sarò accanto.

Etna: Grazie madre. Ho molta fiducia in entrambi.

 

Regina esce

 

SCENA III

Etna si siede, mentre la Nutrice si volta dando le spalle al pubblico e inizia a singhiozzare via via sempe più forte.

Etna : Balia, perché piangi? Cos’hai?

Balia: Scuote la testa.

Etna: Parla Balia!

Balia: La mia bambina sta per sposarsi!

Etna: E ti dispiace tanto?

Balia annuisce.

Etna: Perché?

Balia: Non sarà più la stessa cosa.

Etna: Ma tu potrai continuare a starmi accanto. Lo chiederò io a mio padre.

Balia: E se fosse un uomo cattivo?

Etna: Mio padre?

Balia: No! Il vostro sposo! Potrebbe farvi del male, trattarvi con cattiveria.

Etna: Farmi del male? Mio padre non lo permetterebbe!

Balia: Bambina, bambina. Non sapete ancora molto del mondo.

Etna. È vero.

Balia piange.

Etna: Balia … e se invece non mi amasse e mi trattasse con indifferenza?

Balia: Sarebbe un pazzo! E proprio questo temo: i pazzi! Sarebbe più facile il contrario.

Etna: Che io non lo amassi? Non ci avevo pensato. Che dovrei fare allora?

Balia: Dovrete imparare ad amarlo.

Etna: Balia, i miei genitori si amano e rispettano. Non dovrebbe essere così difficile sposare qualcuno.

Balia: Il re Teuto ha scelto personalmente vostra madre. Quando la vide se  ne innamorò. Loro sono stati fortunati. Gli dèi li hanno assistiti.

Etna: Perché gli dèi non dovrebbero assistere anche me?

Balia: Prego sempre gli dèi per questo!

Etna: Ero già preparata a questo giorno, anche io li prego da molto tempo. Balia, è molto triste dovere sposare un uomo prima di poterlo conoscere.

Balia: Lo è.

Etna: Eppure, non so perché, ho come un buon presentimento. Sento che potrei incontrare un uomo generoso e bello e innamorarmene.

Balia: Ma chissà se potrete sposarlo!

Etna: Perché parlate così? Adesso non so più se piangere o essere felice.

Balia: Io voglio piangere.

Etna: Ed io essere felice.  E lo sarò. Gli dèi mi infondono fiducia.

 

 

SCENA IV :  FALARIDE

 

VCF : Ad Agrigento intanto un  temibile tiranno stava concentrando tutto il suo ingegno allo scopo  di risolvere una grave questione. Dopo avere dilapidato le grandi ricchezze della sua città, si arrabattava ora allo scopo di trovare un modo per rimpinguare le casse dello stato.  Il suo nome era Falaride e sarebbe passato  alla storia come il più crudele fra i tiranni dell’isola.

 

Falaride: Che gli dèi se li portino! Tutti: dal primo dei miei consiglieri, all’ultimo dei cittadini! Tutti loro con le loro esigenze, fabbisogni,  desideri, sciocche richieste.

E io ad accontentarli tutti. I principi viziati e la gente. Tutti vogliono qualcosa in cambio del loro consenso!

È facile governare indisturbati quando si comprendono i più intimi desideri degli uomini. L’avarizia e l’ambizione muovono i grandi, la sazietà e i divertimenti interessano al popolo. E io questo ho dato loro. La guerra nutriva l’esercito, gli aristocratici e il popolo; la corruzione alimenta il silenzio; la costruzione di templi magnifici,  la proclamazione di giochi annuali, la distribuzione di frumento e grano ha accontentato il popolo e reso la figura di un tiranno tanto amabile! E Agrigento! Ah, Agrigento! Quanto ha tratto vantaggio da tutto questo? Mai ci fu una città tanto bella e temuta! La migliore! E il popolo mi ama per questo.

Ma quanto ancora durerà questa apparente gioia? Per quanto ancora il popolo e i consiglieri gradiranno la mia presenza?

 

Pausa di riflessione. Andirivieni per la stanza, si alza, siede, gioca con dei fogli sul tavolo  (a preferenza dell’attore)

Quel re, Teuto, una volta mi disse che i tiranni non vivono a lungo una vita felice … Ma allora ero troppo giovane e orgoglioso per crederlo …

Ora so che la corruzione si alimenta con la corruzione e che il consenso comprato una volta lo si compra per sempre!

Per quanto ancora il popolo accetterà di essere tassato? Le casse dello Stato non reggeranno ancora a lungo. Le tasse sono state aumentate di recente e i miei uomini sconsigliano di tassare ancora i cittadini.

Eppure è necessario trovare altro denaro che alimenti la mia magnifica e costosa politica! Una volta finiti i divertimenti e i premi, sarà finita anche per me!

 

 

SCENA IV

 

Giunge un araldo recante una pergamena  contenente l’ annuncio del matrimonio.

 

Araldo: Mio signore!

Falaride: Sciocco! Chi ti ha fatto entrare?  Mi interrompi in un momento tanto importante!

Araldo: Vogliate scusarmi. Vado via!

Falaride: Dove vai, stupido , impertinente araldo? Già che sei qua, leggi.

Araldo:  Mio signore, giungo da Innessa e  porto un annuncio a nome del Re  Teuto.

Falaride: Ah! Ma guarda un po’, si parlava giusto di lui.

Araldo: Non vedo nessuno qui. Con chi ne parlava?

Falaride: Limitati a compiere il tuo dovere o ti farò giustiziare per la tua insolenza.

Araldo: Ambasciator non porta pena!

Falaride (urlando) : Leggi!!

Araldo (intimorito): A tutti i Re, Principi, Signori della Sicilia, patria abitata da giusti Dèi, si annuncia che la figlia del Re Teuto ha raggiunto l’età adatta al matrimonio e si invitano costoro a farsi avanti. A coloro che faranno visita alla futura sovrana, verrà concessa la migliore ospitalità e a colui che si dimostrerà il più degno tra i pretendenti, sarà offerta  una città, un territorio e l’affetto di un’ottima moglie e di una famiglia.

Falaride (tra sé e sé) : Questa potrebbe essere una buona idea. Un matrimonio! Sono ancora un bell’uomo, malgrado l’età! Pieno di fascino e carisma!

(Si accorge dell’araldo che in quel momento fa una smorfia di dissenso.)  E tu sei ancora qui? Che aspetti ad andartene?

Araldo: Cosa devo mandare a dire al Re Teuto?

Falaride: Avrai la risposta al più presto. Per ora va. Le ancelle ti serviranno al meglio.

 

Araldo fa un lieve inchino ed esce

 

Falaride: Che dicevo? Ah già, il matrimonio! … Eppure il padre non acconsentirà mai. I tiranni sono invisi ai principi sikuli. Loro non amano affatto la destrezza e l’abilità con le quali noi, tiranni, arriviamo a guadagnarci il potere. Intrighi, tradimenti li chiamano loro! Astuzia la chiamo io! A che serve aspettare, come fanno loro, di ascendere al potere per acclamazione del popolo? Oh, ma loro credono di essere una stirpe eletta dagli dèi, uomini virtuosi, si credono loro!  …

Ebbene, in qualche modo avrò tra le mani quegli ori. Non so ancora come farò, ma ci riuscirò. Quando mi ripropongo qualcosa, la ottengo.

 

 

SCENA VI   L’ARRIVO IN CITTÀ DEI CATANESI.

 

Esterno, la città.

Leonida, Etna, nutrice.

 

Primo catanese: Amici carissimi, siamo giunti  nella città del re Teuto. Qui ci attende la sua bella figlia. Forza, prendiamo i doni e rechiamoci a far visita alla famiglia del re.

Secondo Catanese:  Amici miei, vi ricordo che da questo momento siamo anche rivali!

Terzo catanese: Rivali, ma non nemici. Le famiglie aristocratiche della democratica Catania hanno scelto noi, i migliori giovani uomini della città, in rappresentanza della nostra città. Basterà che uno di noi conquisti  Etna affinché tutta la città ne goda.

Primo catanese: Mettiamo da parte ogni tipo di odio fra di noi, dunque.

Secondo Catanese: Nessun odio per il vincitore. Spero che manteniate la promessa quando vincerò io.

Terzo catanese: E tu perché sei così silenzioso, caro Leonida?

Leonida:  Non c’è niente che mi renderebbe più felice che il portare onore alla nostra amata Catania, alle nostre famiglie e al nostro popolo. Tuttavia, l’onore che ci è stato concesso mi pare davvero gravoso. Se avrò la fortuna di essere scelto quale sposo della figlia Etna dal re Teuto, spero di trovare nella principessa una creatura amabile e bella. Se così non fosse, non me ne vogliate, ma preferisco lasciare a voi questo grande onore.

Primo c: Saresti pronto a tirarti indietro davanti alla decisione di un re? Condanneresti tutti a morte!

Leonida:  Allora sarò io ad essere condannato! Condannato  ad una vita infelice!

Secondo c: Infelice?  Innessa è una città ricca e pacifica, che infelicità potrebbe derivarne? Non temete amici, se Leonida si dimostrerà tanto sciocco da rifiutare un tale dono, io mi dimostrerò pronto ad accoglierlo.

 

Etna è poco distante, con la balia si aggira tra i mercati in cerca di tessuti. Per caso ha ascoltato la conversazione dei giovani catanesi. 

 

Etna: Dunque loro sono pretendenti provenienti da Catania. Mi sono già fatta un’idea su  di loro.

Balia: Lo sapevo io, questi matrimoni attraggono sempre uomini in cerca di ricchezze! Povera cara, quale triste destino il tuo!

Etna: Eppure, non è detta l’ultima parola. Hai ascoltato quel giovane, Leonida?

Balia: Sì, mia cara, ho sentito. E ho visto. È proprio un bel giovane. Forse non è come tutti gli altri. Potresti essere fortunata se sposassi lui.

Etna: Ma come fare ad essere certa della sua buona fede?

Balia: Mia bella Etna, la dea è bendata, per cui qualche volta occorre prenderla per mano. Guarda, il giovane Leonida  prende congedo dalla sua compagnia. Ascoltami bene ti dirò io cosa fare.

 

 

 

SCENA VI – CONFRONTO DI LEONIDA ED ETNA

 

Terzo C: Bene Leonida, noi ci avviamo verso la reggia di Teuto. Non fare tardi.

 

I compagni si allontanano accompagnati dai servi che trasportano i doni. Leonida fa un cenno con la mano per salutare i compagni e inizia a passeggiare. La piazza brulica di persone e rivenditori. Si avvicina Etna.

 

Etna: Il signore ha un’aria abbattuta, gradite dei fiori da portare alla vostra bella moglie?

Leonida: No grazie … (la guarda meglio, pare ripensarci) e sia, datemi questi fiori. (le porge delle monete).

Etna: Considerateli un dono, riponete le vostre monete.

Leonida:  Siete una bella e gentile fioraia. Vi ringrazio.

Etna: Sarei felice se solo voleste dirmi cosa vi turba. Forse potrei esservi d’aiuto.

Leonida: Visto che siete tanto cortese con me, ne approfitterò. Vedete, vengo dalla democratica Catania, la mia famiglia desidera che io incontri la principessa e spera che lei possa diventare la mia sposa.

Etna: Sarebbe davvero un grande onore.

Leonida: Sì, è così… ma vedete, prender moglie senza conoscerla è un gran bel rischio!

Etna: Parlate proprio da uomo. Credete che  per la principessa sia tanto più piacevole? Una donna sogna solo di trovare un uomo adatto a lei. Ma in quanto principessa ha da  valutare tante altre cose, il bene del popolo per fare un esempio, deve valutare con attenzione le aspirazioni dei pretendenti e assicurarsi che non siano uomini venali.  Infine deve rimettersi al parere del re e sperare che il suo giudizio coincida con il proprio.

Leonida: Avete ragione, la difficoltà sta da entrambi i lati.

Etna: Ad ogni modo, parlate come se foste già promessi sposi. Siete voi il fortunato?

Leonida: No, non sono io. Sono ancora libero.

Etna: Libero? Se è una tale costrizione per voi, siete ancora in tempo a tornare indietro e lasciare il posto ad altri. Con permesso (fa per andare).

Leonida: Bella fioraia, dove andate? Perché ve la prendete tanto per delle parole che non vi toccano?

Etna: Mi toccano, invece. È della mia futura regina che parlate! E ne parlate pur senza conoscerla.

Leonida: Le siete fedele, dunque deve essere una buona principessa.

Etna: Il padre le ha dato degli ottimi precettori.

Leonida: Ditemi …  (le fa cenno di accomodarsi su di una panchina o muretto)… Che uomo è il re?

Etna: Oh! È un re giusto, autorevole, severo eppure buono. Vi assicuro che non ha mai operato contro il suo stesso popolo. È pio e devoto al dio Adrano

Leonida: Nella mia città non esistono più i re. È il popolo a regnare, guidato dalle famiglie migliori.

Etna: Sono a conoscenza dell’esistenza delle città democratiche. Il Re Teuto ha concesso ad alcune di loro di reggersi secondo questo istituto. Ma parlatemene meglio, un’umile fioraia non conosce queste cose. Vi sono delle famiglie che di fatto reggono il potere?

Leonida: No, le famiglie sono delle guide, esecutori del potere, ma è il popolo a detenere il vero potere.

Etna: In che modo?

Leonida: facendo sentire la propria voce durante le assemblee. Ma ditemi invece, la figlia del re è bella?

Etna: Dicono che sia piuttosto  bella …. e anche virtuosa. È  istruita e forse anche intelligente.

Leonida: Di solito questo è quel che si dice di una ragazza per nulla graziosa ma di buona famiglia e forse di buon cuore.

Etna: E il buon cuore non è già una grande virtù? Cercate solo la bellezza in una donna? Ebbene … giudicherete voi stesso.

Leonida: Vi prenderò in parola se risponderete a questa domanda: è bella quanto lo siete voi?

Etna: Non so se sono bella, ma dicono che le somigli un po’.

Leonida: Un po’ sarebbe già più che sufficiente. Se solo vi somigliasse quel po’ di cui dite, potrei sposarla.

Etna: Dunque è così. Preferite la bellezza al buon cuore e una donna ricca ad una forse più bella ma povera?

Leonida: Allora è vero che voi siete più bella?

Etna: Siete abile a sviare i discorsi. Ma ditemi, voi che requisiti avete per pretendere di chiedere in sposa la figlia di Teuto?

Leonida: Sono catanese e provengo da una famiglia aristocratica.

Etna:  Sono tutti nobili. E tra questi ve ne sono alcuni che possiedono ricchezze immense.

Leonida: Forse. Ma ve ne sono altri belli quanto me?

Etna: Forse no. Di certo mai tanto superbi.

Leonida: Superbo? Sono solo sicuro di me e delle mie buone qualità. Sono stato cresciuto secondo buoni principi, sono stato istruito dai migliori precettori, dando peso egualmente al corpo e allo spirito. Non sono uno scansafatiche.

Etna: I rampolli delle più nobili famiglie sono sempre un po’ scansafatiche.

Leonida: L’arte della guerra nel mio paese è praticata indistintamente da tutti gli uomini.

Etna: E dunque amate la guerra! Siete bellicoso, forse scontroso e  propenso alle risse.

Leonida: Quali pregiudizi vi portate dietro, mia cara fioraia! Conoscere la guerra non vuol dire amarla, ma impararne i segreti  è utile e vuol dire anche prevenirla.

Etna: Non posso negarlo … parlate con saggezza.

Leonida: Allora sono anche saggio! Me ne ricorderò quando parlerò in presenza del re Teuto.

Etna: Siete ora convinto  di sposare la principessa?

Leonida: Prima lo ero poco e ora lo sono anche di meno. Due stelle hanno rapito il mio cuore.

Etna: Mio signore è ancora giorno, non si vede alcuna stella in cielo.

Leonida: Io le vedo. Sono qui davanti a me e posso scorgere il mio viso  riflettersi in esse.

Etna: (sposta lo sguardo imbarazzata) Parlate così ad ogni donna che incontrate?

Leonida: Tra le poche donne alle quali ho dedicato qualche parola dolce solo due donne hanno avuto l’onore di ricevere parole tanto piene d’amore.

Etna: Chi, se posso chiedere?

Leonida: Una era mia madre, ma vi assicuro che non è lo stesso sentimento …

Etna: questo vostro atteggiamento mi fa dubitare del vostro buon cuore.

Leonida: Non sia mai! Credetemi, rinuncio alla principessa se voi lo vorrete. Confessatemi il vostro nome e donatemi il vostro cuore!

Etna: Non avevate dei doveri nei confronti del vostro paese e della vostra famiglia? Non è per loro che vi recate in visita dalla principessa?

Leonida: Non lo nego..

Etna: Eccoci in presenza di un terribile difetto! Siete un uomo di poco valore se non rispettate i vostri doveri.

Leonida: Così mi confondete.  Io sento già di amarvi. Ditemi chiaramente se corrispondete i miei sentimenti o no.

Etna: Mio caro amico, sono una povera fioraia, cosa volete che ne sappia io di queste cose?

Leonida: Non conosce una fioraia l’amore?

Etna: Andate, mio buon signore, è stato bello conoscervi e parlare con voi. Spero di rivedervi presto e mi auguro che per quell’occasione voi abbiate sposato la principessa.

 

Etna si allontana lasciando Leonida stupito e affranto. Raggiunge la balia che l’aspetta poco distante.

 

Etna: Oh, Balia! La mia prima impressione si è rivelata esatta! So già chi sposerò! Spero solo che si presenti al cospetto di mio padre e che i miei modi di fare non lo abbiano ferito troppo. Ma se è vero ciò che mi ha detto, capirà e non mi disprezzerà per la prova che l’ho costretto ad affrontare!

 

Etna e la balia escono.

 

Leonida: Che triste sorte! Gli dèi devono proprio essere invidiosi di noi mortali se mi hanno fatto incontrare una donna tanto bella e intelligente e nello stesso giorno mi hanno costretto ad abbandonarla! Aveva uno sguardo così dolce, degli occhi tanto luminosi ed un sorriso splendido! Eppure era anche tanto sagace e possedeva un guizzo che la rendeva davvero particolare! Era solo un’umile fioraia eppure aveva un contegno fiero, degno di una regina! Quale educazione avrà avuto per parlare così e tenermi testa? Ha ragione in fondo, sono qui per compiere dei doveri nei confronti della mia famiglia e delle città che mi ha scelto fra tanti aspiranti.

Era lei la donna adatta a me, sebbene appartenente ad una classe sociale più bassa! Ma la nobiltà non deriva forse dalle virtù? Lei era una nobile, ne sono certo. Ora dovrò accontentarmi  di quel che verrà.

Suvvia, dalla principessa. A confronto con la bella fioraia, quell’altra mi sembrerà una popolana!

 

 

SCENA VI:  FALARIDE. IL PIANO

Falaride, Eunuco, Consigliere.

 

Falaride: (come continuando un discorso già iniziato) Per cui come agire? So l’opinione che hanno di me i principi siculi, so quanto gli siano invisi  i tiranni. Mai accetteranno di imparentarsi con me, un tiranno. Ma poi, è proprio vero quanto si dice sul suo regno? che la sua città sì, quella Innessa, sia la più ricca tra le città etnee?  Se è vero quanto si favoleggia, a noi quegli ori stanno a cuore. È certo che mai Teuto lascerà che io sposi sua figlia. È certo anche che dell’oro ho bisogno! Devo completare ancora il Tempio della Concordia che è il simbolo che sancisce l’idillio tra me e il popolo. Degli aristocratici posso pure curarmene poco se ho il popolo dalla mia. Sono dei democratici quegli aristocratici, cocciuti e caparbi. Non accetteranno mai la tirannide. Il popolo, quello devo ingraziarmi.

Eunuco: Mio signore Innessa è protetta da mura di fortificazione tali che nessun tiranno greco ha mai osato attaccarla frontalmente. Le sue mura sono inespugnabili come quelle di Troia e se quelle furono costruite dagli dèi queste furono costruite dai loro figli, i Ciclopi. Le nostre macchine da guerra, gli arieti, le torri, nulla potrebbero contro quelle inamovibili pietre. Nessun assedio potrebbe metterla in ginocchio poiché hanno acque sorgive al loro interno e granai ripieni. Non ci fu mai un nome più adatto di  Innessa, se è vero che in lingua sicula significa “il cibo dentro le viscere della terra”, poiché i frutti e il grano crescono spontaneamente senza grandi sforzi. Ancor di più è vero dopo le recenti  opere di bonifica nei pressi del fiume Simeto, che Teuto ha appena completato. È dunque ben fortificata e rifornita di tutto punto. Una guerra nelle nostre condizioni? Sarebbe una rovina! Per raggiungerla dovremmo attraversare i territori siculi a noi ostili, per mantenere l’esercito avete bisogno di denaro, la distanza che ci separa è notevole. Provate a tassare il popolo  ancora un po’ e avrete una sommossa popolare!

Consigliere: Mmm … mmm (rimugina fra sé e sé, si gratta la testa, va avanti e indietro. Infine con uno scatto improvviso si gira verso il tiranno). Mio signore, il cavallo di Troia …

Falaride:  Ma è un trucco troppo vecchio! Sii un po’ più originale.

Consigliere:  No mio Signore …. Intendo dire che potremmo risolvere la questione facendo ricorso ad un imbroglio, un inganno, come fecero gli Achei con il cavallo di Troia!

Falaride: Ora ti spieghi bene! Non è una cattiva idea. Hai già qualcosa in mente?

Consigliere:  Certo mio signore! E l’occasione  la fornisce Teuto in un piatto d’argento.

Falaride: Tu dici?

Consigliere: Teuto non sta forse preparando un faraonico matrimonio per la sua unica figlia? Ebbene …

Eunuco: (lo interrompe) Abbiamo detto che a noi le donne non piacciono.

Falaride rivolge un’ occhiataccia all’ Eunuco.

Eunuco: (intimorito) Ovviamente volevo dire che … non siamo interessati al matrimonio.

Consigliere: Infatti non dobbiamo sposare nessuno. Né possiamo presentarci di persona.  La presenza del nostro signore non sarebbe ben accetta – sua eccellenza mi perdoni (fa un inchino a Falaride) – nelle libere città sicule. Ma i siculi sono gente ben educata e non rifiuterebbero dei doni diretti alla sposa, anche qualora provenissero – (fa un inchino diretto a Falaride)  il mio signore mi perdoni – da un Tiranno. (pronuncia la parola “tiranno” evidenziandola bene, con una lievissima sfumatura di sarcasmo. )

Falaride: (Smorfie al sentire pronunciare la parola “tiranno”)  Emh … Beh …. Vai al sodo. Parlaci di questo inganno.

Consigliere: La vita del mio signore è troppo preziosa per barcamenarci in una guerra aperta, pertanto sarà sufficiente una retata, veloce, sicura, indolore. Una retata mirata all’erario della città. Caricato il forziere su una veloce biga si rientra subito ad Agrigento.

Falaride: Tu ti prendi gioco di me. Cominci dalla fine, sembra che il tesoro sia già nei miei forzieri, ma non dici come sia possibile introdursi in una città così ben fortificata, come abbattere le ciclopiche mura o sfondare le grandi porte di bronzo, come eliminare le sentinelle vigili sulle torri che dominano la valle del Simeto … da quella rocca si vede  muoversi una pulce già fin da Siracusa. Non vorrai renderti invisibile?

Consigliere: Esatto mio signore.

Falaride ed Eunuco (scambiano sguardi stupiti  e ripetono ad una voce) Invisibili?

Consigliere: Di più! Ci renderemo amici, ospiti. Mi spiego meglio. Un araldo annuncerà che dieci bighe provenienti da Agrigento, intendono introdurre i numerosissimi doni che Falaride, signore di quella città, invia quale dono di nozze alla più bella principessa sicula, rammaricandosi che egli, già anziano, non possa gareggiare con i giovani pretendenti alla sua mano né proporre suo figlio, troppo giovane. Non avendo che invidiare il giovane fortunato che sarà degno marito di Etna si contenta di farle recapitare i doni, simbolo dell’amicizia che le offre. I doni saranno consegnati certamente dalle matrone, ben più rassicuranti dei soldati.

Eunuco: Delle matrone dovrebbero compiere un furto nell’erario cittadino? Delle donne? Ma che piano è mai questo?! Vi conviene rivederlo da capo.

Falaride: (che ha già compreso) Tu sottovaluti le donne d’oggi! Ma dagli il tempo di spiegare.

Consigliere: (infastidito dalle continue interruzioni dell’Eunuco) Grazie mio signore. Le matrone non saranno altro che giovanissimi ed imberbi guerrieri, scelti tra i migliori. Sotto le vesti porteranno le armi. Faremo in modo che arrivino in città verso il tramonto. La penombra nasconderà meglio il travestimento. Una volta entrati, consegneranno le casse e dopo avranno tutto il tempo per studiare la città. In mezzo alla folla nessuno si accorgerà di loro. In piena notte forzeranno l’erario e prese le casse con i tesori faranno veloce ritorno in patria.

Falaride: Mi piace. Qualcosa mi dice che passeremo alla storia.

 

 

ATTO II

 

SCENA I  SFILATA DEI PRINCIPI.

 

Teuto, Moglie, Etna, Nutrice,principi, Leonida

Teuto è seduto su di un trono, a fianco la moglie e la figlia. I principi sfilano ad uno ad uno portando dei doni.

 

Pretendente 1: Sono Arcade di Creta. Re Teuto, per omaggiare voi e la principessa vi faccio dono degli ori e delle  ceramiche del mio  ricco regno,  animato da mille commerci,  sicuro punto  di approdo per ogni nave che giunga dai luoghi più lontani. Non abbiamo costruito mura per difenderci. Infatti siamo amanti della pace e il nostro buon nome non ci procura nemici, ma solo alleati e amici. Non in guerra ma in pace abbiamo costruito le  nostre fortune.

 

Teuto: Conosco vostro padre, è un uomo saggio e un fedele alleato di Innessa. La Sicilia offrì una dimora sicura ai reduci di Troia che smarrirono la via del ritorno, pertanto conosciamo la vostra civiltà e vincoli di ospitalità ci uniscono. Sarei felice se mia figlia si unisse a un giovane come voi. Ma ci sono ancora molti uomini, di nobili natali, che vorrebbero presentarsi ed è bene dare a tutti la possibilità di farlo, affinché la scelta sia più sicura.

Teuto fa un cenno. Il principe si congeda.

 

Balia: (Ad Etna, sottovoce.)  Pare proprio un bel giovanotto! Che ne dite? Ma guardate questo che si avvicina! Quanto è brutto! Guardatelo mentre si pavoneggia!

 

Pretendente 2: Ottimo Re Teuto! Ricorderete di certo anche il mio venerando padre! Ormai da tempo ha raggiunto gli dèi, seguito subito dopo dal mio unico fratello, e io sono rimasto il solo a reggere le sorti del mio regno! Non è molto vasto, è vero, ma sapete bene quanto sia ricco di ogni bene! Distese di grano del colore dell’oro  e frutti dolci e dissetanti.  Per darvene una prova ho voluto portarvene in gran      quantità. (Prende qualche frutto e li  porge alla Regina, a Teuto e ad Etna).

 

Teuto: Ricordo sia il vostro nobile padre sia il vostro eroico fratello. Uomini valorosi, nostri alleati in più d’una guerra contro gli irriducibili Cartaginesi. Mi auguro che voi abbiate ereditato da loro il coraggio e l’onore oltre che il regno. Il tempo ce ne darà una prova. (Gesto di congedo.)

 

Balia: Non credo voi vogliate sposare un uomo tanto egocentrico e pomposo! Stiate serena, non pare piacere nemmeno a vostro padre. Vediamo un po’ chi si presenta ora… Che prestanza fisica!! Veste alla maniera dei soldati, e una cicatrice taglia un sopracciglio. Ha un’aria dura, ma non è affatto male. Un uomo di carattere, vigoroso! È così che dev’essere un uomo, fossi giovane e bella come voi non me lo farei scappare.

 

Pretendente 3: (con fare arrogante e bellicoso) Re Teuto, i nostri due regni a lungo sono stati nemici. Io stesso, quando mio padre non ebbe più la forza per reggere le armi in campo, ho condotto l’esercito di Siracusa contro il vostro.  Ma ora sono qui in una nuova veste. Oggi non ho intenzione di dichiarare guerra, ma solo di ricomporre la pace e renderla più duratura per mezzo del vincolo del  matrimonio. Sapete quanto sia potente il mio regno, quanto forte il mio esercito. Le nostre navi salpano per i mari più lontani, sono veloci, sicure e mai tornano vuote. Se mi concederete vostra figlia avrete in me un valido alleato, nel mio esercito  mille braccia pronte a difendervi da ogni pericolo. I nostri regni saranno infine unificati sotto la vostra benedizione.

Teuto: So bene quanto sia potente il vostro esercito, la vostra flotta è ineguagliabile nei commerci così come nelle pratiche belliche. Mi auguro che un eventuale rifiuto non si trasformi nella causa che potrebbe spingerci a nuove ostilità. Vi ricordo, mio caro Re Kratos, i termini del trattato di pace che siamo entrambi tenuti a rispettare.

 

Pretendente 3 : Non potrei dimenticarmene, temo ancora molto gli dèi per divenire uno spergiuro.   (Gesto di congedo rivolto alla Regina ed Etna. Più intenso nei confronti di quest’ultima. La considera già sua moglie).

 

Balia: Che insolenza! Ha posato il suo sguardo su di voi troppo a lungo e con un’ intensità che non si addice al luogo o alla vostra persona! Questo è un uomo abituato a prendere senza fare troppi complimenti. C’è da stare in allarme. E vostro padre lo ha ben capito. Gli è piaciuto ancor meno del precedente. E quello chi è? Pare una donna, guardatelo, i suoi abiti e il suo aspetto sono più curati del vostro. Se vi vedessi assieme non saprei dire quale dei due sia l’uomo.

 

Pretendente 4 (consegna i doni, tra questi stoffe lussuose e pregiate.)

 

Entra Leonida un po’ titubante ma deciso a compiere il suo dovere. È raggiunto dagli altri catanesi i quali indicano Etna.

 

Leonida: Com’è triste la mia sorte! Eppure devo rassegnarmi e svolgere il mio dovere di uomo, figlio e cittadino.

 

Catanese 1:  Eccoti infine! è davvero la bellezza che si dice essere. Guardatela, è proprio lì.

 

Leonida:  Questo mi consola poco … non vedrò più occhi come quelli …

 

Catanese 1: Sei davvero strano oggi! Ma che ti prende? Solleva lo sguardo. È lei la nostra principessa.

 

Leonida:  Che gli dèi mi assistano!  Non posso proprio crederci! È o non è lei? La bella fioraia! Mi ha ingannato? Mi avrà messo alla prova?

 

Pretendente 4 : … Per la Regina e per la Principessa ho dunque portato queste stoffe ricamate in oro. Si   addicono alla loro bellezza. In più mia madre si riserva di portare i suoi personali saluti alla Regina, la cara cugina, e spera di rivederla presto, magari durante un lieto evento.

 

Regina: La ricordo sempre con affetto. Ditele pure che non serve aspettare grandi cerimonie per rivedersi. La incontrerei con molto piacere in qualsiasi momento. Vorrei inoltre che le faceste avere dei doni che mi occuperò di scegliere personalmente, affinché siano il simbolo della profonda amicizia che ci lega.

 

 

SCENA  II: RICONOSCIMENTO

 

I Catanesi avanzano in gruppo. La balia sussurra qualcosa all’orecchio di Etna, quest’ultima la guarda significativamente.

 

Primo Catanese:  Ottimo Re Teuto, veniamo dalla vicina Catania, la Democratica. Non possiamo vantarci del titolo di principi o di re, perché ormai da tempo non esistono  più nella nostra città. Dunque, siamo giunti in gruppo quali rappresentanti delle migliori famiglie della città, affinché nessuno primeggiasse sull’altro ingiustamente.

Leonida:  In gruppo dunque vi consegniamo i doni non a nome dei singoli, ma a nome della nostra città, la quale, come una madre che non vede differenze tra i figli quando questi sono tutti pieni di virtù, ci invia qui tutti assieme e affida alla principessa il compito di giudicare quale sia il più degno dei mariti.

Terzo Catanese: Non siamo principi, ma non temiamo la concorrenza poiché i meriti delle nostre famiglie e le nostre virtù bastano a renderci simili a dei principi.

Secondo Catanese:  Siamo certi  che la principessa troverà fra di noi il marito che cerca.

Teuto:  Cari figlioli, ammiro il modo in cui vi siete presentati, privi di qualsiasi timore, consapevoli del vostro valore. Sappiate che l’opinione di mia figlia avrà grande valore e influenzerà di certo il mio giudizio. Un padre vuole solo il meglio per i figli, tanto più se è del loro futuro che si parla. Per mia figlia desidero un futuro pieno di prosperità e di felicità. L’uomo che sposerà dovrà portare onore alla famiglia ed essere egli stesso virtuoso e giusto. A loro assegnerò terre e alla mia morte il regno, che dovrà essere gestito con saggezza, coraggio e valore militare, affinché nessun abitante di queste terre debba mai soffrire la fame o patire le umiliazioni derivanti da una gestione dello stato inefficiente, infruttuosa e condotta senza la benedizione degli dèi.  Tutto ciò deve essere considerato e in base a ciò verrà scelto l’uomo che sposerà Etna. Vi parlo così  poiché sono convinto che tutto debba essere condotto con trasparenza.

Adesso lasciateci il tempo di scegliere con calma. Comportatevi come se questa fosse la vostra dimora.

Etna: Padre, hai detto che tutto deve essere condotto con trasparenza, dunque permettimi di parlare adesso e liberamente, davanti a tutti. Devo confessare che ho già fatto la mia scelta. Ho avuto la possibilità di parlare con un pretendente questa mattina in città. Sebbene tutti si siano dimostrati dei degni pretendenti, è a lui che va la mia preferenza e poiché un breve incontro è bastato a farmene innamorare, vi chiedo di acconsentire, padre, sempre che, il giovane Leonida sia d’accordo.

Teuto: Leonida, fatti avanti. È vero ciò che dice mia figlia.

Leonida:  Sì, è vero. Mio re, potrebbe sembrare un modo per accattivarmi le vostre simpatie, ma devo confessare la mia felicità nel ritrovarla a corte e scoprire in lei la donna che ho incontrato questa mattina. Ciò mi rende felice e infelice, perché, ora che l’ho ritrovata, non potrei sopportare di perderla.

Teuto: Terrò in considerazione le tue parole, ma non voglio ancora pronunciarmi.  Ora ritiriamoci nei nostri appartamenti e lasciamo che i nostri ospiti si intrattengano nei modi che più preferiscono. Conferirò con loro singolarmente.

 

SCENA III: ARRIVO DELLE MATRONE IN CITTÀ

3 Matrone con numerosi carri pieni d’oro e schiavi,  2 soldati di fronte alle porte della città.

Matrona I: (sistemandosi l’abito) Insomma!! Che fastidio questo travestimento!!

Matrona 2: Eppure ti dona molto, ah ah ah…….

Matrona I colpisce Matrona 2

Matrona 1: Forse non hai avuto il tempo di guardarti allo specchio!

Matrona 3: Silenzio! Arrivano le guardie. Comportatevi (con lieve imbarazzo) … da donne.

Soldato 1 serio: Cosa ci fanno delle matrone alle porte della città al tramonto e senza scorta?

Matrona 3: (Fa la vezzosa) Uh, mio buon amico, veniamo da Agrigento e portiamo dei doni da parte del nostro signore Falaride alla principessa Etna, in occasione del suo matrimonio.

Matrone assieme (facendo un inchino e ripetendo come se avessero imparato la formula a memoria, magari accompagnando con dei gesti e con dei grossi sorrisi.) Il nostro ottimo Signore Falaride di Agrigento, Tiranno di nome ma non di fatto. Ha risvegliato la città e l’ha resa ricca, ha concesso felicità al popolo e combattuto contro  i nobili egoisti.

Soldato 1. Bene, la vostra presenza era stata annunciata. Dov’è la vostra scorta? Signora, mantenete le distanze.

Matrona 3: Uh uh, scusatemi … avete proprio un grazioso visetto però.

Matrona 1: Il nostro Signore non voleva indisporre il Re Teuto inviando assieme a noi uomini in armi. Ha espressamente vietato loro di entrare nella città. Si accamperanno fuori e passeranno la notte distanti da qui.

Soldato 1 e 2 si guardano indecisi sul da farsi

Matrona 2: Ma noi siamo solo delle povere donne, sono certa che il Re Teuto vorrà offrirci riparo! Conosciamo la sua fama di buon ospite! Fa le moine ai soldati

Soldato 2: Certo, ovviamente riceverete la migliore delle ospitalità. Adesso seguiteci. Com’è uso condurremo i doni presso l’erario della città e dopo vi scorteremo fino a palazzo dove troverete qualcuno pronto ad accogliervi.

 

I soldati fanno strada. Le matrone seguono.  Gli schiavi dietro guidano le bighe.

 

Matrona 1 (diretta a Matrona 3 sotto voce): Tua madre sarebbe lieta di vedere che bella figliola ha partorito. “Avete proprio un grazioso visetto!”

Matrona 3: Sto cercando di recitare al meglio il mio ruolo!

Matrona 2: Ti riesce davvero naturale!

Matrona 3 colpisce entrambi gli amici. I soldati si voltano a guardarle e le matrone si ricompongono e sorridono con fare vezzoso

 

 

SCENA IV.

Teuto, Regina, Etna, Leonida passeggiano presso un giardino.

Teuto : Ho già conferito con tutti i pretendenti. Non  rimani che tu Leonida di Catania. A te voglio dedicare più tempo dato che mia figlia ha  manifestato per te una particolare attrazione. Ho intenzione di parlarti liberamente come si parla ad un figlio. Non voglio ingannarti, chi ti ha preceduto è certamente più ricco e più potente di te.

 Leonida: Ne sono consapevole.

Teuto: Sono fattori che influenzano molto la scelta di chi vuole apportare benessere e ricchezza al proprio regno. Eppure questo non è che un aspetto. Non è la ricchezza a fare di un uomo un re. Un re è tale quando ha le virtù necessarie per guidare un popolo. Il benessere personale non è un punto di partenza ma di arrivo. Se il re è abile nelle azioni di governo, se conduce la sua vita con sobrietà e non sperpera ma invece incrementa le risorse del regno per mezzo di una buona politica, il regno prospera, il popolo non vive nella miseria ed è sereno. Se il re è giusto in tempi di pace e di guerra, il popolo è felice. La ricchezza di un re non si misura solo in oro. Certo è vero che l’oro rende tutto più facile, ma non bisogna mai considerarlo essenziale. Conosco re che hanno sconvolto la serenità del proprio popolo per condurre una politica di munificenza volta ad ingraziarsi il consenso generale. Ma è una strada pericolosa questa che hanno intrapreso. Da un momento all’altro tutto potrebbe cambiare.

Leonida: Catania non ha re, ma le vostre parole sono vere e può ben comprenderle anche chi proviene da una realtà come la mia. Le famiglie aristocratiche che  guidano la città con il consenso del popolo collaborano affinché la giustizia e la pace siano preservate.

Teuto: Mia figlia mi ha confessato il piccolo inganno di cui si è resa arbitro. Perdonatela se potete.

Leonida: È così mio Re. Tanto mi aveva incantato quella fioraia che sono stato vicino a non presentarmi a corte, ma il dovere nei confronti della mia città e della mia famiglia mi ha riportato sulla giusta strada. Non ho nulla da perdonare, non la biasimo per come ha agito.

Teuto: Mi ha anche detto che avete esperienza militare.

Leonida: Sì. L’educazione di ogni catanese, specialmente se di famiglia aristocratica, prevede l’addestramento militare, ma non trascura gli studi. La pratica bellica è necessaria per rafforzare corpo e spirito. Sudore e fatica creano l’uomo, lo forgiano sano e forte. Le scienze attribuiscono rigore di legge alla conoscenza che di per sé è infinita e mai completamente alla portata dell’uomo. Allo stesso modo l’uomo deve darsi delle leggi là dove l’incerto regna sovrano. La filosofia  rende l’uomo saggio.  E il rispetto degli dèi e degli antenati lo rendono perfetto. Tutto questo prevede l’educazione di un catanese. E credo, per quel che so di voi, che non sia dissimile dalla vostra.

Teuto: Mi sembrate un giovane sano e valoroso. Purtroppo però, il tempo a nostra disposizione non è sufficiente per darne una prova. Ancora una volta voglio essere sincero: la mia preferenza ricade su di  voi quanto su Arcade di Creta.

(alla Regina) Mia cara, è bene rientrare. Andiamo. Etna, intrattieniti pure se preferisci, ma non tardare.

(Si allontana con la Regina)

Teuto: E tu, che sai essere la più saggia tra i  miei consiglieri, mia cara Regina, non mi hai ancora reso partecipe della tua opinione.

Regina: Mio Re, e amore mio, due anime simili condividono spesso le stesse opinioni, e per questo che so essere la più saggia tra i tuoi consiglieri. Il più delle volte il nostro pensiero risuona all’unisono e tu sai che ciò che suggerisco è giusto perché tu stesso lo consideri tale. Come te io credo che Arcade e Leonida siano i migliori tra i pretendenti. Qualcosa me li rende simili. La buona educazione, il rispetto verso l’autorità umana e divina. Entrambi saprebbero governare con giustizia e vigore. Sennonché Arcade è un principe ed erediterà un ricco regno, mentre Leonida è solo un aristocratico. Figlio di un’ottima famiglia di una città potente ma democratica. Adesso devi solo capire quale sia la cosa migliore per il regno e per tua figlia. Unire due regni o preservare la forza del nostro senza correre il rischio di decentrare il governo? E ancora più importante, almeno per una madre, arricchire il regno con una buona alleanza o compiere la felicità di una figlia che ha già scelto il suo futuro marito? Ad ogni modo, ognuna delle due alleanze riserva ottime possibilità.

Teuto: È vero, i nostri pensieri risuonano all’unisono. (escono)

 

SCENA V

Etna e Leonida si prendono per mano

Leonida: Oh Etna! Quanto mi ha sorpreso rivedere in voi quella bella fioraia! Credevo di sognare!

Etna: Perdonatemi, Leonida, per quel brutto inganno! Avevo notato voi ed i vostri amici e ho voluto scoprire quali fossero le vostre reali intenzioni. Tra i pretendenti ve ne sono molti che aspirano al regno. Innessa è ricca di ogni bene e sicura,  ben fortificata ed inespugnabile. In molti ambiscono a diventarne Re. Certo, anche una volta sposati nulla assicura loro il regno. Ma tu sai che un genero ambizioso è certamente fonte di pericolo. La storia racconta anche di familiari che hanno complottato per ottenere il potere incuranti di ogni sorta di legame.

Leonida: Non temete, comprendo le vostre motivazioni: dovevate tutelare il popolo, vostro padre e certamente  voi stessa. Tutto questo vi rende ancora più cara ai miei occhi.

Etna: Leonida, se anche voi mirate ai beni di mio padre, a Innessa o anche solo ad un piccolo arricchimento che di certo percepirete sposando me, confessatelo subito. Dopo il mio cuore non reggerebbe al dispiacere di scoprire in un uomo tanto amato un marito freddo e insensibile.

Leonida: Etna! Non vi ho forse dimostrato già quanto poco io mi curi delle ricchezze? Non lo avete compreso quando mi dimostrai pronto ad abbandonare i propositi di sposare una ricca, bella ma sconosciuta principessa per una bella, virtuosa e intelligente fioraia? E non comprendeste che solo l’onore e il dovere nei confronti della mia famiglia e della mia città, accompagnato dal rifiuto della fioraia, che così si dimostrava virtuosa, mi portò ad avviarmi verso quello che sentivo come un sacrificio?

Etna: È vero … perdonatemi. Sono solo spaventata.

Leonida: Da cosa?

Etna: Dal cambiamento e … dalla possibilità di perdere voi. Nulla è certo. Io ho espresso il mio giudizio, ma temo che non sia sufficiente. Avete sentito? Avete un degno rivale.

Leonida: Cosa posso fare per conquistare la fiducia e la stima di vostro padre?

Etna:  Il poco  tempo e la pace che regna su Innessa non lascia molte possibilità. Oh, se solo poteste dimostrare il vostro valore!!

(si abbracciano)       

 

SCENA VI

Matrone, guardie, tesoriere e segretario presso l’Erario della città.

Tesoriere: Il re e la principessa ringraziano caldamente il vostro signore Falaride  per questi ricchissimi doni! Mai nessuno fu tanto liberale nei confronti di un alleato.

Schiavo 1 : E non sapete quanto pesano queste bighe!!

Matrona 2: (a parte) Quasi fossero piene di pietre! (riceve una gomitata dalla Matrona vicina la quale riduce la precedente al silenzio)

Tesoriere: Mio buon segretario, aprite la cella dell’edificio in cui sono custodite i tesori di Innessa.

Segretario: (Apre. Poi guarda con sguardo torvo le matrone che fanno per entrare.) Nella cella nessuno può entrare se non gli addetti. Attendete qui fuori.

Guardie e schiavi scaricano i forzieri dalle bighe. Sono molto pesanti.

Matrona 1 : Vi invito a prendere atto del contenuto di almeno una di esse.

Tesoriere: Ma non è nostra abitudine … il Re deve …

Matrona 3: Oh! Ma che sciocchezze! (Lo scosta con poca femminilità, apre l’unico forziere di colore diverso che si dimostra essere piena d’oro.)

Tesoriere: Ohhh!! (Applaude evidentemente soddisfatto, fa per toccare le monete ma si trattiene. Schiarisce la voce e si ricompone.) Su! Non indugiamo oltre! Portiamoli dentro.

Andirivieni di Guardie e schiavi.

Matrona 1: Dunque …   la cella interna, dove custodite l’erario pubblico, è chiuso …

Segretario: (Tono duro e aspro) Chiuso, serrato, sprangato, custodito da guardie ventiquattrore al giorno. Senza considerare la protezione del Dio Adrano che vigila e osserva. Sempre.

Matrona 3: (al tesoriere prendendolo a braccetto) Un poco tirato il vostro amico. Ma ce l’ha una donna?

Matrona 1: E scommetto che voi due le vostre chiavi le proteggete a costo della vostra vita.

Segretario e Tesoriere: Esatto!

Matrona 2: Uhhh! Che uomini! (prende a braccetto il sacerdote) Mi piace il vostro coraggio. La difendete con il vostro stesso corpo? Scommetto che la portate appesa al collo. (lo sfiora)

Sacerdote: (imbarazzato allontana la mano)Potete scommetterci. A costo della vita!

Matrona 2: Uhhhh!! Che coraggio!!

Matrona 3  (al tesoriere) E ditemi … Voi ce l’avete una moglie?

Entra Leonida e scorge la scena.

Leonida: Ma cosa succede? Non è l’erario della città? E quelle donne che si stringono al segretario e al Tesoriere? È meglio dare un’occhiata. (Si avvicina) Buonasera Signori. Cosa succede qui?

Tesoriere: Siete Leonida di Catania? Queste donne giungono da Agrigento e portano i doni per la principessa come omaggio da parte del loro Signore.

Matrone: (facendo un inchino e ripetendo come se avessero imparato la formula a memoria, magari accompagnando con dei gesti e con dei grossi sorrisi.) Il nostro ottimo Signore Falaride di Agrigento, Tiranno di nome ma non di fatto. Ha risvegliato la città e l’ha resa ricca, ha concesso felicità al popolo e combattuto contro  i nobili egoisti.

Leonida:  Falaride … ha la fama di uomo molto astuto. (sospettoso) Avete portato dei doni?

(gira attorno ai forzieri rimasti poi si avvicina alle matrone che abbassano il viso per non farsi riconoscere. Poi si congeda.)

Leonida: Con permesso. (Si allontana. Si ferma prima di uscire dalla quinta. Rivolto al pubblico.) Eppure queste Matrone non mi piacciono affatto. Ho un certo presentimento. È meglio che  rimanga a vigilare. Ma non bisogna essere avventati, se è quello che credo io, le mie sole forze non basteranno. Tornerò qui con i miei compagni.

Intanto escono le guardie e il segretario  chiude i cancelli del tempio.

Tesoriere: (tenendo due matrone a braccetto, l’altra si accompagna al segretario, che però sembra molto restio) Bene, se abbiamo finito, permettete che vi accompagni nei vostri alloggi.

Matrona 2: Perché invece non ci fate l’onore della vostra presenza mentre ci ristoriamo! Siamo affamate!

 

SCENA VII. IL FURTO  PRESSO L’ ERARIO PUBBLICO.

Rientrano le matrone. Sono davanti al tempio, adesso sgombero. Si guardano attorno sospettose. Nascondono le armi sotto un mantello. Schiavi.

Matrona 1: Non c’è nessuno. Via libera.

Matrona 2: Le guardie sono all’interno.

Matrona 3: Faremo presto a stenderli.

Matrona 1: Le chiavi chi le ha?

Matrona 2: Le ho io! Non c’è voluto molto a sfilargliele dal collo. Il vino è sempre un ottimo alleato. Ah ah ah!!

Matrona 3: Ah ah ah!! Quel segretario era irriconoscibile dopo avere tracannato tutto quel vino!

Matrona 1: Ah ah ah! Che ridere! E quel tesoriere? Ah ah ah!! (ridono)

Matrona 3:  Basta ora. Vediamo di pensare alla missione. Avvicinatevi. No, non spogliatevi ancora. Entriamo vestiti da donne per coglierli di sorpresa, dopo di ché li colpiamo. Storditeli, uccideteli, poco importa. Apriamo la cella, svuotiamo i forzieri pieni di pietre, li riempiamo di oro e li carichiamo sulle bighe. Sono ancora qui fuori (le indica). Chiaro?

Matrona 1: Nulla di più semplice.

Matrona 2:  Vediamo di non fare troppo rumore.

Entrano

Voci da dentro:

Matrone: Uhhhh!!! Salve!! Ci hanno mandato a farvi un po’ di compagnia!

Si sentono le matrone colpire le guardie, rumore di armi che cozzano.”Ehi!” ed “Oh!” “Sbrigati!” “Per di qui!”

Intanto giungono i catanesi con le armi in mano.

Leonida: Ne ero certo! Clodio! Corri ad avvertire le guardie e il Re! Vai!

Clodio: Volo!

Escono le matrone mezzo svestite, rivelano le loro sembianze maschili, portano alcuni cassieri fuori.

Leonida: Sapevo che nascondevate qualcosa! Non c’è mai di che fidarsi di un tiranno come Falaride.

Matrona 1: Ci hanno scoperti! Schiavi, presto accorrete! (afferra uno schiavo per la veste) Tu e i tuoi amici, caricate quanto più oro possibile sulle bighe mentre noi li teniamo impegnati, appena ne carichi una, portala fuori dalle mura! Sbrigati!

Inizia lo scontro (tre contro tre). Si feriscono a vicenda ma non si uccidono. Leonida alla fine pare mettere in difficoltà il suo avversario, il quale cade a terra. Si accorge che  gli schiavi hanno caricato quattro o cinque bighe e si sono dati alla fuga. La matrona acceca Leonida con della terra e urla la ritirata.    Fuggono con il bottino.

 

SCENA VIII

Arrivano Clodio, Teuto armato, Etna, Regina, Guardie.

Etna si precipita ad assistere Leonida. Alcune guardie entrano nel tempio.

Etna: Leonida! Stai bene? Sei ferito!

Teuto: Cosa succede! Dove sono?

Leonida: Signore sono fuggiti! Non siamo riusciti ad impedire la fuga, ma abbiamo limitato il danno. Sono riusciti a caricare solo la metà delle dieci bighe che avevano previsto per il colpo.

Una Guardia: (uscita dal tempio) Re Teuto, le guardie messe a custodia del tempio sono state uccise, solo una è gravemente ferita ma è riuscito a parlare. Ha confermato che il furto è stato compiuto da giovani guerrieri travestiti da donne. Li hanno colti di sorpresa e attaccati. Dentro abbiamo trovato alcuni forzieri vuoti, mentre altri contenevano pietre. Uno solo conteneva oro.

Teuto: Falaride ha organizzato tutto questo …

Giungono  il Tesoriere e il segretario che si gettano ai piedi del Re.

Tesoriere: Perdonatemi Signore! Sono stato uno sciocco! Siamo caduti nel loro tranello. Ci hanno derubato delle chiavi!

Segretario: Perdonateci … credevamo fossero solo donne!

Re Teuto: Tesoriere, Segretario, non vi verrà torto un capello per il vostro errore, ma abbandonerete la carica dopo avere stimato con esattezza il danno. Vi verrà assegnato un compito che preveda minori responsabilità. Così sconterete la vostra colpa.

(Si avvicina ai Catanesi che intanto si sono sollevati e messi di fianco l’uno accanto all’altro) Quanto a voi, giovani Catanesi, il vostro coraggio verrà ricompensato, vi verranno attribuite delle terre e, per averla difesa come fosse la vostra patria, vi concederò la cittadinanza ad onore. In questo modo sarete figli di Catania e di Innessa e godrete dei privilegi di entrambe le città.

Leonida, il tuo amico mi ha detto che sei stato il primo a renderti conto dell’imminente pericolo. È vero?

 

Leonida: Sì, mio signore. Ma ad onor del vero si è trattato di un puro caso e, se i miei concittadini non mi avessero prestato aiuto, avrei potuto fare ben poco.

 

Teuto:   Anche il sapere riconoscere quando bisogna accettare o chiedere aiuto è motivo di merito. Chi si ostina a proseguire in solitudine, pur in presenza di validi collaboratori, non potrà andare lontano.

Leonida, oggi mi hai dimostrato il tuo valore nelle armi e nel giudizio. Per ringraziarti voglio concederti la mano di mia figlia. Vi concedo la mia benedizione per il vostro matrimonio.

 

Etna e Leonida si abbracciano

Etna:  Grazie padre! (abbraccia Teuto)

Leonida: Grazie. (si stringono la destra)

 

 

SCENA IX: IL MATRIMONIO 

Giorno del matrimonio. Etna e Leonida seduti tra  Teuto e la Regina. A fianco, in piedi, il sacerdos.

Presente tutto il popolo e  i pretendenti.

 Teuto  Si alza, invita, prendendogli la mano, la principessa ad alzarsi.

Teuto: La principessa Etna, come il suo nome dice, è un dono degli dèi. Io li invocai perché ella riempisse il mio cuore, poiché le numerose ricchezze di questa città da sole non bastavano a farlo. Gli ori non sono  il fine dell’uomo, che questi vanno e vengono, così come ce n’è stata data una prova. Questi sono ricercati dai tiranni ma noi, miei cittadini, miei sudditi, noi no. Figli miei, noi ambiamo a ben altro. Noi con la prossima ricca stagione di raccolta, con gli agrumeti del Mendolito, ora irrorati attraverso le recenti opere di bonifica, con l’abbondanza delle nostre greggi e delle mandrie, con le fabbriche dei laterizi, con le opere dei nostri artigiani, famosi per la loro arte, ben presto li riempieremo di ori ancor più abbondanti. Eppure non curiamoci di ciò, non di ciò che si ossida, che può passare di mano, rompersi, o deperire. Cerchiamo e curiamoci piuttosto del vero bene, ovvero di ciò che è costante e inamovibile. Esso si chiama amore: l’amore di una figlia, l’amore dei propri cittadini, l’amore per gli antenati, per Adrano, per i nostri padri, che resero grande questa città non per le ricchezze che ci tramandarono ma per gli immortali valori di cui essi oggi  sono esempio. Ecco che io annuncio l’amore di mia figlia per il giovane aristocratico catanese Leonida. Essi governeranno dopo di me la città di Innessa, che dal giorno del suo matrimonio sarà ad ella intitolata col nome di Etna. Dopo che io mi sarò ricongiunto ai miei padri, riserverete a lei lo stesso affetto che avete dimostrato nei miei confronti durante tutti questi anni del mio principato. Come le nostre istituzioni vogliono, attuerà le decisioni che saranno prese dal consiglio cittadino, perdurerà la tradizione dei siculi che si reggono in istituto di democrazia giurando ostilità ai tiranni che, da quando accogliemmo pacificamente i Greci, si sono moltiplicati nell’isola. I sacerdoti Adraniti vigileranno affinché i siculi mai perdano l’ardore che alimenta l’amore di Adrano, l’Avo, per la nostra stirpe e per la nostra città.

Il popolo: (grida) Per Adrano, l’Avo, lunga vita ai siculi, lunga vita a Teuto, lunga vita alla principessa Etna.

Teuto: Ed ora, poiché questi due giovani cuori innamorati non possono attendere oltre,  si sospenda ogni attività e che ognuno participi della nostra gioia. Che si proceda con il matrimonio e che Odrh Ano vigli su di noi concedendoci la sua benedizione.

Leonida ed Etna si prendono per mano. Il sacerdote di fronte a loro avvolge  le loro destre in un tessuto rosso.

Balia di lato piange, commossa.

Il popolo acclama.

VCF: Così, seppure a seguito di un grave furto, si conclude, tra la gioia generale, la nostra storia.

Falaride, grande Tiranno, riuscì parzialmente vittorioso da questa impresa. Ottenne molte ricchezze che gli furono utili per completare il tempio della Concordia e per istituire giochi e mantenere i propri soldati e i mercenari. Gli parve di avere risolto parte dei propri problemi, almeno fino a quando quell’oro finì e non ebbe bisogno di procurarsene altro per sedare il popolo e i nobili, suo costante cruccio. Probabilmente la sua vita fu sempre minacciata dal timore di perdere il consenso pubblico.

Coloro che subirono un grave danno invece non ebbero né il tempo né il motivo di abbattersi. Le parole di Teuto a questo proposito sono chiare. Le ricchezze vanno e vengono, ma l’affetto, la giustizia, le virtù possono essere eterne e sono i valori che portano serenità e gioia nella vita degli uomini. Poiché Teuto aveva compreso questa verità, il popolo non lo chiamò mai Tiranno, né egli ebbe bisogno di esercitare un potere tirannico sul popolo. Teuto si curò della concordia e della serenità, ma non ebbe mai bisogno di comperarli a prezzo d’oro, per questo non diede peso alla perdita delle ricchezze più di quanto ce ne fosse bisogno.

La città si riprese presto. Innessa, rinata a nuova vita da questa unione, sarebbe passata alla storia con il nome di Etna e avrebbe continuato a prosperare e a godere del consenso del nume patrono della città, Odhr Ano, l’Antenato.

 

FINE

 

Francesco e Ottavia Branchina

Dal Mar Nero al Mediterraneo: Quattromila anni di ininterrotta attività di spionaggio. Dalla guerra di Troia al conflitto ucraino.

Guerra di Troia: dalla guerra fredda alla guerra dichiarata.

La datazione ritenuta più attendibile per indicare la caduta di Troia, dopo un decennio di assedio da parte dei Greci, è quella del 1184 a.C. Ritenendo che il lettore abbia ormai metabolizzato la tesi secondo la quale il mondo, in tempi pre storici, era caratterizzato da una civiltà globale, per comprendere gli intrecci politici di un periodo cronologicamente così distante dal nostro, bisogna che il lettore si spogli per prima cosa dai condizionamenti esercitati dalle narrazioni poetiche dei fatti di quel periodo giunte fino a noi, in quanto difficilmente il lettore riuscirebbe a leggere nel poema la verità che si cela fra le righe del racconto, specialmente se questi racconti sono stati messi per iscritto dai vincitori quattro secoli dopo gli eventi accaduti. Il ricercatore deve, invece, assumere l’atteggiamento imparziale dell’investigatore privo di pregiudizi, tenere conto che gli schemi mentali appartenuti agli individui fin dall’apparire dell’Homo Sapiens non sono mutati e deve innanzitutto ricercare fonti alternative e possibilmente contemporanee ai fatti accaduti che non mancano quando gli accadimenti assumono posizioni di interesse globale. Infatti, grazie al confronto delle informazioni provenienti dalle parti in conflitto, contenute nei freddi, poco eleganti dal punto di vista poetico, ma realistici resoconti di Ditti Cretese e Darete Frigio, si può apprendere una versione alternativa a quella pedagogica elaborata dalla scuola di Omero. Dalla lettura dei testi provenienti dai sopracitati autori, testimoni oculari del conflitto – Darete viene citato dallo stesso Omero nell’Iliade- emerge che la causa della caduta di Troia verrebbe addossata al tradimento di Enea e a suo cugino Antenore, i quali aprirono nottetempo le porte della città al nemico. Su questo episodio non ci soffermeremo più di tanto avendolo già indagato nell’articolo “Enea alle pendici dell’Etna”, pubblicato anni fa su miti3000.eu. A noi qui interessa piuttosto indagare le correlazioni vigenti, fin da tempi immemorabili, tra l’irrequieta area geografica del Mar Nero e il Mediterraneo, che vide la Sicilia quale tavolo di trattative diplomatiche e manovre di controspionaggio.

Per comprendere il ruolo di Deus ex machina esercitato dai principi siciliani nella geopolitica durante il periodo che intercorre tra il II e il I millennio a. C., bisogna volare alle altezze dell’indomita aquila e, sorvolando la vasta area mesopotamica, anatolica, greca e siciliana, dall’alto scrutare i movimenti invisibili dal basso, che dietro le quinte svolgevano i governanti delle regioni prima nominate. Bisogna non trascurare il fatto che in tempi antichi, come ancora in alcuni casi nei tempi moderni, ogni guerra veniva combattuta sotto il grido di dio lo vuole, come a indicare che “ogni evento svolto quaggiù veniva prima deciso lassù”. Di conseguenza, mettendo sotto la lente d’ingrandimento la teogonia e la mitologia di quel tempo, potremo scoprire, grazie alla tramandata attività degli dèi che interferivano nelle umane attività belliche, le celate opere umane, che di quegli dèi – chiunque essi fossero– erano il prolungamento in terra, mostrando altresì, che poco avendo di divino, quelle divinità nutrivano più interessi in terra che in cielo.

Ora si dà il caso che nel periodo di tempo qui esaminato, e forse ancora oggi, gli dèi che intendevano risolvere ogni problema istigando gli uomini a combattersi erano in realtà due e ognuno di loro poteva contare sull’appoggio, oltre quello ovvio dei propri congiunti, della fazione degli uomini che avevano scelto di schierarsi per l’uno o per l’altro dio. I nomi di queste divinità dicotomiche erano identificabili con quelli di: Enki e Enlil in area mesopotamica; Poseidone e Zeus in area greca; in Sicilia, genericamente appellati Palici o Delli, potrebbero essere identificati con Enki ed Enlil quanto con i figli del primo, Thot e Marduk, venuti tutti in contesa tra loro. Le liti riguardanti i quattro, avvenute in tempi diversi, potrebbero essere state fuse in un unico mito nella tradizione siciliana o nella ricostruzione greca riproposta da Eschilo nelle Etnee. L’ipotesi di un conflitto tra i due fratelli divini su scala globale, con epicentro strategico in Sicilia, matura grazie alla lettura, fatta da una diversa angolazione, dei testi classici greci e dalla esamina della traduzione delle tavolette sumeriche fornite dagli accademici. Attraverso l’incrocio dei fatti descritti dagli autori dei suddetti testi, grazie al significato dei toponimi, dei teonimi e la decriptazione delle metafore contenute nei miti, siamo pervenuti a identificare l’Abzu, la sede occidentale di Enki, con la Sicilia – per l’approfondimento di questo tema rinviamo i lettori agli articoli precedenti-. Il fatto che nella teogonia siciliana pre greca non ci sia una divinità che con la sua presenza controbilanci il peso esercitato dal dio Adrano, potrebbe essere attribuito al fatto che l’isola potesse essere stata eletta a terreno neutrale (vedi il nostro articolo: “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, www.adranoantica.it), e tuttavia posta sotto la giurisdizione del dio affettuosamente chiamato dai Sicani nonno, avo, cioè Ano aggettivato odhr furioso. L’isola sarebbe stata, infatti, il luogo in cui avevano sede le dodici ambasciate divine, oltre che essere il laboratorio sperimentale abitato da quella equipe di genetisti di cui si fa esplicito riferimento nelle tavole sumeriche, diretto da Enki e successivamente da suo figlio Ningishazidda, corrispondente al dio egizio Thoth e al greco Ermete.

Eridu.

Nelle tavolette sumeriche si fa sovente riferimento ad una città edificata da Enki nell’Abzu, il cui nome era Eridu. Se fosse giusta l’interpretazione etimologica da noi azzardata per questo appellativo, cioè luogo in cui si è giurato o promesso (di mantenere la concordia) facendo derivare il toponimo da Ehre onore, reputazione, considerazione e Eid giuramento, promessa, ecco che sarebbe possibile immaginare che l’isola venisse scelta davvero come sede delle ambasciate divine e luogo esente da conflitti di ogni genere. Non solo, ma si comprenderebbe il motivo per cui tutti gli eroi e regnanti del mondo allora conosciuto, da Enea a Ulisse, da Ercole a Minosse, da Giasone a Medea venissero in Sicilia a conferire con la personalità più autorevole del tempo, quel Al Cened o Alcinoo, di cui diremo oltre, e che nulla si compisse nel mondo mediterraneo senza la sua approvazione o quanto meno senza prima relazionarsi con lui. Il fatto, poi, che nessuna tradizione storica e mitologica accenni a ostilità avvenute nel suolo siciliano prima della venuta dei Greci nell’VIII sec. a.C., durante cioè il lungo periodo sicano e che gli abitanti dell’isola venissero universalmente riconosciuti come un popolo pacifico, corrobora la tesi secondo la quale il divino giuramento, “Ehre Eid” , dovette reggere per qualche millennio e chiunque fosse stato tentato dall’infrangerlo, fosse stato pure il figlio di un dio come nel caso di Minosse, avrebbe espiato il sacrilegio con la morte. Naturalmente quel giuramento non impedìva che nelle ambasciate siciliane si intraprendessero azioni di controspionaggio , anzi, proprio il dio Adrano, se è giusta la identificazione di questa divinità col mesopotamico Enki, aveva in qualche modo inaugurato l’arte della contrapposizione occulta quando, aggirando il giuramento relativo alla catastrofe del diluvio, col fine di salvare il genere umano che il fratello Enlil desiderava annientare (Enki fu costretto a giurare che non avrebbe rivelato agli uomini l’imminente arrivò del diluvio), facendo finta di parlare con una parete di canne, rivolgendosi in realtà a Ziusudra, il Noè mesopotamico, rivelava i suoi piani per salvare il genere umano.

Eolo e i venti di guerra.

Siamo dell’avviso che Enlil, detto Eolo in Sicilia, imparata l’arte messa a punto dal dal fratello Adrano/Enki, cioè di poter aggirare i giuramenti senza essere tacciato di spergiuro, arte che i Siciliani ereditarono dal loro Avo divino, tanto da fare affermare a Cicerone nelle verrine che questo popolo era maestro nell’arte di lasciare intendere senza dire, lo emulasse. Nell’ambito della guerra fredda che serpeggiava tra i fratelli divini, uno degli obiettivi che si perseguiva nell’ambasciata siciliana di Enlil, qui chiamato Eolo, era probabilmente quello di portare aiuto al re Eeta, suo alleato nella Colchide, nel Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, senza per questo essere accusato di ingerenza nella politica di uno stato straniero. L’aiuto consisteva nell’inviare un misterioso oggetto nascosto nell’isola che da lui prendeva il nome, Eolia, dove era ubicata verosimilmente la sua ambasciata. Il nome in codice di questo temibile oggetto era quello eufemistico di “vento sacro” ovvero Ve Hel, il famoso vello di cui tratta Apollonio Rodio nel suo Le Argonautiche. Il vento sacro o vello d’oro, doveva certamente rappresentare un’arma non convenzionale, qualcosa di simile a quella posseduta dai Giudei chiamata arca di cui nessun contemporaneo era ma riuscitoi a comprenderne né l’efficacia o la composizione, né gli effetti provocati, salvo il constatare che se qualcuno si a costava all’arca incautamente e senza prendere le dovute precauzioni rimaneva folgorato. Così il vello avrebbe certamente potuto essere determinante per il risultato di un eventuale conflitto militare che si sarebbe potuto verificare nella instabile area mediorientale con epicentro nel Mar Nero.

Integrando quanto qui supposto circa le presunte armi non convenzionali di quel tempo con quanto viene affermato nelle tavolette sumeriche, in cui si apprende che in Medio Oriente, nella città di Aratta, il re era in possesso dei famelici “me”, ritenuti dall’anonimo compilatore delle tavolette potenti mezzi di potere, non ci si allontanerebbe troppo dal verosimile se ipotizzassimo che il vello, parola in codice utilizzata nel linguaggio sicano in ambito militare , dovesse servire al re della Colchide Eeta per contrastare le armi, forse i me, possedute da un ipotetico suo antagonista.

Ma qualcosa era andato storto, forse venne supposto che Eeta non aveva intenzione di fare buon uso di quella pericolosa arma o forse mutati i rapporti di forza mutavano le alleanze, fatto sta che si optava per il recupero dell’arma. A tal fine venivano selezionati i migliori agenti che operavano nell’ambito del Mediterraneo, probabilmente ingaggiati da Enki/Adrano protettore del genere umano. Come si evince dal testo di Apollonio Rodio Le Argonautiche, i componenti dell’equipaggio erano imparentati sia con Eolo/Enlil che con Enki, essendo figli, nipoti e pronipoti dei due fratelli. Lo scopo della missione era quello di indurre, con le buone o con le cattive, Eeta a riconsegnare la micidiale arma. Enlil/Eolo dimostrava in questo episodio, così come lo aveva dimostrato precedentemente in quello relativo al diluvio, di essere insensibile alle umane sofferenze, e che, anzi, auspicava la periodica decimazione degli esseri umani, fornendo agli inconsapevoli gregari di volta in volta le armi di distruzione di massa. Questa strategia Enlil/Eolo l’avrebbe adottata ancora dopo, utilizzando l’astuto Ulisse. Infatti, all’eroe greco, stando al contenuto dell’Odissea e all’inedita interpretazione qui proposta, famoso per le sue doti di astuta mistificazione, Eolo consegnerà, due generazioni dopo la consegna del Vello a Eeta, l’arma chiamata Furore in codice (odhr in lingua sicana), ovvero il famoso otre che conteneva i malefici venti della distruzione, i quali, come è scritto nelle tavolette sumeriche, verranno utilizzate con efficacia sulle città sumeriche di Ur, Uruk, Nippur e tutte le altre tranne Babilonia, risparmiata dal vento contrario che inaspettatamente, soffiando in altra direzione, allontanò le pestifere radiazioni (?). Città distrutte dalle medesime cause saranno ritrovate dagli archeologi in altre aree geografiche: Moenjo Daro in Pakistan; Sodoma e Gomorra in Palestina; in India si trovano citazioni contenute nei testi sacri: i Veda. Ulisse, però, darà picche a Eolo, infatti quando il greco farà ritorno nell’isola del dio, per comunicargli il fallimento dell’operazione Furore, verrà cacciato dal palazzo a male parole oltre che a essere maledetto. Noi sospettiamo che dietro il fallimento dell’operazione Furore, ci sia lo zampino di Adrano/Enki, il garante della pace universale e protettore del genere umano. Infatti, il re dei Feaci Alcinoo, la cui reggia si trovava a Trapani, e che senza ombra di dubbio era un affiliato al clan di Enki, sarà colui che, dopo aver ospitato nella propria reggia il doppiogiochista greco, principe d’inganni e maestro di strategie, lo farà accompagnare incolume a Itaca a bordo delle imbarcazioni siciliane che si muovevano, afferma l’aedo cieco nel suo poema, col solo pensiero, senza l’ausilio di remi.

La Sicilia snodo di intrecci diplomatici e/o di spionaggio.

Sorvolando in questa sede sui numerosi riferimenti alla Sicilia contenuti nel poema di Apollonio Rodio Le Argonautiche, e sulle citazioni di toponimi che si trovano sia in Grecia che in Sicilia, che sommati ad altri indizi ci inducono a sospettare – e la riuscita operazione di sincretismo in chiave grecocentrica effettuata dai Greci in Sicilia a partire dall’VIII sec. a.C. ce ne dà forte motivazione- che il porto da cui partirono gli Argonauti sia stato quello di Ortigia a Siracusa, piuttosto che quello greco della oscura Jolco, rimaniamo comunque dell’avviso che Eolo/Enlil o Enki/Adrano, o entrambi essendo pervenuti ad un accordo di collaborazione, convocati i comuni parenti (la parentela tra Eolo e gli Argonauti è attestata nel lib. I, cap. 1094. Fanno parte dell’equipaggio anche Neleo e Peleo che Poseidone ebbe da donna mortale) li inviarono a recuperare la pericolosa arma che si trovava nel Mar Nero, nelle insicure mani del re Eeta, nelle quali l’avevano consegnata anni prima Frisso ed Elle, nipoti di Eolo, per disposizione dello stesso dio dei venti. Percorrendo la liquida strada che ormai veniva considerata una sorta di via della seta che metteva in comunicazione il Mar Nero con la Sicilia, gli Argonauti raggiungevano la Colchide riuscendo nell’impresa di recupero. Rientrati in possesso del non meglio identificato oggetto chiamato cripticamente ve-hel, vello, stando alla versione greca che voleva Greci i mandanti della missione, avviene un fatto inspiegabile: i cinquanta agenti, invece di recarsi in Grecia e chiudere a Jolco la missione ufficialmente voluta dal re di Jolco, e che avrebbe consegnato il comando della città al capo della missione Giasone, gli Argonauti continuano il periglioso viaggio alla volta della Sicania, lasciandosi alle spalle la Grecia. In Sicilia si recano a Trapani. Qui incontrano Al Cened o Alcinoo, re dei Feaci. Le contraddizioni insite nel racconto, a cui Apollonio non fornisce chiarimenti sufficienti, ci spingono a ipotizzare che l’arma dovesse rimanere nella neutrale Sicilia e per tal motivo doveva essere consegnata al saggio Alcinoo. La saggezza di questo re sicano, viene altresì celebrata sia da Omero che da Apollonio. Che il vello sia stato consegnato in Sicilia durante l’incontro col pio re sicano, emerge agevolmente attraverso la lettura del testo di Apollonio. Infatti, dopo la partenza dall’isola, il lettore si accorgerà che, continuando il racconto, l’autore si soffermera’ soltanto sulle difficoltà nautiche che gli eroi incontreranno sulla via del ritorno, senza fare più cenno al vello, come se un oggetto così prezioso avesse perso ogni interesse per coloro che lo avevano recuperato a rischio della propria vita. Ciò è plausibile soltanto se, ricordiamolo, avendo portato a termine la missione di recupero, il vello venisse consegnato al richiedente, in Sicilia.

Per spiegare la consegna della terribile arma ad Alcinoo, bisogna un attimo soffermarsi sul significato del l’appellativo apposto al mite re siciliano. L’appellativo del re dei feaci lascia infatti presagire il ruolo che questo illuminato principe avrebbe dovuto svolgere nella pacifica isola sicana, confermato tra le righe dal racconto Omerico, dove lo si dice a capo della confederazione di dodici – corrispondente al numero degli dèi del Pantheon sia greco che sumero – principi che governavano le dodici province sicane. Il re svolgeva il ruolo di un giudice di pace antelitteram; infatti il suo appellativo risulta formato dall’unione del lessema alla che in antico alto germanico significa tutti, e cened, vocabolo con cui nella lingua antico irlandese si indicava un gruppo umano legato da vincoli di sangue, come nel caso degli dèi sicani. Dobbiamo dedurre che il ruolo di garante della pace sia stato ancora una volta efficacemente svolto da Alcinoo se il derubato re della Colchide, inseguiti gli agenti sotto copertura fino alle coste siciliane per recuperare il vello, decideva di rimanere a largo della costa, desistendo dal dichiarare guerra, impaurito dalle “innocue” minacce verbali proferite contro di lui da Alcinoo. Ma forse Eeta desisteva dall’aggressione all’isola memore della fine che suo cognato Minosse aveva fatto in Sicilia una generazione prima, caso irrisolto che molto ricorda quello attuale del giornalista saudita Khashoggi. Dopo la breve attesa al largo delle coste siciliane, sperando in una pacifica restituzione del Vello, decisione che spettava ora ad Alcinoo, il re della Colchide rinunciava perfino a riavere il prezioso bottino, nonostante l’imponente flotta al proprio seguito. Anzi, da quello che emerge dal racconto di Apollonio, la flotta di Eeta, deliberava di rimanere a vivere in una delle isolette dell’arcipelago siciliano. La stessa cosa era avvenuta qualche anno prima anche con l’esercito dell’arrogante Minosse. L’esercito, privato del suo comandante, rimasto misteriosamente senza vita durante un colloquio con il principe sicano Cocalo, era rimasto a vivere in Sicilia rinunciando a rientrare nella patria cretese.

Eeta dovette dunque tornarsene da solo nella sua dorata reggia del Mar Nero e a mani vuote. Ma non per questo la guerra fredda tra Est ed Ovest era cessata, anzi era destinata ad inasprirsi a tal punto che, presentatosi il casus belli una generazione dopo, i Greci dichiaravano guerra, chiamiamola così, alla coalizione dei paesi dell’est guidata dai Troiani. Il “caso” voleva, che a partecipare alla guerra nel Mar Nero, con un ruolo da protagonisti, vi fossero i figli di quegli Argonauti che una generazione prima, sottraendo il vello, avevano forse creato i podromi della guerra ora combattuta dai figli. Era avvenuto un passaggio di consegne? L’epicentro della guerra si ebbe nella città di Troia per il motivo che lo spionaggio troiano aveva intessuto relazioni con la città di Trapani sulla quale, ricorderà il lettore, governava Alcinoo. Considerando che, sia Alcinoo che Cocalo, avevano indotto potenti armate straniere a desistere dalla aggressione all’isola di Sicilia utilizzando soltanto minacce verbali, si deduce che le capacità di deterrenza messe in atto nell’isola nei confronti di ogni aggressore, fossero allora notevoli, magari paragonabili alla deterrenza che oggi esercitano gli armamenti missilistici celati nel sottosuolo di Sigonella. A tal proposito, il riferimento fatto senza veli dal poeta cieco, alle navi feace, che si muovevano col pensiero e da Apollonio Rodio ai venti del terrore e/o del furore possedute dai sicani, aprirebbe nuovi scenari sulle reali tecnologie presenti nel mondo antico forse troppo sotto valutato.

Erice: la Cupola.

A Trapani, nel monte Erice, come sopra affermato, una generazione prima dello scoppio della prima guerra mondiale dell’Età del Bronzo, conosciuta come guerra di Troia, avevano posto il loro quartier generale alcuni Troiani transfughi, appartenenti alla famiglia di Enea, con al vertice Capi, fratello di Anchise, espulso da Troia dal cugino e re Laomedonte. Si presenta al nostro giudizio, l’inevitabilita’ dell’insorgenza di una cospirazione da parte dei transfughi, che, maturata a Erice, aveva come obiettivo l’abbattimento del regime troiano. A Troia agiva una fazione ancorata ai transfughi da motivi vari, capeggiata da Enea. La energica opposizione politica praticata dagli anchisiadi a Troia è molto documentata nell’Iliade.

Espugnata la città, Enea si recherà dalla ‘madre’, come viene definita nell’Eneide- intesa modernamente come loggia — Afrodite a Erice.

Accogliendo le indagini del giudice Carlo Palermo a proposito di mafia, politica e Massoneria, che fanno risalire la filiazione delle cosche a tempi antichissimi, riteniamo probabile che proprio in questa occasione si desse vita a quella Massoneria ante litteram, con ubicazione a Erice, che il Giudice nei suoi saggi afferma rappresentare ancora oggi il crocevia di intrighi internazionali, e che fa risalire la sua fondazione a tempi antichissimi, in cui i nomi con i quali veniva designata mutavano a secondo le nuove esigenze. Alle affermazioni del giudice Carlo Palermo, fanno eco quelle dell’avvocato Paolo Rumor, che nel suo sconvolgente saggio l’Altra Europa, avanza la tesi, adducendo l’esistenza di testi documentali e ricordi di confidenze a lui fatte dal padre Giacomo Rumor, componente nel dopoguerra del gruppo di lavoro per la costruzione dell’Europa post bellica, di certi programmi e operazioni di intelligence di gruppi antidiluviani sopravvissuti fino ai giorni nostri, che mischiando politica ed esoterismo, si ponevano l’obiettivo di ordinare e governare il mondo. Tali gruppi, afferma l’avvocato Rumor nel suo saggio, si formarono in un tempo senza tempo nell’area mesopotamica, per poi diramarsi in ogni dove nell’intero pianeta.

Enea e la Massoneria di Erice.

Dopo dieci anni di conflitti tra l’Est e l’Ovest, tra l’Occidente e il Medioriente, presi da stanchezza o da interessi personali, grazie a una operazione di controspionaggio tra i Greci e uno sparuto gruppo di Troiani, a capo dei quali c’erano Enea e il cugino Antenore, la guerra si concludeva con la vittoria dei Greci e l’azzeramento delle risorse umane e militari dei Troiani e dei loro alleati. La caduta di Troia, se ci è lecito il parallelismo, rappresentava per gli alleati dei Troiani, quello che per l’unione Sovietica ha rappresentato la caduta del muro di Berlino. Da lì a poco, infatti, il caos avrebbe regnato sull’intero Medioriente, provocando la dissoluzione dei regni più potenti di tutta l’area mediorientale, stremati e indeboliti dalla guerra troiana avendo ognuno inviato eserciti e ingenti risorse economiche. Lo sfacelo degli imperi iniziava da quello degli Ittiti e giù via via fino a sfiorare l’Egitto. Tra gli alleati dei Troiani, come si evince dal libro nono dell’Eneide, per i motivi sopra addotti, figuravano i Sicani, guidati da un certo Capi che, stando a Virgilio, era stato cresciuto nella attuale città di Adrano, alle falde dell’Etna – non nominata direttamente nell’Eneide- dove si trovava il santuario dedicato al dio Adrano (la reggia di Enki?). Dunque, i venti di guerra che spiravano da est, in qualche modo giungevano a ovest. Che la Sicilia temesse l’apertura delle ostilità nell’ isola, lo conferma l’archeologia. Infatti, come si evince dai reperti archeologici e dalla produzione di ceramica che si interrompe improvvisamente alla fine del II millennio a.C., di cui è cosparsa la periferia della città di Adrano, i numerosissimi villaggi edificati a partire dal settimo millennio a.C. attorno al grandioso tempio, venivano strategicamente abbandonati e gli abitanti confluivano nella cittadella dove era stato edificato il santuario (Eridu?) dedicato all’Avo, protetta dalle enormi mura poligonali di cui si conserva ancora un lungo tratto.

Il Padrino.

Non può in questa sede passare inosservato, che il nome di Enea sarebbe in realtà un appellativo riconducibile al dio mesopotamico Enki che, bisogna qui ricordarlo ai lettori, secondo la nostra ricostruzione aveva edificato la sua reggia, nominata Eridu, una sorta di laboratorio biogenetico posto nel Mediterraneo (Sicilia?), in un luogo che nelle tavolette sumeriche veniva descritto ricco di acque dolci sotterranee (caratteristica perfettamente adattabile alla città di Adrano); per tale motivo Enki veniva appellato Ea cioè acqua in sumerico. Il nome Enea, composto dall’unione dei lessemi En. Ea potrebbe perciò riferirsi al ruolo esercitato dall’eroe troiano in patria: il primo, il numero uno nell’acqua. Quindi, giocando con la polisemia del nome En. Ea, l’eroe troiano potrebbe essere stato un valente ammiraglio in patria, ma, in pari tempo essere considerato come il numero uno fra gli uomini di Ea/Enki che operavano per suo conto nel Mar Nero, quello insomma su cui Ea faceva affidamento per svolgere il suo programma nell’area mediorientale. Con la caduta di Troia le regole d’ingaggio venivano modificate e a En.ea si assegnava una missione nel Mediterraneo. La missione sarebbe durata dieci anni e sarebbe accaduto di tutto. Il suo primo contatto con i suoi parenti transfughi e cospiratori avviene in Sicilia, dove risiedeva la cupola di Erice, nel tempio della loggia madre dove ad attenderlo c’erano i suoi familiari esuli – dagli Scoliasti viene affermato che a Trapani Enea incontra Egeste ed Elimo- che gestivano le operazioni di intelligence. Ci si ricordi che Diodoro nella sua Biblioteca Historica afferma che a Erice esisteva già il culto di Afrodite ancor prima che vi giungesse Enea, e che erano i Sicani a prendersene cura. A Erice, ascoltato Enea, constatato che gli assetti politici nel Mar Nero erano mutati, si decide di inviare un’ambasciata nell’Africa settentrionale, a Cartagine, a capo della quale c’era Enea. Non siamo in grado di immaginare il contenuto del mandato affidato a Enea, fatto è, che a Cartagine la regina Didone perde la giovane vita. Da quel momento i rapporti tra i Cartaginesi e Siciliani si deteriorano al punto da scaturire in delle inestinguibili guerre. Afferma Diodoro che quella del 480 a.C., che si concluse con la pesante sconfitta dei Cartaginesi, viene meticolosamente preparata da questi per dieci anni, e viene condotta di concerto e contemporaneamente con la guerra che il persiano Serse portava in terra greca. In questa occasione i Persiani e i Cartaginesi, da alleati gestivano in comune la tempistica dell’evento bellico e le strategie militari. Alla luce di questo conflitto appare ora chiara la missione che era stata affidata secoli prima a Enea nel suo viaggio a Cartagine: il suo compito era quello di prendere accordi per formare una coalizione internazionale in chiave anti greca.

Con la caduta di Troia, in terra sicana, ricostruendo i fatti successivi, si desume che la cupola di Erice avrebbe optato per un accordo di non belligeranza tra le fazioni facenti capo a Enlil/Eolo e quelle facenti capo a Enki o Adrano che chiamar si voglia. In quella occasione si perveniva alla necessità di realizzare una fusione rituale tra le due fazioni in opposizione: i Sicani e gli Enliti, da cui nacque un nuovo ordine, una mafia antelitteram, a cui Tucidide, raccogliendo la tradizione orale del luogo, diede il nome di Elimi, anche se a noi pare che il nome di questa artificiosa coalizione conduca a una filiazione sotto la protezione di Enlil Eolo. Concluso in Sicilia l’accordo tra Sicani e Enliti, a Enea si affidava una nuova missione, quella di recarsi nel centro Italia per fondare una nuova ” sede” – non sappiamo con quali fini-. Nel centro Italia, come viene tra l’altro affermato nell’Eneide, esisteva già un piedaterre sicano dal momento che i Latini della prima ora, come i Sicani di Sicilia, onoravano Ano, considerato il loro progenitore, appellato dai Sicani del Lazio jah ovvero sensitivo, percettivo, intuitivo, veloce. Tra l’altro, nel luogo denominato Circeo, aveva verosimilmente posto la propria residenza una sorella dei rissosi fratelli, il cui nome sumerico era Ninmah, ma che dai popoli germanici che abitavano il Lazio veniva appellata Circe. Circa l’implicazione dei popoli germanici nella storia antica, nelle Argonautiche, Apollonio fa risalire il Danubio ai nostri eroi, ma poiché affrontare l’argomento in questa sede ci condurre be lontano dall’obiettivo che questa breve indagine si è posto, consigliamo il lettore a leggere il saggio Dalla Scania alla S(i)cania, gratuitamente fruibile nel sito miti3000.eu). Forse l’appellativo Circe faceva riferimento alla maga quale garante della pace familiare, cioè colei che era deputata a mantenere la concordia nella comunità legata da vincoli di consanguineità. Questo potrebbe essere il motivo per cui Medea dopo l’assassinio del proprio fratello ricorre a lei, sua zia. Dal significato del nome Circe deriva forse il vocabolo tedesco kirche che significa chiesa, comunità. Quanto sopra ipotizzato, sembra confermato da Omero che, nel libro decimo dell’Odissea, fa giungere Ulisse nell’isoletta di Eea presso il Circeo. Mettendo assieme i fatti narrati nell’Iliade e quelli narrati nell’Odissea, sembrerebbe che, come in un moderno film di controspionaggio in cui i protagonisti sono due spie rivali, Ulisse venga messo alle calcagna di Enea, poiché là dove si recava Enea, ecco giungere subito dopo anche Ulisse. Per dimostrare quanto intricati e trasversali siano stati gli interessi nel Mediterraneo durante l’Età del Bronzo, si fa riferimento al libro II, 539 delle Argonaute in cui si narra che Eracle aveva contratto matrimonio in Sicilia con Melite, figlia del re dei Feaci Nausitoo. Dal matrimonio era nato Illo, il quale era stato cresciuto presso la reggia del nonno materno. Il giovane era stato inviato successivamente da Nausitoo, per motivi di politica estera, nel Lazio. Il fatto che il nipote del feacio re si chiamasse Illo, nome accostabile a quello primigenio della città di Troia, Ilio, e che venisse inviato nel Lazio precedendo Enea come il Battista aveva preceduto Gesù nella predicazione che si proponeva lo stesso fine, non può che alimentare il sospetto di un collegamento tra la missione di Illo e quella di Enea, se non addirittura una continuità di intenti.

Anche nel Lazio, sul modello siciliano, isola a cui va il primato della sperimentazione politica se oltre duemila anni

Giano bifronte. Musei vaticani.

dopo questi fatti, si vedrà nascere il primo parlamento d’Europa, si ritenne opportuno attuare una fusione tra i due rami familiari, tra i Latini seguaci di Ano (Giano) da un lato e i nuovi arrivati dall’altro, portatori di istanze innovative fuori dalla tradizione dichiarata ormai obsoleta. Così, come narra Tito Livio, le due logge, quella troiano/ericina e quella latina si fusero, col patto però, come si afferma nell’Eneide, che lo statuto a rimanere in vigore fosse quello Latino. È plausibile che

Tavoletta sumerica. Divinità dà udienza a individuo bifronte.

l’accordo sigillato presso il tempio di Giano garantisse un periodo di tranquillità e prosperità, ricordato o associato al mitico periodo dell’età dell’oro, periodo in cui nel Lazio governavano di comune accordo due re dèi: Saturno e Giano Bifronte (una tavoletta sumerica porta l’immagine di una divinità con due facce).

È possibile, dunque, che agli scorci del II millennio a.C., alla iniziale guerra fredda in corso tra i due fratelli (appellati Palici in Sicilia, figli della lupa nel Lazio), seguisse una tappa di arresto e si addivenisse ad un giuramento reciproco di non belligeranza. Il giuramento veniva altresì sancito anche attraverso la fusione delle due famiglie, realizzando matrimoni misti. Infatti, apprendiamo dalle tavole sumeriche, che il figlio di Enki, Dumuzil, convolava a nozze con la nipote di Enlil, Inanna (la Proserpina siciliana?), e che altri figli e figlie dei due fratelli si sposavano tra loro.

Guerra e pace eterna.

Da quanto sopra affermato sembrerebbe che i problemi siano stati risolti, ma i figli sono portatori per i genitori di gioie e dolori e le loro ambizioni superano spesso quelle dei padri. Marduk, figlio di Enki, non si ritiene soddisfatto delle condizioni che conducono alla pace familiare, in quanto il ruolo a lui assegnato viene ad essere marginale rispetto a quello ottenuto dai cugini. Egli desidera di più! Attraverso una guerra non più politica ma distruttiva, il giovane principe riesce a spodestare lo zio. Probabilmente la guerra raccontata nelle tavolette mesopotamiche è la stessa di quella vergata nei papiri egiziani in cui lo scontro avviene tra Set e suo nipote Horus; nel Lazio riportata da T. Livio, dove Romolo depone lo zio e ripristina il trono usurpato, e ancora in India quella descritta nel Mahabharata tra i Kurava e i Pandava; in Persia tra Ciro e il nonno materno ecc. In effetti Marduk non aveva forse tutti i torti a lagnarsi per il suo ruolo di sottordine. Infatti, come si apprende dalle tavolette sumeriche, era stato suo padre Enki ad avere avuto il mandato dal nonno Anu di migliorare le condizioni di vita sulla terra e portare l’ordine fra i rissosi dèi che cominciarono ad abitarla, e infine creare l’uomo, salvandolo poi dall’estinzione che gli avrebbe provocato il diluvio e risolvendo un bel po’ di problemi terrestri. Per complicati meccanismi di ereditarietà, però, ad avere il comando sulla Terra veniva designato il fratello minore di Enki, Enlil. A questi era stato dunque servito su un piatto d’argento un regalo così grande quanto immeritato. La guerra condotta contro lo zio, come confermato dai miti di tutto il mondo ed esplicitamente messo per iscritto nel racconto sumerico denominato Enuma elish, si conclude con la schiacciante vittoria di Marduk.

Ripresa delle ostilità: nuova guerra fredda.

Naturalmente Enlil cede a malincuore a Marduk il posto al vertice del Pantheon. Egli, tra l’altro, nei suoi taciti programmi aveva destinato in cuor suo ai propri eredi il regno terrestre. Pertanto, gli Enliti non rassegnati alla schiacciante vittoria ottenuta da Marduk, cominciano a cospirare contro il nuovo signore. Ancora una volta le ostilità riprendono in modo velato dalla Sicilia, forse decise nella loggia ericina. A metà del principato di Marduk, che aveva spostato la sua corte a Babilonia, facendola diventare capitale del nuovo regno, in quanto la Sicilia tradizionalmente era sede del padre Enki/Adrano ed era considerata neutrale in forza del divino giuramento, gli Enliti brigano con i Greci perché questi si sostituiscano ai prischi Sicani nel governo dell’isola.

Iniziava il gioco sporco! Si erano rotte le regole, violati i giuramenti sacri: l’intoccabile terra, dimora di dèi, non veniva ora risparmiata dalle guerre combattute con le armi. Nell VIII sec. a.C. nasceva in Sicilia la tirannide sotto l’emblema del toro. L’animale facente parte della costellazione dello zodiaco, era il segno che caratterizzava Enlil. I Greci (la Grecia veniva chiamata Hellade forse in omaggio alla stirpe degli Enliti loro patroni) riuscivano a infiltrarsi in alcune coorti sicane. Vantando legami di parentela con i pii re sicani, lentamente e in modo prima indolore, si sostituivano a questi. L’isola si divideva ancora più nettamente in due fazioni. Il prezioso racconto dello storico Polieno, che si sofferma sullo scontro avvenuto nel VI sec. a.C., tra il sicano Teuto e il tiranno di Agrigento Falaride, ci permette di individuare gli schieramenti contrapposti grazie ai vessilli che le parti schierano tra le loro fila: Falaride aveva come emblema il toro di Enlil. Anche grazie a Diodoro è possibile individuare nella sua Biblioteca Historica gli schieramenti che nell’isola si distribuivano a macchia di leopardo. L’epicentro delle forze Enkite rimarrà fino alla venuta dei Romani nel 263 a.C., il luogo in cui era stato edificato il suo santuario nell’attuale città di Adrano, che tutti i tiranni greci da Falaride a Jerone, da Dionigi a Iceta con alterne fortune tentarono di Espugnare, e i Sicani, da Teuto a Ducezio di difendere. Il resto è storia: i Romani, che a buon titolo si dicevano discendere da Enea, riuscivano a realizzare il Nuovo Ordine Mondiale, insediando nei regni di tutto il mondo allora conosciuto, reucci fantoccio ai loro comandi. Non andremo oltre la constatazione che oltreoceano, da tempo si investiga sugli errori commessi dai Romani che causarono la caduta dell’impero, affinché il vertice del nuovo Ordine non abbia a ripeterli oggi.

Gli antichi venti di guerra.

Ci chiediamo se i venti del terrore contenuti nell’otre, consegnati a Ulisse senza che questi riuscisse – o non intendesse– a sortire gli effetti desiderati dal mandante, se quelle armi che Enlil avrebbe voluto criminalmente e cinicamente utilizzare in odio al genere umano, eufemisticamente chiamate “il sacro vento”, Ve. Hel, vello e Furore, si trovano ancora nell’isola, nelle mani scellerate degli eredi dell’odiatore dell’umanita’. Sono forse quelle armi nascoste nel sottosuolo di Sigonella, puntate ancora in direzione dell’antica Colchide, contro il re Eeta oggi Putin? Noi, eredi del dio protettore dell’umanità, Adrano, del compassionevole Enki, vi ammoniamo: che non sia il sacro suolo siciliano a dover pagare il prezzo della vostra scelleratezza. Sappiate voi demoni del male, ovunque vi nascondiate sotto mentite spoglie, che l’ira del giusto trascende ogni potenza di cui il malvagio si avvale, vi riconosceremo, vi scoveremo. Con l’autorevolezza che promana dal giusto, non acconsentiremo che questo nostro paradiso venga sacrificato a Molok per questioni di effimero potere. Perciò terremo saldo il polso del dio Mitra, guideremo il pugnale che bandisce sicuro verso il collo del toro, lo sacrificheremo al dio compassionevole che ha a cuore le sue creature e, come recita il passo biblico, le forze del male non prevarranno. Come riconoscere queste ultime ci si chiederà. La domanda legittimamente posta in un contesto di mistificazione quale è quello odierno, trova la risposta nel simbolismo, che difficilmente può essere mistificato, e quello negativo della furia incontrollabile del toro è oggi più che mai palese. È questo simbolo, il toro scomposto nella furia del suo scalciare, l’emblema del dio che intende decimare l’umanità. Egli, il dio zaratustriano della distruzione, si ripropone oggi con la stessa furia manifestata millenni fa, evidenziando gli atteggiamenti di sempre: uso della violenza, indifferenza alle altrui sofferenze, cinismo, sterminio indiscriminato, invenzione di strumenti segregativi, controllo dispotico del sottoposto, magistrale utilizzo dei doppiogiochisti, gestione della ricchezza e suo utilizzo quale strumento di ricatto e di corruzione. “Dai suoi frutti si riconosce l’albero”.

Ad maiora.

CHIARIMENTI E CHIAVE DI LETTURA.

Chiediamo venia al lettore se in qualche luogo della rilettura degli eventi, sopra azzardata, la farraginosita’ dell’esposizione dei fatti ha creato qualche contraddizione irrisolta. Ma non poche sono state le difficoltà in cui siamo incorsi nel tentativo di comparare le divinità locali che sarebbero scese in lizza nei conflitti tra le nazioni, fornendo il loro sostegno ora all’una ora all’altra fazione. La stessa difficoltà si è avuta nella ricostruzione genealogica dei personaggi chiave e la esatta cronologia dei fatti raccontati. Il tentativo, poi, di separare il loglio dal grano, ce ne rendiamo conto, è rimasto irrisolto in alcuni casi, come quello degli dèi Palici in Sicilia. Forse in questo mito sono confluiti eventi simili svolti in tempi diversi. Il mito siciliano dei Palici, potrebbe aver fuso in un unico evento il conflitto avvenuto tra i fratelli Enki ed Enlil e quello successivo avvenuto tra Marduk e Thoth figli di Enki, cresciuti entrambi in Sicilia, a patto che non si sia incorso in errore nell’identificare l’Abzu con la Sicilia. Una ulteriore complicazione l’ha fornita il termine Anu, che da sostantivo, riferito al genitore di Enki e Enlil, potrebbe essersi trasformato in aggettivo applicato a Enki. Infatti, il termine Ano, che nella lingua tedesca parlata nel medioevo significava nonno, progenitore, avo, antenato (Ahne nel tedesco moderno), potrebbe essere stato applicato a Enki con il significato di creatore dopo che, stando al mito sumerico, egli aveva creato gli esseri umani. L’atto creativo, descritto nei testi sumerici come una serie di tentativi attraverso manipolazioni genetiche, avrebbe conferito una paternità al dio, e gli uomini lo avrebbero ricambiato conferendogli affettuosamente l’appellativo di nonno, avo, antenato, Ano appunto. Questo ha fatto sì, però, che il teonimo Adrano, composto dall’unione dell’aggettivo odhr furioso, con il sostantivo Ano avo, non rendesse chiaro quando, di volta in volta, l’appellativo si riferisse al padre piuttosto che al figlio. Lo stesso vale per il toponimo Adrano, non si riesce a comprendere se la città venisse intitolata al padre o al figlio. Una ulteriore difficoltà consiste nel fatto che le divinità venivano evocate utilizzando molteplici appellativi, alcuni dei quali venivano assunti poi anche dai governanti umani. Così come i Greci per Poseidone utilizzavano appellativi quali l’Ennosigeo piuttosto che Maremoto o dio dalla capigliatura azzurra, non escludiamo che lo stesso avvenisse per Enki detto Ea e forse, come sopra affermato Ano e ancora Al Cened (Alcinoo) e tanti altri fino a quaranta, numero assegnato al suo rango divino. Si tenga infatti presente, che ci è pervenuta la lista dei cinquanta nomi con cui i Sumeri appellavano Marduk.

Tuttavia, riteniamo che qualora qualche quesito sia rimasto irrisolto, tale deficit, nell’economia generale della interpretazione dei fatti storici e mitologici tentata attraverso i nostri articoli, atti a dissipare le tenebre che avvolgono la nobile storia degli antenati, non andrebbe a minare la bontà di quanto fin qui è stato realizzato. .

Una ulteriore difficoltà deriva dalla polisemia di taluni vocaboli. Tuttavia, tale difficoltà si dipana nel momento in cui il vocabolo viene contestualizzato nel senso generale del discorso in cui è inserito.

Per ciò che concerne la longevità delle ostilità qui narrate, presentate una come conseguenza dell’altra, cosa che potrebbe creare qualche remora di credibilità nel lettore, crediamo che essa sia resa possibile nella misura in cui la visione del mondo, basata sulla dicotomia o necessità degli opposti: luce buio, notte giorno, bene male, salute malattia, spirito corpo, faccia parte dell’essere di ogni individuo. Eternamente gli individui, per affinità elettiva, vengono chiamati a schierarsi da una o dall’altra parte, come la notte che eternamente insegue il giorno, alternandosi nella “vittoria”.

Per ciò che concerne l’ipotesi che alcune parole potrebbero presentarsi come parole in codice o metafore – metodo utilizzato da sempre in ambienti di intelligence e negli scenari di guerra fin da quella del Peloponneso raccontata da Tucidide o gallica da Cesare- come vello, otre ecc. il lettore conosce già il nostro metodo interpretativo che utilizza la lingua germanica come lingua di riferimento, ritenendola quella che più ha conservato familiarità, a nostro avviso, con una lingua primordiale parlata dai popoli prima della deriva linguistica. Il linguaggio in codice, rinvenuto nei testi esaminati, è, a nostro avviso, perfettamente compatibile con gli eventi narrati e la loro interpretazione coerente. Il termine otre, per esempio, da noi tradotto come contenitore il cui contenuto se lasciato libero provocava un vento furioso, mortale, trova tale logica interpretazione nel momento in cui si accetta la traduzione del termine fornita da Adamo da Brera. Lo storico tedesco afferma che Odino, quando scatenava la sua ira veniva aggettivato il furioso, odhr. Poiché abbiamo sostenuto l’affinità linguistica tra i Sicani e i popoli germanici, ecco che il termine otre si adatta perfettamente alle caratteristiche del recipiente consegnato da Eolo a Ulisse e ben descritte nell’Odissea. L’otre, ancora oggi utilizzato in Sicilia come contenitore, viene realizzato esattamente secondo le modalità descritte nell’Odissea. Lo stesso ragionamento va applicato al termine vello, anch’esso spiegabile utilizzando la lingua germanica. Si tenga conto che nell’Iliade, Omero faceva già riferimento ad una lingua parlata dagli dèi, di cui il poeta lasciava tracce nel poema, non riportando la traduzione del termine che, probabilmente, non aveva corrispondenza nella lingua greca.

Per ciò che riguarda gli schieramenti che si combattono per affermare la propria visione del mondo, l’adesione all’uno o all’altro dipende da un sincero riconoscersi nel programma portato avanti per governarlo. Crediamo di non essere incorsi in errore se per riconoscere gli schieramenti ci siamo avvalsi del simbolismo a cui, crediamo, i poeti hanno velatamente fatto ricorso. Nel simbolismo si rende altresì manifesto il metodo che si intende adottare per risolvere gli eterni problemi che affliggono l’umanità, e che sono sono sempre i medesimi: disordine, sovrappopolamento ecc. Le due fazioni entrerebbero dunque in contrapposizione sul metodo da adottare per raggiungere il medesimo fine, come farebbero due medici di scuola diversa per guarire un arto malato: optando per l’intervento chirurgico l’uno, per la medicina curativa l’altro. Crediamo di non aver errato e se al simbolo del toro abbiamo associato il metodo violento, traumatico, forse più facile e veloce per risolvere il problema. Chi si contrappone al metodo violento, è altrettanto individuabile per il tipo di lotta che mette in atto per ostacolare la violenza: Gilgamesh, Mitra, Giasone, Teseo, forse Mosè sacrificano il Toro, lo vincono nello scontro o lo aggiogano. Dal sacrificio del toro che arriva puntuale dopo che la furia dell’animale ha sconvolto il mondo per un certo periodo di tempo, si desume il giungere della vittoria finale da parte di chi compassionevolmente intende preservare il genere umano. Se, dunque, il Toro è l’emblema di Enlil, il sacrificio dell’animale non può rappresentare che l’offerta fatta a Enki, che nel mito conserva sempre il ruolo di difensore del genere umano.

Nella versione greca, Enki/Ea dovrebbe corrispondere al dio delle acque Poseidone: a questa divinità greca Nestore, nella spiaggia di Pilo sacrifica un Toro; Teseo è uno dei suoi figli, concepito con una mortale, anche lui sconfigge un toro custodito dal re di Creta Minosse.

Il viaggio compiuto dagli Argonauti appare fin dal suo inizio, attraverso l’invocazione di Apollo e la promessa di Giasone di sacrificagli i tori al suo ritorno, una operazione atta a ristabilire l’ordine compromesso. Argo, il costruttore della invincibile nave che da lui prende il nome, porta sulle spalle un mantello ricavato dalla pelle di un toro scuoiato.

Ad maiora.

Il toro del cielo

F. Branchina, il dott. Giuseppe Fumia e il dott. Tradito. Alle spalle il menhir dell’Orgale.

Raccogliendo lo stimolo all’approfondimento, indotto dall’ottimo dott. Giuseppe Fumia, attento giornalista, baciato dalla Musa, che, oltre a dedicare i suoi ultimi articoli alla vetusta quanto sconosciuta fase evolutiva della primordiale antropizzazione delle contrade etnee, ha voluto toccare con mano le antiche rocce – altari primordiali degli Avi nostri– su cui abbiamo non poco indagato, siamo ritornati sul luogo, dico nelle amene campagne di Castiglione di Sicilia. Ebbene, il benevolo Genius loci, forse in omaggio al nostro intraprendente giornalista che non si accontenta di scalfire la superficie della storia atavica, ci mostrò un nuovo aspetto del luogo che illusoriamente credevamo di ben conoscere. Il dott. Gaetano Tradito, attento osservatore dei particolari, noto’ che

Grotticella funeraria.

nella roccia di morbida arenaria in cui era stata scavata la camera funeraria, sul lato destro, erano stati creati dei gradini. Questi, ormai consunti dal tempo – erano per questo passati inosservati durante il primo sopralluogo– conducevano alla sommità della roccia. Nel contempo, il sottoscritto, trovandosi “casualmente” nella giusta

Profilo zoomorfo della roccia.

prospettiva, notava la forma zoomorfa assunta dalla roccia. Il masso di arenaria, osservato da quella prospettiva assumeva le sembianze della testa di un toro o di un cavallo; i compagni condivisero questa interpretazione. Dal lato opposto a quello dove erano stati ricavati i gradini, di fianco

volti (?). Acropoli di Cerami.

rispetto all’apertura della camera funeraria, dentro ad una nicchia ricavata nella roccia, ancora il dott. Tradito individuava un bassorilievo dalle evidenti sembianze di un volto umano, realizzato, forse, con intento apotropaico. Dal contenuto di

foto presa dal web. Volto apotropaico (?) roccia presso le campagne di Francavilla. 

alcune tavolette sumeriche si apprende che era abitudine dei popoli mesopotamici scolpire dei volti presso il luogo di sepoltura, di solito una grotta naturale, o in parte rimodellata – sulle affinità culturali intercorse tra i Sumeri e i Sicani ci siamo già soffermati altrove-. Saliti i

gradini

gradini, notammo che lo scalpello sapientemente guidato da mano umana aveva volutamente percosso la roccia in quella parte che coincideva con la testa del presunto toro, in modo da realizzare un piano perfetto il quale, secondo la nostra interpretazione, doveva servire come piano d’appoggio per le offerte votive ivi deposte. A noi parve, pertanto, che il grande masso avesse avuto la doppia funzione di sepolcreto e di altare per la deposizione delle offerte. Ci rammaricammo che il portellone posto a chiusura della camera sepolcrale non fosse giunto fino a noi, ci saremmo aspettato, infatti, di trovare scolpito su di esso, sulla scia del portellone ritrovato a Castelluccio, un bassorilievo che lasciasse intuire la destinazione d’uso di quel misterioso luogo.

Naturalmente qualsiasi interpretazione da noi oggi tentata di quel luogo, rientra in un mero esercizio di fantasia, e tuttavia, se ben dichiarata, pure l’immaginazione, quale contributo afferente alla decriptazione della funzione della struttura, se supportata dalle discipline scientifiche, torna utile per l’elaborazione di tesi atte ad indagare la nobile weltanshauung degli estinti nostri antenati. Ricostruire quest’ultima, per quanto riguarda i prischi Sicani, per la verità non ci appare un’impresa impossibile e crediamo che molto sia stato da noi già fatto in proposito. Immaginando che la presunta figura zoomorfa modellata nella friabile roccia raffiguri un toro e che essa non sia opera dello sfaldamento naturale dell’arenaria, bensì scolpita dall’uomo affinché il rito assumesse una maggiore efficacia, ci accingiamo ad esporre alcune considerazioni sul simbolismo del toro, associato alla ingovernabile furia dell’autoaffermazione. La rappresentazione di questo animale fu molto presente nel mondo indoeuropeo e nell’area mediterranea in particolare: dall’Anatolia nel sito di Catal Huyuk datato al settemila a. C. accostato alla dea madre quale simbolo di fertilità, alla Grecia, ove veniva utilizzato come animale da sacrificio particolarmente gradito da Poseidone (vedi il mito di Minosse e il sacrificio effettuato da Nestore nell’Odissea), e a Creta, fino all’Iberia e alla Sicania, ove la furia taurina veniva simboleggiata anche attraverso le sole corna di terracotta attualmente esposte in una vetrina, nelle sale del prestigioso museo del Castello Normanno di Adrano, assieme a reperti datati al IV millennio a.C.

L’era del toro.

Proprio da questa data, il IV millennio a.C., vorremmo iniziare il nostro excursus, in quanto questa lontana datazione coincide con l’era zodiacale del toro. Delle dodici case dello zodiaco quella del toro viene a coincidere cronologicamente tra il quattro e il duemila a.C. Questa era dovette manifestarsi, se dobbiamo accettare il simbolismo a cui viene associato l’indomito animale, come un’era di travaglio per l’intero pianeta dal momento che la rappresentazione del toro appare contemporaneamente in tutte le civiltà della terra. All’era del toro sarebbe seguita quella dell’ariete. Quest’ultima si sarebbe conclusa nell’anno zero, che coincideva, come è noto, con l’inizio dell’era dei pesci e con l’instaurazione del Cristianesimo. Ora, noi siamo dell’avviso che ogni era, quale foriera di nuovi accadimenti, veniva celebrata, attenzionata e indagata dai nostri Avi astronomi e ogni era veniva associata ad una particolare divinità: quella del leone in ambito sumerico ad Anu, del Toro ad Enlil, dell’Ariete a Marduk; in ambito semitico il pesce, ritrovato inciso in molte catacombe, al Cristo. Queste affermazioni trovano riscontro nel poema sumerico Enuma elish in cui, alla fine del racconto, la iniziale elaborazione cosmogonica si fonde con quella teogonica al punto che il dio Marduk e il pianeta Nibiru diventano l’uno l’incarnazione dell’altro.

Sumeri e Sicani.

A più riprese nei nostri saggi abbiamo fatto riferimento ad una consanguineità culturale intercorsa tra gli eredi mesopotamici del dio Anu e gli eredi sicani dell’avo primordiale adr. Ano.

L’iniziale evidenza di questa parentela venne successivamente offuscata, in quanto la mitologia sicana fu artatamente rielaborata dagli storici greci a partire dal’ VIII sec. a.C., cioè da quando i profughi e i coloni Greci vennero accolti come supplici dai pii Sicani.

Il tentativo nostro di ricostruire il firmamento teogonico sicano, oscurato dai prezzolati mistificatori greci, si avvale oggi della possibilità di utilizzare le diverse discipline scientifiche che, anche in questa occasione, trovano ampio spazio di applicazione. Inoltre, delle migliaia di tavolette ritrovate in Mesopotamia, incise con caratteri cuneiformi, alle numerose traduzioni effettuate nel secolo scorso dal noto sumerologo Samuel Kramer, se ne sono aggiunte molte altre che hanno contribuito notevolmente ad allargare le conoscenze sulla civiltà sumerica, spostando anche l’ottica interpretativa a un punto di vista più laico grazie al contributo di ricercatori indipendenti dalle ampie vedute. Chi ci ha seguito nelle ricerche sa che le nostre tesi si fondano su un assunto, sull’esistenza cioè di una civiltà globale che conferiva una omogenea forma culturale al pianeta terra fin dai tempi pre diluviani. Dopo il diluvio cominciò una graduale cesura tra i sopravvissuti e un adattamento della primordiale cultura alle nuove esigenze dei popoli che andavano formandosi. Tuttavia abbiamo buone ragioni per credere che fino alla data del quattromila a.C., le civiltà mediterranee post diluviane conservassero ancora lingue e tradizioni affini, sebbene adattate a esigenze ambientali diverse. La vicinanza culturale tra la Mesopotamia e la Sicania è stata da noi indagata abbondantemente, quindi vi faremo qui soltanto brevi passaggi in quanto utili allo studio che questo articolo si è proposto di esporre. La ricerca riguarda una “guerra fredda” combattuta tra due fratelli, iniziata in illo tempore e continuata fino ad oggi dai rispettivi eredi se dobbiamo dare credito alle rivelazioni di Paolo Rumor, rispettabilissimo autore del saggio “L’Altra Europa”. I due fratelli furono conosciuti nell’isola sicana attraverso l’appellativo di Palici, detti anche Delli ovvero i sotterranei, figli di a.dr.Ano; in Mesopotamia i fratelli, figli di Anu, venivano chiamati Enki ed Enlill; in Grecia sarebbero da identificare con Poseidone e Zeus nipoti di ur.Anu. Il lettore avrà notato che An, L’avo, rappresenta il comune denominatore delle civiltà citate. Anche nel centro Italia una primordiale tradizione, poi fatta propria dai Romani, faceva riferimento a due fratelli in conflitto tra di loro per motivi di ereditarietà; anche la stirpe di questi era riconducibile a un dio Ano, appellato dai Latini jah, cioè percettivo, sensitivo, veloce. La casa zodiacale dei gemelli o fratelli divini, faceva ingresso nel 6.000 a.C., circa; il periodo di tempo intercorso tra il seimila e il quattromila prima dell’era volgare, dovette rappresentare, secondo la valutazione del progresso umano avanzante, un periodo di tranquilla collaborazione tra i due fratelli.

L’ era del toro e il simbolo della tirannide.

Ma Ritornando al simbolismo del toro e al suo ingresso nella casa zodiacale avvenuto intorno al 4000 a.C., non può essere qui ignorato lo sfogo avuto col padre dell’adirato Marduk. Questo irrequieto figlio del dio esautorato Enki, “che tanto male procurerà agli Annunaki” e agli umani, volendo riscattare il padre che era stato messo in disparte da Enlil nella gestione del potere, dopo aver condotto una guerra contro lo zio usurpatore, lamentandosi col padre per l’insuccesso riportato, nel ricercarne le cause si sente rispondere che la sua colpa consisteva nella fretta che egli aveva avuto nel dichiarare la guerra. Infatti, Enki faceva mestamente osservare al figlio, che il suo tempo non era ancora giunto poiché non si era ancora entrati nell’era dell’ariete, il suo segno, ma il toro stazionava ancora nella casa dello zodiaco. Infatti, secoli dopo – un secolo degli umani equivaleva a un giorno degli dèi – quando il segno dell’ariete si avvicendo’ a quello del toro nella casa zodiacale, Marduk dichiarata guerra allo zio, effettivamente riportò la vittoria regnando per i prossimi duemila cento sessant’anni, cioè fino all’ingresso dell’era dei pesci. Sebbene nella tavoletta sumerica intitolata La Discesa di Inanna agli Inferi, si legga che Marduk ottenesse i cinquanta nomi o titoli appartenuti a Enlil, dall’ analisi degli eventi successivi si evince che quest’ultimo avrebbe comunque continuato per vie occulte una opposizione nei confronti del nipote (nel mito egizio la contrapposizione tra Set e Horus?). Per ciò che concerne la Sicania, luogo in cui ipotizziamo si trovasse la sede di Enki, denominata Abzu nelle tavolette mesopotamiche, e di cui abbiamo già parlato nei precedenti articoli, riteniamo che i Greci qui giunti nell’VIII sec. a.C., rappresentassero il braccio armato di Enlil (Eolo?) e che avessero avuto la missione di iniziare in Sicilia una azione di intelligence, lentamente sfociata nell’affermazione delle tirannidi, il cui simbolo, come vedremo, era rappresentato dal toro, emblema di Enlil. I Greci, dunque, sotto le mentite spoglie di supplici (vedi Archia a Siracusa) o di coloni (vedi la calda accoglienza riservata ai Megaresi da parte di Iblone), lentamente riuscirono a infiltrarsi nei gangli della politica e nelle corti locali sostituendosi ai politici e ai generali autoctoni alla guida delle Polis, dando vita, come si è detto, alla tirannide, di cui Falaride, tiranno di Agrigento, vissuto nel VI sec. a. C., risulta essere il più orribile rappresentante di questa istituzione sconosciuta ai democratici isolani. Come racconta Polieno, Falaride, famoso per la sua ferocia e per l’invenzione del famigerato toro di bronzo quale raffinato strumento di tortura, aveva portato guerra al principe di Innessa Teuto. Ci chiediamo: Teuto era forse un sacerdote presso il tempio del fratello di Marduk, Thoth per gli egiziani, Teuty per i Greci? Figlio di Enki, Thoth, oltre all’indole compassionevole aveva ereditato dal padre anche la conoscenza delle scienze che lo rendevano potente e temuto. Thoth, come viene affermato nelle tavolette sumeriche, collaborava col padre nella sede dell’Abzu. In questa sede, poco dopo il suo trasferimento, molto tempo prima, Enki era stato raggiunto dalla moglie Ninki col figlio primogenito Marduk. Se abbiamo visto giusto, e l’Abzu è da identificarsi con la Sicilia, ecco che si giustificherebbe la presenza del principe sacerdote Teuto nella città dove sorgeva il santuario dedicato ad Ano (Adrano). Si giustificherebbe così anche l’attacco di Falaride a Teuto essendo devoti a divinità rispettivamente antitetiche. Il lettore non avvezzo agli intrighi dinastici antichi quanto moderni, potrebbe ritenere fantasiosa questa ricostruzione, se non fosse che la storia è cosparsa di operazioni di intelligence. Basti ricordare l’episodio raccontato da T. Livio a proposito di Silla che, intrufolatosi nell’accampamento nemico, aiutato dalle sue caratteristiche somatiche celtiche, spacciandosi per un Gallo, riusci a carpire preziose informazioni o, come abbiamo ricostruito nel saggio Il Paganesimo di Gesù, gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu, l’episodio di Giuseppe Flavio e Paolo di Tarso, che con la collaborazione di Seneca crearono i presupposti per la nascita di una religione da contrapporre a quella giudaica, giudicata concordemente affetta da un pericoloso fanatismo e quindi da estirpare. Tornando in Sicilia ricordiamo al lettore che non si intende mettere in discussione la fede su un credo o una divinità, ma si vuole, semmai, mettere in evidenza che in nome di essa si schiavizzano ancora oggi gruppi umani e, ricorrendo ai medesimi condizionamenti mentali, si utilizzano sempre le medesime politiche per governare, indebolendo i popoli, indotti a odiarsi e a contrapporsi. Partendo da questa premessa, allora come oggi, non potevano mancare dunque le fazioni. La contrapposizione politica e militare intercorsa in Sicilia tra i Greci e i Sicani, potrebbe essere interpretata come una opposizione già maturata su un piano metafisico, combattuta tra i due fratelli divini appellati in Sicilia Palici e continuata dai rispettivi eredi? Ci appare adesso più che mai appropriata la metafora secondo la quale nella tradizione orale sicana, raccolta da Eschilo nelle sue Etnee, sebbene rielaborata in chiave grecocentrica, i due fratelli, presso l’ara a loro dedicata nella periferia della città di Adrano, occultati nel sottosuolo sotto forma di acque carsiche, nel ritornare alla luce come acque di sorgente venissero appellate chiara l’una e oscura l’altra, proprio a indicare dicotomica visione del mondo.

Ma tornando ai tiranni, come sopra affermato, essi, di etnia greca, rappresentavano in Sicilia il braccio politico e militare del dio Enlil (Eolo?), a tradire tale ruolo è lo stesso etimo. Infatti, l’infame appellativo deriva dal germanico stier che significa toro, animale totemico assimilabile a Enlil/Zeus. Si ricorderà il lettore, che Zeus, nel mito greco, per rapire Europa, fuor di metafora la Sicilia, l’Occidente o il regno del fratello, si trasforma in un toro.

Tavoletta babilonese: Gilgamesh sconfigge il toro celeste.

Il toro appare ancora nel poema babilonese di Gilgamesh. Scatenato dalla dea Inanna con il permesso del bisnonno Anu, l’animale appellato toro del cielo ovvero stier.Anu, da cui tir.anu e infine tiranno, verrà abbattuto dall’eroe positivo babilonese. Se nel mito, e la storia concorda in questo, il destino del toro è quello di essere infilzato, sacrificato, abbattuto, sconfitto o domato, ebbene, l’infausto momento storico presente, che ancora una volta lo vede protagonista, non potrà concludersi che con il medesimo rituale della sua inevitabile sconfitta.

Ad maiora

Circe e i Neanderthal

Circeo: un laboratorio genetico della preistoria.

Nella ipotesi di lavoro esposta negli articoli precedenti si riteneva che l’Abzu, una sorta di laboratorio di ricerca e di sperimentazione, alla cui esistenza si fa cenno nelle tavolette sumeriche, per i motivi addotti negli articoli precedenti, potesse trovarsi nel Mare Mediterraneo e che la Sicilia potesse essere fra i luoghi candidati ad ospitarlo. Questa intuizione nasceva dalla constatazione – ma non è l’unica – che la Trinacria (il simbolo che raffigura la Sicilia affonda le proprie radici nella preistoria) sia ancora oggi caratterizzata dalla presenza di una biodiversità che non ha pari in altri luoghi del Mediterraneo e men che meno in Medio Oriente, in particolare nella Mesopotamia ove gli studiosi che si sono cimentati nella traduzione delle tavolette cuneiformi hanno tradizionalmente collocato l’Abzu.

La descrizione che di questo luogo viene fatta nei miti sumerici, si presta altresì alla interpretazione del toponimo da noi tentata e che si potrebbe liberamente tradurre con “andirivieni”. Infatti, l’etimo risulta composto dai lessemi ab e zu, che nella lingua tedesca moderna, affine a quella sumerica e accadica, corrispondono alle preposizioni da e per, verso, in direzione di, rimandando all’idea di un luogo da cui si va e si viene, un luogo in cui non manca la possibilità dell’interscambio e la voglia della ricerca sui diversi piani dello scibile. E ancora, utilizzando un lessico religioso, non certo in disuso in quell’antico mondo popolato da dei, potrebbe essere utilizzato per indicare il salire e lo scendere dal cielo di anime incarnate e disincarnate.

L’Abzu, come si evince dalle traduzioni delle tavolette a cui parteciparono eminenti studiosi, per citarne uno su tutti Samuel Kramer, si presta ad essere interpretato secondo l’ipotesi in altri articoli formulata e qui ripresa, in quanto Kramer afferma che nella tavoletta si sostiene che l’edificio era stato edificato con lo scopo di conservare i segreti dei poteri custoditi da Enki. L’Abzu era la sede in cui egli, definito il vivificatore del paese, decideva i “sacri destini”. Insospettisce e afferisce alla tesi secondo la quale Enki operasse in Sicilia, presso il vulcano Etna, il tipo di materiale edile utilizzato per la costruzione della reggia: oro, argento, lapislazzuli e stranamente canne per le pareti; c’è da sospettare che questi materiali servissero agli scienziati per le loro qualità di buoni conduttori di energia elettrica e magnetica (vedi gli studi di Paolo Debertolis sull’archeoacustica), anzi ne siamo certi poiché viene affermato che la azurite, un materiale funzionale alla costruzione del laboratorio, serviva a contenere i raggi. La azurite è un minerale piuttosto raro ma in piccole quantità si trova nell’area vesuviana. La corniola utilizzata per la base della costruzione, una pietra che si trova in terreni vulcanici (Etna?) veniva a sua volta impreziosita con l’azurite. Afferma Kramer, che il palazzo così costruito, che a noi ricorda quello di Alcinoo edificato in Sicilia in cui il poeta greco metteva in evidenza i metalli preziosi al suo interno, visitato da Ulisse e descritto da Omero con le modalità poetiche che richiamano lo stile della tavoletta qui indagata, era stato edificato sul mare, sulle acque, elemento questo con cui Ea/Enki veniva identificato e che era invece assente a Sumer. A Sumer Ea aveva edificato l’Eridu, la reggia omonima a quella siciliana (?). Assente era in Mesopotamia anche la presenza delle pietre minerali sopra menzionate. Il luogo o area di pertinenza in cui si trovava il palazzo di Enki nel Mediterraneo(?), che veniva anch’esso chiamato Eridu, viene da noi tradotto, secondo il metodo noto ai lettori, con il significato di: il giuramento o la promessa del signore o il nobile giuramento, da Er signore, nobile ed eid promessa, giuramento, parola data. È da notare che il giuramento rappresenta un leit motiv nella vita di Enki. Grazie a un giuramento disatteso da parte di Enki, a cui il dio fu costretto dal fratello a aderire, salvò il genere umano dal diluvio. L’attributo Poseidone, utilizzato dai Greci per indicare Enki, contiene anch’esso il lessema eid giuramento: böse-eid-one ovvero adirato per il mancato giuramento.

Per i motivi sopra addotti, l’Abzu nel Mediterraneo potrebbe essere stato scelto come sede da una equipe di ricercatori guidati dai fratelli divini, Enki e la sua sorellastra Ninmah. Quest’ultima, appellata anche come Ninhursag, come si evince nelle tavolette denominate Enuma elish svolse la parte più importante nella creazione dell’uomo, tanto che nelle tavolette sumeriche la ritroviamo indicata con l’appellativo di “Madre del genere umano” e probabilmente le statuette di argilla che raffigurano le donne corpulenti, appartenenti all’epoca paleolitica, denominate le veneri del Paleolitico, si riferiscono proprio a lei. È plausibile che fratello e sorella, nella terra Sicana che identifichiamo con l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, venissero appellati con nomi diversi rispetto a quelli adottati in Mesopotamia, in quanto gli appellativi nascono spesso come conseguenza del ruolo socialmente svolto. Infatti è risaputo che gerarchicamente il numero degli appellativi con cui gli dèi venivano indicati decresceva man mano che dal vertice, occupato da Anu, si scendeva verso la base (Enki che occupava il terzo grado del sistema gerarchico a base sessagesimale, veniva appellato con quaranta epiteti, mentre Anu con sessanta ed Enlill con cinquanta). In questo ipotetico laboratorio primordiale chiamato Abzu, potrebbero dunque essere stati iniziati quegli esperimenti genetici di cui si parla nei testi sumerici detti della creazione, Enuma elish in sumerico. La possibilità che questa ipotesi di studio possa trovare conferma, presuppone la capacità da parte del ricercatore moderno, di sapersi denudare di alcuni preconcetti nei confronti dell’uomo antico, che questi fosse cioè alieno da conoscenze scientifiche. Questa affermazione non sarebbe di difficile accoglienza se si tiene conto dei numerosissimi reperti, così detti fuori dal tempo per la loro anacronistica complessità, che sono stati ritrovati negli ultimi decenni. Molti di questi oggetti, invece, troverebbero la giusta collocazione nei miti e nelle storie se queste venissero lette attraverso una formazione culturale più laica. In tal modo apparirebbero meno incongruenti gli intercalari di fatti di cronaca nella storia di Roma raccontata da T. Livio, allorché lo storico romano fa riferimento ad una botte d’argento che, avvolta da fiamme e fuoco, calata dal cielo nel bel mezzo degli schieramenti romani, durante la guerra civile tra Mario e Silla, in Spagna, induce le legioni a fuggire e rimandare lo scontro; oppure il riferimento di Omero alle navi feaciche che si muovevano nel Mediterraneo a velocità fuori dall’ordinario, senza remi e guidate con il pensiero. Quest’ultimo riferimento induce a maggior riflessione riguardo ad un meccanismo metallico dentellato, ritrovato negli abissi delle acque greche, presso una nave greca naufragata, identificato dagli studiosi come una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo e denominato meccanismo di Antikitera.

Antikitera e i sommergibili della storia.

Trattando di questo ritrovamento, aggiungendo alcune nostre riflessioni, si invita il lettore a riflettere anche sull’ipotesi che la famosa arca del diluvio potesse nulla avere a che fare con l’immagine che noi abbiamo delle imbarcazioni di epoca antica. Infatti, nel testo sumerico si legge che Enki, dettando al Noè mesopotamico le misure utili per la costruzione dell’imbarcazione, appella la stessa “su e giù” cioè ab-zu. Questa imbarcazione, quindi, avrebbe dovuto resistere, assecondare e sostenere i flutti sprigionati dal diluvio, i quali avrebbero certamente spinto l’imbarcazione anche al di sotto dell’acqua. Questo tipo di movimento è consentito ai sommergibili. Inoltre, nella versione sumerica del diluvio, vista la strana imbarcazione che Utnapistim costruiva, il Noè sumerico fu costretto a giustificare ai curiosi osservatori la costruzione di quella strana ed enorme imbarcazione, fuori dai canoni di quelle più modeste che venivano costruite per solcare in superficie le placide acque del Tigri e dell’Eufrate. Utnapistim rassicura quindi i curiosi osservatori, affermando che l’imbarcazione gli sarebbe stata necessaria per raggiungere il suo dio Enki il quale, lasciando Sumer a motivo delle liti che aveva avuto col fratello Enlill, si era recato nel mare vicino, dove ora lui lo avrebbe raggiunto. Ebbene, il mare in cui Enki dimorava, ci chiediamo: ha le caratteristiche per essere identificato con il Mediterraneo? Le tecnologiche navi di Alcinoo, solcavano i mari già prima di quelle sumeriche? Queste ultime erano attrezzate secondo i canoni moderni con a bordo bussole, computer e carte nautiche? Si noti che nel racconto sumerico viene affermato che Enki invio’ a Utnapistim un nocchiero perché guidasse l’imbarcazione e la conducesse nel luogo che egli aveva indicato al nocchiero. I marinai del periodo sumerico al servizio di Enki erano dunque esperti navigatori! Conoscevano le rotte, avevano stilato delle carte nautiche che indicavano le coste, gli approdi, i continenti. A questo punto si giustificherebbe la presenza di carte medievali, redatte in tempi ancora anteriori, arrivate fino a noi, che mostrano l’Antartide priva dei ghiacciai che, ormai da migliaia di anni, la ricoprono e le coste delle Americhe scoperte ufficialmente pochi secoli fa.

Analizzando perciò il mito sumerico sotto una nuova luce, senza distogliere lo sguardo dai racconti vedici, che ai racconti sumerici, avestici, biblici e greci sono complementari, e che descrivono con dovizia di particolari l’esistenza di civiltà tecnologicamente avanzate, si riscontra che in esso vengono descritti con ricchezza di dettagli, degni di un cronista scientifico dei tempi nostri, i primi risultati condotti dal dio scienziato Enki, coadiuvato, come si è sopra affermato, dalla sorellastra Ninmah che un ruolo determinante avrà nei successi raggiunti. Gli esperimenti vennero condotti a discapito o a beneficio, a seconda il punto di vista, di un bipede che Enki, durante i suoi viaggi di esplorazione, aveva incrociato nelle foreste Africane. Analizzando la lettura delle tavolette, riguardo ai primi imperfetti risultati degli esperimenti genetici, si nota già manifestarsi la nobile e compassionevole natura del creatore del genere umano Enki. Il dio, lo scienziato, infatti, mostra di possedere un non comune sentimento di pietà nei confronti delle creature malferme da lui create, tale da fare trasparire nello scienziato un concetto di sacralità attribuibile ad ogni forma di vita in quanto tale: Enki amava le proprie creature indipendentemente dalla forma da esse assunta e conferiva ad ognuna di quelle creature, frutto di errori genetici, comunque un diritto alla vita investendole di ruoli sociali adatti alle loro condizioni psico fisiche.

Enki il dio compassionevole.

I primi tentativi di creazione non andarono a buon fine, gli individui creati in virtù del mescolamento tra il genoma divino – appellativo con il quale questi scienziati della preistoria amavano definirsi- con quello degli ominidi africani, furono non tutti eccellenti; gli individui che ne derivarono non erano infatti in grado di essere autosufficienti. Enki edificò per loro degli ospedali e impose ai suoi assistenti di prendersi cura di loro con amorevole compassione. Da quanto ci è dato capire attraverso la lettura della traduzione dei testi sumerici in cui si sono cimentati gli studiosi, Enki allontanò dal laboratorio la sorella Ninmah, a motivo degli atteggiamenti di questa, considerati poco compassionevoli nei confronti dei soggetti che venivano studiati. Infatti Enki aveva concesso a Ninmah di condurre degli esperimenti sul genoma per proprio conto. Dai testi sembra che Nimah producesse alcuni esseri mostruosi, pare volontariamente, poiché, interrogata, affermò che ella creava esseri come il suo cuore le dettava.

Ciò avveniva in un luogo solitario che tenteremo di individuare proseguendo nelle nostre ricerche. La dea, animata soltanto dalla propria sete di conoscenza, non mostrava per le creature oggetto dei suoi esperimenti la stessa sensibilità mostrata dal fratello: incurante delle sofferenze delle proprie cavie, le incatenava e le segregava. Enki, venuto a sapere del comportamento della sorella, recatosi presso di lei e avendo constato personalmente gli impietosi metodi da lei messi in atto nei riguardi delle cavie, con atto imperioso derivante dal ruolo ricoperto di capo della equipe di scienziati, le impedì categoricamente di continuare ad esercitare la professione di genetista, irelegandola, come viene affermato nella traduzione del passo sumerico, in un territorio definito come “colto da sfortuna”. Da quel momento Enki non degno’ la sorella di ulteriori visite. Ninmah, come si afferma nella tavoletta, ne fu molto afflitta e pregò il fratello di rivedere il suo atteggiamento ostile nei suoi confronti; probabilmente è in questa occasione che Ninmah compone l’inno adulatorio nei confronti del fratello, tradotto da S. Kramer con il titolo di Ninmah ed Enki, ain cui è evidente la captatio benevolentiae che Ninmah esercita nei confronti di Enki. Il compassionevole creatore dell’umanità in effetti venne ammorbidito dalle lusinghe della sorella e le fece delle concessioni, rivedendo così in parte la propria drastica posizione. Tuttavia le impose di liberare le creature malferme che ella teneva recluse e di prendersene cura come si conveniva. Il dio adirato chiuse infine l’incontro con la sorella pronunciando le tremende parole: “La tua opera sia maledetta, avevi giurato di migliorare la mia opera (cioè la creazione dell’uomo attraverso l’innesto del DNA divino negli ominidi), dammi dunque indietro gli uomini malfermi affinché io provveda a loro”. Ed Enki, ottenuti i malati, costruì una casa in cui veniva prestata a loro la dovuta cura”.

Circe e il Circeo.

A questo punto della narrazione è possibile integrare al racconto sumerico quello greco riguardante l’incontro di Ulisse con la maga Circe. Il racconto omerico potrebbe rappresentare un adattamento poetico, a cura del poeta cieco, di un mito antichissimo trasmesso oralmente per millenni. Infatti, dal racconto sumerico risulta difficile non accostare alla omerica Circe la sumerica Ninmah: entrambe erano manipolatrici del genoma umano ed entrambe insensibili alle sofferenze delle loro cavie. Entrambe, nei miti che le vedono protagoniste, vengono costrette a rivedere il loro comportamento in virtù di una imposizione che deriva da una autorità superiore. Il sospetto che il mito greco possa derivare dalla fonte sumerica o entrambe da una fonte comune ancora più antica, appare dunque sempre più probabile. Omero potrebbe aver utilizzato e rielaborato il racconto sumerico in cui Enki si reca dalla sorella per liberare le cavie per adattarlo all’eroe di Itaca.

La domanda che qui ci si pone è quella che riguarda la collocazione della dimora di Circe/ Ninmah, che nelle tavolette viene definita come un “luogo colto da sfortuna”, appellativo che dice tutto e nulla nello stesso tempo se non fosse che, grazie all’approccio multidisciplinare che guida i nostri studi, a noi pare di poterlo agevolmente individuare là dove la tradizione e la toponomastica lo indicano: il centro Italia, nell’attuale Lazio.

 Il Circeo: laboratorio genetico preistorico(?).

L’appellativo di “luogo colto da sfortuna”, dove la scienziata Ninmah prende dimora, si adatterebbe assai bene ai Campi Flegrei, i quali vengono definiti ancora oggi dai geologi come il luogo più pericoloso e infernale del pianeta, ma in pari tempo esso è un luogo ricco di acque termali che posseggono notevoli proprietà curative e ove sono presenti purissime argille utilizzate per la cosmesi. L’argilla, secondo la Genesi, venne utilizzate da Jahve’ per la creazione dell’uomo. Le argille dei Campi Flegrei, grazie alla loro purezza, vengono utilizzate come prodotti per la cosmesi soprattutto per il “ringiovanimento” della pelle. All’uso delle argille, per gli scopi su detti, si addice il mito secondo cui la Sibilla Cumana avrebbe ottenuto da Zeus una lunga vita, ma non la giovinezza di cui si era dimenticata di fare richiesta. I biologi hanno osservato che nella fangaia di Pozzuoli, a temperature proibitive, riesce a sopravvivere un batterio che gli studiosi credono rappresentare se non la prima forma di vita che si sia manifestata sulla terra, comunque una delle prime e per questo il batterio viene chiamato archeobatterio. I luoghi su citati, se visti da una ottica divina, non distano molto dal Circeo, un promontorio attualmente facente parte della Regione Lazio, in cui la tradizione assegna la dimora della maga, o scienziata che dir si voglia, proveniente, secondo quanto Apollonio Rodio afferma nel suo poema le Argonautiche dalla Colchide. La Colchide è identificabile con l’attuale Georgia presso la costa orientale del Mar Nero, terra ancora oggi popolata da maghi e sciamani. L’area del centro Italia è intrisa ancora oggi di mistero. A Pozzuoli esistono i resti di un tempio dedicato a Iside (il lettore ricorderà che nel mito egiziano, il cadavere smembrato del marito Osiride, era stato “nascosto” – Lazio deriva dal verbo latere, nascondere- da Set nel Mar Mediterraneo) e un altro a Serapide, mentre il basso Lazio è caratterizzato dalla presenza di un numero spropositato di città recintate con mura ciclopiche edificate in tempi primordiali. L’edificazione di cinque città in particolare, denominate saturnie, viene attribuita direttamente al dio Saturno. Nei campi Flegrei, l’antico mito collocava la porta – una delle tante presenti nel pianeta- per la discesa nell’Ade. Non va sottovalutato il significato del rito che bisognava compiere per poter avere accesso nell’Ade. Il rito non poteva prescindere dal versamento del sangue di un animale sgozzato. In epoca romana furono molti i poeti che si occuparono del triste luogo, tra questi Virgilio veniva additato come mago a sua volta e tale era la dimestichezza ch’egli aveva con le potenze infernali che Dante nel suo famoso canto lo sceglierà come guida per il proprio viaggio negli inferi. Nelle vicinanze del Circeo si trova l’isola di Ea, il lettore ricorderà che questo era l’appellativo di Enki; ma proprio sul monte Circeo esistono ancora i resti del tempio dedicato dai Romani a Giove Anxur (An cielo o Avo e zur verso, in direzione di), edificato – o soltanto rinominato e riadattato dai Romani–sopra le rovine di un tempio preesistente di epoca preistorica.

Occorre qui segnalare che nella stessa area, a testimonianza di quanto antica sia la frequentazione umana del luogo, vennero ritrovate negli anni cinquanta del XX secolo, in una delle tante grotte che si trovano nei pressi del Circeo, rimasta sigillata da un crollo avvenuto sessantamila anni fa, numerose ossa di uomini appellati di Neanderthal dal primo ritrovamento di questa specie nella città tedesca. Si tratta di nove individui di diversa età e sesso, la cui datazione include un periodo che va dai quattrocentomila ai settanta mila anni fa. Ma la cosa straordinaria consiste nel fatto che assieme alle ossa di uomini do Neanderthal, nella medesima grotta in cui giacevano, vi erano le ossa di un individuo identificato dagli antropologi come Sapiens. La cosa che ha richiamato la nostra attenzione, è la contemporanea presenza delle ossa di Neanderthaliani e di Sapiens nella grotta, motivo per cui la nostra immaginazione non poteva evitare di spingersi fino a Ninmah/CIRCE, ai suoi esperimenti e alla segregazione delle sue cavie. Bisogna dire che gli studiosi, a nostro avviso, tentando di semplificare, come è loro consuetudine fare quando si trovano in presenza di ciò che non può essere spiegato con metodi scientifici, addebitano la coesistenza delle ossa al trasporto di esse da parte di un animale predatore. L’animale, una jena, a loro dire, avrebbe trasportato i resti degli uomini nella propria tana, ma trattandosi di resti che appartengono a individui separati gli uni dagli altri da enormi distanze temporali, a noi non esperti, tale tesi appare assai improbabile. A questo si aggiunga che gli stessi studiosi che hanno elaborato questo escamotage, si accapigliano intorno alle rispettive conclusioni circa i segni di scalfiture osservati nelle ossa: alcuni li attribuirebbero alla pressione esercitata dai denti della Jena, altri a segni di cannibalismo rituale. Tra contraddizioni di tale natura, la fervida immaginazione del libero ricercatore non ancora contaminato da pregiudizi, non può non intersecare il racconto del mito che spesso si è rivelato il più aderente alla realtà dei fatti.

A tal proposito, avendo tirato in ballo la frequentazione di alcune caverne da parte di un non meglio conosciuto Homo del Paleolitico, crediamo che anche le incisioni nelle pareti della grotta dell’Addaura, in Sicilia, datate a ventimila anni fa, vadano riviste sotto una luce diversa e magari collegate ad una frequentazione dell’intero Mediterraneo che, come il suo nome suggerisce (vedi glossario etimologico) nasconde molti misteri.

Ad majora.

GLOSSARIO

ABZU. Il toponimo risulta formato dall’unione delle preposizioni di derivazione germanica ab, che indica provenienza, da, e zu verso, in direzione di. Presumibilmente il toponimo soleva indicare un luogo sì geografico ma anche di interscambi, che potevano essere di informazioni, culturali, di merci, scientifiche e, perché no, di tipo metafisico dal momento che, utilizzando un lessico religioso, sovente riferito alle anime degli uomini, si può affermare di esse che salgono e scendono. Pertanto, utilizzando una libera traduzione, si potrebbe tradurre il termine abzu con “andirivieni”. Molti elementi forniti dai testi sumerici lasciano sospettare che questo luogo, in cui venivano custoditi i segreti del dio Enki e in cui il dio aveva costruito la propria dimora, si trovasse nel Mar Mediterraneo. La letteratura antica fornisce una serie di indizi che porterebbero in Sicilia, quale sede più accreditata, per individuare la dimora di Enki, che, naturalmente, nell’isola sarebbe stata conosciuta attraverso epiteti diversi da quello sumerico. Tra i luoghi della Sicilia che avrebbero potuto ospitare il palazzo di Enki, appellato come quello sumerico Eridu, ovvero il luogo in cui si presta il giuramento al signore (Er signore, eid giuramento, promessa), la zona etnea sarebbe quella candidata, se non altro, per il continuo riferimento alla montagna sacra ( l’Etna?), in cui gli dèi che intendevano interloquire con Enki dovevano recarsi. Inoltre, le pietre minerali occorse per la costruzioni di ambienti particolari dell’ Eridu, azurite e corniola, si trovano nei territori vulcanici. Non è superfluo qui far notare al lettore per le relazioni che intercorrevano tra la Sicilia e l’Egitto, che nella terra dei faraoni, la corniola era ritenuta probabilmente l’emblema della vita oltre la morte; infatti gli antichi egizi usavano inserirla nelle tombe con lo scopo principale di accompagnare i defunti nell’aldilà e per propiziare e celebrare la nuova vita.

Per ciò che concerne il palazzo di Enki, si prenda in considerazione il fatto che, in Sicilia, il santuario dedicato all’antenato, all’avo sicano, che porta il nome del padre di Enki, Ano, si trovava presso l’Etna, nella città di Adrano (il termine Ano veniva utilizzato ora come nome, ora come appellativo). Infatti, nella IV tavoletta dell’Enuma elish, viene detto che Marduk ricevette da suo padre Anu (Enki) alcune delle potenze a lui necessarie per sconfiggere Tiamat. La tradizione letteraria, poi, vuole che l’Etna fosse considerata la fucina degli dèi ove i Ciclopi svolgevano le mansioni di aiuto fabbri a quel dio che in età greca venne denominato Efesto. Nel poema lo Scudo di Eracle, composto da Esiodo nell’ottavo sec. a.C., emerge chiaramente che in quel lontano secolo, in Grecia e in Sicilia, si possedevano insospettabili conoscenze scientifiche. Efesto, secondo il racconto del poeta di Ascra, sarebbe stato in grado di costruire due ancelle di metallo (robot?) del tutto simili agli umani, tanto da non essere distinguibili da questi. Enki, nel racconto sumerico intitolato Il Viaggio di Inanna agli Inferi, fa la stessa cosa. Nella letteratura greca antica, sono citate numerose invenzioni di Efesto che, se lette alla luce delle recenti scoperte archeologiche, potrebbero far

prospetto della Chiesa Madre. Una antica tradizione orale vorrebbe che le colonne interne siano quelle dell’ antico tempio di Adrano.

 

 rivedere ai moderni il concetto di preistoria che ci si era fatto. La città siciliana di Adrano, edificata in illo tempore su una balza lavica perfettamente piatta, alle falde dell’Etna, sede, come si è sopra affermato, del grandioso tempio della divinità sicana, di cui fanno menzione Plutarco, Ninfodoro, Eliano ed altri, era cinta da mura ciclopiche, di cui sono ancora visibili possenti resti, realizzate con enormi pietre squadrate ricavate dal duro basalto. La città , nella sua vicina periferia, è ancora oggi ricca di canneti ed acque di falda che affiorano in

cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
fiume Simeto nei pressi del tempio di Marte ad Adrano.

superficie oltre che di fragorose cascate ancora presenti agli inizi del secolo scorso. Uno degli appellativi di Enki, è bene ricordarlo, era Ea, cioè acqua; sarà forse una coincidenza che l’etimo Adrano, il nome del dio sicano, scomposto nei lemmi A-dr-Ano si riferisca al furore delle acque (?). Queste, non solo scorrevano – in parte lo fanno ancora oggi- copiose in ogni luogo della città, ma riversandosi dall’alta rocca lavica, fino a raggiungere il sottostante fiume Simeto, formavano “furiose” quanto fragorose cascate e i fiumi così alimentati, pullulavano di vita.

Per quanto concerne recenti studi condotti sulle qualità dell’acqua, le modificazioni chimico fisiche in cui andrebbe incontro se stimolata, studi condotti da scienziati che aderiscono al progetto Tesla, hanno potuto verificare che l’acqua ha capacità di immagazzinare la memoria fornita da impulsi elettromagnetici. Questi ultimi verrebbero ceduti alle piante che verrebbero così liberate da parassiti fornendo produzioni superiori anche del 300%. In uno dei testi sumerici si apprende che Enki era riuscito a soddisfare le esigenze alimentari dell’umanità in aumento demografico esponenziale, intervenendo e ottimizzando la produzione agricola.

Per quanto concerne la carica elettrica e la memoria dell’acqua di cui tratta il podereso studio del professor Roberto Germano, rinviamo all’autore chi volesse approfondire l’argomento. A noi qui, basta acquisire la consapevolezza che l’epiteto Ea acqua, apposto all’Avo scienziato, venga messo in relazione all’elemento indispensabile alle sue sperimentazioni e che pertanto la scelta, nel costruire il proprio laboratorio, in parte all’aperto onde poter osservare direttamente e per via naturale lo studio degli elementi naturali, appaia al lettore come una semplice ovvietà.

L’ipotesi di una città presso l’Etna, abitata dal dio Enki o/e dal figlio Thot che segui e continuò le ricerche del padre, verrebbe corroborata dal ritrovamento in una grotta di scorrimento lavico nella periferia dell’antica città, di pitture e incisioni su vasellame del VII e IV millennio a. C., che alla luce di nuove e inedite interpretazioni, potrebbero essere spiegate come motivi simbolici, riferendosi appunto a conoscenze scientifiche di cui si è affermato sopra. L’occhio in questione poi, inciso in un frammento di ceramica, datato dagli studiosi al VII mill. a.C., potrebbe riferirsi al concetto di onniscenza, ed essere considerato un prototipo siciliano dell’occhio riproposto successivamente in Egitto, attributo sia del dio Ra che del di lui fratello Toth. Tra l’altro, proprio il nome sicano di Toth, Teuto, si ritrova ad Adrano inciso su una stele del V sec. a. C., e ancora in una citazione di Polieno con riferimento al principe sicano che nel VI sec. a.C. governava la città di Innessa rinominata in Adrano nel 400 a.C. Il caso vuole che la città di Adrano sorga nei pressi della confluenza tra i fiume Simeto e il fiume Salso. Questa casualità induce inevitabilmente a fare un parallelismo tra la città di Eridu edificata a Sumer, sede di Enki , anch’essa edificata fra due fiumi: il Tigri e L’eufrate e l’ipotizzata omonima dimora siciliana di Enki tra i fiumi Salso e Simeto. È infatti sconcertante notare come oltre ai teonimi Ano, Bal da cui deriva il toponimo Belice, Ur (Urio è il nome di una divinità siciliana attestata da Cicerone nelle verrine) anche l’antroponimia trova dei punti di contatto tra la Sicilia e la Mesopotamia. Si fa qui veloce riferimento alle ricerche di studiosi che hanno ipotizzato l’affinità tra Etna, probabile nome della figlia di Teuto, principe sicano di Innessa (futura Adrano), ed Etana, re della città mesopotamica di Kish. È ancora la toponomastica siciliana a ripetersi con inusitata frequenza in area mesopotamica: Ebla, Acate (Agate), Assoro (Assur), Enna (Eanna), Erbita (quello di Eribbiti era l’appellativo della casta sacerdotale babilonese), Eloro, antico insediamento presso Siracusa (Aloro era il nome del primo re mitico della Mesopotamia) al punto da immaginare un integro cordone ombelicale che univa l’Oriente all’Occidente ancora fino al IV sec. quando cioè in Sicilia il culto professano nei confronti della dea Iside, contendeva il primato a quello della cristiana Maria. Ipotizziamo ancora, che il mito sicano degli dèi Palici, figli di Adrano, cantati da Virgilio nel IX libro dell’Eneide e da Eschilo nelle Etnee, sia la versione sicana del rapporto dicotomico intercorso tra i fratelli sumeri Enlill ed Enki. Sarà ancora un caso che la sede più influente del culto di questi fratelli si trovasse nelle campagne della città di Adrano presso il santuario del padre, proprio sul fiume Simeto e presso le acque – l’elemento naturale di Ea/Enki- sacre dette delle Favare denominate acqua chiara e acqua scura ad accentuare il rapporto antitetico tra i fratelli, ancora più evidente nel mito sumerico. Ora, si dà il caso che, come viene affermato nelle tavolette mesopotamiche, sia la sede sumerica di Enki, Eridu, che quella nell’Abzu (nel Mediterraneo?) custodissero: la prima i famelici “me”, oggetti o entità non identificabili capaci di attribuire un enorme potere al possessore, la seconda grandi poteri nascosti. Da ciò si deduce che questi poteri erano rappresentati da qualcosa che poteva essere facilmente trasportabile da una sede all’altra; la conoscenza.

Sicani: un laboratorio nel Mediterraneo.

Prima di proseguire nel tentativo di svelare un’altra pagina della criptica storia della Patria sicana è doveroso mettere in guardia il lettore da quanto qui verrà vergato, da noi ritenuto forse un maldestro tentativo di condividere alcuni risultati a cui siamo pervenuti. Le riflessioni qui esposte, potrebbero perciò diventare nel futuro, oggetto di revisione e/o smentita se, strada facendo, si approdasse a risultati contrastanti. Infatti, rispecchiandoci pienamente nelle affermazioni di Gandhi, che si definiva un campione di incoerenza a motivo delle mutanti condizioni politiche del suo paese in subbuglio, preghiamo il lettore che anche a noi venga concessa l’opportunità di rivedere, correggere e riproporre certe affermazioni alla luce di nuove scoperte che mai come ai giorni nostri si succedono con inusitata frequenza.
In mancanza di dati storici documentali antichissimi riguardanti la nostra Sicilia, ritenendo tuttavia che i nostri lettori abbiano ormai fatta propria la tesi secondo la quale, durante il periodo antico della storia del pianeta, lo stesso sia stato inizialmente abitato da una civiltà globale, rimane nostro convincimento il fatto di essere riusciti a ottenere preziose informazioni dalla lettura e reinterpretazione, alla luce di nuove scoperte, soprattutto nel settore della biogenetica, degli antichissimi testi ritenuti sacri dagli Avi nostri. Tra questi antichi testi, l’Avesta, a nostro avviso, fornisce riferimenti precisi circa la genesi delle civiltà umane che si sono susseguite e delle trasformazioni geologiche subite dal pianeta a partire dalle epoche glaciali, a causa delle quali, alcune civiltà furono costrette a migrare dai poli presso le più miti zone centrali (med) equatoriali della terra.
Ancora una volta, per tentare la ricostruzione dell’evoluzione dei fatti trascorsi in epoche così distanti dalla nostra, attueremo un approccio multidisciplinare, attingendo qua e là ad informazioni che studiosi accreditati hanno – con un non comune senso di altruismo- divulgato attraverso metodi a loro più congeniali. La mitologia aprirà l’excursus che ci accingiamo a percorrere.

Una indagine sulle conoscenze della genetica durante il periodo Preistorico.

I bassorilievi egiziani, in cui si osserva il prelievo spermatico da una figura umana itifallica, ci ha dato assai da

Bassorilievo egiziano di abido. Luxor
Bassorilievo egiziano di abido. Luxor

riflettere circa l’interpretazione che bisognava dare a tale criptica raffigurazione. Il recente superamento di nuove barriere nel campo della biogenetica, da parte di arditi ricercatori, ci è venuto in soccorso. Al di là dell’interpretazione più o meno logica che verrà fornita in questo breve excursus, osservando con attenzione le immagini di Luxor, che non possono essere interpretate, come è stato sopra affermato, se non come quelle raffiguranti un prelievo del liquido seminale maschile, con relativi spermatozoi messi ben in evidenza, bisognerebbe chiedersi di quali avanzate tecnologie, paragonabili nel caso specifico ai nostri microscopi da laboratorio, disponessero alcune civiltà vissute in epoche antichissime.

Il bassorilievo egiziano di cui stiamo trattando, ma ve ne sono di simili in Thailandia e altre parti del mondo, diventa assai loquace ed esplicativo se lo si integra all’interpretazione del mito di Horus. Il mito egizio racconta di come sia avvenuto l’accreditamento di Horus quale erede del dio Osiride e suo successore al trono di Egitto dopo che questo era stato usurpato dallo zio Set. Poiché bisognava dimostrare che Horus era il figlio segreto di Osiride ucciso da Set, nascosto dalla moglie Iside per evitare che l’usurpatore uccidesse anche Horus, ecco che per la dimostrazione viene chiamato in causa il dio Thoth il quale, prelevato il liquido seminale da Horus (come si evince dal bassorilievo), dopo averlo esaminato afferma solennemente che Horus era realmente il figlio di Osiride. A noi pare che il mito egizio intendesse trasmettere, tra l’altro, il messaggio secondo il quale, lo scienziato ante litteram il cui nome egiziano veniva fonetizzato Teuti nella lingua greca, corrispondente al germanico e al sicano Teuto e ancora al latino Tito, conoscesse i comportamenti del genoma umano e le leggi dell’ereditarieta’. La “storiella” egiziana, ricca di particolari raccapriccianti che risparmiamo al lettore, potrebbe essere considerata frutto della fervida fantasia degli antichi se non fosse per una molteplicità di indizi che si trovano sparsi anche in altre civiltà e di cui diremo sotto. Ma vi è di più: nel mito di Horus viene affermato che questo dio sia nato dal padre dopo la morte e lo smembramento del corpo di questi, cioè il dio Thot – sempre Lui- viene pregato da Iside affinché, utilizzando la sua scienza, ella potesse essere ingravidata col seme del marito Osiride, morto e sezionato da Set, ma del quale lei era riuscita a mettere assieme i pezzi tranne il fallo. Dunque, pare che il genetista Thot avrebbe estratto dal cadavere di Osiride alcune cellule, non certo dal liquido seminale dal momento che il fallo di Osiride era l’unico membro del cadavere che era andato perduto dopo lo smembramento e la dispersione dei pezzi. Per farla breve, Thoth, accolto il grido disperato di Iside, non insensibile al ripristino della giustizia, si mise a lavoro riuscendo a ingravidare Iside attraverso frammenti del dna estratti dal cadavere di Osiride. Se si tiene in conto che alcuni studiosi dei nostri tempi ritengono che si potrebbero riprodurre dei mammut attraverso procedimenti che ricordano il mito egiziano di Horus, la possibilità che ciò possa essere stato realizzato da civiltà antidiluviane progredite e poi scomparse, non dovrebbe stupire. Il mito greco della evirazione di Urano, e la nascita di Afrodite dalla schiuma emessa dal membro evirato, raccontato da Esiodo nella sua Teogonia, potrebbe essere una variante del mito egizio di Horus ed entrambi potrebbero rappresentare il ricordo di fatti antichissimi riconducibili a tentativi di applicazione di ingegneria genetica che non cessò mai di affascinare i genetisti di ogni epoca, fino a condurre il blasfemo scienziato russo Gustav Ivanovic Ivanov durante il periodo staliniano, a inseminare a loro insaputa, giovani donne africane con liquido seminale di scimpanzé maschi, col fine di creare un ibrido che potesse collaborare con l’esercito dell’armata rossa.

Poiché stiamo qui esaminando la possibilità che attraverso il mito, gli Avi possano aver raccontato alcuni fatti storici, non è a noi passato inosservato neppure il possibile collegamento che potrebbe sussistere tra il mito egiziano e il viaggio della speranza intrapreso dal patriarca Abramo in compagnia della sterile moglie/sorella, verso la terra dei faraoni, magari diretto in una qualche clinica egiziana specializzata nella fecondazione assistita, al fine di sottoporre all’intervento la sterile moglie Sara. Non può non essere sospetto, alla luce dei molti collegamenti qui esposti, il fatto che dopo questo viaggio, Sara avrà un figlio. Ci chiediamo: intende forse comunicare il bassorilievo di Abido, che l’inseminazione artificiale non rappresentava un tabù per gli antichi Egizi? e che anche i Sumeri e i Palestinesi ne facessero palesemente ricorso come si evincerebbe dalla lettura dell’Antico Testamento e delle tavolette sumeriche? Se così fosse, le tavolette sumeriche che raccontano di un mesopotamico Enki, dio scienziato, creatore dell’uomo ad opera di una inseminazione artificiale avvenuta grazie al liquido seminale prelevato dai ” figli degli dèi”, inoculato nell’ovulo delle figlie degli uomini, si inserirebbero ad incastro perfetto.

I Sicani: tra Genetica e Metafisica.

Se quanto affermato nella premessa, cioè che nella preistoria alcuni individui possedevano conoscenze di biogenetica, questi individui avrebbero potuto agire in diverse zone geografiche, magari indicate cripticamente nei miti, il cui nome opportunamente decodificato avrebbe condotto il ricercatore al luogo ambito. L’evoluzione linguistica a cui inevitabilmente è condannata ogni lingua, ci ha reso più difficile, ma non impossibile il tentativo di decifrare gli appellativi apposti a certi luoghi. Tuttavia, sebbene noi non abbiamo l’ardire di sostenere, al pari di Assurbanipal, che si vantava di aver imparato la lingua primordiale parlata dagli dèi, crediamo per lo meno di averne scalfito la superficie. Ebbene, se così fosse potremmo affermare che parte delle conoscenze divine fossero state deposte nel Mediterraneo, anzi, abbiamo buoni motivi per credere che in questo angusto mare avesse sede il laboratorio primigenio: l’Abzu. Nel nome stesso di questo mare si nasconderebbe, infatti, uno degli indizi che hanno costituito l’impalcatura della tesi sopra affermata. Rimandando il lettore all’articolo “La lingua dei Sicani” onde egli possa comprendere il metodo da noi utilizzato per la traduzione dei nomi, qui risulta che Il nome del Mare Nostrum risulta formato dall’unione del lessema med, che significa medio, con il lessema tarn, che significa celato, nascosto. Ora, In una tavoletta sumerica si legge che il luogo in cui venivano celati i “segreti” era il palazzo laboratorio di Enki, ciò viene detto dal fratello Enlill durante un banchetto. Quindi, mettendo assieme questa affermazione con quanto si sostiene nel mito di Osiride, e cioè che Set aveva chiuso il corpo del fratello in una cassa, poi “nascosta” nel Mar Mediterraneo, si potrebbe giungere alla conclusione che l’appellativo apposto al nostro Mare, indichi il luogo depositario di indicibili segreti. In una tavoletta sumerica, Enlil si lamenta con il padre Anu, per il fatto che il suo fratellastro Enki sia l’unico a possedere i poteri a lui preclusi, nonostante egli sia stato eletto a capo del Pantheon sumero. Se abbiamo visto bene, e il laboratorio di Enki si trovava nel Mediterraneo, come esposto negli articoli precedentemente pubblicati, ne consegue che il laboratorio di Enki rappresentava lo scrigno in cui erano nascosti i segreti.

A corroborare questa tesi si aggiunga quanto segue: nel testo sumerico denominato Atra Hasis, in cui si racconta del diluvio, Ziusudra il Noè sumero, per giustificare agli occhi dei suoi cittadini la costruzione dell’arca, afferma che l’imbarcazione gli sarebbe servita per raggiungere il suo signore Enki che si trovava nell’Abzu. Dunque, in questo passo viene confermato che la reggia di Enki si trovava distante da Sumer, in un mare che poteva essere raggiunto soltanto con solide imbarcazioni, che nulla avevano a che vedere con quelle più piccole utilizzate per solcare le acque del Tigri o dell’Eufrate. Il mare che si presta ad essere identificato con quello che avrebbe dovuto raggiungere Ziusudra, non può essere dunque che il Mar Mediterraneo (vedi l’articolo: “Sumer, gli dèi vengono da occidente”, miti3000.eu) e il laboratorio di Enki non poteva che trovarsi in Sicilia a motivo della biodiversità ancora oggi riscontrabile a millenni di distanza. L’importanza politica a cui assurse la Sicilia, forse grazie alla presenza di questo laboratorio scientifico, la si evince altresì dal fatto che nell’isola venisse edificata una reggia, l’E(a)nna. La reggia avrebbe dovuto ospitare il dio padre Anu, affinché vi dimorasse durante le sue visite (di controllo?). Ci chiediamo cosa sia mai accaduto in una di queste visite perché Anu venisse appellato il furioso cioè odhr, Odhr-Anu (Adrano). Forse che la rivolta dei semidei placata dalla saggia intercessione di Enki, di cui si racconta in una tavoletta sumerica, sia avvenuta nell’isola divina, allora quasi attaccata all’Africa tramite un ponte di isolette, successivamente sommerse a causa dello scioglimento dei ghiacciai, ricordato come il grande diluvio? Certo è, che alcuni passaggi della storia siciliana trovano corrispondenza nel mito comune di Egizi e Sumeri; infatti, il nome del figlio di Enki, Ningishzidda in sumerico, Thoth per gli Egizi, a cui il padre aveva trasmesso tutte le conoscenze scientifiche in suo possesso, ricorre in Sicilia ancora nel corso del VI sec. a.C. nella città di Innessa, rinominata in Adrano nel 400 a.C. Lo storico greco Polieno, nel suo trattato Stratagemmi, cita infatti il nome del principe sicano Teuto. Il nome del principe verrà successivamente ritrovato inserito in una iscrizione in lingua sicana, incisa in una lapide incastrata nelle mura di un sito archeologico della periferia della attuale città di Adrano (vedi saggio: “Dalla Skania alla S(i)kania” gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu).

Le cose potrebbero essere andate così.

Se la ricostruzione sopra tentata avesse una probabilità di attendibilità, si spiegherebbe, tornando alla genetica, la presenza del corredo funerario ritrovato in un sepolcro adranita, in cui ricorre un vasto e ricco simbolismo che non potrebbe essere altro che un linguaggio attraverso il quale si racconterebbe la storia isolana, la quale verrebbe a intersecarsi con eventi più globali.

La metafisica della morte nel simbolismo di Castelluccio e la genetica.

Tornando alla genetica, il lettore che ci ha seguito in questo lungo excursus, si ricorderà di quanto si affermava nell’articolo “IL SACERDOZIO MISTERICO PRESSO IL TEMPIO DELL’AVO ADRANO”. Nell’articolo si sosteneva la tesi secondo la quale il simbolismo riportato in un piatto facente parte del corredo funerario di un sicano adranita, forse uno scienziato dello staff di Enki o Thoh, equiparabili ad Adrano, si rifacesse all’elica del DNA. Ebbene, in chiave meno biologica e più metafisica, per quanto esso potesse essere diretto al mondo profano,

Portellone di tomba a Castelluccio

essendo posto in bella vista, inciso in un pubblico portellone che sbarrava l’ingresso di una tomba del II millennio a. C., presso Siracusa, a Castelluccio, venivano rappresentati gli organi riproduttivi maschile e femminile: lo Ying e lo yang della cultura sicana. L’effige siracusana riproducente gli organi sessuali maschili e femminili in un luogo di morte, sembrerebbe stridere se non si avesse la consapevolezza che nella religiosità degli Avi, la morte rappresentava l’indispensabile passaggio alchemico che conduceva l’essere a una nuova rinascita.

Se volessimo spingere oltre l’immaginazione del ricercatore, non troveremmoestraneo al mondo delle conoscenze genomiche sicane, il riferimento al DNA del pittogramma riproducente i rombi contigui, dipinti nel piatto del IV/III millennio a. C., a cui abbiamo fatto riferimento sopra.

Ora, tre sono gli elementi che compongono la sacra istituzione della famiglia, cioè l’organismo deputato a tramandare la continuità della stirpe e a trasmettere un patrimonio genetico esclusivo: il padre, la madre e figli. La sede del culto della triade divina si trovava nella capitale sicana Adrano, città in cui gli storici antichi: Plutarco, Ninfodoro, Polieno e altri, celebravano la grandiosità del santuario edificato all’Avo. Si dà il caso che di tre elementi, o lettere, come vengono comunemente chiamate, sono composte le informazioni contenute nel DNA decodificate da un messaggero detto RNA. Questo gruppo di tre lettere sembra altresì essere alla base di tutte le forme di vita sulla terra e forse dell’universo. Che la sequenza di rombi dipinti nel piatto adranita possa riferirsi al dna, lo si deduce ancora attraverso l’affinità parentale che abbiamo riscontrato tra i Sicani e i popoli proto germanici. Questi ultimi, come è stato dimostrato attraverso i nostri studi, erano accomunati ai Sicani da una lingua e da una medesima weltanshauung, pertanto non risulterà peregrino accostare i nostri rombi alla runa chiamata odal – un rombo con due code in basso, equiparabile a quello utilizzato nel simbolismo sicano- a cui si può attribuire un valore interpretativo affine a quello da noi riscontrato in Sicilia. Grazie agli studi del runologo

Runa Odal
Runa Odal

Kennet Meadows, si evince, infatti, che alla runa odal i popoli germanici attribuivano “I caratteri innati ereditati dalla genealogia spirituale”. Restando in ambito germanico e al significato misterico attribuito all’aggettivo tarn che compone la seconda parte del nome Mediterraneo, luogo in cui la divinità sicana aveva edificato la propria reggia laboratorio, a noi pare che possa vedersi un collegamento etimologico, mitologico e simbolico collegabile alla collina irlandese di Tara, luogo in cui dovevano recarsi i re prossimi all’intronazione e, forse, iniziati ai misteri (cioè alle cose “nascoste”) della divinità preposta.

Ad maiora.

Il sacerdozio misterico presso il tempio dell’ Avo Sicano Adrano

Da qualche secolo a questa parte, il territorio adranita, sovvertito per i motivi più disparati che vanno dalle esigenze agricole a quelle di edilizia popolare, consegna reperti archeologici che, pur “urlando” il proprio valore quale veicolo di testimonianza storica, nel senso che in essi vi sarebbero racchiusi dei messaggi utili alla interpretazione di come gli Avi nostri concepissero il mondo e il sovramondo, rimangono silenti, mentre gli accademici locali, accecati dal sole nascente guardano ad Oriente con più interesse.
Tocca dunque a noi neofiti, invocando il soccorso della Musa ispiratrice, tentare di assolvere al duro compito, a costo di pagare il pegno di essere tacciati di eresia come tutti coloro che, fuori dai salotti autoreferenziali, formano l’enorme schiera dei silenziosi ricercatori della verità.

Il culto e il sacerdozio.

Così come oggi sarebbe impossibile ignorare il ruolo che ha esercitato il Vaticano nel mondo cristiano, e non solo, nel corso del nostro studio non potremo riferirci alla città di Adrano ignorando che in essa era stato edificato il tempio del primordiale avo sicano, come affermano Diodoro Siculo e Plutarco, il cui appellativo era quello di Adrano, appellativo che in altri studi, dedicati alla lingua parlata dai prischi Sicani, abbiamo tradotto con “Il furore dell’Avo”. Come emerge dai dati documentali e dai reperti archeologici che esamineremo insieme ai nostri lettori, crediamo, infatti, che la città, essendo sede del Santuario della divinità “Onorata grandemente nell’isola”, fosse necessariamente la sede dei sacerdoti che amministravano il culto a Lui dedicato. Ora, è risaputo che i sacerdoti, a prescindere dal culto di appartenenza, in tutte le civiltà dell’antichità, erano i detentori di un sapere che veniva tramandato ai rispettivi successori, e soltanto a loro, non senza averli prima sottoposti ad una adeguata iniziazione. Ma un tale sapere, sebbene custodito gelosamente affinché, come viene affermato dal detto biblico, non si corresse il rischio di darlo in pasto ai porci e da questi calpestato, veniva in parte palesato e criptato attraverso un simbolismo che il profano non sarebbe stato in grado comunque di decodificare, e che, però, per gli addetti ai lavori era funzionale e indispensabile per esercitare alcune pratiche rituali, magiche o scientifiche che definire si voglia. È probabile che il sacerdote, il mago o lo scienziato che avesse utilizzato tali oggetti in vita, venisse seppellito con tali oggetti una volta che egli avesse abbandonato il mondo. Crediamo ancora, per i motivi che più sotto spiegheremo, di esserci imbattuti in interessanti reperti facenti parte del corredo funerario di una sepoltura in cui l’illustre ospite era un sacerdote dell’Avo Adrano, vissuto intorno al quarto millennio a.C.

Il corredo funerario: significato del simbolismo dipinto nella ceramica.

La sepoltura di cui ci occuperemo, una delle tante ricavate da grotte di scorrimento lavico che nella periferia della

Decorazioni geometriche sicane. Museo di Adrano. Corredo funerario del IV/III mill. a. C. Piatti con croci e sequenze romboidale.

città di Adrano sono numerose, è stata datata dagli studiosi intorno al IV/III millennio a.C. Già le dimensioni dello scheletro lascerebbero sconcertati gli studiosi: poco meno di due metri. Ma qui noi ci occuperemo del significato dei simboli ritrovati dipinti nella ceramica deposta accanto all’illustre personalità ivi deposta, che, come sopra affermato, potrebbe attribuirsi ad un sacerdote della divinità locale e nazionale appellata Adrano.
Per quanto concerne alcuni concetti generali di ordine sacro, meglio espressi dai giganti di questa tematica, quale era Mircea Eliade, non avendo le competenze che possano eguagliare questo ispirato autore, rimandiamo allo stesso coloro che desiderano approfondire l’argomento, noi piuttosto, azzarderemo in questo breve excursus, ad esporre la nostra inedita interpretazione della cultura sicana, così come l’abbiamo elaborata tenendo conto dei numerosi reperti adraniti appartenenti alla tarda epoca del neolitico e ancora all’inizio dell’età del bronzo, reperti che come sopra affermato, in molti casi vengono da noi considerati alla stregua di pagine su cui, per mezzo di una scrittura pittografica, maldestramente scambiata per elementi decorativi ed espressioni artistiche, sono state veicolate, invece, a nostro modo di vedere, in forma criptata, alcune delle conoscenze padroneggiate dagli Avi nell’ambito di molteplici discipline, da quella metafisica a quella astronomica e molte altre ancora. Se quanto qui asserito risulterà inverosimile ai più, non certo ai nostri lettori, essi sappiano che nel museo di Trapani (proprio a Trapani, Apollonio Rodio poneva la sede o una delle sedi, del popolo dei Feaci; un popolo di navigatori capace di muovere le navi con la sola forza del pensiero. Fuor di metafora..), viene esposto un teschio del III millennio a. C., ritrovato a Partanna, il quale porta i segni di un intervento di trapanazione chirurgica. La cosa stupefacente consiste nel fatto che l’intervento, che aveva lasciato un ampio foro nella parete frontale probabilmente ricoperto poi da una lastra d’argento per proteggere la massa cerebrale rimasta esposta, era perfettamente riuscito. Infatti, attraverso un’accurata analisi del foro praticato, è stato appurato dagli studiosi che il paziente era sopravvissuto dopo l’intervento ancora per un anno.

La croce preistorica.

Ma andiamo al simbolismo espresso nella ceramica adranita e al nostro tentativo di decifrarlo. Due piatti delcorredo funerario sono decorati con splendide e artistiche croci, simili del tutto a quelle adottate dai cavalieri gerosolimitani del Medio Evo. A motivo di precedenti nostri studi comparativi, che individuavano numerose, quanto sconcertanti affinità tra la cultura sicana e quella sumera, studi da noi condotti per via indipendente, siamo venuti strada facendo a conoscenza degli studi condotti anni prima dal sumerologo Zecharia Sitchin. Trovando questi ultimi in linea col nostro metodo e ritenuto un maestro ispirato questo grande sumerologo, abbiamo dalle sue intuizioni

Oggetto di ceramica del IV mill. a.C. rinvenuto a Susa

attinto a piene mani, specialmente per ciò che concerne i risultati da lui ottenuti con la traduzione delle tavolette contenenti testi astronomici, disciplina in cui i Sumeri, come è universalmente riconosciuto, eccellevano. Secondo lo studioso, la croce rappresentava il dodicesimo pianeta del nostro sistema solare, pianeta dal quale “gli dèi” provenivano. Il motivo per cui il pianeta veniva rappresentato con una croce era dovuto al fatto che, ogni rivoluzione che esso compiva attorno al sole, che durava tremila e seicento anni, era caratterizzata dall’incrocio ravvicinato col pianeta Terra. Il pianeta degli dèi denominato Nibiru, incrociava il pianeta terra, nel senso che gli passava pericolosamente vicino al punto da procurargli, essendo di dimensioni notevolmente maggiori, considerevoli perturbazioni d’ordine astronomico che si riflettevano inevitabilmente anche sull’assetto sociale. Questo era il motivo per cui tutti i popoli della terra tenevano incessantemente lo sguardo rivolto al cielo: essi aspettando il passaggio di Nibiru si interrogavano circa le conseguenze che avrebbe prodotto e se avessero potuto prendere le dovute precauzioni per prevenire i disordini sociali provocati dal nuovo assetto terrestre. Che Sitchin potesse avere ragione circa l’esistenza di un dodicesimo pianeta, invisibile ai più potenti telescopi in nostro possesso, e dunque non inserito dagli studiosi nel nostro sistema solare, ci viene fornito dalla strana presenza di tre prolungamenti disegnati all’estremità di ogni braccio della croce dipinta nel piatto rituale adranita. Essendo tre per ogni estremità, il numero di questi prolungamenti è dodici. Il dodici, come è risaputo, rappresenta un numero astronomico molto presente nella cultura di ogni popolo. Ma non è tutto. Il nostro sumerologo, abile decifratore dei testi cuneiformi, facendo riferimento ad un testo sumerico, detto della creazione: Enuma elis, afferma che la vita sulla terra sia stata portata da Nibiru grazie all’impianto del genoma degli “dèi”, cioè gli abitanti del dodicesimo pianeta, in quello degli ominidi che abitavano la terra. Se lo studioso ha visto bene – e gli darebbe a nostro avviso ragione il ritrovamento in diverse aree geografiche di decine di bassorilievi che fanno esplicito riferimento agli spermatozoi umani- la sequenza di rombi presenti nei piatti adraniti tra un braccio della croce e l’altro, potrebbe riprodurre stilisticamente le due eliche del genoma umano. In questo caso, utilizzando la fantasia, ingrediente che un ricercatore non deve farsi mancare, il simbolismo

Bassorilievo sumerico

riprodotto nel piatto, starebbe a indicare che la vita (la doppia elica del DNA espressa con la sequenza di rombi) sulla terra proveniva dal pianeta (Nibiru? ) indicato con la croce. Se dunque, tra le molte affinità esistenti tra la cultura sumerica e quella sicana messe da noi in evidenza in alcuni nostri studi precedenti e pubblicati nel sito web miti3000.eu, aggiungessimo la conoscenza del funzionamento della genetica, si trarrebbe la conclusione che, essendo stato Enki in Mesopotamia lo scienziato che diede vita al progetto della creazione dell’uomo, nell’isola sicana il suo equivalente dovrebbe essere stato Adrano. Il corredo funerario ritrovato nella grotta adranita, dovrebbe di conseguenza raccontarci per simboli, alla stregua delle tavolette sumeriche incise con i cuneiformi, la CREAZIONE DELL’UOMO.

Ad maiora e al prossimo “incrocio”.

Castiglione: il crepuscolo delle divinità Sicane

Le divinità sicane erano ormai invecchiate e stanche, quando nel 263 a.C., dalle vette dei Peloritani, si affacciavano nuovi e vigorosi dèi che camminavano sulle robuste gambe dei legionari romani. Si addivenne allora a un compromesso: alle giovani divinità venne fatto spazio nell’isola divina; a loro si eressero splendidi templi di umana ingegneria là nelle pianure, accanto ai porti, nelle città affollate, presso i mercati, mentre gli antichi dèi si ritiravano presso le cattedrali che la natura aveva scolpito per loro fra boschi, ruscelli e antidiluviana arenaria. Gli dèi sicani erano sì vetusti, ma ancora vigorosi e temuti, e quando nel 213 a.C. si aprirono in Sicilia nuove ostilità con i Romani, con i quali si era proficuamente convissuto per cinquant’anni grazie alla lungimiranza del saggio Gerone II, il padre degli dèi sicani Adrano era talmente temuto dai legionari che, constatato come dai suoi santuari provenisse una tale energia da rendere invincibili le schiere di soldati siciliani, il Senato Romano delibero’ di chiudere quei luoghi al pubblico culto.
Alla fine, le vetuste divinità sicane vennero però sopraffatte dai giovani dei romani. Le antiche divinità che per millenni erano riuscite a contenere le invasioni straniere, compresero l’irreversibilita’ degli eventi e si ritirarono allora sui monti, permettendo che il fato si compisse. Le primordiali divinità sicane sonnecchiano ora nelle acropoli di Nicosia, Nissoria, Cerami, Assoro, Gagliano… Castiglione di Sicilia. In quest’ultima nel 2004, il proprietario di estesi terreni di noccioleti e vigneti, il signor Nunzio Nicolosi, durante alcuni lavori di routine, escavando parte del suo terreno, dovette certamente irritare il Genius loci, Bacco, uno di quelle giovani divinità che, avendo sconfitto gli antichi dèi sicani, si erano radicate nelle amene contrade castiglionesi. Si imbatte’, infatti, il Nostro, in alcuni enormi tini di epoca romana, seppelliti nel terreno affinché il vino, come era di gusto per i commensali, invecchiasse per decenni prima di essere degustato nei luculliani convivi romani. L’onesto e patriota signor Nunzio Nicolosi, avvertì immediatamente la Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania. Gli archeologi effettuarono subito dopo un sopralluogo e successivamente furono fatti dei saggi di scavo. Purtroppo una lettura completa della storia del luogo e della società dell’epoca, non è possibile effettuarla sulla base dei pochissimi indizi a nostra disposizione. Da una nostra superficiale ricognizione dei luoghi fatta oggi in compagnia del dott. G. Tradito, presidente dell’associazione Trinacria di Calatabiano, appare tuttavia evidente che una antropizzazione del territorio di Castiglione di Sicilia, non solo la si può con certezza fare risalire fin dal periodo neolitico, ma si può affermare che non vi sia stata soluzione di continuità abitativa fino ai giorni nostri e che la vita in quei luoghi sia proceduta seguendo l’evoluzione dei tempi: dai tini di terracotta romani fino ai silos di lucente acciaio delle prestigiose e numerose cantine vinicole dei giorni nostri, che numerose insistono sul territorio dell”‘elegante” villaggio di Solicchiata.

Il lusso delle ville romane in Sicilia.

Molti cavalieri romani, al pari di quel prestigioso Lollio, citato da Cicerone nelle verrine, che ottuagenario ormai,

Tinai del castello della Solicchiata di Adrano dei Baroni Spitaleri.

dava ancora filo da torcere al ladrone Verre, abitante nella città di Etna, antico nome di Adrano a cui Cicerone fa riferimento per uno escamotage dialettico e di strategia processuale per enfatizzare il nobile ed eroico trascorso della vetusta città che ospitava il santuario dedicato al primordiale antenato dei Siciliani, Adrano, grazie all’ ausilio di manovalanza a basso costo rappresentata dagli schiavi, che in gran numero provenivano dai territori conquistati in oriente, avevano probabilmente continuato e perfezionato la viticultura che i Greci di Sicilia avevano a loro volta impiantato nei territori sicani. I su citati cavalieri romani, pari per rango ai Senatori, avevano raggiunto in Sicilia uno stato di benessere economico, evidente nel resoconto ciceroniano delle verrine, tale da potere quasi certamente attribuire a qualcuno di loro la proprietà della Villa del Casale di Piazza Armerina ed ora quella di Castiglione, i cui scavi, è bene ricordarlo in questa sede, non sono mai stati condotti scientificamente, alle quali vanno aggiunte le numerose ville ritrovate ad Adrano durante il periodo economicamente florido degli anni settanta e ottanta, che vide una selvaggia cementificazione, e che ora giacciono silenti sotto le colate di cemento delle prestigiose quanto abusive abitazioni di Via Catania. Chiudendo l’oscura pagina dello scempio culturale, storico e archeologico commesso da individui senza onore e senza patria, appartenenti a tutti i livelli sociali, eredi di quei reduci delle guerre servili capeggiate in Sicilia dal sirio Euno, al quale, segno dei tempi, è stata eretta una statua nella città di Enna, a noi non passa inosservato il fatto che, nonostante i Greci fossero rinomati produttori di pregevoli vini al tempo dei Romani, – nell’Odissea ricorre spesso la citazione dei vini che provenivano da Chio, Nasso, Rodi, Cipro ecc.. – tuttavia Omero, fa trasparire una superiorità della qualità dei vini siciliani rispetto a quelli greci e una tradizione enologica più antica dei posseduta dai primi. Infatti, nel capolavoro del poeta cieco, l’Odissea, viene mostrato dai Feaci all’ammirato e incredulo Ulisse, come essi fossero assai avanti nell’arte della vinificazione. Da ciò che ci è dato di poter interpretare dal racconto omerico, sembrerebbe che i Feaci fossero in grado di realizzare diverse qualità di vino. Dalla descrizione che fa il poeta greco del momento della vendemmia, si evince che in Sicilia si facessero più raccolte di uva a motivo della selezione dei vitigni utilizzati e a motivo della gradazione e del sapore che si voleva raggiungere. L’affermazione, poi, che si pigiavano uve che non erano volutamente lasciate maturare, ci ha indotto a sospettare che i Feaci producessero una qualche qualità di vino spumante.

La viticoltura a Castiglione durante il periodo romano.

Dopo la conquista dei territori del nord Africa da parte dei Romani, il grano siciliano ebbe un crollo del mercato, tanto da diventare antieconomica la sua coltivazione. Emblematico è l’episodio raccontato da Tito Livio circa un carico di grano proveniente da Cartagine e diretto in Sicilia. A conti fatti il ricavato della sua vendita non sarebbe bastato a pagare il costo del pedaggio e della mano d’opera necessaria per scaricarlo, tanto da indurre i commercianti importatori, di lasciarlo interamente nelle stive della nave come pagamento all’ammiraglio. Alla luce della mutazione della domanda del mercato, va da sé che la scelta di produzione dei beni agricoli da parte degli agricoltori siciliani, venne indirizzata su un altro genere di prodotti. Pertanto si dovettero adattare le colture dei campi alla domanda delle nuove classi sociali divenute più abbienti grazie alle conquiste di nuove e sempre più numerose nazioni. Si incremento’ così la produzione di olio d’oliva e si impiantarono nuovi vitigni. Nel campo dell’enologia, i Romani, diventati i padroni del mondo, dediti, come si evince dal “De re rustica” di Columella, ormai ai piaceri della tavola più che ai doveri nei confronti dello Stato, potevano inventarsi nuove figure come quella del degustatore di vini, chiamato “haustores”. Non ci soffermeremo sulla professionalità maturata in tempi non sospetti da questa antica figura che farebbe impallidire gli odierni sommelier a cui non era certo da meno. Per quanto riguarda la vinificazione, già nel periodo augusteo vengono contati decine di qualità di vino per colore, sapore e gradazione: vinum porpurum, sanguineum, album (bianco)… vinum dulce, vinum pretiosum (morbido), vinum humecti (insaporo), consistent, solidum… Come sopra affermato, i Romani prediligevano vini di lunghissimo invecchiamento, come per il Falerno che non si beveva prima di dieci anni d’invecchiamento o i vini di Sorrento invecchiati fino a venticinque anni. Questi due esempi ci fanno comprendere come la vitivinicoltura fosse diventata appannaggio di una classe abbiente che poteva permettersi lunghe attese per ottenere poi un lauto profitto economico. Lo stesso fenomeno si riprodurra’ durante il basso Medio Evo. In questo periodo, tutt’altro che buio, come si evince dal prestigioso trattato posto in essere dal Barone Arnaldo Spitaleri, Mille Anni di Storia Dei Migliori Vini dell’Etna, si evince che erano gli Ordini Cavallereschi Monastici, in particolare Templari e Ospitalieri oltre che i monaci Benedettini, ad avere il monopolio della coltivazione gradita al gioioso e giovane Bacco.

Concludendo il nostro excursus con la citazione del dio più gradito all’opulenta civiltà cristiana, la quale mutuandolo dal biblico re Melchisedek, millenni fa inserì durante lo svolgimento di in un rito questo felice quanto controverso prodotto della natura, a noi che è stato concesso di fare un tuffo nella Sicilia degli Avi, di inoltrarci tra i secolari boschi di querce e noccioleti, tra le fenditure delle pluri millenarie rocce di arenaria che si ergono come testimoni e in pari tempo custodi di storie umane e divine, piace credere che le rigorose divinità sicane, sorseggiando un rosso dell’Etna, osservino divertite, dalle antidiluviane vette dell’Orgale e della contrada Crasa’, luoghi fiabeschi del territorio di Castiglione di Sicilia dove esse si sono ritirate, gli ebbri Satiri al servizio di Bacco, inseguire per gli ordinati filari di viti che con sicura geometria attraversano i vulcanici pendii, le giovani Ninfe pigiatrici.

Ad maiora

Oceano ovvero la stirpe acquatica dell’Avo

Poiché la primordiale stirpe sicana affidava soltanto alla memoria, alla “forza della mente”, la propria perpetuazione spirituale e poiché il mito era la modalità attraverso la quale i nostri antichi progenitori rappresentavano la propria visione del mondo, a noi tocca tentare la decodifica di quella rappresentazione che gli Avi ci hanno tramandato utilizzando un linguaggio metaforico e plastiche allegorie. In questo breve saggio ci occuperemo del mito di Oceano, uno dei figli di Urano e, ancora una volta, nel corso dell’analisi sarà possibile constatare come una globalizzazione culturale informava le civiltà pre storiche che abitavano il pianeta. Sarà ancora possibile comprendere come attraverso l’onomastica, gli Avi intendessero veicolare interi concetti e tradizioni.

Etimologia del nome.

Il lettore avrà certamente riscontrato come spesso nell’onomastica si faccia esplicitamente riferimento, con orgoglio, alle proprie radici etniche. Ebbene, il nome Oceano non fa certo eccezione.
Nel mito greco, Oceano era figlio di Urano.
Ora, al ricercatore non sarà passato inosservato che entrambe i nomi sono formati con la radice An. Il sostantivo Ano, nella lingua antico alto germanico significa avo, antenato, nonno, ma anche cielo, sede degli antenati. Pertanto, se si scompone il nome della divinità marina secondo la lingua agglutinante tedesca, utilizzando la grammatica avremo la sequenza: ö-cened-ano. Chi ci ha seguito nelle ricerche dei significati etimologici attribuiti all’onomastica, ricorderà che Oannes era l’appellativo apposto dai Babilonesi agli uomini pesce, esseri questi, secondo il resoconto del sacerdote babilonese Berosso vissuto nel III sec. a. C., civilizzatori venuti dal mare occidentale. Gli Oannes venivano raffigurati nei bassorilievi mesopotamici come esseri per metà pesce e per l’altra metà del corpo uomini. Nella lingua sumera e babilonese acqua si scriveva ea; ignoriamo la fonetizzazione della sillaba, se non che si constata che nell’attuale lingua francese acqua si scrive eau e si pronuncia O. Non appare pertanto peregrina la tesi secondo la quale il prefisso O del nome Oannes indichi proprio l’elemento acqua. Per quanto riguarda il concetto di stirpe veicolato dal nome Oceano, si riscontra che in antico irlandese, il termine cenedl indica un gruppo umano accomunato da vincoli parentali. Del significato di ano si è già detto e dunque non ci ripeteremo. A questo punto si può azzardare una libera interpretazione del nome Oceano: scomposto in o-cenedl-ano, potremmo dedurre che esso fosse un appellativo per indicare una “stirpe di esseri acquatici” che, padroni dell’elemento acqua, si muovevano con grande padronanza in esso. Questa stirpe – cenedl- si riconosceva forse nel comune antenato – ano- il quale potrebbe corrispondere alla figura del dio mesopotamico Enki appellato Ea, cioè acqua. A corroborare questa intuizione afferisce la presenza di alcuni bassorilievi sumerici di tre o quattromila anni fa, in cui vengono rappresentati uomini che con l’ausilio di respiratori dalla forma di otri, esplorano i fondali marini. Ritorna utile alla nostra ricerca, constatare che filosofi dello spessore di Platone si siano interessati al mito del continente Atlantideo, sprofondato nell’Oceano.

Atlantide.

Il mitico continente sparito sotto i flussi del mare nel giro di una notte, secondo le notizie apprese dal filosofo greco del IV sec. a. C., e riportate dallo stesso in due suoi dialoghi, il Crizia e il Timeo, oltre che aver dato – o forse preso- il nome all’oceano che lo circondava, ha rappresentato un rompicapo per gli studiosi e ricercatori di tutti i tempi. Noi non ci occuperemo della veridicità del mito né faremo cenno ai reperti archeologici sottomarini ritrovati nell’area in cui si ritiene fosse sorto il mitico continente, né ci soffermeremo sugli studi condotti dai geologi che confermerebbero un innalzamento dei mari di 140 m. circa @lin seguito alla deglaciazione iniziata intorno al 10.500 a. C., innalzamento che ebbe come conseguenza l’inabbissamento di parte delle coste di terre emerse e la scomparsa sotto i fondali di intere isole, ma circoscriveremo la formulazione delle nostre tesi allo studio del significato che il mito intendeva veicolare e ciò grazie al contributo multidisciplinare.

La progenie dell’Avo.

Si è fatto sopra cenno al dio Enki, divinità mesopotamica, cosa che potrebbe apparire bizzarra se si volesse tentare un collegamento con Oceano, inteso questo sia come luogo geografico che, come affermato sopra, nome in codice per veicolare una storia comprensibile ad una cultura antidiluviana, etnicamente omogenea, che abitava allora il pianeta, e che si esprimeva per metafore. Per chiarire la nostra ricostruzione di fatti accaduti migliaia di anni fa, dobbiamo fare cenno alla gerarchia divina. In tutte le culture: mesopotamica, greca, romana ecc., le divinità occupavano un loro posto nella gerarchia divina, posizione che si traduceva in termini di potere oltre che di prestigio man mano che si saliva verso il vertice. La posizione occupata dal singolo dio nel Pantheon, veniva collegata ad un numero. Al numero assegnato alla divinità corrispondevano altrettanti nomi o appellativi. Nel caso della divinità mesopotamica Enki, il suo numero era il 40 che, come si è affermato, corrispondeva al numero dei nomi con i quali il dio era conosciuto. Dei quaranta appellativi, quelli che ricorrono con maggiore frequenza per indicare il Nostro, sono collegabili all’elemento acqua: Enki ed Ea. Il nome Enki è infatti composto dai lessemi En che nella lingua norrena significa uno, primo e Kiel che significa chiglia, parte importante di una imbarcazione, riconducibile per metonimia a nave. Dunque, l’appellativo Enki, ci racconta che il dio era considerato un abile navigatore: il primo, il numero uno sui mari, tanto da formare una unica cosa con l’acqua da essere appellato egli stesso acqua, Ea. In effetti, dalla traduzione delle tavolette sumeriche, emerge che il dio, dopo che il comando della terra era passato al fratello Enlil, si fosse dato all’esplorazione del pianeta attraversando i mari, giungendo fino in Africa. Tralasceremo in questa sede di raccontare l’odissea che il dio Enki avrebbe vissuto nel corso delle sue esplorazioni, navigando per i mari, e che, secondo le ipotesi esposte nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico” durante le quali avrebbe deciso, a motivo della biodiversità riscontrata nell’isola, di creare in Sicilia un laboratorio di biologia da cui sarebbero stati diffusi i risultati delle sue ricerche, per tornare al concetto di una globalizzazione della civiltà preistorica. Ma tornando al mito di Oceano, non si può qui evitare di gettare un ponte di collegamento tra il mito greco e il mito sumerico, in quanto Oceano potrebbe essere stato uno degli eredi di Enki emigrato verso occidente, come esporremo più avanti. Infatti, secondo quanto si legge nelle tavolette sumeriche, in quella parte intitolata dagli studiosi Epopea di Erra, a Marduk, il primogenito del dio delle acque, venne assegnato l’Egitto che dovette però abbandonare subito dopo a motivo dell’esilio a cui era stato condannato dal consiglio di dèi, accusato di aver provocato, sebbene involontariamente, la morte del fratello Dumuzil. In quella occasione il regno dei futuri faraoni passò momentaneamente ad un fratello di Marduk, Ningishzidda – Thot per gli Egiziani, Tehuti per i Greci, Teuto per i Germani e i Sicani. Tra i Sicani di Sicilia, nella città di Innessa, oggi Adrano, ritroviamo con questo nome un principe che governò la città nel VI sec. a. C. -. È ipotizzabile che nel regno egiziano, come avviene oggi per chi assume il vescovato nella religione cristiana, Ningishidda cambiò nome o gliene venne aggiunto uno nuovo, quello di Thot. Marduk, richiamato dall’esilio per intercessione dei suoi potenti consanguinei, ritornò in possesso del regno egiziano. A questo punto, una volta reinsediato Marduk al trono egizio, il fratello Thot, che si era ormai affezionato al ruolo di regnante e mal volentieri restituiva il regno, venne a propria volta inviato in esilio, oltremare, là dove fonderà un nuovo regno: Atlantide. Verosimilmente il nome con il quale Ningishzidda/Thoth, verrà chiamato nella nuova sede, sarà quello di Oceano, un appellativo in cui il sostantivo Ano diventa il denominatore comune per indicare coloro che appartenevano ad un medesimo ceppo familiare, quello a cui facevano parte i divini Urano, Oceano, Adrano, Jahno (Giano bifronte), Manno, Manu, Manitou, tutti nomi derivanti da Ano/u, dio citato nei testi sumerici ( Epica di Atra-Hasis) quale capostipite dei fondatori delle città mesopotamiche. Tra i discendenti di Anu potrebbero essere inclusi anche gli Anakiti, abitanti di parte della Palestina, citati nell’Antico Testamento e definiti appunto figli di Anak. Quanto qui dedotto trova una sua giustificazione anche grazie alle affermazioni di Esiodo. Il poeta, nel suo poema, Le opere e i Giorni, afferma infatti, che i figli di Oceano erano tremila, tra i quali figuravano i fiumi Nilo, Danubio, Po.. insomma tutti quei fiumi metaforicamente collegabili alla stirpe degli Indoeuropei: Egiziani, Germani, Italici… In tal modo verrebbe a giustificarsi anche il motivo per cui i Greci accomunavano il mare Oceano al mare Atlantico (Aristotile), identificandolo sempre col Mediterraneo Occidentale con il quale Oceano comunicava.

Dal diluvio alla covid 19.

È con sacro pudore che ci avviamo alla conclusione di questo excursus, accostandoci ad un argomento che apparentemente esula dalle iniziali intuizioni, rischiando così di sconfinare in un terreno scivoloso che potrebbe farci precipitare nella disistima di alcuni lettori. Facciamo pertanto appello a questi ultimi affinché vedano in noi la buona fede nella divulgazione delle ricerche operate.
Come è stato affermato più volte nei nostri articoli, citando il Vico, la storia è destinata a ripetersi ciclicamente, seppur si presenti con modalità diverse, adeguate ai tempi. Infatti, passando in rassegna lo svolgimento dei fatti odierni riguardo alla “pandemia” in corso, chi non intravede nelle modalità messe in atto per affrontarla un ripetersi di quelle messe in atto da divinità ostili al genere umano raccontate dai superstiti del diluvio? Il racconto sumerico della sommersione del pianeta, passato alla storia con il titolo di Epopea di Gilgamesh, poi fatto proprio da molte altre civiltà, descrive una catastrofe causata da fenomeni naturali, non provocata dunque dal volere divino come affermato nell’antico Testamento, e tuttavia dagli dèi conosciuta, cavalcata e nascosta agli umani affinché, il numero eccessivo di questi, ritenuto dagli dèi insostenibile per l’armonico procedere della vita nel pianeta, venisse sensibilmente ridotto.
Ma un dio compassionevole, Enki, biologo, il cui simbolo era quello di due serpenti che si attorcigliavano attorno ad un bastone, creatore del genere umano, costretto dal fratello Enlil appoggiato da un consesso di divinità, al giuramento di non comunicare ad alcun essere umano l’approssimarsi dell’evento catastrofico, trascorreva notti insonni, dilaniato dalla domanda se fosse giusto l’editto emanato dal congresso divino di annientare le sue creature. Giunto alla conclusione di quanto “disumana” fosse la determinazione divina, Enki pervenne all’idea di mettere in atto uno stratagemma che salvasse il genere umano senza venir tuttavia meno al giuramento rilasciato al divino consesso. Entrato dunque nella dimora dell’uomo più saggio della città di Uruk, Ziusudra, si pose di fronte a una parete dietro la quale si trovava l’uomo, e si mise a parlare alla parete, ma in modo che l’uomo potesse udire quanto egli diceva: “parete ho da dirti quanto segue… “, proferiva il buon dio, e raccontando quanto stava per accadere al pianeta terra, suggerì alla parete di mattoni di costruire una nave. Da esperto navigatore quale egli era, detto’ alla parete le misure e le tecniche di costruzione adatte affinché l’imbarcazione potesse resistere alle acque che da lì a poco si sarebbero abbattute sulle terre emerse e che avesse anche dimensioni tali da riuscire a contenere le specie botaniche e animali che potessero ripopolare il pianeta quando la catastrofe fosse cessata. Oggi non sono le acque del diluvio a minacciare il genere umano, ma un morbo, più o meno vero nella gravità della sua manifestazione. Esso, il morbo, si presta al medesimo ruolo che il diluvio svolse dodicimila anni fa: fungere da strumento per riorganizzare il pianeta. Ancora una volta, il motivo per cui gli “dèi” odierni, forse eredi di quelli dei tempi del diluvio, evocano un “reset” del pianeta terra, con la conseguente decimazione della popolazione, è rappresentato, a loro modo di vedere, dalla insostenibilità demografica.
E ancora una volta, il dio compassionevole che salvò, attraverso un escamotage, parte dell’umanità una prima volta, ripropone una seconda volta, attraverso modalità diverse adeguate ai tempi odierni, il medesimo sotterfugio, rivelando cioè, a registi, fumettisti, scrittori di romanzi, cantautori e artisti di vario genere, i piani degli odiatori del genere umano. Questi prediletti del dio, a loro volta, attraverso la produzione delle loro creazioni artistiche e letterarie: films, romanzi considerati di fantascienza etc. avviano la divulgazione in anticipo dei piani che gli odiatori del genere umano intendono mettere in atto. Il messaggio di salvezza diffuso attraverso le criptiche modalità sopra descritte, pur diretto a tutti gli individui, verrà purtroppo decriptato soltanto da pochi, tanto da rendere comprensibile il biblico messaggio secondo il quale “molti saranno i chiamati ma pochi gli eletti”.

Ad maiora.

I Sicani: La civiltà del Patriarcato

Prefazione.

Riteniamo necessario chiarire, in questo articolo, la posizione assunta dal prisco popolo dei Sicani riguardo a quell’atteggiamento dello spirito per il quale prestigiosi studiosi stabilirono se le società umane fossero fondate sul diritto paterno o quello materno.
Poiché lo studio qui esposto interessa più che i fatti storici una predisposizione dello spirito, costruiremo le nostre tesi sulla traccia dei simboli, dei riti, dei costumi fino a noi giunti numerosi e loquaci, e la dove fossero assenti le fonti storiche dirette, seguiremo il metodo dell’analisi interdisciplinare.
Sebbene siano stati sparsi numerosi indizi negli articoli da noi altrove pubblicati, che facevano riferimento alla visione del mondo incentrata sul diritto del padre nella società sicana, ci sembra, tuttavia, che il religioso pacifico atteggiamento del popolo sicano venga ancora interpretato come un pacifismo in una moderna era di stampo femminista. È pur vero che le civiltà ginecocratiche erano caratterizzate dall’assenza di discordie interne, ma se il disordine sociale non si manifestò nella società sicana siciliana, per lo meno fino al sopraggiungere nel VIII sec. a.C. dei rissosi e perfidi Greci, il motivo va ricercato, oltre che nella omogeneità etnica della popolazione isolana, nel saldo culto che aveva conformato la civiltà sicana. Il Pantheon sicano vedeva al vertice della scala gerarchica il padre degli dèi Adrano, il quale, aveva fatto del territorio siciliano quel laboratorio produttore di benessere, che avrà ancora in Federico II il fedele continuatore alchemico, capace di farsi eleggere re – di Gerusalemme– senza spargere una goccia di sangue. Ma di ciò è stato detto nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, a cui rimandiamo.
Ciò che ci interessa precisare in questa sede è che lo studio esposto non ha lo scopo di stabilire primati o promuovere una visione del mondo a discapito di un’altra, non è questo lo scopo che il ricercatore e lo storico si prefiggono, non noi, tanto che non ci soffermeremo sulla considerazione che l’epoca attuale, a nostro giudizio, stia assumendo sempre più i tratti di una condizione ginecocratica. Siamo invece convinti, che la coesistenza di entrambe le concezioni del mondo, rimanendo ognuna nell’ambito del proprio ruolo sia garanzia di equilibrio e armonia nella gestione del consorzio umano. Pertanto, certi che entrambe le visioni fossero armonicamente coesistenti nella vetusta società sicana fin dalla sua prima costituzione, riteniamo nostro dovere, in questo studio, fornire al lettore gli strumenti affinché egli, in autonomia, possa riuscire ad aprirsi una personale via di indagine, tenendo ben presente la problematica che pone lo studio di un periodo così lontano dal nostro.

Il Matriarcato.

Riteniamo che la parola matriarcato si debba intendere come un atteggiamento protettivo, conservatore, insito nella natura della madre, che accudisce e custodisce la propria prole, paurosa del cambiamento che con sé porta incertezze. La madre, per propria natura, teme il cambiamento, anche se questo potrebbe potenzialmente essere apportatore di benefici. Ogni novità, per la madre, è foriera di destabilizzazione del sereno, consolidato status quo. Su questa base, dunque, poggia la questione: tanto il matriarcato quanto il patriarcato, si identificano con un atteggiamento, una inclinazione dello spirito.
La questione non va posta perciò in termini di cromosomi. Immaginare come causa dell’affermazione del matriarcato il subentrare di atteggiamenti di mollezza ed effeminatezza assunti dal sesso maschile, sarebbe un errore. La mollezza, quale concausa, potrebbe essere soltanto l’aspetto più esteriore della decadenza interiore, della perdita di un centro di forza interiore che avrebbe dovuto esercitare un ruolo stabilizzante della propria identità. Ci sembra tanto vero quanto affermato che si può infatti notare nell’atteggiamento dei Cretesi dell’età del bronzo, guidati dal nerboruto re Minosse, come questo atteggiamento si conformi piuttosto ad una visione del mondo. Lo storico greco Erodoto, ci fa sapere, con suo personale sconcerto, che i Cretesi chiamavano “Matria” la Patria e che, al contrario dei Greci, onoravano le madri piuttosto che i padri. Lo storico di Agira Diodoro, ci porta a sua volta a conoscenza del fatto che, i Cretesi, giunti in Sicilia al seguito di Minosse, nel tentativo di rendere tributaria l’isola, sebbene venissero scoraggiati da questo tentativo dal re sicano Kokalo, dopo che Minosse era morto, rimanendo l’esercito cretese in Sicilia, fu concesso loro di fondare una città ove rendere onore alle madri. L’episodio citato dallo storico di Agira è tanto prezioso in quanto, tra le righe del racconto, lascia intendere come il culto delle madri non appartenesse al costume sicano, in caso contrario, infatti, non si sarebbe reso necessario che i Cretesi lo introducessero. Che la civiltà sicana si fondasse sul diritto paterno, e che questo perdurasse ancora fino a quando i Greci cominciarono a introdurre le tirannidi nell’isola, lo si evince da un passo della preziosa Biblioteca Historica di Diodoro Siculo. Lo storico narra che, dopo la battaglia di Himera del 480 a. C., Gelone, tiranno di Siracusa, per onorare gli Etnei, che con il loro contributo militare avevano deciso le sorti del conflitto a favore della coalizione greco sicula contro i Cartaginesi, fa costruire nella città di Etna, a proprie spese, un tempio dedicato a Demetra, che nella città mancava. Ricordiamo al lettore, che secondo le nostre ricerche, verificabili in quanto pubblicate, la città di Etna veniva rinominata nel 400 a.C, in Adrano.
Chiarito dunque il presupposto che non si aderisce al matriarcato o al patriarcato per una questione di corredo cromosomico, si deve ricercare il motivo di tale adesione in una affinità elettiva, dalla quale l’individuo viene spontaneamente attratto. Dopo tale premessa, e i postulati sopra elencati, spingiamo oltre la ricerca, col fine di tentare di comprendere a quale delle due visioni del mondo i Sicani aderirono.

Il Teonimo.

Premesso che della cultura sicana si conosce ben poco, avendo i Greci fatto tabula rasa delle fonti storiche e adattato i miti sicani alle proprie esigenze, stravolgendo i significati metaforici da essi veicolati, la nostra indagine deve necessariamente avvalersi della multidisciplinarietà e in particolare dello studio comparato dei miti e delle religioni. Riteniamo che lo studio della religiosità di un popolo sia molto importante per i fini che ci siamo dati in questo studio, poiché dalla sua comprensione si individuano i comportamenti sociali che di quella religione sono l’espressione. Pertanto, laddove non saremo in grado di consultare le fonti storiche per la loro assenza, chiameremo in causa il simbolo e il mito a cui spesso la stessa storia si rifà per risalire alle origini e ci affideremo all’interpretazione del significato dell’onomastica.

Significato di Sicano.

Il termine Sicano, oltre che indicare l’abitante dell’isola chiamata Sicania, cioè la Sicilia, indicava colui che orgogliosamente si riteneva progenie dell’Avo primordiale. Il sostantivo Avo, nella lingua sicana, secondo i risultati a cui siamo pervenuti attraverso gli studi della lingua parlata da questo popolo, da noi pubblicati su saggi e articoli, veniva reso con il termine Ano. In Sicilia il sostantivo sicano Ano, veniva preceduto dall’aggettivo odhr, cioè furioso. Sarebbe dunque sufficiente registrare la presenza del sostantivo Ano, cioè Avo, con cui si faceva riferimento al capostipite del popolo sicano, perché questo vetusto popolo, il primo che abitò la Sicilia, si possa assimilare alla grande famiglia degli Indoeuropei. La cultura di questi ultimi, infatti, era caratterizzata dal ritenersi gli eredi dell’Avo comune. La percezione di questo Avo comune, dalla Germania all’India, sotto l’influsso di adattamenti locali, veniva aggettivato dai Greci antico cioè ur: ur.Ano; percettivo o sensitivo dai Latini: jah.Ano (Giano bifronte); mentale dagli Indiani e dai Germani: mn.Ano, cioè Manu per i primi e Manno per i secondi da cui deriva l’etnico Alemanno; semplicemente Avo, Anu, dai Sumeri. Di più, il termine Sicano si spingeva oltre la semantica della genetica, esso intendeva esprimere, oltre al patronimico, grazie al pronome riflessivo sich, che significa sé, se stesso, che precede il sostantivo Ano, un concetto di consustanzialita’, volendo trasmettere una garanzia della continuità della stirpe e della tradizione atavica. Sopra si è fatto cenno al corrispondente teonimo romano: Jah.Ano, ovvero Giano bifronte, la citazione non è casuale, in quanto tornerà utile per le affermazioni che faremo più avanti. I Romani, che fondarono la propria civiltà sul diritto paterno, giunti in Sicilia nel 263 a. C., ebbero il primo scontro con la città di Adrano, la quale ospitava il grandioso santuario del dio eponimo. I Romani intuirono che il dio etneo era l’omologo del dio laziale Jah.Ano, un dio guerriero che Cicerone nelle verrine, anni dopo definirà “imperatore”, in quanto la statua da lui osservata a Siracusa riprendeva il dio sicano in atteggiamento marziale: armato di lancia, così come anche Plutarco (Vita di Timoleonte) l’aveva descritta quando nel 344 a.C., il dio siciliano aveva mostrato il proprio consenso al condottiero greco Timoleonte. La presenza del dio Sicano in Sicilia – Sicana era anche la divinità laziale- non può non accomunare la cultura Sicana di Sicilia a quella sicana del Lazio a cui fa riferimento anche Virgilio nell’Eneide e, dunque, alla civiltà di quei Sabini, che Cicerone, nel “pro Ligario” definiva “fortissimi viri” e romana, incentrata sul diritto paterno. Tra l’altro, l’affinità religiosa – e la religione conforma le civiltà– tra i Siciliani e i Romani, traspare dal principio di accoglienza e ospitalità che caratterizza anche il dio laziale, il quale, secondo il mito latino, condivise il regno con il transfugo dio Saturno fraternamente accolto. Lo stesso spirito di accoglienza lo si rinviene nell’atteggiamento dei regnanti siciliani quali furono Alcinoo, Cocalo, Iblone e l’infinita lista di altri ancora.

L’Avesta.

Nell’Avesta, il testo religioso dei Persiani, un documento per noi di estrema importanza, in quanto ci permette di comparare il dio creatore Haura Mazda con il dio sicano Adrano, si osserva come il dio di Zarathustra sia un dio che impone l’equilibrio, la misura, come del resto, l’etimologia del suo nome Mazda derivante dal germanico – in tedesco Maß, Mass significa misura-, lascia intendere. La religione mazdea, fondata sul diritto del padre, si oppone dunque a quello della madre in cui, la natura femminile, difficilmente trova un proprio punto di equilibrio e di misura, passando dal matriarcato alla ginecocrazia per finire agli estremi dell’innaturale amazzonismo. La posizione mazdea sul patriarcato ci appare così in linea con quella sicana, che essa poté esprimersi perfino attraverso la medesima lingua (vedi il saggio: “Il Paganesimo di Gesù” gratuitamente fruibile attraverso il sito www.miti3000.eu). Infatti, nello Yast zamyad del testo vedico, descrivendo l’origine delle montagne, fra quelle elencate ne figura una che porta il nome di Adarana. In un’area geografica europea, il nome Adrana veniva dato dai Germani al fiume che oggi si chiama Eder (da odhr furioso). La presenza dello stesso nome apposto a molti fiumi sia in Persia che in Germania, come in Spagna e in Sicilia, non deve stupire il lettore, dal momento che Erodoto citava la presenza di tribù germaniche in Persia al tempo di Ciro. Germani, Persiani e Sicani condividevano dunque sia la lingua originaria che la visione del mondo.

Discendenza Patrilineare.

La conseguenza di quanto sopra affermato, cioè l’identificazione del Sicano con il proprio Avo, determinato dal pronome riflessivo sich, sé, se stesso, contraddicendo gli studiosi che sostengono tesi opposte alle nostre, ma che nei decenni precedenti si sono affermate non tanto per le prove da essi apportate, ma per l’autorevolezza di chi sosteneva quelle tesi, fa del Sicano il più eminente rappresentante della famiglia indoeuropea, in quanto la successione veniva garantita per via patrilineare. Il Pantheon sicano non sembra essere affollato da un numero caotico di divinità che caratterizza la civiltà ginecocratica di altri popoli, esso si basa sulla triade divina: la famiglia, composta dal padre, dalla madre e dai figli, che in Sicilia in numero di due, gemelli, espressero il concetto di complementarietà di forze apparentemente opposte.
È vero che non possiamo attingere a fonti dirette che attestino quanto sopra affermato, tuttavia, frammenti di letteratura che ripropongono alcuni miti Sicani, seppur rielaborati in chiave greca, quale è quello de “Le Etnee” di Eschilo, ci autorizzano ad azzardare quest’ultima ipotesi. Nel mito sicano sopra citato, rielaborato da Eschilo, la successione non accenna ad una via matrilineare come accadeva, per esempio, per i Lici, tra i quali la figlia aveva una preminenza sul figlio; la sorella sul fratello, anzi, l’eredità femminile, nel caso del mito sicano dei gemelli Palici figli di Adrano, è completamente assente e le due forze che si oppongono l’una all’altra, scaturite come forze equilibratrici, emanazione della forza uranica del padre, a beneficio della discendenza umana, a differenza del mito greco dei gemelli divini Apollo/Artemide o di quello sumero Utu/Innanna e altri ancora, sono entrambi maschie.
La presenza in Sicilia di principi sicani, di estrazione aristocratica, a capo delle città stato dell’isola, dall’età del bronzo fino a quella greca, citati dagli storici greci, non lascia dubbi circa la gestione olimpico virile della società sicana. La citazione da parte di Polieno dell’antronimico Teuto, principe sicano, vissuto nel VI sec. a. C. – – vittima della perfidia del tiranno greco Falaride-, primus inter pares nella città di Innessa, poi rinominata Etna come afferma Diodoro siculo e infine Adrano come emerge attraverso le nostre ricerche, induce a pensare che la gestione della propria comunità, avesse da parte del principe Teuto una connotazione paternalistica; infatti, l’appellativo teuto significa padre del popolo. Il nome Teuto era frequentissimo fra i regnanti indoeuropei: Teuta era infatti il nome o l’appellativo della regina degli Illiri; Teutomato quello del re dei Galli Ambrogeni ecc. I re sicani, – compresi quelli del Lazio della prima ora, dei quali facevano probabilmente parte Latino e successivamente Numa- venivano scelti per le loro virtù e queste virtù erano garanzia del loro futuro operare a beneficio del popolo. Il re era altresì garante del mantenimento dell’armonia universale, rinvenibile ad Adrano e a Sumer nel simbolismo del numero otto, ad Adrano anche attraverso le spirali incise su capitelli di basalto esposti nel museo cittadino. Anche Thot, Theuth per i Greci, la divinità egiziana equivalente alla greca Ermes, elargiva gratuita conoscenza al proprio popolo. Dunque, il titolo di Theuth, padre del popolo, è collegabile al latino Tito, che nella sua forma originaria ebbe il significato di genio, come si evince dalla iscrizione cumana “Tito Sanquvos”, genio Sancus. Le incisioni rupestri della Val Camonica, a sua volta, si lasciano collegare a quelle svedesi di Tanum in Svezia. Nelle incisioni rupestri della Val Camonica, così come in quelle svedesi di Tanum, sono del tutto assenti figure femminili, mentre abbondano quelle maschili che brandiscono asce bipenne o sollevano ruote solari.

Il principio olimpico virile nel simbolismo dei Sicani.

Simbolo solare. Adrano.

Nell’ambito del simbolismo utilizzato dal popolo sicano, in Sicilia l’astro luminoso, cioè il sole, ebbe un ruolo di centralità, al punto che fra i tanti toponimi apposti all’isola figura anche quello di isola del sole, abitata dai figli del sole cui fa cenno Apollonio Rodio. Fin dal Paleolitico, come dimostrano i numerosi reperti (rocce bucate) per la celebrazione del solstizio e che sono stati definiti calendari solari, sparsi per il territorio isolano, il culto tributato al sole fu centrale nella cultura sicana. Questa civiltà, come si evince dal simbolismo adottato, paragonava la fissità dell’astro all’ideale uranico di immutabilità, incarnato dal padre, in opposizione alla mutevolezza della luna, collegata alla donna. Le espressioni lessicali sicane

Simbolo solare. Adrano
Simbolo solare

utilizzate nelle iscrizioni funerarie ritrovate ad Adrano non lasciano spazio a dubbi circa la visione olimpica che questo popolo aveva del mondo. Le epigrafi fanno sempre riferimento ad un regno del sole, che il defunto avrebbe dovuto raggiungere. Il regno di luce a cui si fa riferimento nei tegoli, così come in iscrizioni adranite riconducibili a formule rituali di iniziazione ai misteri, era il luogo in cui si trovava anche la sede di Ano, cioè, il regno della luce coincideva con il regno dell’Avo.
Infatti, il lemma An, che significa antenato, era sinonimo di cielo, motivo per cui il re, che dell’Avo celeste era la trasposizione terrena, veniva appellato figlio del cielo – in Giappone il titolo viene ancora utilizzato nei confronti dell’imperatore-. Un ricordo della cultura ancestrale che fa derivare l’uomo dal Padre Cielo, lo si ritrova pure nell’Antico Testamento. Dunque, era in torto Erodoto a meravigliarsi del fatto che i Cretesi chiamassero matria la patria, poiché essi erano nel giusto quando accostavano la terra alla donna, poiché l’antica patria dell’uomo fu considerata non la terra, ma il cielo e ad esso egli ambiva a fare ritorno.

Il Simbolismo attribuito al numero nella cultura Sicana.

Tavoletta mesopotamica. La croce richiama per stile le croci rinvenute nel territorio adranita

Come sopra affermato, per comprendere al meglio la cultura sicana, mancando le fonti dirette degli storici del tempo, dobbiamo ricorrere alla multidisciplinarietà e alla comparazione con i popoli affini. Uno dei popoli con i quali i Sicani condividevano conoscenze e tradizioni mitiche è quello dei Sumeri. Presso questo popolo, il quale adottava per il proprio antenato divinizzato lo stesso sostantivo utilizzato dai Sicani, Anu, all’Avo veniva attribuito il numero sessanta, che nella scala sessagesimale adottata dai Sumeri rappresentava il vertice del Pantheon.

Oggetto non catalogabile. Rinvenuto nel territorio adranita. Il n. 8 e lo stile con cui è stata realizzata la croce riconduce ad un simbolismo in uso anche in Mesopotamia.
Simbolo solare nel pavimento di una tomba a grotticella. Castiglione di Sicilia.

Il pittogramma che indicava il dio sumero Anu era un sole con otto raggi. Il Pantheon sumerico era formato da dodici divinità il cui numero doveva rimanere immutato, sebbene gli dèi che ne facevano parte potessero alternarsi.
La sposa di Anu, Antu, seguiva la scala numerica con il numero cinquantacinque; cinquanta era il numero assegnato al primogenito di Anu Enlil, destinato a regnare dopo il padre, e quarantacinque era il numero che contraddistingueva la di lui consorte, e così via fino all’ultima delle dodici divinità.
Come si può dunque constatare, il vertice veniva sempre occupato da una divinità maschile, mentre quella femminile veniva a trovarsi in uno stato di subalternità. .

Il Simbolismo della Trinacria.

La più antica rappresentazione delle tre gambe, ritrovata in Sicilia, il cui nome Trinacria significa le tre forze dell’Avo o del Cielo, è quella di Palma di Montechiaro. La Trinacria di Palma di Montechiaro è caratterizzato dall’aver un apparente senso rotatorio che va da destra verso sinistra, dettato dalla posizione dei piedi. Ora, nell’ambito simbolico, la destra corrisponde al simbolismo attivo, virile e uranico della natura. La suddetta Trinacria, dipinta su un piatto del XII sec. a.C., forse proveniente dalla reggia del re sicano Kokalo, ha ,dunque, lo stesso andamento apparente del sole, simbolo questo, è il caso di ricordarlo, associato alla componente virile, all’uomo. Anche la scrittura sicana aveva il medesimo andamento. Nella cultura indoeuropea, tutto ciò che proveniva da destra, aveva un valore augurale, rappresentava, cioè, un segno di benevolenza divina. Quanto affermato per la Trinacria vale pure per la svastica dipinta su un vaso esposto nel Museo di Caltanissetta.

Le Veneri del Paleolitico.

Il territorio adranita, a motivo della costruzione del tempio dedicato dai Sicani al capostipite Adrano, rappresenta il fulcro degli studi per la comprensione della religione sicana, in quanto, quale nucleo religioso isolano, grazie alla presenza della casta sacerdotale, le tradizioni ataviche si conservarono più a lungo che altrove. L’ampio territorio adranita, rappresenta altresì il centro più importante per gli studi preistorici in Sicilia, ciò grazie ai numerosi reperti dell’epoca ivi ritrovati. Dall’altro lato, a nostro parere, gli studiosi non si sono sufficientemente soffermati sul significato simbolico tracciato dalle pitture vascolari, liquidato semplicisticamente come decorazioni. A nostro avviso, questi manufatti trasudano, attraverso la simbologia espressa, la weltanschauung di cui ci stiamo occupando in questa sede. Le numerose asce martello, ritrovate nelle grotte laviche utilizzate come luoghi di sepoltura dal periodo Paleolitico al Neolitico, ricavate dal duro basalto lavico, alcune maneggevoli, di media grandezza, utilizzabili come arma di difesa e di offesa, non lasciano spiegazione alla presenza di altre asce martello di pietra di enormi proporzioni, non facilmente maneggevoli per uomini di media statura. È nostro parere che nel secondo caso, ci si trovi in presenza di asce utilizzate a scopo rituale – i patrizi latini durante il rito del matrimonio, usavano sacrificare un maiale colpendolo con una ascia di pietra–, la loro presenza testimonia, forse, la volontà di sottolineare che si faceva parte di una civiltà che fondava sulla forza e sul diritto virile la propria civiltà. Per lo stesso motivo asce giocattolo si depositavano in tombe di bambini, ritrovate in Svezia. Lo stesso dicasi per il considerevole numero di corna preistoriche riprodotte con argilla cotta, esposte nel museo adranita. Le corna simboleggiano la forza incontrollabile del toro, simbolo fatto proprio dai tiranni greci, ed è anche simbolo di virilità. Nessuna traccia di matriarcato è stata trovata nel territorio adranita, sono assenti gli idoli femminili, nessuna venere preistorica da venerare nel vasto territorio adranita che ospitava il santuario dell’Avo, progenitore della stirpe sicana. Non si è rinvenuto nel territorio dell’Avo, durante i numerosi scavi effettuati, nessun riferimento universalistico di tipo matriarcale che accenni a comunità promiscue; anzi, più in dietro si va nel tempo, più i reperti archeologici ritrovati testimoniano la presenza di una civiltà improntata sul principio della forza spirituale paterna, ostentata, perché no, anche attraverso simboli che, come le grandi asce martello, esprimevano la superiore forza fisica, garanzia di successo e stabilità.

Sepolture.

Particolare di un pithos con croci potenziate. Museo archeologico di Adrano

L’ascia martello, il simbolismo della croce nella duplice forma potenziata e a bracci che si allargano all’estremità, la sequenza di rombi che si susseguono prendendo la forma di serpi intrecciate che richiamano la sequenza del dna; tutti questi aspetti simbolici presenti nella tomba di quello che certamente doveva essere un nobile capo villaggio del IV mill. a.C., rinvenuta ad Adrano, sono intimamente connessi tra loro e tradiscono l’aspetto patriarcale della gestione della comunità sicana.

Ruota del sole su capitelli lavico in arte sicula. Adrano.

Colpisce in particolare la presenza della croce, che trova una forte analogia con le croci rinvenute in Mesopotamia. Lo studioso Zachariah Sitichin si è spinto ad interpretare questo simbolo ritrovato nell’area mesopotamica, in termini astronomici, indicante l’incrocio di pianeti.Certo è che lo studio degli astri era in Mesopotamia una pratica consueta ed importante, non c’è motivo alcuno per non considerarla tale anche nella terra sicana, taluni indizi, come la presenza dei simboli solari della ruota raggiata, le spirali, la svastica, i cerchi incisi nella

Ruota del sole in una sepoltura svedese.

pietra arenaria da noi rinvenuta, i calendari solari, il megalitismo, lo lasciano pensare. Abbiamo ritenuto che la Sicilia fosse un “crocevia” importante battuto da sempre da eroi di ogni età : Greci, Troiani, Cretesi; vi fecero scalo gli Argonauti, semidei come Ercole, Enea, Minosse, eroi come Ulisse.. Mito o no, i racconti afferiscono all’idea che la Sicilia rappresentasse nell’immaginario collettivo un luogo in cui bisognava recarsi per conseguire qualcosa che ancora ci sfugge.

Conclusione.

Quanto esposto sopra potrebbe far pensare alla forzatura narrativa di un ricercatore che, innamoratosi della tesi esposta, tenta di cancellare ogni forma di presenza matriarcale nella civiltà sicana, pur avendo sostenuto in principio la necessità di una compresenza equilibratrice delle due visioni del mondo. Ebbene, rassicureremo il lettore accennando alla presenza del culto tributato alla dea Hibla o Etna e di un principe sicano di nome Iblone che riteniamo essere stato un probabile sacerdote di questa divinità femminile in quanto, questo principe sacerdote incarna i tratti tipici del matriarcato: accoglienza dei profughi guidati da Archia per i quali fonda addirittura una città (vedi articolo: “La Sicilia preellenica: i Feaci e la fondazione di Sicher-usa (Siracusa)”, mostra compassione, è fondatore di numerose città intitolate alla dea (Hibla Major, Hibla Gereatis, Megara Hibla ecc.). La politica dl principe sacerdote Iblone dimostra che il culto della madre ebbe la sua importanza anche in Sicilia, terra feconda e generosa, equiparabile al grembo materno. Tuttavia, oltre agli importanti misteri di Demetra, celebrati ad Enna, dimora della dea, il culto che nell’immaginario collettivo sopravviverà fino all’avvento del dio dei cristiani, e che manterrà vivo tutto il proprio carisma, sarà il culto tributato all’avo Adrano, divinità che i Romani temettero ed equipararono al loro Avo primordiale Jah.Ano (Giano bifronte). Cicerone, come già affermato sopra, fa ancora cenno all’epoca sua, alla divinità indigena Urio, cioè l’antico, il cui tempio si trovava anche a Siracusa e dove si recavano i pellegrini Siculi provenienti da tutta la Sicilia, così come avveniva ad Adrano nei confronti del dio eponimo, tanto che si dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che Urio, l’antico, fosse uno dei tanti appellativi utilizzati per indicare l’avo primordiale o antico Adrano.

Ad maiora.