Sicania: Le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico

Premessa.

Leggendo le opere di alcuni storici antichi, di Omero piuttosto che di Apollonio Rodio, si ha la sensazione che questi ispirati autori raccontino gli eventi come se il loro svolgersi fosse osservato dall’alto, come se potessero dominare l’intero campo d’azione sul quale gli eventi raccontati si svolgevano: Omero lo sterminato campo di battaglia in cui si scontravano gli Achei con i Troiani, talche’ potesse osservare contemporaneamente la fuga di Enea e dall’altra estremità della sterminata pianura il bellicoso Aiace Telamonio fare strage di nemici; similmente, Apollonio, da sopra una nuvola, poteva osservare la nave Argo che veleggiava dalla Colchide alla Sicilia facendo scalo qua e là.
La medesima sensazione si prova osservando antiche carte nautiche, come la famosa mappa di Piri Reis che riprende le coste dell’Antartide priva dei ghiacciai che oggi le rende invisibili. Ebbene, nel gioco letterario che abbiamo intrapreso con i nostri lettori, abbiamo provato a staccare lo spirito dal corpo, immaginando che, vagando libero per l’aere, potesse guardare al mondo globale; vi abbiamo visto uomini e dèi interagire parlando un unico linguaggio, un linguaggio ancora in uso, e tuttavia compreso da pochi.

Le  Divine Ambasciate.

Quanto ipotizzato negli articoli precedenti, frutto di studi che vedevano nell’utilizzo della multi disciplinarieta’ l’inevitabile strumento di lavoro, ha fatto emergere che la Sicania, la terra di proprietà dell’Avo primordiale Anu, fosse stata scelta per essere la sede, diciamo così, delle ambasciate divine e, dunque, preservata da conflitti bellici che, invece, trovavano nel vicino Medio Oriente il proprio privilegiato campo d’azione. Le guerre cola’ combattute dal IV fino al II millennio a.C., quella di Arappa nella valle dell’Indo, la sumerica in Mesopotamia, la vedica in India ecc. furono talmente violente da cancellare intere città come Moenjo Daro, Sodoma, Gomorra e distruggerne altre come Gerico ecc. Posta la questione in questi termini, il lettore potrebbe trovare esagerato tale scenario se i ritrovamenti archeologici delle suddette città non confermassero tali affermazioni. Tralasciando di citare i testi sacri appartenenti alla tradizione di molti popoli, che parlano di guerre apocalittiche combattute da eserciti antidiluviani con l’ausilio di tecnologie tanto evolute quanto sconosciute – i vimana e il bramastra indiani-, ricordiamo al lettore che pone la sua fede soltanto al servizio della scienza moderna, che gli antropologi, sulla base del DNA estratto dai fossili di ominidi ritrovati in diverse aree geografiche del pianeta, hanno tratto le conclusioni che la terra sia stata popolata da almeno cinque razze di esseri umani e quella dell’ Homo Sapiens, a cui noi apparteniamo, sia l’unica ad essere sopravvissuta. Ora, noi, memori di quella rivoluzione copernicana che seguì ai roghi combinati da chi riteneva di possedere le certezze scientifiche o fideistiche nei confronti di tesi opposte alle loro, rivelatesi quest’ultime successivamente esatte, abbiamo scelto di rimanere laici di fronte alle tesi esposte dai così detti eretici, lasciando che siano le prove apportate dai sostenitori di tali tesi a fare si che siano accolte o respinte. Al momento, non è possibile escludere la possibilità che fra le quattro razze umane estinte, catalogate dagli studiosi, una di queste potesse aver raggiunto una evoluzione tecnologica talmente avanzata da essere in grado di costruire quei manufatti archeologici che noi oggi, nonostante le moderne tecnologie, non saremmo in grado di riprodurre (si consiglia di leggere il libro di Marco Pizzuti “Scoperte Archeologiche Non Autorizzate”). Ma torniamo alla ricostruzione che tenteremo di realizzare in questa sede sulla base della consultazione delle fonti sumeriche, fonti che utilizzeremo per comparazione essendo stato appurato ormai, che i Sicani e i Sumeri, erano rami dello stesso albero. Riteniamo che la Sicilia, mentre si combattevano guerre cruente in Medio Oriente, continuasse ad essere quel paradiso terrestre abitato da divinità legate tra loro da vincoli di parentela, tanto che nessuno tra gli storici antichi ha mai narrato di episodi di guerre intestine in seno all’isola combattute tra i popoli che l’abitavano. La pax deorum, dovette prolungarsi fino all’arrivo degli infidi Greci, in epoca relativamente recente, nel VIII sec. a.C., tanto da far presumere veritiera l’affermazione riportata nei testi vedici, secondo la quale il mondo, in illo tempore, venne suddiviso in quattro parti, tre abitate dagli uomini, la quarta, a occidente, abitata dagli dèi. L’ipotesi che questa quarta parte comprendesse il bacino del Mediterraneo e le sue isole, e che il suo epicentro fosse ubicato in Sicilia, potrebbe essere suffragata dalla tradizione tramandata fino al tempo di Cicerone che spinge l’oratore romano ad affermare che la Sicilia era ritenuta una terra abitata da dèi. Infatti, è stato da noi altrove supposto, che il dio mesopotamico Anu, appellato dai Sicani, in Sicilia, furioso, odhr, avesse posto la propria reggia, chiamata Aenna nella lingua sumerica, proprio nella citta’ siciliana di Enna, la quale è ubicata al centro dell’isola, mentre il tempio a lui dedicato, costruito fra le eterne lave di basalto, riteniamo affondasse le sue solide fondamenta alle falde dell’Etna, nella acropoli della città di Innessa, successivamente rinominata Etna, come afferma Diodoro Siculo, e in ultimo Adrano, come risulta dai nostri studi. Le divinità, in numero di dodici, come prevedeva il Pantheon dei popoli indoeuropei di cui i Sicani facevano parte, avevano scelto ognuno la propria sede in un luogo della Sicilia a loro congeniale: Eolo, l’Enlil sumero, aveva gettato le fondamenta della sua dimora nell’isolotto di Lipari e governava l’arcipelago delle isole che da lui prese il nome di Eolie; Urio/Enki/Poseidone conduceva i suoi esperimenti su tutto il territorio isolano, ma, fra le città candidate ad ospitare il suo tempio laboratorio, ci sarebbe la città di Innessa per i motivi spiegati nell’articolo “Come Adrano divenne la sede dell” Avo”.
La presenza della triade divina in Sicilia, Anu, Enlil, Enki, il primo padre dei due fratellastri, si trasformò, forse, in Sicilia nella espressione istituzionale per eccellenza, percepita dai Sicani come la più importante in assoluto: la famiglia. E dal momento che i testi sumerici parlano delle visite terrene di Anu in compagnia della divina consorte Antu, la divina famiglia siciliana sarebbe stata formata da Ano, da Antu, corrispondente forse alla dea siciliana Hibla e dai due fratelli, Enki ed Enlil appellati Palici dai Sicani, cioè i Signori. La presenza della triade divina, padre-madre-progenie, fece sì che la Sicania, ovvero la terra di Ano, godesse della pax deorum di cui si è detto sopra, e che l’isola fosse appellata anche Trinacria, ovvero le tre potenze del cielo. Noi supponiamo che le tre potenze a cui faceva riferimento il toponimo Trinacria, corrispondessero ai ruoli istituzionali assunti dai tre componenti maschili della famiglia divina. Infatti, le tre divinità maschili: Anu-Enlil-Enki, ovvero Adrano e i Palici, la cui centralità culturale non può dare spazio alla presunta civiltà matriarcale attribuita ai Sicani, ma a questo argomento dedicheremo un articolo a parte, si erano spartiti il dominio dei cieli, della terra e delle acque. Il cielo, che era toccato ad Anu/Adrano andrebbe inteso come luogo in cui dimora il potere assoluto, su tutti i piani: fisico e metafisico; Enlil/Eolo esercitava il suo potere sullo spazio, inteso come un luogo interposto tra il cielo e la terra. A Enlil spettava anche il comando sulle sorti del pianeta, mentre il dominio dell’elemento fluido era talmente connaturato ad Enki/Poseidone, da essere soprannominato egli stesso Ea, che nella lingua sumerica significa acqua, eau nella lingua francese, O in quella babilonese da cui facciamo derivare il nome delle divinità che avrebbero portato la civiltà a Babilonia, divinità che il sacerdote Beroso chiama O.anes, cioè gli antenati venuti dal mare o dall’acqua. Anche il nome Enki, che dai sumerologi è stato tradotto come, colui che comanda sulla terra (ki), da noi è stato supposto che si riferisca invece al suo primato sui mari, quale infaticabile navigatore; infatti, Ea viene descritto nei testi sumerici sempre a bordo di una nave alla ricerca di novità. Di conseguenza facciamo derivare l’appellativo enki dall’unione dei lessemi en, che nella lingua norrena significa uno, primo (ein in tedesco) e Kiel, la chiglia, che per metonimia indica la nave tutta. L’equivalente troiano dell’appellativo sumero en.kiel sarebbe stato quello di Enea: En primo ed Ea acqua, il primo nell’acqua, il migliore; Enea potrebbe forse aver coperto il grado di ammiraglio della flotta troiana che: “per viltà dei padri” , come fa dire Omero ad Ettore nel suo poema l’Iliade, non poté esprimere le proprie capacità nautiche. Ma torniamo alla Sicilia del periodo felice.

Museo archeologico di Adrano. III millennio a.C.

Riteniamo, per i motivi che verranno addotti durante il percorso dell’indagine, che intorno al duemila a.C. si consumarono sulla terra alcuni sconvolgimenti che resero necessaria una rimodulazione socio politica nell’area del Mediterraneo e nella affine società mesopotamica.

Essendo le fonti letterarie riguardante il secondo millennio a.C. inesistenti in Sicilia, ci avvaleremo della interpretazione del simbolismo

Ruota del sole su capitello lavico in arte sicula.  Museo archeologico di Adrano CT

riprodotto sulla ceramica adranita del III e II millennio a.C., oltre che, per comparazione, alla mitologia e alle fonti sumere. Le fonti letterarie del periodo qui indagato sono state ritrovate numerose in Mesopotamia. Esse, tradotte dai sumerologi, si prestano, grazie alla comparazione, ad essere utilizzate per tentare una lettura del periodo storico siciliano qui indagato. Il collegamento principale tra la Sicilia e la Mesopotamia, a cui abbiamo fatto più volte riferimento, è rappresentato dal teonimo Anu, il cui pittogramma era rappresentato da otto cunei che si dipartivano da un

Simboli all’interno di una tomba di Kivik in Svezia
Oggetto di ceramica del IV mill. a.C. rinvenuto a Susa

punto centrale. Riteniamo che il nome Anu sia diventato in seguito un titolo adottato dai principi preposti al comando, paragonabile al titolo di Cesare per gli imperatori romani e poi per i regnanti delle nazioni europee che si susseguirono. Anu, che letteralmente significa avo, antenato, nonno, è altresì sinonimo di cielo. Pertanto, tutte le volte che si incorre nel lessema Anu, per il significato che occorre fargli assumere, bisogna tenere conto del contesto dell’argomento trattato.

Le rissose divinità della seconda generazione.

Sostenevamo sopra che, alla fine del III millennio a.C., l’assetto sociale nel bacino del Mediterraneo cominciava a destabilizzarsi. Nuove divinità, dèi di seconda generazione, figli e nipoti della triade divina che aveva garantito la stabilità del potere in Occidente fino a quel momento, cominciavano a sgomitare per ottenere un regno tutto proprio. Marduk o Baal, il Signore, manifestava insofferenza per il suo destino, segnato dalle regole basate sulla ereditarietà del regno, per cui era destinato ad una eterna sudditanza nei confronti dei cugini, giudicati militarmente e politicamente meno capaci di lui. La sua insofferenza cresceva ancora di più, nel constatare che suo padre Enki (forse appellato Urio dai Sicani, e forse identificabile con il dio locale citato da Cicerone, la cui statua venne osservata nel tempio di Siracusa), lo scienziato che deteneva i poteri, i Me, di cui si è parlato negli articoli precedenti, nonostante fosse il primogenito di Anu dovesse essere subalterno al fratellastro Enlil. Enki/Urio/Poseidone, però, suo malgrado, rimaneva rispettoso delle leggi ancestrali, emanazione della saggezza degli Avi. Queste leggi stabilivano che l’erede al trono fosse non il primogenito, quale era Enki, ma colui che era nato dal rapporto avuto dal re con la propria sorellastra, a motivo di leggi d’ordine genetico ancora non chiare agli scienziati contemporanei e mai chiarite dagli storici antichi. Dunque, la discendenza regale di Anu camminava lungo la sequenza cromosomica di Enlil/Eolo. Marduk/Baal, intendeva però sovvertire le regole, introducendo quella che oggi noi definiremmo la meritocrazia. Così, il giovane principe, rampollo particolarmente amato da Enki/Urio/Poseidone, come testimonia il contenuto dei dialoghi tra padre e figlio impresso nelle tavolette di argilla, rinvenute in Mesopotamia, dette inizio alla propria scalata al potere. Le ambizioni dei suoi cugini, figli di Enlil/Eolo, non erano certo da meno; non lo erano quelle della vispa cuginetta Innanna/Proserpina e di tanti altri ancora. Anzi, a motivo dei matrimoni tra consanguinei, erano ostili a Marduk/Baal anche alcuni dei suoi fratelli, i quali, avendo sposato le figlie di Enlil/Eolo, erano entrati a far parte del diritto di successione dinastica . Insomma, durante la seconda e terza generazione divina, le questioni politiche tra gli dèi erano arrivati a una situazione disperata, di rottura senza possibilità di ritorno, tanto che i piccoli espedienti intrapresi dalle divinità minori, come quello di Innanna/Proserpina, concretizzate nel furto dei Me, i non meglio definiti poteri, custoditi da Enki/Urio, o il blitz di Jasone che porto’ via il vello al re della Colchide Eeta, e altre piccole scaramucce raccontate dai poeti greci successivi, presero una piega così pericolosa, da trasformare le rappresaglie in una guerra totale, con il risultato che vennero cancellate, come detto sopra, città con le rispettive civiltà.

I prodromi del mutamento sociale nella terra degli Dei: La Sicilia.

Da quello che emerge attraverso le interpretazioni mitologiche da noi tentate, l’ascesa al potere di Marduk riguardava soltanto l’area mediorientale, essa si arrestava nelle coste cananee della Palestina, non osando il dio di imbarcarsi nel mare siciliano, come Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, soleva definire il Mediterraneo. Le acque di questo mare fungevano da solco invalicabile, da confine primigenio interdetto alle contese. Un indizio che sancisce la inviolabile neutralità della Sicania, crediamo di averlo riscontrato grazie ai toponimi Assoro, in provincia di Enna e di Belice, da Baal, Signore, uno dei cinquanta appellativi dati a Marduk. Infatti, nonostante quest’ultimo si fosse imposto cultualmente e militarmente in Mesopotamia, soltanto gli Assiri, irriducibili avversari di Baal/Marduk, riuscivano ancora a contrapporre il loro dio Assur. Ebbene, Assur, ovvero Assoro, e Baal, ovvero Belice, città siciliane in cui le due divinità venivano onorate, non fecero registrare negli annali della storia siciliana, dissapore alcuno, in Sicilia, nelle loro dorate ambasciate, potevano sostenere soltanto scaramucce diplomatiche.
La terra di Sicania, grazie alla presenza in loco delle dodici residenze divine, si teneva dunque lontana dai conflitti armati, era questa considerata, terra neutrale. Le guerre, come sopra affermato, si combattevano violente, senza esclusione di colpi, in Medio Oriente; i partecipanti ai conflitti orientali, a loro volta, inviavano tutt’al più, ambasciatori in Sicilia (Argonauti), oppure arrivavano nell’isola esuli (Spartani, Greci, Cretesi) stremati, reduci delle guerre combattute in Oriente; vi trovavano asilo perseguitati politici come Dedalo ecc. Se qualcuno osava avvicinarsi all’isola divina con cattive intenzioni veniva subito messo fuori gioco, come accadde al temerario Minosse e al suo poderoso esercito. Tuttavia, il tentativo da parte del re cretese di invadere l’isola lascia comprendere come i tentativi di Marduk/Baal di sconvolgere l’ordine costituito, avevano comunque, in un mondo ormai globalizzato, creato un precedente; avevano provocato una lieve crepa nello scudo protettivo siciliano. La rottura con le tradizioni, perpetrata da Marduk, potrebbe considerarsi un precedente che incoraggiava i successivi tentativi di invasione, a iniziare da quella di Minosse, a cui seguì quella greca nell’VIII sec. a.C. Le mire egemoniche di Marduk, che avevano avuto parzialmente successo in Medio Oriente con l’assoggettamento di Babilonia, sono cronologicamente collocabili intorno al 2000 a. C., epoca in cui assistiamo alla sostituzione del culto tributato ad altre divinità mesopotamiche con quello tributato a Marduk. Il V sec. a.C., rappresenta una ulteriore svolta per l’assetto geopolitico e per quello mediorientale in particolare. Infatti, nel 539 a.C. Babilonia cadde sotto l’egemonia persiana, Zarathustra, il riformatore dell’antica religione, al seguito di Ciro, fece da battipista all’ingresso della religione che ancora oggi viene praticata da un terzo degli abitanti del pianeta, seppur adattata ai nuovi tempi. La Sicania, come affermato, grazie ai tiranni greci, cominciava a mostrare delle crepe nella tradizione atavica. Questi Greci, definiti spregiativamente dai Romani “contemplatori di statue”, eredi degeneri di quegli estinti eroi Micenei, accolti a partire dall’VIII sec. a.C. dai regnanti siciliani quali supplici, cominciarono ad infiltrarsi nei gangli della politica locale per sostituirsi poi agli autoctoni, e cancellare la tradizione, la lingua e mistificare la nobile storia dei prischi Sicani. La succinta e inevitabile citazione da parte degli storici greci, ancora nel V sec. a.C., di principi sacerdoti Sicani, quali furono Arconide, Ducezio e nel III sec. a.C. Adranodoro, addetti al culto delle divinità locali, e in particolare di Adrano e i suoi figli Palici, che tentano di arrestare l’ascesa politico militare degli infidi Greci, attesta come le tradizioni culturali sicane fossero durature e monolitiche fino a tempi relativamente recenti. Tuttavia, le divinità orientali, che premevano in occidente al seguito dei legionari, non più Romani, era destino che gettassero nel caos anche l’isola divina e che fra tutte le divinità orientali, che si accalcavano alle porte dell’isola sacra, l’avesse vinta quella che era a capo di un popolo, il più minuto sì, ma di una tenacia e virulenza senza pari.

Ad maiora.

Come Adrano divenne la sede dell’Avo

Prefazione.

Ora che i nostri lettori hanno metabolizzato la tesi secondo la quale, in tempi assai remoti, antidiluviani, la civiltà terrestre era caratterizzata dalla globalità culturale, si stupiranno sempre meno della comparazione che faremo in questa sede tra la civiltà sumera e quella sicana. Ripercorreremo i testi dell’epica sumera, applicando ai rispettivi contesti il contenuto delle tavolette anche alla Sicilia, convinti dal contenuto dei testi, che vi fosse in essi un riferimento al Mediterraneo, all’isola, a un rapporto di interessi reciproci tra le due aree geografiche e che, come abbiamo accennato negli articoli precedenti, in Sicilia si trovasse l’Abzu, cioè il laboratorio scientifico messo su dal dio Enki, spesso citato nelle tavolette sumere. La Sicilia, come altrove affermato, conserverebbe ancora oggi, attraverso la sua biodiversità, i risultati degli esperimenti del dio scienziato Enki. Ricordiamo a tal proposito, che il mito assegna al territorio di Enna il primato della coltivazione del grano, e che da questo territorio la dea Demetra/Cerere/Innanna, patrona della città, lo conducesse in Grecia e, conseguentemente, in Medio Oriente. Ricordiamo al lettore, capace di cogliere con mente laica il mito e le ricerche di frontiera condotte con coraggio da chi sa guardare l’ampio orizzonte, quanto affermato dai biologi con univoca voce: che il grano non può essere un derivato della spontanea mutazione genetica di un cereale cresciuto nell’isola, ma esso è certamente il risultato di una combinazione genetica artatamente voluta. Quanto qui affermato basti al lettore, che, se vuole, può raccogliere le briciole di informazioni da noi raccolte la dove possibile e poi sparse nei nostri articoli. Passiamo ora al nucleo dell’argomento secondo il titolo che abbiamo scelto quale passepartout.

Enna: La Reggia di Anu.

Rinvenimenti occasionali nel territorio adranita. Immagini 1, 2, 3, 4

Come affermato, per la ricostruzione e interpretazione dei fatti protostorici o mitologici, ci serviremo dellacomparazione e utilizzeremo in abbondanza le fonti sumeriche, cioè le tavolette in cui è incisa la storia, le mitologie e la letteratura sumera. Il contenuto delle tavolette è stato interpretato da studiosi seri, tra i quali emerge tra tutti, lo studioso G. Pettinato, il quale, con non comune umiltà, ricordava agli stregoni che detengono la certezza dellaverità assoluta, che la lingua sumera conserva pur sempre una difficoltà interpretativa.

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Volendo prevenire la domanda dell’arguto lettore, riteniamo che anche in Sicilia si praticasse la scrittura, magari diversa da quella sumera, forse pittografica, essendo questa antichissima, al punto che il re Assurbanipal si vantava di essere in grado di conoscere il significato delle iscrizioni incise sulla roccia, di memoria antidiluviana. Nel museo archeologico di Adrano, la ceramica del neolitico fino a quella dell’età del bronzo è caratterizzata dallapresenza di una “decorazione”, segni che per noi hanno una certa familiarità e che per questo abbiamo

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immaginato trattarsi di scrittura pittografica o di segni che gli addetti ai lavori dell’epoca sapevano interpretare così come i chimici dei nostri tempi possono tradurre disinvoltamente le loro formule incomprensibili ai profani. Del resto, se vogliamo abbracciare l’idea che in Sicilia il dio scienziato Enki avesse costituito il proprio laboratorio, lo stesso non poteva non esprimersi se non con formule, dirette soltanto ai suoi stretti collaboratori.
Per comprendere come la città di Enna diventasse la reggia di Anu e successivamente la città della dea Innanna/Demetra/Cerere dobbiamo ricorrere al testo sumerico intitolato dagli studiosi “‘Innanna ed Enki”. Il testo afferma che era stata costruita per il dio Anu, padre di Enki, una reggia terrena onde trascorrere il periodo di permanenza sulla terra quando questi decideva di visitarla con la consorte Antu. In una di queste visite si affeziono’ particolarmente alla pronipote Innanna, al punto da decidere, poiché la reggia, chiamata Eanna in sumerico, serviva al dio soltanto per un breve periodo e in rare occasioni, di farne dono alla piccola e vispa nipote. Ma la piccola divinità cresceva assieme alle sue grandi ambizioni da desiderare un regno tutto suo e non meno importante di quello dei propri simili. Intendeva a tal fine, trasformare da una semplice reggia ad una città stato la sua dimora terrena, l’Eanna. Per ottenere potere e carisma, aveva però la necessità di possedere gli stessi attributi che avevano le altre città stato in cui imperavano le divinità maggiori. Il custode di questi poteri, chiamati ME, e che se vogliamo ricorrere all’ipotesi interpretativa da noi elaborate circa la lingua primordiale, che il lettore conosce, starebbe per Men mente, memoria, cioè qualcosa che poteva conferire conoscenza ed essere trasmessa senza troppe difficoltà e senza privazione delle stesse da parte di chi li custodiva. Si trattava, dunque, di una semplice condivisione di segreti attraverso i quali si acquisiva potere. Innanna, continua il testo, si reca da Enki nel suo Abzu ed ottiene senza problemi alcuni dei su detti ME custoditi dallo scienziato, ma l’ambizione della giovane dea andava oltre ogni misura e non ritenendo sufficiente quanto ricevuto, mettendo in atto le arti intrinseche alle donne avvenenti che sanno di esserlo, circuisce l’anziano dio, che gli era anche zio, al punto che il canuto è avvinazzato scienziato, tra le traboccanti coppe e le sinuosità della giovane, come Erode a Erodiade, concesse, salvo poi pentirsene, ciò che avrebbe fatto bene a custodire. Ecco, dunque, che l’Eanna assurse da reggia residenziale a potente città stato e sede stabile della dea Innanna/Demetra/Cerere. Questo episodio dovette essere stato tramandato dagli antichi abitatori dell’isola, i Sicani, fino ai tempi di Cicerone, il quale ricorda nelle verrine il mito di Cerere, affermando altresì che la città di Enna era stata da sempre abitata da dèi, che ancora vi abitavano, e che la mitologia siciliana era la più antica.

Adrano: Sede Templare di Anu.

Se, dunque, Anu cedette la propria reggia alla nipotina, va da sé che egli doveva comunque essere accolto in un luogo durante le sue visite terrene. Crediamo che egli durante le sue occasionali visite terrene scegliesse di dimorare nel tempio che a lui era stato edificato alle falde del monte Etna – va distinta la reggia dal tempio, luogo di relax la prima, di culto il secondo-. Questa ipotesi viene corroborate, tra l’altro, dal fatto che nei racconti epici sumeri, si fa continuamente cenno “alla Montagna” in cui si recavano le divinità, magari per essere ricevute da Anu in udienza. A questa ipotesi fa eco quanto affermato da Plutarco nella vita di Timoleonte, che i pellegrini di tutta l’isola si recavano nel tempio di Adrano per rendere onore al dio. Per quanto riguarda la montagna frequentemente citata nei testi sumerici, fa specie che essa non abbia un nome e che ritorni con l’abitudine dei Siciliani di fare riferimento ad essa, quasi come una sorta di memoria di razza perdurata nei millenni, con il semplice appellativo di “a Muntagna” come se nel pianeta non potessero esservene altre da compararle e che rimaneva pertanto l’unica, la montagna per eccellenza, la sede dell’Avo con il suo tempio alle falde di essa.

Il laboratorio scientifico.

Intrecciando ancora gli indizi a nostra disposizione sorge la domanda dove Enki avesse costruito il suo laboratorio. Un centro studi di tale portata non poteva passare inosservato nell’isola e, di fatto, sebbene oggi, in un periodo di tempo così distante da quello qui indagato, poche siano le tracce rimaste, le riteniamo tuttavia sufficienti per azzardare le ipotesi che di seguito esporremo. È plausibile che il tempio sorgesse nella città di Innessa che Diodoro Siculo afferma essere stato il primo nome della città di Etna, e che noi, attraverso il risultato dei nostri studi pubblicati abbiamo identificato con la città di Adrano, rinominata così da Dionigi il vecchio, da Etna che si chiamava. Se si dà per buona la tesi circa le origini proto germaniche della lingua sicana, riconducibile a propria volta ad una lingua comune, parlata prima della dispersione dei popoli, il nome Innessa sarebbe formato dall’unione dei lessemi inna, che significa dentro, ed essen che significa cibo, messe, mangiare. Dai testi sumeri si apprende quanto il dio Enki si preoccupasse di sfamare le sue creature, gli esseri umani, e che per loro aveva creato i cereali, in questo caso non sarebbe peregrina l’ipotesi che proprio nella fertile Valle del Simeto, nei pressi di Innessa/Etna/Adrano, si mettesse in atto la sperimentazione, e che, il successo della semina facesse guadagnare al territorio messo in coltura, l’appellativo di Innessa, ovvero il cibo che cresce dentro (le viscere della terra). Naturalmente il laboratorio scientifico gestito da Enki e i suoi aiutanti, fece sì che questi, nell’immaginario collettivo, venissero guardati come sciamani o sacerdoti e le loro formule chimiche come simboli sacri: la sequenza di rombi (DNA) ; l’occhio nel triangolo e i chicchi di grano ecc. Le caratteristiche del territorio adranita, ricordate dallo storico greco Tucidide, a proposito dell’incendio doloso perpetrato dagli Ateniesi durante la Guerra del Peloponneso ai campi di grano degli Inessei, e poi ancora descritte dallo storico Strabone, erano tali, e lo sono ancora oggi nonostante l’avanzante desertificazione, da risultare compatibili con le esigenze agricole di ogni tempo: fertilità del suolo, ricchezza di sorgenti di acqua, clima mite, collinare, giustamente ventilato.. – ricordiamo che Adrano venne scelta, nel progetto europeo per le energie alternative, come luogo ideale per installare i primi pannelli solari sperimentali-.

Ad maiora.

Da Newgrange al Golgota: Ricostruzione di una dinastia

Molte leggende riferiscono di una migrazione ebraica verso il nord Europa. La più nota è quella che vorrebbe la Maddalena incinta, accompagnata da un piccolo gruppo di individui che avevano visto in Gesù un maestro, tra cui figura l’enigmatico Giuseppe di Arimatea, diretta in Francia. Già cinquecento anni prima della Maddalena, secondo la lista di successione delle famiglie ebraiche in Francia, fornita dall’erede dello statista Giacomo Rumor, noto nella politica italiana del primo dopoguerra per aver fornito un contributo alla formazione dell’Unione Europea, a cui rimandiamo chi volesse approfondire l’audace argomento -Paolo Rumor, L’altra Europa, Ed. Panda- vi si era recata la famiglia ebraica dei Kokba. In verità, a nostro avviso e secondo la ricostruzione da noi effettuata sulla base di ricerche documentarie, pubblicate nel saggio “Il Paganesimo di Gesù”, dato alle stampe nel 2012, e consultabile gratuitamente nel sito web miti3000.eu, le cose sarebbero andate in modo diametralmente opposto. Poiché un tentativo di ricostruzione dei fatti è stato tentato nel succitato nostro saggio, a cui rimandiamo il lettore che vuole approfondire la propria conoscenza, in questa sede ci limitiamo a equiparare le migrazioni ebraiche in Europa, che avvengono copiose ancora ai nostri giorni, al ritorno della stirpe dardanica in Italia, antica patria dei fondatori di Troia. Nel “mito” virgiliano, infatti, Enea, ritornando nell’Italia centrale, altro non faceva, che ricongiungersi agli eredi degli Avi comuni, che alcune generazioni prima, avevano lasciato l’Italia centrale per recarsi in Asia dove avrebbero fondato Troia. Ora, tornando alla migrazione ebraica in Europa che nella lista Rumor viene fatta risalire al VI sec.a.C., non è fuori luogo segnalare qui, che la nonna di re Davide, Ruth, veniva appellata la rossa. Di origine celtica, Ruth, come ricostruito nel nostro saggio, avrebbe trasmisso la cultura e i caratteri somatici al futuro re di Israele, come si evince dalle pagine del nostro saggio, e Boz, cioè Boss, il capo, appellativo con il quale era conosciuto il consorte di Ruth, non è che un attributo ancora attestato nella lingua germanica e, verosimilmente, la coppia, o gli antenati di Davide, erano imparentati con quei Rutuli, i rossi appunto, stanziati anche nell’Italia centrale nello stesso arco temporale della presenza biblica di Ruth (vedi Pag. 92/93 del saggio “Dalla Skania alla S(i)cania, le grandi migrazioni protogermaniche* pubblicato nel 2011 e gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu). Pertanto, se la Maddalena davvero andò in Europa, stanziandosi in Gallia, nei pressi del famoso villaggio di Rennes-le-Château, ella non fece altro che intraprendere un viaggio di ritorno alla cultura ancestrale, magari con il tentativo di reintegrare nella cultura europea, mai del tutto abbandonata dagli Ebrei/Filistei in terra di Palestina, come viene ipotizzato nel nostro saggio, Il figlio che portava in grembo. Se poi, questo figlio era il frutto dell’amore, non solo spirituale, intercorso tra la donna e il re dei Giudei Gesù, visto l’ascendenza di questi, riconducibile al celta re Davide, a buon diritto l’erede che la Maddalena portava in grembo avrebbe potuto rivendicare un regno celtico in terra di Gallia. Da qui nascerebbe la pretesa al regno, secondo una storia scritta parallelamente a quella canonica degli evangelisti, della dinastia dei Merovingi. Il cordone ombelicale che univa le genti della vecchia Europa alle genti d’Oriente, sarebbe stato così ricucito e un nuovo ponte avrebbe unito politicamente le due estremità geografiche. Attraverso i Merovingi, nel disegno della politica internazionale occidentale, caduta Roma, si sarebbe comunque gettato un ponte su Gerusalemme, e questa sarebbe rimasta in mani occidentali, anzi, franche, Merovinge. Il testimone passerà per un lungo arco temporale di mano franca in mano franca; da Goffredo di Buglione a Baldovino fino al Davide redivivo Federico II di Svevia per metà normanno.

Ad maiora.

Eolo: storia di un “grande” Dio minore

Le inspiegabili tecnologie degli antichi.

Perché Lui? si chiederà frastornato il lettore! Perché interessarsi a lui? nessuno lo conosce! né grandi gesta da lui compiute lo pongono al vertice del Pantheon siciliano. Perché i grandi burattinai non calcano mai la scena! risponderemo noi. E ancora perché egli è un dio siciliano che incarna il carattere degli umani abitanti dell’isola sua: calmo, silenzioso e impassibile convitato di pietra, osservatore degli eventi; prende incondizionatamente le decisioni sulla base oggettiva dei fatti che determinarono il nefasto cambiamento.
Nelle gesta degli Argonauti, così come vengono raccontate da Apollonio Rodio, sembrerebbe che Eolo assuma piuttosto le sembianze del deus ex machina, o per restare nell’ambito del cliché siciliano, del padrino che, lucido organizzatore delle azioni che porteranno al successo dell’impresa, pianifica un programma che i sottoposti dovranno attuare attenendosi scrupolosamente ad ogni suo comando. E poi, come vedremo, egli è il silenzioso custode di indefinite potenze che risiedono nel triangolo divino che è la terra di Trinacria; forze occulte che si palesano nel significato del toponimo apposto all’isola. Ebbene, in questa sede indagheremo le qualità di queste forze celate e i parallelismi che pongono la Trinacria e la civiltà sumerica sullo stesso piano di conoscenze.

Eden e Abzu.

Ritenendo inopportuno tornare su quanto è stato indagato circa la sede di questi due luoghi, citati nelle tavolette sumeriche – identificati come un paradiso il primo e un laboratorio sperimentale il secondo-, rinviamo il lettore che volesse approfondire le proprie conoscenze all’articolo: “Dalla Colchide alla Sicania” pubblicato in questo pregevole sito; diamo pertanto per acquisito che il primo fosse ubicato in Mesopotamia e il secondo nel Mediterraneo, dove la terra di Trinacria risulta la candidata più probabile, tenendo conto che né l’isola né il Mediterraneo, avevano a quell’epoca la odierna conformazione. Nell’indagine risalterà subito all’occhio vigile del ricercatore, il parallelismo che intercorre tra la Mesopotamia e la Sicilia, ovvero tra l’Eden e l’Abzu, luoghi in cui si riscontra la presenza di incomprensibili forze di cui diremo più giù, forze che vengono sottratte dai nipoti ai legittimi proprietari.

Le potenze sottratte.

In Mesopotamia, su alcune fra le migliaia di tavolette ritrovate, sulle quali è stata incisa la storia della civiltà sumerica, si apprende che il dio Enki, figlio di Anu, era in possesso di indefinite forze chiamate me. I me vennero sottratti al dio delle acque Enki, attraverso artifizi da femmine, dalla astuta quanto ambiziosa nipote Innanna, la quale aspirava ad avere un regno mondano tutto proprio.
In Sicilia il maltolto era rappresentato da un manto, montone o vello d’oro, che però, se bene abbiamo interpretato il significato del toponimo Trinacria, rappresentava soltanto una delle tre potenze che erano custodite nell’isola, alle quali torneremo. Anche nella sottrazione del vello siciliano – lo definiamo siciliano in quanto era stato ideato o custodito da Eolo, e per altri motivi ancora, che spiegheremo oltre-, come nel furto dei me sumerici, sono coinvolti i nipoti delle divinità gabbate. La coincidenza della presenza dei nipoti coinvolti nel furto – di furto del vello d’oro parla esplicitamente il re Pelia nel momento in cui riferisce a Giasone che da quando il vello era stato trafugato, la terra su cui governava era stata impoverita- ci fu subito sospetta. Per ciò che concerne questi oggetti misteriosi, portatori di poteri o di imprecisate forze, del vello d’oro in particolare, sottratto a Eolo in Sicilia, la cui privazione, ricordiamolo, impoveriva la terra, ci chiediamo: il vello era nella semplice disponibilità del dio siciliano, o forse egli ne era il realizzatore? A dir il vero ciò poco influirà sulla ricostruzione dei fatti qui tentata. Comunque sia, la dimora del mitico Eolo era tradizionalmente collocata presso il vertice orientale del triangolo formato dal perimetro dell’isola siciliana. Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, pone la sede dei Feaci, a cui gli Argonauti si rivolgono dopo il recupero del vello e a cui forse lo consegnano, nell’estremità occidentale della triangolazione di forze che vi erano, e oseremmo dire persistono, in Sicilia. Le tre estremità del triangolo siciliano corrispondono a Capo Peloro ad oriente, Capo Lilibeo a occidente e Capo Passero a sud-est. Tra le pieghe del racconto di Apollonio Rodio, in due episodi del poema Le Argonautiche, si riesce ad individuare le coordinate geografiche dei luoghi in cui le tre forze sarebbero state collocate in Sicilia. Due dei tre luoghi sono stati sopra citati: Drepane o capo Lilibeo, che rappresenta una delle dodici sedi occupate dai Feaci, come viene sostenuto da Alcinoo nell’Odissea rivolgendosi a Ulisse, e Capo Peloro o isole Eolie, sede del vello d’oro. Va da sé che la terza forza doveva trovarsi nei pressi del terzo angolo del triangolo siciliano: Capo Passero, vicino Siracusa. Questo ultimo luogo risulta altresì coincidente – se si fa passare la ricostruzione del naufragio di Ulisse da noi esposta in altri luoghi- con Siracusa. Scorrendo l’Odissea, si apprende che i Feaci di Siracusa confidarono ad Ulisse che le loro navi (intendasi mezzi di spostamento non necessariamente, o non solo acquatiche) venivano manovrate con il pensiero, non utilizzavano remi. Risulta, dunque, in Omero, ma anche in Apollonio, in quanto il vello era servito a trasportare i due nipoti di Eolo nella Colchide viaggiando per aria, che i Siciliani erano in possesso di tecnologie avanzate, funzionali ad attuare spostamenti veloci per mare, grazie a navi senza remi, e per aria grazie a non meglio identificati mezzi di trasporto, e, forse, anche attraverso la terra, grazie a sospetti veloci carri cui si fa spesso menzione nei poemi.
Ci chiediamo dunque se gli avi nostri, utilizzando il toponimo Trinacria, volessero consapevolmente riferirsi al territorio che ospitava forze capaci di interagire con l’aria, la terra e l’acqua o si riferivano a forze di altro tipo, magari spirituali. La domanda apparirebbe pertinente se si accettasse la traduzione del toponimo ottenuta grazie al metodo da noi elaborato e ormai noto ai lettori.
In tal caso il toponimo potrebbe nascondere tra i diversi significati, anche quello di “le tre potenze celesti” o “le tre forze dell’avo”. Tenendo conto che la lingua sicana era agglutinante, potremo scomporre il toponimo come di seguito: tri con il significato di tre, an con il significato di cielo o Avo, e kr nesso consonantico che nella lingua nord europea indica una forza, che applicata su un oggetto ne produce la rottura, da cui la derivazione del suono onomatopeico delle parole crac, crepa, crampo ecc.

I “ME” delle Tavole Sumeriche.

Ritornando a quanto affermato sopra, tenendo conto di quanto difficile sia approcciare una visione del mondo appartenente a genti che vissero in un periodo storico così distante dal nostro, facciamo rilevare al lettore, che gli indizi afferenti alla presenza di tre potenze presenti nell’isola di Trinacria, ci portano alle non meglio identificate, ma equivalenti forze presenti a Sumer, chiamate “me”. Seguendo il contenuto di una tavoletta sumerica che fa riferimento alla confusione delle lingue, si apprende che la sede di queste forze si trovava su una montagna; assente nelle immense distese del territorio sumerico. I me, viene affermato nel testo, erano nella disponibilità del dio della saggezza Enki. Questo dio, assieme alla sua compagna Ninkhursag, aveva scelto di abitare in un luogo chiamato Dilmun. Questo luogo si trovava nell’Abzu. Nell’Abzu la coppia divina conduceva ricerche di natura botanica col fine di soddisfare le esigenze di approvvigionamento alimentare del genere umano, che si moltiplicava a dismisura, motivo per cui, su una tavoletta, fra i molti appellativi apposti ad Enki appare quello di dio dell’abbondanza. Si ricorderà il lettore, che gli antichi miti greci attribuivano a Demetra l’invenzione del grano, la quale aveva la sua sede a Enna, in Sicilia. Ora, si potrebbe supporre che il furto dei me sumerici e quindi il racconto che è stato elaborato in Mesopotamia, potesse derivare da una trasposizione del racconto del mito siciliano che raccontava della sottrazione del vello o viceversa, oppure si potrebbe ritenere che i due episodi siano indipendenti l’uno dall’altro. Potrebbe allora tornare utile fare dei paralleli con i tempi a noi contemporanei, in quanto la natura umana rimane invariata nonostante il trascorrere dei millenni, e richiamare i moderni casi di cronaca in cui le Nazioni, servendosi di organi occulti, intraprendono azioni di spionaggio nel tentativo di carpire informazioni ai concorrenti stranieri. Nel racconto sumerico a cui si è dato il nome di Enmerkar e il signore di Aratta, nella traduzione del sumerologo Giovanni Pettinato, si legge di una ambasceria: l’ambasciatore inviato al signore di Aratta, avverte quest’ultimo, che il proprio signore di Uruk, che egli definisce “drago che vive a Sumer”, è in grado di polverizzare le montagne come farina. Il lettore é a conoscenza del significato etimologico che abbiamo attribuito (Glossario Etimologico delle lingue antiche, gratuitamente fruibile nei siti www.miti3000.euwww.adranoantica.it) ai nessi consonantici dr+gr che formano il metaforico nome dell’animale inesistente in natura, per cui questa definizione apposta ad Enmerkar sarebbe suonata metaforicamente minacciosa al signore di Aratta. Ma il signore di Aratta, sicuro di sé, risponde al l’ambasciatore che la regina del cielo Innanna, la quale possiede i “lussureggianti me” (sottratti allo zio, dio Enki) sta con lui. Di conseguenza la sua sottomissione al re di Uruk è fuori discussione.

L’Onomastica decriptata.

Purtroppo nulla conosciamo della storia pre greca siciliana, né della teogonia avendo i Greci cancellato ogni reliquia sicana; tranne che dell’onomastica, rimasta quasi invariata. Ora, facendo nostra l’affermazione del noto sumerologo Giovanni Pettinato, il quale con umiltà e onestà intellettuale riconosce quanto poco agevole sia l’esatta interpretazione dei testi sumeri, riteniamo nostro dovere mettere in guardia il lettore affinché accolga col beneficio dell’inventario anche il modesto nostro tentativo di decriptare l’onomastica sicana.

Lo spazio e le potenze che lo percorrono.

Abbiamo appreso dalla mitologia, che Eolo veniva definito dio dei venti e che aveva la sua sede all’estremità nord orientale della Sicilia. Valutando più attentamente il ruolo del dio dei venti nell’ambito della teogonia sicana, per quel poco che ne sappiamo, riteniamo opportuno conferire a Eolo il ruolo di una divinità che sovrintende allo spazio, intendendo per spazio quella dimensione che sta tra il cielo e la terra e dove, per l’appunto, si formano le correnti d’aria dette venti. Il nome Eolo tradirebbe infatti questo suo ruolo poiché lo si può far derivare da Hell, nome con il quale nella lingua nordica si indicava lo spazio in cui si pensava albergassero delle ingovernabili forze extrafisiche, seppure di ordine spirituale. Anche Cicerone fa riferimento a questo luogo nel suo trattato De Divinazione quando afferma che in quel luogo vagano le anime degli antenati. A Sumer Enlil, il cui nome ha molta assonanza con quello del dio siciliano, si trovava, dopo suo padre Anu, al vertice del Pantheon e veniva considerato, guarda caso, il dio del vento e dell’aria. Il nome della nipote di Eolo, Helle, poi, risulta aderire ancora meglio alla ipotesi sopra esposta. A questo punto dell’indagine si potrebbe supporre che Eolo, avesse potuto affidare alla nipote Helle una missione segreta, quella di recarsi nella lontanissima Colchide, sulla costa orientale del Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, terra ancora oggi fitta di mistero e abitata da sciamani. Per compiere il viaggio, il dio che controllava lo spazio aereo, forniva la nipote Helle di un non meglio precisato veicolo, un montone che si spostava per l’aere. Il veicolo veniva chiamato Ve Hell cioè vello, ovvero traducendo verbum pro verbo “il sacro spazio”, da hell spazio e ve sacro. Che questo oggetto misterioso fosse stato realizzato con delle leghe metalliche tra le quali figurava l’oro, o la ricerca dell’oro fosse l’obiettivo del viaggio di Helle, allo stato della ricerca non ci è dato congetturare. Una cosa appare comunque probabile, che tra la Mesopotamia e la Sicilia, le relazioni erano in corso da lungo tempo, altrimenti non si spiegherebbe il viaggio di Helle in Colchide se questo luogo fosse stato completamente sconosciuto ai Siciliani. Un altro indizio che i testi antichi ci forniscono a conferma delle relazioni esistenti fra le due aree geografiche, deriva dal fatto che Circe, sorella del re della Colchide, ancor prima che Helle venisse inviata in missione nella perduta patria di Circe, aveva posto la sua sede sul monte Circeo, nel centro Italia. Circe era fuggita dal fratello Eeta; il motivo della fuga non lo conosceremo mai, ma il fatto che come luogo del suo esilio la maga scegliesse il centro Italia, corrobora la tesi secondo la quale esistevano relazioni tra l’est e l’ovest, tra la Sicilia e la Colchide, ancor più dal momento che Circe manda sua nipote Medea, in possesso del vello rubato al padre, dai Feaci. Il viaggio di Helle verso il Mar Nero si concluse però con un fallimento a causa di un incidente di percorso (guasto del velivolo?) in cui la giovane perse la vita precipitando nel mare, che da lei prese il nome di Helles Ponto. Il fratello Frisso, che viaggiava assieme alla sfortunata, raggiunse comunque la Colchide. Poiché il giovane venne ucciso dal suocero poco tempo dopo le sue nozze con la figlia Calciope, – forse si trattava di nozze determinate da ragioni di stato- dobbiamo supporre che l’operazione diplomatica finisse con un nulla di fatto, motivo per cui, Eolo fu costretto a ripetere subito dopo l’operazione, utilizzando questa volta le maniere forti, inviando, cioè, un esercito formato dai migliori eroi raccolti da tutto il Mediterraneo, alcuni (secondo Apollonio, che era greco, gli eroi erano tutti Greci) provenivano dall’Hellade cioè dalla Grecia, molti dei quali erano nipoti e pronipoti di Eolo. Anziché per via aerea, questa volta Eolo fornì agli eroi una nave, che come quelle possedute dai Feaci, di cui parla Omero nell’Odissea, aveva qualità fuori dalle consuete tecnologie nautiche dell’epoca: Argo, così venne chiamata la nave, avrebbe avuto una specie di radio di bordo, poiché ad un certo punto del racconto, Apollonio fa parlare l’imbarcazione. Grazie anche al contributo di alcuni nipoti di Eolo figli di Frisso, che si trovavano nella Colchide, l’equipaggio formato dai nipoti chiamati Argonauti, riuscì ad entrare in possesso del Ve Hell. L’equipaggio, con qualche perdita, rientrò in Sicilia con il bottino di guerra. Il fatto che gli Argonauti, che Apollonio Rodio, come si è detto lascia intendere fossero tutti Greci al servizio di Pelia re di Jolco, si dirigessero a Trapani dai Feaci, piuttosto che in Grecia o nell’isola dove Eolo aveva la sua reggia, pone l’enigma se la partenza degli Argonauti, che Apollonio fa avvenire da Ortigia, non fosse avvenuta dall’isolotto siracusano che porta appunto questo nome. Comunque siano andate le cose, l’episodio lascia presupporre che l’isola di Sicania o Trinacria, fosse popolata ancora in quel momento, da genti che formavano una monolitica coesione politica e probabilmente etnica. Questa ultima analisi verrebbe corroborata da un altro episodio svoltosi in Sicilia quasi in contemporanea ai fatti qui raccontati: un altro terribile aggressore, Minosse, re di Creta, veniva reso innocuo dal tentativo di assoggettare la Sicilia da un ignorato quanto potente principe sicano, Kokalo. Vogliamo far notare all’attento lettore, che i re Sicani, che governavano in quel frangente la Sicilia, alcuni dei quali erano Alcinoo, Kocalo, forse Eolo ecc. dissuasero i potenti eserciti di Eeta, re dei Colchi e quello di Minosse dai loro propositi bellicosi, senza utilizzare armi convenzionali, cioè non furono combattute guerre né per mare né per terra, ma gli aggressori semplicemente desistettero dai loro bellicoso propositi. Quali tecniche di persuasione erano in grado di mettere in atto i Siciliani di allora? Gli sventati combattimenti messi in atto dai principi sicani sono da attribuire alla feconda oratoria siciliana che prenderà successivamente corpo nella scuola del siciliano Gorgia? può darsi, ma non può essere qui ignorato il parallelismo che corre con il signore di Aratta in possesso dei misteriosi me sumerici, di cui si è detto sopra, e ci si chiede quale potente deterrente abbiano messo in campo i re sicani per scoraggiare gli aggressori. Ritorna perciò prepotente la domanda: di quali forze dissuasive disponevano i Siciliani? Un residuo di tali forze o di conoscenze per crearne di nuove, si era forse tramandato per vie occulte fino alla storia recente? fino a quando cioè Archimede, da solo riuscì a ostacolare l’ingresso nella Polis agli agguerriti eserciti romani grazie a certe “macchine” da lui create nel III sec. a.C.; macchine che nessuno tra gli storici dell’epoca è stato in grado di descrivere con esattezza, tanto da fare spingere qualche studioso a ipotizzare che perfino il meccanismo di Antichitera, una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo ritrovato in una nave affondata, fosse opera dello scienziato siciliano; ed ecco che torna alla mente la nave Argo con la sua radio di bordo. Appare altresì sospetto, che le formidabili armi create per rendere invincibili gli eroi, spesso dèi e semidei, venissero forgiate in Sicilia presso il monte Etna, ritenuto la fucina di Efesto.

Il Tempio di Anu a Dilmun nell’Abzu (?)

Singolare è ancora, che di questo dio fabbro siciliano, Efesto, nel racconto omerico venga affermato che avesse forgiato “(…) due ancelle d’oro, in tutto simili a giovinette vive.. che hanno forza e favella (..,) ” Iliade XVIII. Ma a proposito del monte Etna, è il caso di fare una breve digressione su di esso, in quanto nei testi sumerici ritorna spesso una montagna in cui si recavano spesso gli dèi, pur non esistendo montagne nel territorio di Sumer, tanto che furono innalzate colline artificiali. Al contrario, in Sicilia, non solo la Montagna era nota fra i popoli delle coste mediterranee — nel quattromila a.C., secondo l’affermazione degli studiosi, a causa di una sua parziale implosione, la parte crollata sul mare, aveva provocato un maremoto le cui onde erano giunte fino alle coste dell’Egitto, sommergendo la città di Atlit yam — ma alle sue falde era stato edificato un tempio ad Ano, aggettivato furioso, odhr, famosissimo e, come afferma Plutarco nella vita di Timoleonte, vi affluivano numerosi i pellegrini, provenienti da tutta la Sicilia. Ancora oggi, sebbene la desertificazione in corso ne ha ridotto notevolmente la portata, corsi di acqua dolce, fonti, cascate e fiumi caratterizzano il luogo in cui venne edificato il rinomato tempio. Va ancora aggiunto che il dio Enki, che aveva portato la sua dimora a Dilmun nell’Abzu, luogo delle sue sperimentazioni, era soprannominato acqua, Ea nella lingua sumerica.

Da Est a Ovest.

Tornando al titolo introduttivo di questo breve saggio e alla tesi iniziale, secondo la quale dal Mediterraneo, con la Sicilia quale possibile luogo di propagazione, isola questa, in cui la documentata evoluzione dalla preistoria ai giorni nostri, colma l’incolmabile vuoto cronologico esistente invece in Mesopotamia, dove l’assenza di una evoluzione non giustifica l’improvvisa nascita delle “moderne” città delle ziggurat, una civiltà si sarebbe spostata da ovest verso est, lasciando lungo il suo percorso una moltitudine di indizi storici comprovanti la suddetta avanzata; indizi sul piano culturale, etnico, linguistico, epigrafico che, come le onde provocate da una pietra gettata in uno stagno, si affievoliscono man mano che ci si allontana dalla sede iniziale. Indizi dell’esistenza di una cultura sovrapponibile a quella siciliana si ritrovano abbondanti in Siria, a cominciare dall’antichissima città di Ebla, il cui nome riconduce alle diverse Hible sicule, indizi si ritrovano nel significato del nome Baal, il Signore, il cui appellativo riconduce alla sicula valle (Belice) intitolata ai figli dell’ Anu siciliano, dove dai Sicani veniva appellata furioso. Non più indizi ma prove, si trovano incise su di una tavoletta sumerica a cui si è dato il nome di Lista dei saggi: facendo riferimento ai sette upcalli collegati al dio della saggezza Enki, si legge nella tavoletta, che i saggi si spostarono in oriente provenendo dal mare occidentale (Mediterraneo?), uno dei sette saggi si chiamava Oannes. Questo individuo, definito uomo pesce, forse per la maestria con cui solcava i mari, secondo quanto affermato da Beroso, un sacerdote babilonese dell’epoca di Alessandro Magno, portò la civiltà a Babilonia. Questa civiltà superiore esisteva dunque da prima e altrove. Nella stessa tavoletta si legge ancora che, l’apkallu, cioè il saggio, Nungalpiriggal fece scendere dal cielo nell’Eanna la dea Innanna, equivalente della dea Isthar assira e della greca Persefone, la quale fece costruire una lira di bronzo per Anu. Sia la lira che l’ effige del dio Anu, in Sicilia appellato il furioso, Adrano, sono rappresentati su monete sicule coniate nella zecca della antichissima città di Adrano, la Uruk siciliana, mentre non possiamo non fare la seguente curiosa constatazione: al centro della Sicilia esiste la città di Enna in cui il mito vuole sia avvenuta la discesa agli inferi di Persefone – Innanna. Potremmo continuare all’infinito con le analogie ma concludiamo citando la città di Assoro, facendo notare al lettore l’assonanza del nome con quello che indica il popolo degli Assiri.

L’Oriente come base logistica.

Gli antichi, nel chiedersi come mai il sole che si tuffava al tramonto nel mare occidentale, risorgesse poi dai monti orientali, si dettero la logica risposta che il sole, nel periodo notturno, ripercorreva in senso inverso la terra, invisibile agli uomini in quanto rifaceva il percorso di notte e dalla parte opposta. Ispirandoci a questa intuizione, immaginiamo che la civiltà, un percorso “notturno” lo abbia intrapreso in illo tempore in senso orario, con la variante che noi, col nostro lavoro di ricerca e decodificazione della metastoria, intendiamo gettare luce su ciò che è avvenuto nel buio dei millenni trascorsi. Per finire, lasciando la conclusione al lettore, riportiamo un passo del poema sumerico intitolato Enmerkar ed il signore di Aratta, in cui si legge che: ” l’Eanna di Uruk fu prescelto (..) quando Dilmun non esisteva ancora, quando l’Eanna di Uruk fu fondato (…) Oro, argento, rame, stagno, lapislazzuli (…) non erano stati portati giù dalla montagna”. Da parte nostra interpretiamo il passo riportato, che seppur presentando qualche lacuna non cambia il senso generale del messaggio, come se pur esistendo diversi luoghi chiamati Eanna, una sorta di reggia-tempio-fortezza venisse “prescelto” quello di Uruk in quanto lo si riteneva funzionale allo scopo. È presumibile che lo scopo consistesse nello sfruttamento delle risorse minerarie sopra menzionate; l’Eanna avrebbe dovuto fungere dunque da base logistica in cui sarebbero stati installati stabilimenti per la lavorazione dei metalli estratti. La creazione di basi ad alta densità lavorativa, spiega altresì come mai le città mesopotamiche venissero edificate improvvisamente e fossero concepite già moderne, complete e autosufficienti in un’area prima ignorata da qualsiasi civiltà. Le città sumere appaiono prive di una preistoria! È vero, invece, che la civiltà che avrebbe costruito le basi doveva esistere altrove, come viene esplicitamente affermato nel mito babilonese di Oannes. Crediamo pertanto, che alla fine della glaciazione, essendo le condizioni orografiche del pianeta mutate, come conferma la paleoclimatologia, la quale sostiene che ottomila anni fa il livello dei mari era più basso di circa centoquaranta metri, consentisse gli spostamenti umani. Divenne possibile allora, che nei nuovi insediamenti venissero trasferite e applicate le conoscenze architettoniche e tecnologiche, nonché la toponomastica della civiltà madre. La Sicilia, per l’acclarata presenza di una civiltà antidiluviana nel proprio territorio, evidente anche dalla presenza delle pitture parietali nelle grotte dell’Addaura e di Levanzo, per la presenza di ceramica, opere ciclopiche e per una serie di indizi sopra riportati, è, dunque, candidata ad essere il centro d’irradiazione della civiltà mediterranea.

Bassorilievo egiziano.Tempio di Luxor
Bassorilievo sumerico
Decorazioni geometriche sicane. Museo di Adrano. Corredo funerario del III mill. a. C. Piatto con sequenza romboidale.
Le sequenze di rombi dipinti nel piatto rituale adranita e il bassorilievo sumerico, sembrano richiamarsi all’elica del DNA. Il bassorilievo egiziano è troppo esplicito per essere commentato.

Ad maiora.

Glossario etimologico.

DILMUN. È il luogo in cui Enki e sua moglie hanno preso dimora e dove svolgono esperimenti di botanica. Il toponimo potrebbe essere formato dall’unione dei lessemi Dell, nascosto, celato e mun mente, pensiero creativo. Il toponimo si presta ad immaginare un luogo celato in cui si effettuano ricerche sperimentali. In Sicilia veniva praticato un culto ai figli di Anu, appellato Odhr il furioso. I figli di Anu venivano appellati, oltre che Palici, cioè i signori (Baal), Delli, cioè i nascosti.

EANNA. Comunemente viene interpretato dai sumerologi quale luogo in cui il dio Anu aveva la propria reggia. Traducendo il lessema verbum pro verbo si ha la sequenza acqua-antenati, lasciando così immaginare un luogo circondato dalle acque. In Sicilia, al centro dell’isola esiste una città chiamata Enna. Un mito narra che in questo luogo, protagonista il lago presso la rocca, avvenisse il ratto di Proserpina. Questa dea greca corrisponde alla dea sumera Innanna nipote di Anu. La conformazione di questo luogo farebbe pensare che con il nome Eanna si intendesse indicare un luogo naturalmente fortificato.

VELLO. L’etimo è composto dal lessema ve che significa sacro e Hell con il quale si indica lo spazio. Con il termine si sarebbe potuto indicare un’area circoscritta e, forse, non accessibile a chiunque: uno spazio vietato.

Dalla Colchide alla Sicania, ovvero dalle tenebre alla luce

E anche Priamo sposò una siciliana (?).

I nostri lettori, ormai avvezzi ai colpi di scena, non si stupiranno del bizzarro titolo che abbiamo dato alla ricerca storica qui condotta, focalizzata più che sulle vicende degli Argonauti e dei Dardanidi sui rapporti intercorsi tra il popolo sicano e quelli che trovarono sede sulle sponde del Mar Nero. Sconcertati saranno piuttosto i lettori di questo pregevole sito che, bontà sua lascia libero movimento alla penna impazzita, i quali invitiamo tuttavia, a tenere duro nella lettura e giungere fino alla fine della esplorazione mitico storica qui tentata, tenendo ben in mente quanto intricata sia stata la rete intessuta fra le parentele dei regnanti di tutta Europa. I re delle nazioni europee, sia quelli in carica sia coloro che hanno dovuto lasciare il posto a forme alternative di governo, sono tutti imparentati tra loro seguendo, forse, una consuetudine ancestrale che affonda le proprie origini nel periodo da noi qui indagato.
È nostra intenzione, nel seguente studio, iniziare l’excursus puntando i riflettori sul re Priamo, in quanto desideriamo dare continuità all’articolo che aveva il titolo di “Enea: l’altra faccia della storia”, nel tentativo di colmare le lacune storiche e cercare spiegazioni agli omissis degli storici riguardo alle parentele intercorse tra gli eroi di schieramenti opposti che si scontrarono nel conflitto più famoso della storia, conflitto che cela, tra le pieghe del racconto, messaggi altri, rispetto a quelli evidenti di carattere storico mitologico. Gli eventi qui analizzati e reinterpretati alla luce delle nuove conoscenze, acquisite grazie alle moderne tecnologie e alle nuove discipline di ricerca scientifica, assumono i tratti di un viaggio nella dimensione ultraterrena ed extrafisica.

Gli omissis storici.

Osservando con quale metodicita’ scientifica venissero ignorate nell’Iliade alcune parentele, a noi ricercatori, sembrava quasi che l’attività pedagogica esercitata da Omero, ma vale per tutti gli storici antichi, imponesse loro di porre un tabù ai conflitti che non avrebbero trovato l’approvazione dell’atavica tradizione e rischiato altresì, rievocandole, di risvegliare le Erinni che non perdonano coloro che versano il sangue familiare. È per questo motivo, supponiamo, che Omero omettesse di dichiarare apertamente la parentela che intercorreva tra Teucro, il figlio bastardo di Telamonio, ed Ettore, i quali si cercavano sul campo e si combattevano l’un l’altro da irriducibili nemici; per lo stesso motivo crediamo che il custode delle tradizioni, Omero, tacesse circa le accuse di collaborazionismo col nemico che gravavano su Enea. Tacque ancora, l’imbarazzato poeta cieco, sulle vicende di Anchepolo Anchisiade, evitando di soffermarsi più del dovuto sul personaggio, onde evitare di incorrere nel rischio di rivelare l’insanabile odio che aveva percorso l’animo degli Anchisiadi e dei Priamidi, i primi scacciati dalla città e dal potere dai secondi. Nessun riferimento da parte di Omero, al greco nipote del troiano Priamo, Teucro, figlio della sorella, che Telamonio, inseparabile compagno di Ercole, aveva preso in moglie. Invece, il poeta, portando l’esempio positivo, utile allo scopo educativo affidato alla sua colossale opera, l’Iliade, mise in luce il nobile ruolo svolto dal cognato di Enea Alcatoo. Questi, aveva cresciuto il figlio di Afrodite, assai più giovane di lui, nella propria casa. In questo commovente passo del poema, si evince altresì, come la vulgata degli storici antichi, i quali asserivano che Anchise avesse avuto oltre a Enea, altri figli e figlie, è accettata anche da Omero, che definisce la sorella di Enea, sposa di Alcatoo: “La maggiore delle figlie di Anchise”.

La Sicilia: vagina di eroi e dei.

Ma torniamo a Priamo non senza prima aver manifestato il dovuto apprezzamento al poeta tedesco Goethe, che nella frase da lui pronunciata: “È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”, ha dimostrato di essere stato capace di penetrare verità ad altri precluse.
Nel lib. VIII, 303, Omero descrive l’arciere greco Teucro, figlio di Telamonio e Esione sorella di Priamo, il quale, nel ripetuto tentativo di scagliare i suoi dardi in direzione del cugino troiano Ettore, colpisce un altro figlio di Priamo, Gorgitione, avuto dal re troiano da Castianira. Priamo l’avrebbe sposata a Esima, una non identificata città o regione, che il re avrebbe visitato durante, presumiamo, uno dei suoi numerosi viaggi. La fugace apparizione nel poema di questa moglie e dello sfortunato figlio di Priamo, la vaghezza con cui il poeta descrive la loro provenienza, il nome del genero di Anchise Alcatoo, il cui suffisso riconduce ai nomi dei re feaci Alcinoo, Nausitoo etc. ed ancora le nozze contratte da Ercole in Sicilia di cui parla Apollonio Rodio nelle Argonautiche, ed ancora l’affermazione degli Scoliasti e di Ellanico di Lesbo, secondo i quali Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte, ci induce a spingere le indagini fino in Sicilia. Proprio qui, in questo divino triangolo di terra, si intrecciarono i destini degli eroi – non solo i loro- che si combatterono in terra troiana e, come appureremo anche oltre il Caucaso

Eroi di tutti gli schieramenti contraggono matrimoni in Sicilia.

L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico mitologico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà che Telamonio, l’inseparabile amico di Ercole, aveva preso con sé la figlia del re di Troia Laomedonte, Esione, dopo che i due eroi greci, diretti in Sicilia con i compagni Argonauti, fuggiaschi e reduci del loro viaggio nel Mar Nero, avevano insediato sul trono di Troia il figlio più giovane di Laomedonte Perdace, successivamente appellato Priamo. Se abbiamo dunque visto bene, in accordo con gli Scoliasti ed con Ellanico, possiamo supporre che i fratelli di Priamo, i quali avevano agli occhi di Ercole la colpa di aver sostenuto contro di lui la causa del padre Laomedonte, erano fuggiti ancor prima che il figlio di Zeus mettesse a ferro e a fuoco la città di Troia. Dalla ricostruzione dei fatti tentata in questa sede, sembra che tutti: eroi greci e fuggiaschi troiani, facessero rotta verso l’ospitale terra dei Sicani dove, un popolo sicano in particolare, quello dei Feaci, aveva fama di essere non solo ospitale, ma, come vedremo, detentore di tecnologie, virtù e qualità sovrumane. A questa gara di virtuosismi consistenti in viaggi avventurosi e perigliosi, funzionali ad alzare il prestigio di re ed eroi, apparirebbe poco credibile che il giovanissimo e piissimo re troiano si astenesse, scrollandosi di dosso a cuor leggero, il filiale amore e il fraterno affetto, dimentico dei fuggiaschi suoi congiunti in terra sicana. Per tal motivo non riteniamo peregrina l’ipotesi, suffragata dagli indizi che esporremo più giù, che anche il giovane figlio di Laomedonte si recasse in Sicilia alla ricerca dei propri cari, se non altro per avvertirli che l’implacabile semidio, figlio di Zeus, Ercole, era alle loro calcagna per portare a termine la vendetta nei loro confronti. Infatti, ecco che, con cronologica puntualità, l’implacabile semidio, giunge nell’isola sicana. Ma, in Sicilia, secondo quanto affermato da Apollonio Rodio nel IV libro delle Argonautiche, Ercole, anche lui ospite del re dei Feaci Nausitoo, prende moglie. Il semidio, avrebbe sposato infatti la figlia del fiume Egeo, Melite, ma noi saremmo propensi a credere che Apollonio aderisca ad un topos e che Melite fosse in realtà la figlia di Nausitoo, dal momento che nella generazione successiva, Alcinoo, erede di Nausitoo, vorrebbe dare a sua volta la propria figlia Nausica in moglie ad un altro illustre eroe, Ulisse. Se la nostra intuizione avesse colto nel segno e Priamo si fosse recato in Sicilia, presso i Feaci, perché avrebbe dovuto fare eccezione rispetto ai principi che ambivano a contrarre matrimoni con la stirpe degli dèi, i Feaci, e non imparentarsi con la più potente dinastia regale siciliana? Se così fossero andate le cose, dunque, ecco spiegarsi la presenza di Alcatoo, un nome feacio, presso la reggia dei Dardanidi. Un matrimonio contratto da Priamo con la principessa dei Feaci, qui ipotizzato, non proviene dalla mera fantasia di chi ha proposto questa ricostruzione storica o, se preferite mitologica, ma dalla stessa affermazione del re troiano ormai anziano, che sulle mura di Troia, ripercorrendo con Elena le antiche sue memorie, fa cenno ad un suo viaggio compiuto in gioventù nella lontana Ascania – luogo che noi identifichiamo con la Sicania-, dove avrebbe appunto preso moglie. Il supposto errore commesso dai copisti nella trascrizione del toponimo Sicania in Ascania, da noi rilevato, prende corpo considerando che nell’Odissea, lo stesso poeta dell’Iliade, fa convivere i nomi di Sicania e Trinacria quando afferma che la serva di Laerte proveniva dalla Sicilia. Come giustificare, poi, il nome del nipote di Priamo, Ascanio, se non collegandolo ai parenti della moglie sicana da cui aveva avuto forse Creusa ? (il nome di persona Sicano, era molto frequente in Sicilia. Tucidide cita con questo nome un comandante siciliano, in carica durante la Guerra del Peloponneso). Nel lib. XIII, 793 dell’Iliade, fra gli alleati dei Troiani, fanno apparizione alcuni condottieri: Palmi, Mori e Ascanio, che provengono, si dice nel poema, dalla “fertile” Ascania. La definizione di fertile riferita ad Ascania, pone poco spazio per una diversa collocazione della regione citata, dalla mediterranea isola, basti infatti leggere nell’Odissea la meraviglia che destava in Ulisse, l’osservare i giardini feaci nei quali dagli alberi si ricavavano più raccolti durante lo stesso anno. Secondo quanto viene affermato dagli Scoliasti e da Ellanico di Lesbo, Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte; gli eventi e le date in cui essi si svolgono, dunque, convergono con la ricostruzione qui proposta. Anche l’apparente incongruenza tra Apollonio Rodio e Omero circa la sede dei Feaci trova spiegazione: il primo la pone a Trapani, ma Omero, nell’Odissea fa affermare ad Alcinoo, che da lui dipendono dodici (numero sacro spesso utilizzato dagli storici) principi i quali amministrano le dodici province dell’isola. A questo punto dell’indagine possiamo affermare che sono numerosi i punti di contatto rilevati nel nostro excursus, che uniscono Troia alla Sicilia per sostenere che quest’ultima potesse rimanere estranea ai fatti di Troia.

Le jerofanie in Sicilia.

Per quanto concerne la celebrazione dei matrimoni illustri, sembra che la Sicilia fosse il luogo della consacrazione delle unioni se, come emerge da Apollonio Rodio, dalla lontana Colchide, perfino Medea, affrontando un viaggio periglioso per celebrare il proprio matrimonio con Giasone, avverte la necessità, per lei che apparteneva assieme al padre Eeta e la zia Circe, alla stirpe del Sole, di celebrarlo nell’isola e ricevere la benedizione dei Feaci.

Il Manto D’Oro.

Ora, non è scopo di questo breve saggio indagare cosa in realtà gli eroi cercassero in terra di Colchide e ben che meno in cosa consistesse in realtà il famoso vello d’oro, alla custodia del quale, erano state poste forze terribili. Appare comunque evidente, che ci troviamo di fronte ad una allegoria, utilizzando la quale, gli autori evitavano di palesare le terribili forze che si nascondevano dietro i nomi di creature immaginarie quali drago, vello o oggetti dalle caratteristiche extrafisiche quali la nave argo che perfino “parlava”. Tuttavia, osservando quanto il nobile metallo avesse un ruolo centrale nel racconto di Apollonio, non potevamo non cogliere una puntualizzazione sull’argomento: all’arrivo degli Argonauti in Sicilia, viene osservata la presenza nei prati della Trinacria, di greggi con le corna d’oro, pascolati da due figlie del Sole, Faetusa e Lamezia, le quali tenevano in mano, la prima una verga d’argento, d’oricalco la seconda. Ci chiediamo a questo punto, se gli Argonauti (sospetto é il numero di cinquanta che, assieme ad altre caratteristiche, riconduce a quello degli Annunachi sumeri, anch’essi incaricati di raccogliere oro in Mesopotamia e di cui parleremo più avanti), considerato che il vello, elemento centrale del racconto, era d’oro e d’oro erano parti delle “greggi” che pascolavano in Sicilia, in realtà non stessero riportando nell’isola ciò che, probabilmente con dolo, era stato sottratto. A questa conclusione giungiamo grazie alla constatazione che, come meglio diremo oltre, molti degli eroi componenti l’equipaggio degli Argonauti, erano nipoti del dio Eolo.

La Sicilia dimora di Dei.
Feaci e Annunaki: i due bracci di Anu.

Dalla constatazione che eroi e semidei provenienti da tutto il mondo, ambivano a contrarre o celebrare matrimoni in Sicilia, venne spontaneo porci la domanda: perché? La risposta giunse immediata, la fornì indirettamente lo stesso Alcinoo, re dei Feaci, quando nell’Odissea, attraverso la penna di Omero, definisce il suo popolo stirpe degli dèi. Con i Ciclopi e i Giganti, i Feaci sostenevano di appartenere alla stirpe degli dèi, e questi, afferma Alcinoo, usavano intrattenersi normalmente con loro, manifestandosi apertamente, senza veli. Alla luce di queste affermazioni, si può dedurre che nell’immaginario collettivo della casta cui appartenevano gli eroi e i semidei, prendere moglie tra le figlie dei Feaci, significava imparentarsi con gli dèi. Come abbiamo constatato durante il nostro excursus, i Feaci si erano legati attraverso i matrimoni, ai Troiani. Osservando altresì la continuità con cui i Feaci inviavano propri comandanti in supporto ai Dardanidi, impegnati nel famoso conflitto, siamo stati indotti ad immaginare un principio di vasi comunicanti tra le due stirpi, e nel contempo, constatando già la presenza di una globalizzazione, nel periodo qui indagato, della cultura e delle conoscenze acquisite, da rendere indistinguibili, per esempio le sepolture e i corredi funebri Sicani da quelle Micenee (vedi la tomba del principe a S. Angelo Muxaro e quella di Agamennone a Micene), abbiamo tracciato un parallelismo con i miti sumeri. La nostra attenzione si è focalizzata su due luoghi in particolare citati nelle tavolette sumeriche tradotte dallo studioso Zacharia Sitichin. Questi luoghi, l’Eden e l’Abzu, appaiono di vitale importanza per le attività svolte dalla civilta’ mesopotamica.

L’Eden Siciliano.

L’Eden, descritto nell’antico Testamento come una sorta di paradiso terrestre, dagli studiosi viene tradizionalmente posto in Mesopotamia. Anche l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche avrebbe sede nella medesima area geografica. Tuttavia, spingendoci oltre misura con la nostra immaginazione, che qualcuno non tarderà a definire eccessivamente fertile, dovremo prendere in considerazione l’ipotesi che l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, potrebbe avere avuto la sua sede non nella sabbiosa e sterile pianura mesopotamica, bensì nella fertilissima Sicilia, in quanto il significato del toponimo Abzu, secondo il nostro ormai conosciuto e consolidato metodo interpretativo, riconduce al concetto di un “andirivieni”. Infatti, il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi ab, che nella lingua nord europea, e dunque in quella sicana con la quale è imparentata, significa da, proveniente da, e Zu che significa verso, incontro, andare in una direzione. Ecco dunque che l’Abzu, la cui traduzione verbum pro verbo è da/per, diventa il luogo da cui si parte e il luogo dove si viene; esso appare ai nostri occhi come un laboratorio polivalente in cui avviene la sintesi di ogni ricerca, il luogo in cui si forma il coagulo di ogni sapere. Se così fosse, i Feaci avrebbero allora avuto, nella versione siciliana del mito sumero, il medesimo ruolo che gli Annunaki avrebbero assunto a Sumer. Sarà forse un caso che, in Sicilia i Sicani, come gli Annunachi in Mesopotamia, riconoscevano ad Anu il ruolo di capo e padre della stirpe, con la variante che in Sicilia Anu cioè l’Avo, veniva appellato furioso, odhr nella lingua locale. L’aggettivo furioso applicato all’avo siciliano Adrano, appare tra l’altro compatibile con l’episodio dell’ammutinamento – riportato nei testi sumeri- avvenuto nell’Abzu, ammesso che ci venga data ragione e questo luogo possa essere identificato con la Sicilia-, ammutinamento messo in atto da coloro che avrebbero dovuto eseguire gli ordini impartiti da Anu, i Feaci nel nostro caso(nell’ Odissea si fa riferimento a Poseidone adirato con i Feaci che disattendono i precetti del dio). Sarà ancora un coincidenza che molti di coloro che erano al seguito di Giasone, partiti per recuperare qualcosa che è stato tramandato ai posteri come se fosse un vello d’oro, consegnato antecedentemente da Eolo ad alcuni suoi nipoti o forse da questi trafugato, e condotto nella sponda orientale del Mar Nero, a restituirlo fossero ancora dei nipoti del dio dei venti, ma di terza generazione? Eolo, come si sa, aveva la sua reggia in un isolotto, forse a quei tempi unito alla Sicilia, e governava misteriose forze aeree che per semplificazione vennero definite venti.

Il dubbio.

Soffermandosi sulla festosa quanto sospetta accoglienza riservata dai Siciliani agli Argonauti, descritta da Apollonio, essa appare anche ai più ingenui investigatori come eccessiva e ingiustificata se manifestata nei confronti di estranei, che, agli ignari osservatori, sarebbero potuti apparire perfino come potenziali nemici o pirati, che da sempre hanno solcato il Mediterraneo. Ha pertanto richiamato la nostra attenzione un passo sibillino del poema, che Apollonio si fa sfuggire involontariamente: lo storico greco fa partire gli Argonauti da Ortigia, dove nel tempio di Apollo, cioè il dio evocato all’inizio del Poema e che impose l’impresa agli Argonauti per il recupero del vello, gli eroi compiono un sacrificio per ingraziarsi la divinità. Ora, pur ammettendo un caso di omonimia del toponimo come accade spesso tra la Grecia e la Sicilia, si dà il caso, che ancora oggi ad Ortigia, una appendice questa della città siciliana di Siracusa, ove secondo l’interpretazione da noi fornita studiando i fatti narrati nell’Odissea, vi era la reggia dei Feaci, esistono imponenti le vestigia del tempio di Apollo. Inoltre, a conforto della tesi che noi sosteniamo, e cioè che il vello lasciò la Sicilia e nella Sicilia ritornò, si pone ancora l’incomprensibile viaggio degli Argonauti che, partiti dalla Colchide nel Mar Nero, una volta entrati in possesso del vello a costo di rischi e per il quale alcuni eroi ci rimisero la vita, invece di tornare in tutta fretta in Grecia, destinataria dell’ambito trofeo, nella loro navigazione per la Sicilia la superano, portandosi dietro il manto d’oro, con il rischio di perderlo per vie diverse. Ed ancora, come ignorare la totale mobilitazione degli dèi siciliani: Eolo, Efesto, le Nereidi etc. che per garantire un sicuro approdo nel porto dei Feaci utilizzano tutti i poteri di cui dispongono? E invece sembrano assenti, per lo meno in questa fase, le divinità greche: Zeus, Era, Ares… Il riferimento alla Sicilia, più o meno esplicito, è poi così ossessivo nel trattato di Apollonio Rodio, che lo storico greco, descrivendo le coste del Mar Nero da cui si dipartono in tutta fretta gli eroi e facendo riferimento a cartine geografiche molto antiche, redatte antecedentemente al periodo cui si riferisce Apollonio, afferma che uno dei due bracci dell’Istro (l’attuale Danubio) si riversava nel Mare orientale cioè nel Mar Nero, l’altro nel Mare Trinacrio, facendo presupporre, talmente elevato era il prestigio e la potenza marittima della Sicilia a quel tempo, che il Mediterraneo non fosse ancora chiamato con questo nome o che questo convivesse con quello di Mar Trinacria.

Abzu: Laboratorio Alchemico Siciliano.

Tornando all’Abzu, nel mito sumero si apprende che questo luogo era considerato come una sorta di laboratorio, nel quale, se vogliamo seguire l’interpretazione che ha fornito lo studioso Zachariah Sitichin, il dio Enki, figlio primogenito di Anu, creò l’uomo. Facendo ancora ricorso al mito sumerico, mutuato e riadattato da altre civiltà secondo le esigenze culturali locali, ritenuto il più antico ed originale fra quelli che si riferiscono alla creazione, seguendo la traduzione dello studioso Sitichin, uno dei traduttori delle tavolette sumere, pare che l’uomo, creato nell’Abzu ad immagine di dio, venisse successivamente tradotto nell’Eden, luogo questo che sì, va posto in Mesopotamia, per svolgere imprecisati compiti a lui assegnati da dio. Emerge perciò la tesi, suffragata dalla totale assenza di una preistoria sumera, che nel mesopotamico Eden venisse introdotta l’opera finita di un prodotto che veniva prima sperimentato, poi testato e perfezionato nell’Abzu, cioè nel grande laboratorio naturale rappresentato dall’isola siciliana. In questo contesto potrebbe inserirsi il metaforico racconto di Apollonio, basato sul recupero di qualcosa non meglio identificata che per semplificazione si è chiamato manto o vello d’oro.
Soffermandosi ancora sulla fertilità della Sicilia che giustificherebbe l’impianto di un laboratorio botanico ante litteram, non si può ignorare la descrizione che Ulisse fa nell’Odissea del giardino dei Feaci, in cui avvengono nella medesima stagione strane e molteplici fruttificazioni degli alberi, non si può ignorare la straordinaria diversità biologica presente ancora oggi in Sicilia. Ed ancora, volendo dare credito a Diodoro e Cicerone, i quali sostengono che il mito siciliano di Demetra-Cerere sia il più antico del mondo, ripercorrendo il mito di Proserpina emerge che l’invenzione del grano sia stata una esclusività siciliana, che Demetra, soltanto dopo farà conoscere ai popoli orientali, come conseguenza del viaggio che la dea farà in oriente alla ricerca della figlia Persefone. Alla luce di quanto affermato, l’ipotesi che l’Abzu, questo laboratorio scientifico ante litteram in cui si sarebbero creati i primi ogm, non potrebbe essere sorto nella desertica Mesopotamia ma piuttosto nella fertile Sicania, prende sempre più corpo. Volendo condurre alle estreme conseguenze la ricerca fin qui condotta, continueremo a comparare le due aree geografiche: la mediterranea e la mesopotamica e il ruolo svolto dagli Annunachi da un lato e dai Feaci dall’altro, evitando di esprimere giudizi viziati da preconcetti e di entrare in discipline scientifiche in cui, per ignoranza, non sapremmo districarci; ci limiteremo piuttosto ad osservare con spirito laico, con quale atteggiamento gli autori classici si accostavano alla percezione di dimensione altre, extrasensibili, favolose o mitiche che definir si voglia, e tentare di comprenderne il significato recondito da loro attribuito, facendo leva sulle numerose connessioni e corrispondenze culturali tra le aree geografiche qui poste all’attenzione del lettore.

Le tecnologie degli antichi.

Continuando la illuminante lettura dell’Odissea, apprendiamo che all’astuto Ulisse viene rivelato dai Feaci, che le loro navi venivano pilotate con l’ausilio del solo pensiero; dall’altro lato agli Annunachi viene attribuita dagli studiosi, la conoscenza di tecnologie avanzatissime. Apollonio nelle Argonautiche, pone in evidenza che la lama della spada di Giasone era retrattile e l’eroe, a differenza dei combattenti che si facevano guerra a Troia, i quali

Quadranti solari risalenti al primo millennio a. C. Il primo, il più antico e perfetto, in argilla, è stato ritrovato nell’Appennino Emiliano, in Italia, il secondo in argilla, è stato ritrovato in Palestina, a Qumran.

indossavano tutti elmi di bronzo, ne indossava uno d’oro, certamente più bello ma meno resistente ai colpi eventualmente inferti, ma forse l’eroe doveva essere protetto da forze più sottili e occulte rispetto a quelle tradizionalmente conosciute. L’arma di Giasone ci porta altresì al confronto con il bramastra di Krsna citato nei Veda, un’arma che, stando alla descrizione fornita dai Veda, lanciava strali di fuoco e che l’etimologia del suo nome: brand ardere e strahl raggio, sembra confermare; il carro veloce montato dall’eroe Giasone, fa poi correre il confronto con i vimana, veicoli grazie ai quali si spostavano nei cieli le

particolare del quadrante italiano

divinità vediche; non può passare inosservato neanche il riferimento di Apollonio ad antichissime carte nautiche, né il riferimento alla conoscenza della scrittura con la quale veniva conservata l’ antichissima storia dei popoli che costeggiavano il Mar Nero. Questa storia era messa per iscritto su tavole d’argilla incisa con caratteri definiti cuneiformi, conservate da quei popoli e, come davvero si evince dalla traduzione effettuata da Sitichin, sebbene questi non raccolga i consensi di tutti gli accademici del settore, le tavolette raccontano la storia della nascita della civiltà sulla terra.
A questo punto dell’indagine non possiamo sottrarci dal segnalare all’attento lettore la sospetta perfezione stilistica delle pitture rupestri della grotta dell’Addaura, a Palermo, datate a ventimila anni fa. Anche queste pitture, che descrivono in pochi tratti una civiltà avanzata, si colorano ora di una nuova e chiarificatrice luce.

Enna: la Reggia di Anu.

Nei testi sumerici viene affermato che al dio Anu, col fine di trascorrere un gradevole soggiorno sulla terra, adeguato al suo rango, viene costruita una reggia alla quale viene dato il nome di Aenna (forse da Ahne, avi, antenati). Ebbene, una città posta al centro della Sicilia, edificata in illo tempore su un’alta collina, tanto da fargli guadagnare il primato di comune più alto d’Italia, non solo si chiama Enna, ma ancora al tempo di Cicerone, come riporta l’avvocato nelle sue verrine, veniva indicata come una città abitata da dèi. Onde concludere coerentemente col titolo dato a questo breve saggio, a noi piace porre accanto alla definizione ciceroniana, la specificazione di Apollonio circa la natura solare degli dèi che abitavano il fertile (in tutti i sensi) triangolo sacro. La scelta di porre in Sicilia la fine del viaggio, che ristabilisce la luce momentaneamente oscurata a causa del furto, fuor di metafora della luce, ribalta l’antico aforisma che recita: ” ex oriente lux”, ponendo nella Colchide la sede di Ecate o Proserpina, divinità infera o delle tenebre. Corrobora tale interpretazione il significato etimologico del nome di Colchide, che facciamo derivare da kol carbone, nella accezione di oscuro, tenebroso. La Colchide, terra della maga Medea e Circe, corrisponde alla attuale Georgia, nella costa orientale del Mar Nero, terra di sciamani, che ancora oggi praticano l’antica arte di Medea.

Ad maiora.

Glossario etimologico dei nomi.

ABZU. Da ab andare e zu, verso, nella direzione di.

ANU. (Ano in alto tedesco antico). Significa nonno, avo, antenato.

AENNA. Reggia di Anu. Enna è il nome di una città siciliana. Il nome Ahne, che si conserva nella lingua tedesca, indica i parenti, gli avi, gli antenati.

ANNUNACHI. Coloro che compiono la volontà di Anu, da AN avo, Nun, ora, adesso e akt atto, azione.

BRAMASTRA. Da brand bruciare e strahl raggio.

COLCHIDE. Corrisponde alla Georgia, nel Mar Nero. Il nome deriva da Koke carbone, forse ad indicare la fama che avevano le maghe Circe e Medea, probabili sacerdotessa di Ecate, dea del sottosuolo. Un’alternativa interpretativa potrebbe essere quella di un giuramento nefasto, da koke, carbone nella accezione di nero, oscuro, nefasto e eid giuramento, lemmi semanticamente legati ad un concetto di sacralità.

EDEN. Il primo giuramento o promessa, da Eid giurare e En primo.

EN.KI, detto Ea acqua, per le sue doti nautiche. Figlio di Anu. Da En primo e Kiel chiglia della nave.

MEDEA. L’acqua di mezzo, da med mezzo e Ea acqua.

SUMER. ZU-MER. Ricorrendo all’ausilio dell’antica lingua nord-europea, il suo significato è “dal mare” o meglio “in direzione del mare”, con chiara allusione alla provenienza del popolo insediatosi in Mesopotamia.

VELLO. Dall’unione dei lessemi Ve sacro ed hell spazio, indicherebbe un luogo sacro che avesse a che vedere con l’oro: forse delle miniere di estrazione del nobile metallo.

Assoro-Assur: Sicani e Assiri

“È in Sicilia che si trova
la chiave di tutto”.
Goethe.

Forse i lettori, non coloro che ci seguono da tempo nelle ricerche, saranno sconcertati dalla tesi qui di seguito esposta, secondo la quale, in tempi antichissimi, nella preistoria, sarebbe esistita nel pianeta terra una civiltà che aveva globalizzato la cultura di appartenenza. Sostenere, come fa Goethe tra le righe delle sue affermazioni, che questa civiltà avesse la sua base di espansione nella terra dell’Avo, la Sicilia, sarà meno difficile di quanto sembri e, con tutta sicurezza si attirerà gli strali di quanti, fermi nelle loro posizioni dogmatiche, hanno costruito le loro carriere sugli ipse dixit di una accademia autoreferenziale. Al fine di osteggiare la tesi che esporremo, qualcuno

Adrano

potrebbe tirare in ballo la civiltà per eccellenza, quella ove nacque la scrittura, per mezzo della quale può “sfogliare” la storia del mondo, la civiltà sumerica. Volendo precedere i sicuri interrogativi che verrebbero posti,saremo pertanto proprio noi a tirare per primi in ballo la civiltà che appare sul palcoscenico del mondo soltanto nel tremila e cinquecento circa a.C., di contro, in Sicilia, si attesta una raffinata civiltà che, nelle grotte dell’Addaura (PA), lasciava ai posteri di ventimila anni successivi, graffiti nei quali si può leggere la raffinatezza alla quale era giunta la stirpe sicana.

Adrano

Onde rafforzare la tesi della maggior vetustà diun paradiso siciliano rispetto a quello tradizionalmente posto in Mesopotamia, l’Eden, facciamo rilevare all’acuto lettore, che nella città dell’avo Adrano, edificata alle falde dell’Etna in tempi incommensurabilmente remoti, esposta nel museo archeologico locale vi è una ceramica

Adrano
Adrano

decorata, datata a partire dal settimo millennio a.C.
Tra le numerose decorazioni apposte alla ceramica adranita, spiccano la croce, la croce potenziata, il reticolo, l’occhio onniscente.

Assoro-Assur.

Assoro è il nome di una città siciliana la cui fondazione risale all’epoca sicana e che potrebbe avere relazione con la capitale assira Assur, ma su ciò le nostre indagini si arrestano al momento. Molte acropoli delle città sicane, a testimonianza dei movimenti tellurici, delle catastrofi incorse nei millenni, sono caratterizzata dalla presenza di rocce formatesi dal deposito di sedimenti marini, e per successivo sollevamento della crosta terrestre dovuto allo scontro delle placche tettoniche; infatti, nell’arenaria sono visibili fossili di conchiglie e molluschi marini in grande quantità.
Tra le catastrofi che interessarono il pianeta prende corpo l’ipotesi di un diluvio universale di cui si ha traccia nei testi sacri, nelle fonti orali e letterarie di tutte le civiltà. Secondo l’ipotesi di Ryan-Pitman, il Mar Nero, avrebbe subito una inondazione repentina da parte delle acque provenienti dal Mar Mediterraneo intorno all’ottomila a.C. Per dovere di completezza vanno segnalate anche le tesi di segno opposto affermate da altrettanti autorevoli studiosi, secondo i quali sarebbero state le acque provenienti dal Mar Nero a riempire la depressione dell’area mediterranea. Per quanto noi non possediamo i numeri per inserirci nell’accademico diverbio, osiamo tuttavia esporre l’esistenza di una terza possibilità: man mano che i ghiacciai che coprivano la calotta terrestre dal polo nord fino a Milano si scioglievano, le acque dolci alimentavano, da un lato il Danubio che si riversava nel Mar Nero, dall’altro l’oceano Atlantico che, attraverso lo stretto di Gibilterra, si riversava nel Mar Mediterraneo.
Ora, dal momento che la datazione dell’8500 a.C., proposta dal Pitman per il travaso dei mari, coincide con la fine dell’ultima era glaciale e del successivo scioglimento dei ghiacciai, ritenendo che lo scioglimento non possa essere avvenuto repentinamente come sostenuto dallo studioso, ma lentamente, durato secoli, noi riteniamo plausibile l’ipotesi secondo la quale, durante la lunga fase di innalzamento del livello delle acque del Mar Mediterraneo, che ineluttabilmente provocava l’immersione delle coste siciliane, man mano che le acque salivano, a spostarsi verso oriente non fossero soltanto queste, ma gli stessi Siciliani le cui città vedevano sparire sotto le acque salmastre.
Se l’ipotesi di una migrazione sicana verso est, dovuta alle inondazioni, fosse presa in considerazione, si spiegherebbe allora la grande quanto suggestiva affinità dei toponimi siciliani con quelli presenti nell’area mesopotamica: Assur-Assoro; Ebla-Hibla; Aenna-Enna; Akkad-Acate (per approfondimenti vedere l’articolo: Un dio tra il Simeto e l’Eufrate, miti3000.eu); si spiegherebbe ancora l’affinità tra la lingua sumera e quella sicana (ibidem), nonché una teogonia che vede al vertice del pantheon l’avo comune Ano, che in Sicilia veniva appellato il “furioso” odhr, in quanto si riteneva, forse, che il diluvio fosse stato la conseguenza della sua ira. Appare ancora plausibile la ricostruzione secondo la quale, i Siciliani, una volta giunti in Mesopotamia, venissero appellati Sumeri, dal sicano (lingua di derivazione protogermanica) zu-mer, cioè popolo che viene dal mare, il Mediterraneo. La genesi della migrazione sicana verso est, potrebbe essere stata successivamente raccontata dai Sumeri sulle famose tavolette d’argilla incisa, utilizzando l’alfabeto cuneiforme. Infatti, proprio dalle tavolette sumere si è ricavato il racconto di un diluvio e di una divinità che sarebbe giunta in Mesopotamia da occidente (probabilmente già prima del mitico diluvio) portando la civiltà. Il nome della divinità in questione era Enki, soprannominato Ea acqua.
La provenienza acquatica di Enki, a nostro avviso giustifica l’appellativo Ea conferito al dio. Sarà un caso che anche il dio civilizzatore babilonese Oannes, raffigurato come un uomo mezzo pesce, secondo il racconto del sacerdote Berosso, era giunto in Mesopotamia dal mare occidentale e che il prefisso O del nome Oannes ed il prefisso Ea di Enki abbiano assonanza con il francese eau acqua. Dalla decifrazione delle tavolette sumere, il cui merito va attribuito in gran parte allo studioso Zechariah Sitichin, emerge che il padre di Enki Anu, nome che facciamo risalire al protogermanico Ano con il significato di Avo, appellativo adottato già in Sicilia per il dio nazionale, è un suonatore di lira; così si legge infatti in un lacunoso frammento in cuneiformi ritrovato a Uruk: “In quel luogo luminoso …(lacuna)… la residenza di Innanna. Deposero la lira di Anu”. Continuando con le affinità tra la Sicilia e la Mesopotamia, non passa inosservato che il numero di riferimento del sumero Anu è l’otto, numero simbolico che si ritrova con frequenza nella città di Adrano e riferibile non ad altri se non all’Avo adranita. Per ciò che concerne poi le azioni ascrivibili alla nipote prediletta del mesopotamico Anu, Innanna, esse possono ritenersi, seppur con le ininfluenti varianti locali, una trasposizione del mito siciliano della dea ennese chiamata dai Greci Kore, e poi dai Romani Proserpina. Infatti, sia la divinità siciliana quanto quella mesopotamica, durante il viaggio intrapreso agli inferi, vengono costrette dalle divinità infere, a prendervi dimora eterna. Continuando con le affinità mitologiche, si noti che i Sumeri non facevano mistero della loro ignoranza dell’utilizzo dei cereali per fini alimentari, affermando che il grano venne fatto loro conoscere assai tardi, secondo la nostra ricostruzione che trova appiglio nel mito di Demetra, molto tempo dopo che in Sicilia veniva utilizzato. Infatti, ancora secondo il mito siciliano, e poi quello greco, emerge che è Demetra, la dea che ha la propria sede in Sicilia, ad Enna, a far dono del grano ai Greci (Diodoro Siculo) quando si reca nella loro terra alla ricerca della figlia rapita. Dunque, Demetra, stando al mito greco, e come prima aveva fatto Enki nel racconto sumero, percorreva la terra da ovest verso est, da occidente verso oriente, dalla Sicilia alla Mesopotamia, seguendo forse anch’essa le onde del Mediterraneo che innalzava sempre più il suo livello (?!), portatrice di civiltà.

L’Eden Siciliano.

Quanto sopra affermato porta ad azzardare l’ardita tesi che perfino il paradiso, il famoso Eden (Eid promessa, giuramento; En primo) sumero, possa essere stato per i compilatori delle tavolette, il ricordo del luogo d’origine degli emigranti dell’era post glaciale e pre sumerica. Dai testi Sumeri emerge, infatti, come sopra affermato, che il grano fu fatto conoscere al popolo dalle teste nere dagli dèi, che come si è visto, provenivano da ovest, da occidente, mentre dal mito greco emerge chiaramente che questi dèi provenivano dalla Sicilia, da Enna che ancora al tempo dei Romani veniva appellata granaio dell’impero. La presenza delle varietà botaniche presenti in Sicilia, sono in numero così enorme che non è pari a nessun altro luogo del pianeta. Con un po’ di fantasia si potrebbe immaginare l’isola dalla forma triangolare la cui geometria fa riferimento al divino, che la sua proverbiale fertilità e le idonee condizioni climatiche, si prestassero alla coltivazione di qualsiasi tipo di piantagione, compreso il famoso albero della vita, della conoscenza del bene e del male che cresceva nell’Eden; un vero e proprio laboratorio in cui si potesse praticare anche una qualche sperimentazione su tipi di innesto se, come emerge dallo studio di accreditati scienziati, bisogna dare credito alle loro affermazioni: il grano non è un prodotto spontaneo della natura, ma un prodotto derivato da sofisticate tecniche di manipolazione genetica. In Sicilia sono presenti ancor oggi, nonostante il considerevole cambiamento climatico sopraggiunto negli ultimi millenni che ha portato alla crescente desertificazione dell’isola, una varietà di piante che sono presenti in vaste aree geografiche del pianeta, dal frassino che si trova nel nord Europa e nelle altitudini etnee, all’Africa con le piante di banana. Delle specie animali si può dire altrettanto dal momento che si sono ritrovati fossili di elefante nano.

Conclusione.

Uno studio della preistoria nell’area mediterranea, in Sardegna, in Sicilia, a Malta, condotto laicamente, senza pregiudizi, porterebbe a sorprendenti rimodulazioni storiche ad oggi ancora non osate.

Ad maiora.

Odhr-Ano: la “Terribile” divinità del popolo Sicano

Odino e Adrano, quali affinità?
                                                  
Non è solo la prateria di Mora, presso Upsala, in Svezia, luogo in cui venivano acclamati i re a mettere in relazione la Sicilia con la Scandinavia (nella Vita di Timoleonte, redatta nel II sec. dallo storico greco Plutarco, emergono affinità tra l’ara degli dei Palici presso la città di Adrano, e la pietra di Mora, tra il Mendolito con la vicina Valle delle Muse e la prateria di Mora), né l’antico toponimo dell’isola mediterranea, la Sikania, identico alla regione scandinava S(i)kania, né lo è l’antroponimo Teuto, illuminato principe d’Innessa/Adrano, citato dallo storico Polieno (Stratagemmi), non lo è ancora il nome del siciliano Kapi, citato da Virgilio nell’Eneide, né la constatazione che questo nome era frequente fra i Vichinghi e lo si ritrova inciso in una pietra runica ritrovata nei pressi di Ulunda, pietra funeraria o celebrativa che rappresenta una antica consuetudine e che trova un precedente nella città di Innessa, nella stele del Mendolito; il trade d’union per eccellenza è rappresentato piuttosto dal nome del dio siciliano, ma sarebbe più esatto definirlo Avo comune: Odhr, il furioso, il primo druida, colui che, per primo, si confrontò con le forze ultrafisiche che lo ferirono sì, ma non lo spezzarono. Ci chiediamo se lo scandinavo Odhr-inn e il sikano Odhr-an siano da identificarsi con la medesima divinità e i mediterranei Sikani siano consanguinei dei polari S(i)kani. Certo è, che anche la iconografia antica lì rappresenta entrambi con il copricapo e la lancia, tanto che Odino veniva appellato Biflindi, cioè colui che scuote la lancia” (Plutarco, nella vita di Timoleonte, afferma che fu veduta la statua del dio Adrano scuotere la lancia) e Hjálmberi, cioè colui che porta l’elmo”.
Dunque, entrambi hanno gli attributi di un dio marziale. Ancora, Adamo di Brera, che scrisse nell’XI sec., descrivendo il tempio di Upsala afferma che lì venivano adorate tre divinità, cioè Odino, Thor e Freyr, ovvero la famiglia divina. La stessa cosa avveniva in Sicilia (Eschilo, Le Etnee), nel tempio presso la città di Adrano venivano grandemente onorati Adrano, la sua divina consorte Etna/Hybla e i loro figli gemelli Palici, appellati i Signori.

Odhr, il Furioso.
A giudicare dall’aggettivo “furioso”, odhr, utilizzato per delinearne il carattere, si direbbe che questa comune divinità comunicasse con gli eredi umani attraverso violente e non meglio definite manifestazioni. Ma ciò che a noi interessa evidenziare in questa sede è il constatare che la genesi del druidismo si verifica in Scandinavia e che, come si evince dalle pagine della Voluspa’, il primo druida porta l’aggettivo Odhr, aggettivo che lo lega alla Sicilia, alla S(i)kania. Il furore dello scandinavo Odhr-inn sarebbe diventato in Sicilia il furore dell’Avo o del Cielo, Odhr-An (Avo e Cielo sono in realtà dei sinonimi. Con il lessema AN si indicava indifferentemente l’uno o l’altro, tanto che i re — in Giappone vige ancora questa tradizione– si ritenevano eredi della divinità e si facevano appellare figli del Cielo).

I Druidi in Sicilia.

La presenza in Sicilia degli etnici Senone (Senone di Mene è un illustre cittadino della città di Mineo, citato da Cicerone nelle verrine) e Teuto, e ancora l’appellativo del condottiero siciliano Ducezio (Ducezio era nato a Mineo, il cui nome, in greco Mene, deriva dal nordico Min cioè ricordo, memoria. Per ulteriori informazioni su questo condottiero in odore di sacerdote druida, rimandiamo all’articolo: “Gli Dei Palici e le sacre sponde del Simeto. Ducezio principe e pontefice”, miti3000.eu), l’aggettivo Odhr, furioso, rinvenibile nel nome del dio Adrano e poi ancora l’uso in Sicilia del tipico linguaggio runico o metafisico utilizzato dai Druidi e rinvenibile nel toponimo Ass-Hor, città della provincia

Segni runici (?) nella ceramica adranita del III mill. a.C

di Enna, costituiscono traccia della comune etnia e, di conseguenza, della comune mitologia tra la Sicilia e l’Europa settentrionale, tenendo ovviamente conto degli inevitabili adattamenti locali. L’attribuzione alla mente (MN) di un potere creativo, che è un leit motiv druidico, è rinvenibile nel toponimo Mene (mente), corrispondente alla città di Mineo (ricordo, memoria), patria del Senone citato da Cicerone nelle verrine, nei pressi della quale sorgeva il tempio (in origine una grotta) oracolare degli dèi Palici, figli dell’Avo siciliano; nel suono runico ass che compone il toponimo Ass-ör e che significa il “pronunziatore”, “colui che crea attraverso la parola” e fa sì che il potere del pensiero diventi materia, si manifesta tutto il potere effuso dalla semantica religiosa germanica. Questo è quanto afferma lo studioso scandinavo Kenneth Meadows, nel linguaggio runico: “ass esprime la capacità dello spirito di essere contemporaneamente dentro e fuori le cose create” e “rappresenta il potere che viene ricevuto ed espresso attraverso la mente”. Ass, nell’alfabeto sacro scandinavo, è la runa che simboleggia il dio Odhr-inn.

Un ponte tra il Mediterraneo ed il Polo Nord.
Vaso con svastica esposto nel Museo di Caltanissetta

Le comuni origini tra il sud dell’Europa, la Sicilia, e l’estremo nord, la Scandinavia, a nostro avviso vengono ancora tradite dal medesimo simbolismo, la svastica o croce dei ghiacciai, la croce inscritta nel cerchio, la spirale, ma anche dalla presenza dei Senoni, in Sicilia come in Svezia; anzi, il nome della Svezia probabilmente deriva proprio da Svea rike, ovvero il regno dei Sviones.

Ruota del sole su capitello lavico in arte sicula

Il termine Suiones viene utilizzato da Tacito e, in seguito, con la variante Sueones, dallo storico germanico Adamo da Brera. Quando, poi, la coltre di ghiaccio provocata dai cambiamenti climatici intercorsi, le cui tracce sono rinvenibile nei testi sacri avestici, seppellì la Scandinavia in tempi immemorabili, i Suiones furono costretti a migrare verso il sud del mondo, dove il “dio sole” continuava a splendere senza veli.

Ad maiora.

Il misconosciuto ponte romano della Valle delle Muse e la dormiente sovrintendenza.

“La storia si fa con i documenti scritti,
certamente, quando esistono…
Forse che tutta una parte, e la più affascinante, del nostro
lavoro di storici non consiste proprio
nello sforzo continuo di fare
parlare le cose mute, di far dire loro
ciò che da sole non dicono
sugli uomini, sulle società
che le hanno prodotte”.
Lucien Febvre

 

Cascata presso il ponte romano.
A noi rimane la fantasia.
Immaginiamo l’erto ponte sfidare le cateratte del cantato Simeto dal romano poeta. Esso, il ponte, esisteva già, forse, al tempo in cui Virgilio riconosceva ai gemelli Palici, la cui pingue ara fumava poco più a valle dell’ardita opera di ingegneria della quale forse Vitruvio diresse i lavori, il primato religioso. Forse il poeta romano lo attraversò compiaciuto nel momento in cui carri vuoti lo ripercorrevano pieni di biondo grano, appena mietuto dagli ameni colli al di là della sponda destra, diretti all’Urbe alla quale il mondo intero si genufletteva, oppure, mentre fiero, di armate legioni osservava cadenzare il passo. Accanto, la rumorosa cascata, di cui i lacrimevoli rivoli rimasti testimoniano il pallido ricordo, si tuffava giù, ove ad accoglierla, il duro e compiacente basalto prendeva le forme che le schiumose sue acque le conferivano. Il tempio della vergine pagana – oggi chiesa di Santa Domenica– su di esso, l’orgoglioso ponte, con amore vegliava, affinché i suoi robusti archi non si stancassero di sorreggere il gradito peso, mentre sulla sponda opposta, il tempio del suo cruento amante, Marte – oggi rimane l’abside della diroccata chiesa bizantina- onde ricordare all’animo umano i travagli di natura sua, forza contraria e bilanciatrice effondeva.
Il parere negato.

L’archeologa implorata, accolto sì l’invito, osservato sì il rudere, non seppe però aprire l’occhio, il terzo dico,

Parte del selciato
Parte del selciato

il cui vedere non è dato a tutti, quello che porta alla conoscenza vera; non proferi perciò vibrazione ugolare; impacciata, balbettante promise una risposta ufficiale che ad un lustro dalla scoperta non è ancora arrivata. Pure la presa visione della pietra neolitica, lì di presso, silente come un bambino, caduto, col ginocchio sbucciato, seduto a terra con le mani sul mento, fintamente afflitto per attirare le coccole della disperata madre, non parlò al freddo cuore dell’arida burocrate, la quale proferi la stessa promessa disattesa.

Relazione tecnica dell’ingegnere Andrea Di Primo.

Ma alla insensibilità degli estranei, fa eco ancora una volta, l’ardore dei legittimi eredi che odono lo sdegno degliAvi e, a tal fine, raccolto il parere di prestigiosi professionisti: geologi, ingegneri, storici e ricercatori, che positivamente si pronunciarono, affidiamo a queste pagine il ricordo della nobile stirpe adranita che calco’ le polverose contrade, certi di aver adempiuto al compito assegnatoci per arcane vie dagli Avi che scrissero la storia nostra sulla incorruttibile pietra.

Il geologo F. Bonaccorsi ispeziona i ruderi del crollato ponte.
Ad maiora.

La pietra Neolitica della Valle delle Muse e l’ignavia degli Accademici


Non Ninfe, né Muse vidi oggi bagnarsi nel divino fiume, sebbene udii le prime ridere beffarde quando mi videro cadervi bagnandomi fino alle ginocchia, tradito dalla instabilità di un sasso al quale fiducioso affidai il piede veloce; e le seconde intonar carmi accompagnate dalla musica del frusciar dei folti canneti; ma Lui in persona mi guidò, Lui, il dio cornuto, il Signore della natura e della fertilità: Pan. Vidi uno delle sue due corna di capra sbucar da sopra l’aureo flysch numidico, alito della primordiale forza tellurica, certamente Lui, dietro di esso doveva esser nascosto, non amano, gli dèi, lasciarsi vedere alla luce del sole. Udii però, attraverso il suono scrosciante dei flutti le sue parole rassicuranti circa la pietra che mi accingevo a visitare, temevo infatti che il fiume, con le sue lusinghe, accarezzando dolcemente con le sue fluenti acque, giorno dopo giorno, ne cancellasse i silenti e pur loquaci solchi. “Non temere! O uomo” mi sussurrò, “non deluderemo chi crede ancora in noi, da due millenni, da quando ci dichiararono falsi numi, coloro che vengono qui hanno in spregio la natura: distruggono e sporcano, eppur non li puniamo poiché, in fondo, loro si infliggono da sé medesimi la giusta punizione, la natura restituisce infatti in misura doppia ciò che riceve, perciò tu stai ben certo che custodiremo la tua amata pietra, essa si trova ora in secco, al sicuro! Il fiume, ti garantisco, non cancellerà il messaggio che essa custodisce nei suoi solchi”. Continuando con tono di ammonimento disse:” bada però, se la siccità salva la tua pietra dalla violenza delle acque è pur vero che nuocera’ agli agricoltori, gli dèi non possono accontentare tutti! Perciò ad ognuno il suo. Se Adranoantica recrimina la sua pietra tuoni dunque contro gli ignavi che potrebbero salvarla dallo sfaldamento crudele, eserciti il controllo là dove è giusto che avvenga, posi il suo sguardo là dove nessuno osa guardare”. Così concluse il dio con le corna di capra mentre io giunto ormai sul luogo, ammiravo solitario dell’aura pietra i lebili solchi che una mano certa, guidata da un nume, millenni fa traccio’ perché qualcuno oggi capisse.
Ad maiora.

Valle dell’Orgale: un laboratorio alchemico del neolitico?

Preambolo.

Sebbene la nostra guida, Salvatore Verduci, presidente di Siciliantica di Castiglione di Sicilia, non avesse

Menhir valle dell’ Orgale

l’avvenenza della Beatrice dantesca, seppe egualmente introdurci in un mondo quasi irreale. Il mondo degli Avi si apriva ai nostri occhi e ci permetteva di entrare in empatia con esso senza sforzo alcuno. Le primordiali rocce e l’estesa valle, le grotte e gli antichi canali, li tutto appariva come sigillato, in attesa che il degno cavaliere, penetrato in quel mondo, ne raccogliesse l’eredità spirituale. Bisognava semplicemente saper leggere fra quelle pietre. Erano le vasche in esse scavate un Graal antico di molte migliaia di anni che avevano contenuto il sangue della terra? Scavate nella cima di alta roccia, difficilmente accessibili, ponevano le domande: perché ci troviamo qui? Non giungeva da parte nostra risposta alcuna, piuttosto eravamo noi a rilanciare prepotentemente l’arcano: rito o alchimia?

Le tecnologie nella preistoria.

Premesso che lo storico può solo ipotizzare circa i fatti accaduti in tempi cronologici così distanti dai nostri, è con pudore che ci accosteremo agli argomenti delle pagine seguenti, consapevoli di quanto sia facile scivolare, per noi neofiti, in quella terra di mezzo che sta tra il credibile e l’incredibile, tra il reale e l’irreale che viene comunemente definita con il termine fantasia. Facciamo pertanto appello ai lettori che fin qui ci hanno seguito manifestando la loro stima e consenso all’opera di ricerca e di divulgazione da noi condotta con scrupolo, perché abbiano venia, e considerino un gioco letterario le nuove frontiere che ci appropinquiamo a infrangere.
In tanti ci siamo accostati a Omero, pochi hanno realmente compreso il contenuto velato dei suoi due poemi, l’Iliade e l’Odissea. L’esoterista cieco ha sparso qua e là, in particolare nell’Odissea, nascosti dallo stile letterario della metafora, non pochi elementi di una millenaria conoscenza. Qualcuna delle numerose metafore contenute nei poemi, può oggi essere agevolmente decriptata grazie ai ritrovamenti archeologici di oggetti anacronistici rispetto all’epoca in cui vennero realizzati. Uno di questi incredibili rinvenimenti riguarda un oggetto di metallo, formato da ruote dentellate, pignoni e ingranaggi che si incastrano perfettamente tra loro come le rotelle di antichi orologi.

Meccanismo di Antichitera

Questo misterioso ammasso di metallo corroso venne ritrovato nei fondali del Mediterraneo, presso l’isola greca di Antichitera, vicino a statue di bianco travertino e altri oggetti di fattura greca. Ci chiediamo: lo strano meccanismo si trovava su una nave o era parte della nave? Magari inserito nel timone. Sebbene gli studiosi lo abbiano catalogato come uno strumento atto a studiare la volta del cielo con le sue stelle e i pianeti, forse influenzati dalla menzione che fa Cicerone di uno strumento di cui si è appropriato il console Marcello durante il sacco di Siracusa del 212 a.C., attribuito ad Archimede, e che serviva a prevedere il moto dei pianeti, rimane per noi, indagatori della storia, che non ci accontentiamo di raschiare la superficie di essa, l’inevitabile accostamento del meccanismo così sofisticato a quella parte del racconto dell’Odissea in cui l’aedo cieco parlava di navi guidate col pensiero, dai Feaci, esperti navigatori, popolo che la tradizione collocava in Sicilia (vedi l’articolo: “I Feaci e la fondazione di Sicher-usa” miti3000.eu). Le navi guidate dai Feaci si muovevano, a detta del poeta greco, nelle rotte del Mediterraneo a una velocità allora impossibile da raggiungere, ed erano alimentate da un propellente che il poeta attribuisce alla forza del pensiero (metafora che si riferiva ad una intelligenza tecnologica?). Attribuito dunque da alcuni studiosi al siciliano Archimede, si è molto discusso sull’utilizzo che si sarebbe potuto fare dell’oggetto dentellato e poco ci si è interrogati circa gli strumenti utilizzati per realizzarlo. Ebbene, il procedimento occorso per costruire la perfetta dentellatura delle ruote, merita una breve riflessione. La sua realizzazione presuppone l’esistenza di macchine moderne, strumenti idonei per produrre l’incastro perfetto tra le dentellature. Si dovrebbe presupporre perciò l’esistenza di una moderna industria meccanica nell’età ellenistica se è vero che il reperto lo si deve attribuire al genio di Archimede, vissuto nel III sec. a. C., un ossimoro che stonerebbe agli orecchi degli accademici che, nel tentativo di difendere acriticamente i propri confini scientifici, per dirla con l’archeologo israeliano Dan Bahat, perdono di vista invece i collegamenti che intercorrono tra i saperi attraverso i quali si accede ad una visione globale.
Se vogliamo raccontarla fino in fondo, dovremmo però interrogarci circa i viaggi intrapresi da Archimede ad Alessandria d’Egitto. Nella terra delle piramidi, infatti, lo scienziato vi si recava per incontrare i suoi colleghi egiziani ( avveniva forse nella città più prestigiosa del mondo un summit di scienziati provenienti da ogni latitudine?).

Cielo, Terra, Abissi: Nessun limite conoscitivo per gli Avi? 

L’Egitto è la terra in cui, nel tempio di Dendera, appaiono alcuni bassorilievi del tutto simili a lampade alimentate

Tempio di Dendera

da generatori elettrici, mentre altri bassorilievi nelle pareti del tempio a Luxor, sembrano riprodurre gli spermatozoi umani. Gli spermatozoi, si sa, sono visibili soltanto attraverso l’osservazione al microscopio. Inoltre, le incisioni dei geroglifici e delle figure accanto a quelle degli spermatozoi, hanno fatto supporre ad alcuni studiosi che osano infrangere i limiti del metodo ortodosso di ricerca, che si tratti della descrizione di procedimenti di laboratorio di ingegneria genetica.

Tempio di Luxor

Da parte nostra, non volendo correre il rischio di essere tacciati di eresia, eviteremo di fare cenni alla straordinaria gravidanza di Sara avvenuta alla incredibile età di ottant’anni e dopo che, assieme allo sposo Abramo, si era recata in Egitto. Eviteremo ancora di fare uno sgradevole accostamento tra ciò che potrebbe essere stato fatto dagli “angeli” incontrati da Abramo, all’incredula Sara, e la pratica dell’utero in affitto, così come eviteremo di parlare della clonazione, traguardi raggiunti entrambi negli ultimi decenni.

Tempio di Luxor

L’ipotesi avanzata da alcuni studiosi eterodossi riguardo le conoscenze possedute dagli Egizi, consiste, come si è sopra affermato, nella possibilità che costoro potrebbero essere stati in grado di intervenire nel genoma umano, come dimostrerebbero le raffigurazioni di Luxor, in quanto tali ipotesi non striderebbero col lume della ragione per chi conosce il contenuto dell’Enuma Elish, un testo sumerico del quarto millennio a.C.

Nel testo sumerico sono descritti i tentativi effettuati dagli “dèi” prima che questi giungessero a creare l’uomo nella sua struttura definitiva. Si tenga conto che l’Enuma Elish è stato composto circa duemila anni prima che a Luxor nel 1300 a.C., venissero incisi i geroglifici di cui si è detto sopra. Questa distanza temporale, supposto che abbiano ragione i sostenitori “dell’eresia” genetica, avrebbe permesso agli scienziati antichi, di perfezionare i loro studi/esperimenti/ricerche sul genoma umano.
Per quanto concerne il viaggio di Archimede in Egitto e l’ipotesi sopra formulata circa la possibile conoscenza dei fenomeni elettrici da parte dei sacerdoti Egizi, come sembrerebbe osservando i geroglifici di Dendera, potrebbe far pensare che lo scienziato siciliano si recasse in Egitto per completare o integrare i propri studi, le proprie conoscenze con i risultati a cui erano pervenuti gli scienziati alessandrini. Alessandria era allora il centro del sapere mondiale, possedeva la biblioteca più grande del mondo. Il confronto scientifico tra Archimede e gli alessandrini, riguardo ai fenomeni elettrici, potrebbe aver indotto il siciliano a dedicarsi al progetto di quei congegni, successivamente identificati col nome di specchi ustori, tanto da far porre la domanda se lo scienziato siciliano non avesse realizzato un prototipo dei moderni pannelli solari. Infatti, rimanendo nell’ambito di macchine che producevano impulsi non meglio identificabili, pre esistenti ad Archimede, ma che noi, semplificando definiamo generatori elettrici, constatiamo che gli Ebrei erano in possesso di una macchina, che loro chiamavano Arca, capace di fulminare chi vi si accostava privo delle adeguate protezioni. Davide, che a causa di questo congegno aveva perso l’amato nipote Ayo, caduto fulminato nel tentativo di sostenere l’arca per non farla cadere dal suo sostegno, ne temeva così tanto gli incontrollabili effetti, al punto che la volle lontano da sé, facendola trasportare nel paese vicino. Suo figlio Salomone, costretto dai sacerdoti (scienziati?) a farla rientrare a Gerusalemme, la fece deporre dentro un edificio schermato da grandi pietre (un sarcofago di protezione?), passato alla storia col nome di tempio di Salomone, affinché non nuocesse a chi si trovava all’esterno. Ma un’altra domanda sorge spontanea nel constatare i rapporti intercorsi tra gli scienziati antichi, uomini eccezionali quali furono Mosè, Pitagora, Solone, Gesù, Apollonio di Tiana, Erone di Alessandria etc. e i centri depositari di conoscenze di cui l’Egitto era soltanto uno dei tanti: vi è stata forse una ininterrotta comunicazione da individuo a individuo di conoscenze magari filtrate dalle caste sacerdotali locali fin tanto che esistettero, quali erano quelle dei Druidi, degli Egizi, Caldei e Magi? e se si, a partire da quando si iniziò la trasmissione di questa conoscenza? Si perse? È ancora agente? Certo appare sospetta l’affermazione di Esiodo – “Le Opere e i Giorni” vv.248, 273- contemporaneo di Omero, secondo cui Zeus avrebbe inviato sulla terra trentamila custodi per evitare agli uomini, a causa delle loro malefatte, di compromettere l’armonia del mondo. I cospirazionisti moderni troverebbero argomenti per vedervi un ordine mondiale degli illuminati ante litteram.

I Centri Iniziatici dell’antichità e le conoscenze scientifiche. 

Si potrebbe ipotizzare che la conoscenza delle leggi della fisica in cui riuscivano a destreggiarsi gli uomini di cui abbiamo sopra riportato i nomi più conosciuti, qualora non si trovasse un testimone degno a cui consegnarla, preoccupati per l’uso improprio che se ne sarebbe potuto fare, venisse riassorbita dalla casta sacerdotale e messa in stand by come diremmo oggi. Altrimenti non si spiegherebbe come sia stato possibile che il segreto delle proprie invenzioni, che apparentemente Archimede si portò (?) nella tomba, si disvelasse in tempi successivi. L’ipotesi di una vena carsica della comunicazione scientifica, potrebbe avere credibilità se si pensa alle ipotizzate invenzioni di Tesla e Majorana che non vennero mai attuate né trasmesse nella loro interezza ad alcun adepto, giudicate dai loro inventori troppo pericolose per il genere umano se queste fossero entrate nei laboratori di individui senza scrupoli. Da quello che viene tramandato da storici dell’epoca, considerati molto attendibili, Archimede era riuscito a costruire macchinari dalle capacità e dalle caratteristiche meccaniche tanto avanzate da essere in grado di sollevare pesi di centinaia di tonnellate; è il caso della tenaglia o mano di ferro, come la definisce lo storico Polibio cronologicamente vicino allo scienziato siciliano, capace di agganciare le navi e sollevarle. Una simile macchina sarà stata quasi certamente composta da ruote dentate e pignoni sul modello del meccanismo di Antichitera di cui si è già detto.

Menhir, Vasche, Ipogei: l’area 51 del neolitico?

Ora, ritornando circolarmente all’argomento richiamato dal titolo di questo breve excursus, al periodo del neolitico, ai megaliti e alle numerose vasche di Castiglione di Sicilia, possiamo immaginare, dal momento che i testi sacri di tutti i popoli tramandano il racconto di un diluvio, che lo scorrere delle copiose acque possa avere spazzato ogni antica vestigia “tecnologica” e che i superstiti del disastro, alcuni dei quali conservarono memoria delle conoscenze scientifiche acquisite, dovettero adattare queste conoscenze al nuovo e precario stato in cui si venne a trovare il pianeta. In tali condizioni è possibile formulare l’ipotesi che nell’immediato, venissero utilizzati gli elementi che la natura metteva loro a disposizione: le pietre, le acque, il vento, le vibrazioni che provenivano dal sottosuolo etc. Ma ci chiediamo: non sopravvisse al disastro del diluvio proprio nessun tipo di congegno tecnologico realizzato antecedentemente al disastro climatico? Ancora una volta è il mito che giunge in nostro soccorso fornendo possibili risposte. Viene infatti tramandato, che le enormi pietre utilizzate per costruire le mura di cinta della città di Tebe, risalenti all’età del bronzo, vennero sollevate dal fondatore Anfione, attraverso il semplice suono emesso dalla sua lira, mentre quelle di Gerico, al contrario, vennero abbattute dalle truppe di Giosuè col semplice squillo delle trombe. Fuor di metafora, si potrebbe ipotizzare che i testimoni oculari che assistettero al fenomeno del sollevamento e all’abbattimento delle grandi mura poligonali, udissero e descrivessero in realtà, utilizzando un lessico compatibile con la loro epoca, il sibilo emesso da chissà quali infernali macchinari.
Esperimenti recenti condotti presso il Max Plankt Institute di Stoccarda, in Germania, hanno dimostrato che è possibile spostare oggetti a distanza, senza neanche sfiorarli, utilizzando gli ultrasuoni. Questi sono delle onde sonore, che però l’orecchio umano non percepisce.
In India i testi sacri sono assai più espliciti rispetto a quelli occidentali nel descrivere macchine e armi sofisticate di cui gli dèi si servivano.
Se alla fantasiosa ricostruzione dei fatti qui riportata, in seguito ai quali si iniziò la ricostruzione di un nuovo mondo, si volesse dare anche una sola probabilità di concretezza, il Neolitico potrebbe allora leggersi come quell’epoca di adattamento e ricominciamento di una civiltà sulla base di conoscenze antidiluviane, conoscenze ben descritte, come si è detto, nei Veda e, sotto il nome di miracoli, anche nell’Antico Testamento.

I Superstiti. La Valle dell’Orgale.

Se dunque, i superstiti di una catastrofe che coinvolse l’intero pianeta terra all’inizio del neolitico o alla fine del paleolitico, portatori di conoscenze scientifiche, fossero stati costretti dalla necessità a utilizzare le proprie conoscenze in un contesto di precarietà, non sarebbe inopportuno immaginare che avessero potuto utilizzare in un primo stadio del nuovo ciclo storico, le pietre, come, fuor di metafora, viene affermato nel mito greco del diluvio. Nel mito, Deucalione, il Noè greco, al fine di ripopolare la terra, come gli viene suggerito dalla divinità che ha deciso della sua salvezza, getta alle sue spalle delle pietre che si trasformano in uomini. Il mito, a nostro avviso, dietro la metafora nasconde la relazione intercorsa tra l’uomo e l’elemento di cui ci stiamo occupando, la eterna pietra. Particolare importanza assumono le grotte naturali, magari trasformate dagli uomini in ipogei in cui era possibile utilizzare le vibrazioni provenienti dal sottosuolo, energia questa a buon mercato e immediatamente fruibile. Come utilizzassero le onde elettromagnetiche e le vibrazioni provenienti dal sottosuolo, allo stato attuale delle nostre ricerche non è possibile affermarlo con certezza, ma, utilizzando a nostro vantaggio gli studi condotti dal professor Debertolis sul tema dell’archeoacustica, si potrebbe ipotizzare che gli ipogei in cui queste vibrazioni giungevano, magari amplificate, potessero fungere da cliniche, paragonabili ai nostri odierni ospedali in cui è possibile curare alcune particolari patologie e in cui si fa uso di macchinari che emettono artificialmente le desiderate benefiche radiazioni. Infatti, l’esimio professore, attraverso strumenti tecnologici di ultima generazione e avvalendosi della collaborazione di una prestigiosa equipe di studiosi, ha potuto rilevare i fenomeni che si verificano nei siti templari preistorici. Lo studioso ha potuto constatare che gli ipogei neolitici in cui veniva praticato il culto, sono stati realizzati nei luoghi in cui vengono emesse, ancora oggi, vibrazioni che, interagendo con la corteccia cerebrale dell’individuo, producono stati di benessere. Dal nostro punto di vista, meno scientifico e più intuitivo, non possiamo non condividere quanto studiato dal prof. Debertolis grazie alla semplice constatazione della frequentazione da parte di esseri umani (non come abitazioni) di grotte ed ipogei, a partire dal Paleolitico. Dalle pitture rupestri della grotta di Fumana nel Veneto, a quella dell’antro di Ulisse ad Itaca e alla recente grotta di Lourdes, i fenomeni manifestati al loro interno hanno una uguale conseguenza: inducono gli uomini che le frequentano a creare un rapporto con una dimensione altra la quale, ponendosi oltre il limite della questione che ci siamo imposto in questo breve saggio, non tratteremo oltre.

Two Stone di Roccella Valdemone

Per quanto riguarda l’ipotesi dell’utilizzo dei menhir e dei two stone, rimandiamo il lettore alle intuizioni che abbiamo esternato negli articoli precedenti; in questa sede invece, constatando la abnorme presenza di vasche a Castiglione di Sicilia, la maggior parte delle quali si trovano nella parte orientale del costone dell’Orgale e orientate verso il menhir che ha la forma dell’organo riproduttivo dell’uomo, confermando e continuando coerentemente l’ipotesi formulata nell’articolo: “Tuistone: il dio della risonanza magnetica” si potrebbe aggiungere l’ipotesi maturata durante l’ultima escursione, che più giù esporremo, la quale ha anche lo scopo di tentare un censimento del gran numero di vasche che i proprietari dei terreni, sensibili alle nostre ricerche, sempre in numero crescente, ci segnalano.

Le Vasche.

Le vasche comunicanti, scavate nella roccia, molte in luoghi impervi difficilmente raggiungibili, nelle quali ci siamo imbattuti ieri mattina, sono per lo più in numero di due e comunicano attraverso un foro praticato alla base della prima vasca che si trova più in alto della seconda, con un dislivello che di solito non supera i trenta centimetri. Raramente le vasche sono tre, in questo caso, quella che sta nel mezzo è indipendente e separa le altre due che stanno all’estremità, talvolta la vasca e soltanto una.

La valle dell’Orgale a Castiglione di Sicilia, costeggiata dal fiume Alcantara e da un lungo metanodotto che a nostro avviso potrebbe aver influenzato l’antropizzazione del sito in età neolitica per i motivi già esposti negli studi del prof. Debertolis, è caratterizzata dalla presenza di numerosi two stone, come è stato detto nel nostro precedente articolo, posti nel punto più alto di essa come antenne o accumulatori di energie. I diversi Menhir presenti, gli ipogei, le vasche, i two stone le gallerie scavate per captare le sorgenti d’acqua atte ad alimentare i canali d’irrigazione che sono stati catalogati come Qanat, ma che potevano pre esistere al breve periodo dell’insediamento arabo dal momento che la ceramica castellucciana rinvenuta in zona ne testimonia l’antica antropizzazione, la presenza di metano, del corso del fiume, dovevano essere probabilmente elementi funzionali di un grande impianto unitario. È ipotizzabile perciò, che questo luogo fungesse da laboratorio in cui venivano sfruttate, utilizzate e trasformate le forze della

Vasche per l’elettrolisi

natura: acque piovane e carsiche, la furia delle correnti fluviali, l’elettromagnetismo terrestre, le vibrazioni provenienti dal sottosuolo e in ultimo i fulmini, ammesso che questi, descritti come tali dagli antichi osservatori, non fossero scariche elettriche provocate artificialmente – il lettore ricorderà, infatti, della pioggia provocata artificialmente da Elia, di cui ci siamo occupati negli articoli precedenti attingendo dall’Antico Testamento-.
I miti di molte culture, riguardo ai fulmini, ci informano altresì che questi, come avviene oggi per l’utilizzo di macchinari ospedalieri che emettono radiazioni nocive alla salute, potevano essere utilizzati soltanto dalle divinità (specialisti?) maggiori, Zeus per i Greci, Thor per gli Scandinavi, Krsna per gli Indù. Se si fosse trattato di normali fulmini prodotti durante i temporali, di cui gli uomini erano indifferenti osservatori, in quanto associati ad altri fenomeni quali tuoni, grandine etc. avrebbero occupato un così ampio e suggestivo scenario nella mitologia di tanti popoli?

Ad maiora.