Dove è finito il tempio dell’avo Adrano?

Chiesa Madre
Chiesa Madre

La tradizione orale giunta fino a noi vuole che le dodici colonne del tempio del Dio, ma sarebbe più corretto tradurre il teonimo con Avo, Adrano, siano inglobate nell’edificio in cui viene officiate il culto cristiano, l’attuale Chiesa Madre. Esse sostengono le navate della prestigiosa chiesa edificata durante il XII sec. per volontà della contessa Adelicia, nipote del gran conte Ruggero di Altavilla.
La Chiesa Madre sorge, rispetto alla antica città circoscritta dalle poderose mura ciclopiche, riprodotta con un grandioso plastico esposto presso i saloni del Circolo Democratico ubicato nella centralissima piazza San Pietro, nel luogo più alto di essa, perfettamente in linea con le abitudini degli antichi, che ponevano i templi degli dei patri nel luogo più alto della città, detto acropoli. Così fecero i Romani con il tempio di Giove capitolino; i Greci con quello di Atena e gli esempi potrebbero continuare. Che il tempio dell’Avo sicano si trovasse dentro, e non fuori le mura dell’antichissima città di Adrano, lo conferma un passo di Eliano che, a sua volta, si rifà a Ninfodoro e, indirettamente, Plutarco che, scrivendo della ‘vita di Timoleonte’ , definisce sacra la città che ospita il tempio, aggettivo che sarebbe stato utilizzato impropriamente dall’attento storico greco se, come ha sostenuto qualcuno, il tempio fosse stato edificato in aperta campagna, fuori le mura. Per i Romani tutto ciò che ricadeva fuori il pomerio, per esempio, perdeva di interesse, non era per loro appetibile.

Adrano – Mura ciclopiche

Che il tempio dell’Avo Adrano possa essere stato inglobato nell’attuale Chiesa Madre lo si deduce, tra l’altro, dalle subentranti abitudini cristiane di riconvertire, secondo l’editto di Efeso, gli antichi edifici in cui si praticavano culti pagani, in chiese. Così avvenne per il prestigioso tempio di Atena ubicato nella piazza centrale di Ortigia a Siracusa; per quello di Apollo su cui fu edificato il monastero di Montecassino; per quello di Dioniso su cui sorse la cattedrale di Catania e gli esempi potrebbero continuare fino a tediare il lettore. Ci chiediamo: farebbe eccezione soltanto il tempio di Adrano? Soltanto esso farebbe eccezione alla pratica attuata con il permesso di S. Agostino prima e la benedizione, successivamente, di Gregorio Magno? Dopo l’affermazione, sancita nel 325 con il concilio di Nicea, del nuovo culto proveniente dalla Palestina, inizia una operazione di riconversione e riutilizzo dei luoghi di culto che giungerà, alla fine del primo millennio della nostra era, a non fare più rimanere inpiedi un solo menhir, un solo dolmen, e a soffocare gli urli paurosi dei popoli germanici che, come afferma Tacito, tanto terrore incutevano alle legioni, quando scendevano in battaglia, per indurli a recitare i sonnolenti canti gregoriani.

FINE DI UN CULTO MILLENARIO.

Del culto esercitato nei confronti dell’Avo Adrano, attraverso le poche righe riportate da Plutarco, ben poco si evince se non il fatto che la caratteristica principale che distingueva la divinità sicana, fosse di natura guerriera in una visione del mondo patriarcale quale era quella posseduta dalla grande famiglia indoeuropea, di cui i Sicani facevano parte. Nel 214 a. C., dopo cinquant’anni di benessere economico e pace sociale, ottenute grazie agli ottimi rapporti instaurati tra il tiranno di Siracusa Gerone II con i Romani che occupavano l’isola fin dal 263 a. C., con la morte del tiranno, la vetusta è sacra città di Adrano, che faceva parte del regno affidato da Roma a Gerone II, inserita come clausola per le condizioni di pace stipulate nel 263 a. C. si ritrova, suo malgrado, dalla parte sbagliata. Era infatti accaduto, che il figlio di Gerone II, preso il potere, aveva dichiarato guerra ai Romani, stipulando una innaturale alleanza con i Cartaginesi. In questa fase la città di Adrano subisce la stesa sorte di Siracusa, verrà distrutta e depredata dalle legioni del console Marcello. Narrando questi eventi, Diodoro siculo fornisce un importante contributo alle nostre ricerche.

Statuetta in bronzo. Museo di Adrano.

Lo storico greco di Agira scrive: “Il Senato (romano) paventando l’ira degli Dei, consultati i libri sibillini, pensò di dover mandare in Sicilia alcuni del collegio dei Decemviri. I quali avendo girato per tutta l’isola, consacrarono con certe cerimonie e sacrifici gli altari dedicati a Giove Etneo (leggi Adrano); e fattovi intorno una muraglia, ne chiusero l’adito a tutti, eccettuato quelli che delle singole città erano soliti ad essere mandati a quegli altari, onde farvi, secondo l’uso dei loro maggiori i sacrifici patrii“. Benché questo frammento appaia oscuro, essendo mancante delle motivazioni che portarono il Senato romano a deliberare un atto tanto grave, esso appare animato di nuova luce se lo si integra a quanto afferma Tito Livio, scrittore molto attento alle questioni religiose. Egli, riferendosi alla strage di innocenti perpetrata a Enna a causa di Pinario un legionario di stanza, con i propri uomini, nella città sacra a Cerere, afferma: “La notizia di quella strage quasi in un sol giorno percorse tutta la Sicilia, poiché essa era stata compiuta in una città situata nel mezzo della Sicilia, famosa per la sua naturale fortificazione: città dove tutto era sacro, poiché là era vivo il ricordo della leggenda di Proserpina. I Siciliani ritenevano infatti che con quella ignobile strage non era stato profanato soltanto un Lugo sacro abitato da uomini, ma anche da dei – T. Livio, storia di Roma LXXIV”. Da questo punto potremmo fare continuare Diodoro: E “Il Senato, paventando l’ira degli dei, consultati i libri (…) fattavi intorno una muraglia (…)”. Se, come affermiamo, il tempio si trovasse nel sito della Chiesa Madre, allora potremmo anche sospettare che la muraglia a cui fa riferimento lo storico di Agira, sia quella che si trova a poche decine di metri dalla chiesa in questione, all’ingresso del castello normanno, sotto il pavimento di questo, visibile e protetta da una teca di vetro, muraglia la cui presenza non è stata giustificata dagli studiosi.

Ad majora.

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