ETNA: L’HANGAR DEGLI DEI.

QUANDO I SUMERI ABITAVANO ALLE FALDE D’ ‘A MUNTAGNA.

L’ABZU SUPERIORE
Premesso che l’aggettivo dio non è semanticamente penetrabile e che non è possibile sapere quando e da chi questo sia stato adottato per indicare qualcuno o qualcosa, ci sentiamo di dare
per probabile che colui il quale intese utilizzare per primo l’appellativo, intendesse manifestare che lo riferiva a qualcuno o qualcosa dotato di poteri infinitamente maggiori rispetto ai propri. Comunque sia, accadde con probabilità, che in un tempo non misurabile attraverso gli strumenti umani, un essere, stando a quanto viene raccontato nei testi sumerici, convenzionalmente definito dio, decise di stabilirsi nell’Abzu superiore, che i sumerologi concordemente identificano con il nord dell’Africa. Bisogna qui ricordare al lettore che la Sicilia fa parte della placca tettonica africana e che al tempo in cui i testi si riferiscono, cioè in epoca antidiluviana, con l’Africa era unita, in quanto in quel periodo il Mar Mediterraneo non era che una pozzanghera. Dunque, la divinità in questione aveva scelto come dimora l’Abzu superiore. Ora, i testi sumeri affermano che la divinità che loro indicavano con l’appellativo di Enki o Ea, ma che possedeva altri trentotto nomi, scelse di costruire la propria dimora nel luogo dell’Abzu superior, che ritenne più ameno e che da lui venne appellato, come si afferma nel testo intitolato dai sumerologi Il viaggio di Enki a Nippur, Eridu ovvero, secondo la nostra interpretazione, la terra promessa. Il toponimo risulta infatti formato dall’unione del lessema Er che significa Signore nella lingua germanica, affine alla sicana, o erde terra, ed eid che significa giuramento, promessa.

ERIDU, LA TERRA PROMESSA.
Dal significato del toponimo, dunque, si evince che le aspettative del dio rispetto a quel luogo assai ameno, in cui la biodiversità e la ricchezza di acque dolci non avevano pari, erano grandi per i progetti che intendeva realizzare. Ed infatti, tra i progetti poi realizzati, vi era quello di creare l’uomo. Nel poema in cui si parla della creazione, intitolato dai sumerologi che lo hanno tradotto “Enki e Ninmah”, e del quale riportiamo qui sotto il link: https://youtu.be/BwwcSu7dmd4?si=ALc2N-I1r5YuHncC, viene affermata una cosa per noi che andiamo a caccia di indizi, molto importante, che ritorna utile alle nostre ricerche e cioè che a Eridu Enki aveva installato il proprio laboratorio, e che l’argilla occorrente per l’esperimento della creazione era stata prelevata dall’Abzu superiore.
La divinità, come riportano i testi, nell’Abzu superiore operava intervenendo su tutti gli ambiti e migliorandolo in tutti i suoi aspetti, tanto che nel testo sopra menzionato, Eridu viene definito dagli dèi che partecipano al convivio che si svolge a Nippur, in Mesopotamia, un luogo paradisiaco si, ma che nasconde arcane e temibili forze appellate dai Sumeri con l’intradotto termine di “me”.
Ora bisogna concentrare le ricerche sulla identificazione della città di Eridu, presso l’Abzu superiore, e a tal fine non può passare inosservato che nei testi sumerici viene spesso citata La Montagna, che tramite l’articolo determinativo denota una familiarità di questa presso i Sumeri. Si rifletta sulla anomalia dettata dal fatto che in Mesopotamia non vi sono montagne, essendo una grande pianura, dunque questa doveva trovarsi altrove, Il lettore che ci ha seguito fin qui nelle indagini, avrà ormai notato il collegamento che esiste tra La Montagna e l’Abzu superiore e tra questo e la Sicilia. Di ciò è stato abbondantemente detto nel saggio Sicania: il futuro scritto nel mito, gratuitamente fruibile sui siti miti3000.eu e Adranoantica.it, pertanto rimandiamo il lettore in quella sede per maggiori approfondimenti.

TUCIDIDE E I TESTI SUMERI.

Ora, per procedere nelle ricerche, è necessario fare un salto in avanti di molte migliaia di anni rispetto al tempo dell’insediamento della divinità sumera nell’Abzu superiore, soffermandoci brevemente su quanto viene riportato nel V sec. a.C. dallo storico greco Tucidide. Sebbene egli sia interessato a raccontare gli eventi che portarono alla famosa guerra fratricida tra i Greci a cui diede il titolo di Guerra del Peloponneso, piuttosto che soffermarsi nell’ indagine delle etnie che popolavano la Sicilia al suo tempo e prima ancora, risulta comunque utile al fine della nostra indagine proporre al lettore quanto egli sbrigativamente afferma, in quanto col suo racconto lo storico indirettamente contraddice quanto sostenuto da
Diodoro Siculo tre secoli dopo, sebbene questi ben avrebbe dovuto conoscere le caratteristiche della Muntagna, che dal paese suo, Agira, è visibile allo stupefatto visitatore in tutta la sua gagliardezza e imponenza. Tucidide, nel libro IV della Guerra del Peloponneso, afferma che i Siculi, vinti i Sicani in guerra, ne abitarono le parti migliori, quelle della Sicilia orientale. Diodoro afferma, invece, che i Siculi si insediarono nella parte orientale dell’isola che trovarono vuota, essendo stata abbandonata dai Sicani in seguito alle eruzioni del vulcano Etna, ‘A Muntagna per i Siciliani.

L’EQUIVOCO DIODOREO.

Poiché nella storia tramandata oralmente dai Sicani, storia che Diodoro ben conosceva, non si era mai fatto accenno a guerre condotte tra il sedicente popolo dei Siculi e quello autoctono dei Sicani, Diodoro, che era Siciliano, per giustificare la presenza dei Siculi nella parte orientale della Sicilia, ipotizzò una occupazione del territorio da parte dei Siculi in seguito ad una presunta fuga dei Sicani, dovuta, a suo dire, alle devastanti eruzioni dell’Etna. Tralasciando il fatto che per quanto spettacolari e temibili le eruzioni del vulcano potessero essere state, non potevano comunque essere così devastanti da indurre un intero popolo ad abbandonare un territorio ampio come è quello della Sicilia orientale – si tenga conto che
l’eruzione più distruttiva mai registrata a memoria d’uomo, quella del 1669, aveva un campo lavico esteso 40 km e non avanzò oltre i 17 km, sebbene sia riuscita a lambire la città di Catania- a rendere poco credibile il racconto di Diodoro, è la constatazione che dopo un’eruzione vulcanica, prima che la lava si trasformi in fertile humus occorre che trascorrano secoli se non millenni. Comunque sia la inverosimile tesi di Diodoro divenne tuttavia la più accreditata.
A questo punto della ricostruzione storica di quel lontano periodo, prima di proseguire, affinché il lettore possa meglio comprendere i passaggi che ci condurranno alla tesi che stiamo per esporre, è necessario che egli legga l’articolo: “Etna, ‘A Muntagna dei Sumeri”, pubblicato poco tempo fa in questo stesso luogo, in cui si ipotizza che la formazione della Valle del Bove possa essere dovuta ad una guerra nucleare combattuta in illo tempore tra fazioni in contrasto di una civiltà tecnologicamente avanzata, che abitava la Terra, e di cui rimane traccia nei racconti di molti popoli. Uno dei testi, il cui antichissimo contenuto non desta stupore agli eredi del popolo che lo ha redatto, quello indiano, è il testo che ha titolo i Veda. In
questo testo vengono descritte guerre combattute migliaia di anni fa con l’ausilio di armi tecnologicamente avanzate, come il bramastra o raggio infuocato (laser?) utilizzato soltanto dal dio Krsna. Se si accetta l’ipotesi supportata dalle numerose prove che derivano dai reperti archeologici giunti fino a noi, che nel passato cioè siano esistite sul nostro pianeta civiltà evolute tecnologicamente, si può allora immaginare che lo storico siciliano abbia potuto fondere due tradizioni in una. Infatti, egli, rendendosi conto che i suoi lettori mai avrebbero potuto accogliere come veritiero il racconto di una catastrofe indotta da armi tecnologiche capaci di spazzare via una montagna e ripiegando su una versione più credibile, attribuì a una catastrofe naturale, provocata dalle eruzioni dell’Etna, l’abbandono del territorio da parte degli abitanti sicani. Diodoro afferma però il vero quando sostiene che furono i Siculi a ripopolare successivamente il luogo, a patto che all’aggettivo siculo si dia il suo vero significato etimologico, cioè quello di mandriano. Infatti l’aggettivo siculo, utilizzando il metodo interpretativo da noi messo in atto e che trova nella lingua protogermanica il riferimento di comparazione per tradurre la lingua sicana, risulta formato dall’unione dei lessemi sich e Ku, dove col pronome riflessivo sich, sé, se stesso, si suole intendere un rapporto quasi consustanziale tra la vacca (Ku) e il mandriano. Ma tornando alla nostra ipotesi di lavoro, risulta plausibile supporre che per un tempo, – come accadde per Moenjo Daro, Sodoma, Gomorra e altre località coinvolte nella guerra atomica globale – non sappiamo quanto a lungo l’area etnea, in seguito al cataclisma nucleare, sia rimasta disabitata. L’assenza di antropizzazione e il cessato effetto delle radiazioni, favorirono la crescita di una vegetazione rigogliosa. Le mucche, che nel periodo della transumanza si erano spinte fin là, attratte dalla tenera erba che ormai vi cresceva, avevano fornito ai siculi, cioè ai mandriani, la certezza che il luogo era tornato ad essere abitabile. L’esempio di un caso moderno comparabile a quello qui supposto, ci viene fornito dalla bomba atomica sperimentale fatta esplodere dagli Americani sull’atollo di Bikini dopo aver allontanato i suoi abitanti. Questi vi fecero ritorno soltanto dopo trent’anni, avendo appurato che vi era cresciuta l’erba.

RAMESSES E I SICULI.

Quanto affermato su Diodoro a proposito dell’errore in cui egli sarebbe incorso, si potrebbe applicare anche agli Egiziani circa la battaglia che vede Ramesses II respingere i Popoli del Mare di cui facevano parte i Siculi. Il faraone, del resto, è stato colto in flagrante dagli archeologi che hanno trovato la stele ittita in cui si racconta la battaglia conclusa inpareggio, mentre il faraone si era addossata la vittoria – mai avvenuta – nella famosa battaglia di Cadesh. La coalizione dei Popoli del Mare, citati dagli Egiziani, riconducono, invece,alle coalizioni che si formarono tra le due fazioni in guerra presso ‘A Muntagna e di cui viene fatto l’ elenco nel poema intitolato Ninurta il prode.

INDIZI DI UNA GUERRA GLOBALE COMBATTUTA PRESSO L’ETNA.

Un titolo del genere potrebbe fare desistere il lettore dal continuare la lettura, ritenendolo eccessivo, ma faccia egli lo sforzo di giungere fino alla fine, seguendo l’enunciato nietzschiano che anche un pazzo talvolta dice la verità – e in termini di follia sappiamo che egli diventò maestro-. Per comprendere tale studio è dunque necessario analizzare attentamente i particolari del racconto sumerico, di cui riportiamo il link che l’ottimo youtuber mette a disposizione di coloro che sono animati di buona volontà e che va sotto il nome di “Ninurta il Prode e le pietre di Lugal E”: https://youtu.be/s6JHYwUpRd0?si=V2AhM9NmSm7WMxVH. Nel succitato racconto il protagonista assoluto è La Montagna, quasi personificata, come appare dal racconto e dall’articolo determinativo utilizzato per indicarla. L’allusione all’Etna, nome non ancora coniato nel periodo in cui fu steso il racconto, appare evidente. La Montagna, viene nominata con l’ausilio dell’articolo determinativo a testimonianza che essa era l’unica a possedere inequivocabili ed esclusive caratteristiche tali da non potere perciò essere confusa con altre. Che la montagna in questione possa essere identificata con il vulcano Etna, si evince da un passo del racconto che di seguito esporremo brevemente. Ninurta, il vincitore che si vanta di aver “spaccato” la Montagna, paragona questa ad un Cedro (albero che oggi cresce per lo più nell’area libanese) con le radici ben piantate nell’Abzu. Ricorderà il lettore che questo è il nome che i Sumeri avevano dato all’Africa, o sarebbe meglio dire alla placca tettonica africana della quale fa parte la Sicilia (al tempo in cui venne redatto il poema La Sicilia era attaccata all’Africa e veniva indicata come Abzu superiore). La conferma della identificazione della Montagna con l’Etna si trova in un altro passo dello stesso poema, in cui si afferma che Ninurta, rivolgendosi allegoricamente alla “lava e al basalto”, cioè ad uno dei popoli della coalizione che lo aveva combattuto, gli somministra la pena da scontare. Il riferimento alla lava e al basalto non può non essere attribuito a coloro che si erano posti dalla parte di Anzu, il ribelle che della caverne della “inaccessibile” Montagna
aveva fatto il suo quartier generale. Il poema, nell’allegorico catalogo dei popoli che si erano schierati a favore dell’una e dell’altra parte e che Ninurta paragona alle pietre con le loro diverse caratteristiche, indicherebbe la Sicilia come “la contrada ribelle”, sebbene nella guerra in corso tutti i popoli abitanti della Sicilia fossero schierati a macchia di leopardo. Che la catastrofica guerra citata nel testo sumerico sia stata combattuta presso l’Etna e che anzi in questo vulcano sia stato realizzato una sorta di hangar con annessa la sala di comando, di cui con tradimento si era impossessato Anzu, si deduce anche dal poema intitolato Ninurta il Prode, di cui riportiamo il link: https://youtu.be/wGIRhg7j-HU?si=EAKH8Q-2YnXLtT93
Nel contenuto del poema, nonostante l’apparente vaghezza della descrizione dei luoghi, si evince che la Montagna in cui Anzu è acquartierato, si trova nell’Abzu superiore, poiché Ninurta, indicato da Enki a motivo del suo valore nell’arte militare per assumere il comando dell’operazione, viene dotato dei poteri che Enki custodisce a Eridu, cioè nella sua reggia laboratorio dell’Abzu superiore.

CONCLUSIONE
Concludiamo il breve excursus ricordando al lettore che attraverso i miti sopravvive la storia di una civiltà e che, pertanto, nel mito greco sicano che vede i Ciclopi al? lavoro nei meandri del Vulcano e al comando di Efesto, per creare le armi – gli strali, ovvero i raggi infuocati (laser?) a Zeus per sconfiggere i Titani – si possa celare l’allegorico racconto vergato nella tavola sumerica qui preso in considerazione. A questa si aggiunga che poiché soltanto in Sicilia sopravvive una toponomastica che trova un riferimento ai testi citati e di cui si è detto spesso, qui ricordiamo soltanto il nome dei monti Erei, i quali potrebbero fare riferimento all’antica Eridu. Ma di questo verrà detto ampiamente nella prossima pubblicazione, dove verrà presa in considerazione la moltitudine di indizi presenti nei racconti sumerici che fanno riferimento a un gemellaggio avvenuto tra le città della Mesopotamia e quelle della Sicania
Ad maiora.

Francesco Branchina

L’ETNA E ‘A MUNTAGNA DEI SUMERI

L’ETNA E ‘A MUNTAGNA DEI SUMERI.

Dobbiamo ringraziare uno youtuber se le nostre ricerche stanno sempre più affondando la vanga nel cuore della storia siciliana. Ci è sembrato pertanto doveroso da parte nostra compiere nei confronti di questo giovane ispirato youtuber, e cosa utile per i lettori che guardandolo potranno meglio comprendere di che cosa ci si stia occupando in questo studio e nel contempo trarre proprie conclusioni, pubblicare il link assieme alle deduzioni da noi tratte: https://youtu.be/fIq-dbD-1JA?si=3aTl3ml81Qsg_wMX
Il racconto immortalato in caratteri cuneiformi su questa tavoletta del XVI sec. a.C., come si afferma nel video, narra una delle tante guerre combattute su scala planetaria dagli dèi, chiunque costoro fossero e qualsiasi sia il valore semantico da attribuire all’aggettivo dio. Dal racconto emerge, secondo quanto verrà qui da noi ricostruito, che la sede, o quartier generale come sarebbe più appropriato definire, di Anzu, un individuo che ha dichiarato guerra alla dinastia di Anu volendola sostituire con la propria, si trovava presso una non meglio identificata montagna.

L’ETNA.
Il lettore sa bene che nelle vaste pianure della Mesopotamia non esistono montagne, dunque la montagna su cui Anzu installo’ la propria sede di comando andrebbe cercata fuori da quell’area geografica. I riferimenti al vulcano siciliano nella mitologia sumera, sono numerosi e li troviamo già in un’altra opera babilonese intitolata L’epopea di Gilgamesh di cui abbiamo abbondantemente disquisito nel saggio “Sicania, il futuro scritto nel mito”, gratuitamente fruibile nei siti di miti3000.eu e Adranoantica.it, di conseguenza non vi torneremo in questa sede; sappia però il lettore, che i miti sumerici riguardo al vulcano Etna, ‘A Muntagna, continuarono ad essere divulgati presso i Greci. Ricordiamo infatti al lettore, che i Greci mutuarono la loro mitologia dalle civiltà con cui vennero a contatto, tra queste quella sumera. In questo mito si limitarono a sostituire i nomi delle divinità protagoniste dei miti sumerici, sebbene Erodoto nella sua gigantesca opera, “Storia”, ricordi che i nomi delle divinità greche derivano da quelli egizi-. Siamo dell’avviso che il dio sumero Enki, molto coinvolto nelle azioni narrate dal mito qui preso in esame e che porta il titolo di Il Mito di Anzu, venisse appellato Efesto dai Greci essendo numerose le affinità fra i due. Il Dio fabbro, come ci si ricorderà, viene sempre presentato dai greci intento a batter ferro. Egli utilizza la incandescente lava del vulcano per costruire armi degli dèi e dei semidei: ora le saette per Zeus, poi lo scudo per Achille come afferma Omero nell’Iliade e infine quello per Ercole come racconta Esiodo nel poema Lo scudo di Eracle. Nel mito di Anzu, è Enki, l’Efesto greco, a fornire a Ningirsu l’ arma che sconfiggerà Anzu, il nemico degli dèi.
Noi supponiamo che la mitologia greca sia nata da una esigenza di propaganda per la nuova potenza mondiale, la Grecia, che cominciava ad affermarsi nei cambiati equilibri geopolitici del pianeta, equilibri sempre precari a motivo della continua lotta per il potere che le “divinità” volevano ognuna per sé.
Di conseguenza non appare inopportuno supporre che il mito greco della Titanomachia, in cui si racconta di una guerra globale combattuta tra Zeus e la sua parte da un lato e i Titani che intendono spodestarlo dall’altro lato, non sia che una versione greca del Mito di Anzu, mito che, a nostro avviso, non avrebbe avuto origine in Mesopotamia, rappresentando questa terra soltanto una delle tante aree geografiche in cui le storie vennero raccolte e conservate di solito presso la reggia. Di tale abitudine si ha testimonianza all’epoca dell’ illuminato re Assurbanipal, che si vantava di aver raccolto nella sua biblioteca testi del periodo antidiluviano. I testi erano stati raccolti dai numerosi luoghi conquistati dal colto re assiro, la cui complessa scrittura egli si vantava di aver imparato a leggere, ed era ancora motivo di vanto per Tolomeo, che in Egitto costituì la famosa biblioteca di Alessandria.

Nel Mito di Anzu, dunque, e nella Titanomachia, la guerra viene combattuta tra dèi in un territorio che coinvolge un’area geografica enorme e imprecisata, con il risultato finale in entrambi i miti, che la ribellione viene domata e ripristinato lo status quo. Nel mito sumero, come si è detto, Anzu è il nome del condottiero che mina il potere del dio del cielo Anu. Il nome Anzu, secondo il metodo interpretativo da noi messo in essere e che il lettore ormai conosce, significa colui che viaggia per il cielo, essendo il nome formato dall’unione dei lessemi an che significa cielo e zu, che indica moto per luogo, direzione; pertanto giunge significativo che Anzu, nel mito, venga appellato aquila, metafora giunta fino ai nostri giorni riferita all’aviazione militare. Nel racconto sumerico è lo scienziato Enki, la divinità sumera che abitava l’Abzu, cioè la placca tettonica africana di cui fa parte la Sicilia, che, come farà Archimede in seguito per combattere i Romani, inventa e fornisce le armi innovative, come diremmo oggi al condottiero della casata di Anu, Ninurta, o Ningirsu che appellare si voglia, per abbattere il potere smisurato che Anzu aveva acquisito con l’inganno, derubando il dio Enlil di non meglio specificate carte astronomiche e segreti di vario genere (la valigetta con cui vengono raffigurate le divinità sumere?), quando questi, che era uno dei suoi generali, aveva libero accesso nella stanza dei bottoni – ancora oggi nei momenti di crisi internazionale i presidenti delle nazioni viaggiano con una valigetta in cui pare che siano contenuti “i destini” del mondo, potendo provocare guerre catastrofiche per il pianeta. Non passi inosservato che nella terminologia sumerica si utilizza spesso il termine destini come equivalente di poteri.

Ora, nei precedenti studi avevamo dimostrato che Enki aveva la sua sede in Sicilia, nell’Abzu, nella parte sud occidentale del vulcano Etna, dove avrebbe costruito un laboratorio, essendo uno scienziato a tutto tondo. Pertanto, come abbiamo ipotizzato nell’articolo “Perché tutti si recavano in Sicilia”, i principi della terra erano costretti a recarsi presso lo scienziato se desideravano ottenerne i favori. Chi vi si recava con prepotenza, come nel caso di Minosse, rischiava di non fare più ritorno in patria. La morte di questo potente re cretese avvenuta fra le segrete stanze del re sicano Kokalo – sulla quale non si è indagato sufficientemente– perché avventuratosi con una potentissima flotta alla volta della conquista dell’isola divina, dovrebbe indurre gli studiosi a interrogarsi di quali forze si disponesse nell’isola.

LA VALLE DEL BOVE, IMPLOSIONE NATURALE O DISASTRO MISSILISTICO?

Dal racconto mitologico dell’evento disastroso – che consigliamo al lettore di ascoltare dal link sopra pubblicato prima di proseguire nella lettura della tesi qui proposta – evento non collocabile cronologicamente ed esposto in chiave allegoria, come era consuetudine fare in quella antica cultura, tecnica forse utile al fine di edulcorare eventi disastrosi che spesso hanno minato la stessa sopravvivenza della civiltà del pianeta Terra, appaiono chiari i riferimenti ad una guerra nucleare combattuta tra due fazioni opposte. È altrettanto evidente che l’obiettivo da colpire è il quartier generale (etneo?) di Anzu, il quale nel testo viene affermato trovarsi presso la inaccessibile Montagna. Emerge che, secondo i piani, l’obbiettivo una volta colpito e reso inoffensivo avrebbe condotto alla sconfitta del nemico e alla cessazione delle ostilità – una sorta di bomba di Hiroshima ante litteram? – . Si soffermi il lettore siciliano sul termine ‘A Muntagna’, che noi utilizziamo ancora oggi per indicare l’Etna. Per il siciliano l’Etna è ‘A Muntagna” per eccellenza e così chiamandolo non si incorre certo nell’ equivoco di scambiarlo per una montagna qualsiasi. Si noti ancora che nel testo sumerico, l’articolo determinativo utilizzato presuppone che i Sumeri facessero uso del nome nella stessa accezione. Del resto, osservando la Terra da qualsiasi satellite oggi in orbita, l’unica montagna ad essere individuata senza tema di creare confusione con le altre presenti nel pianeta, è ‘A Muntagna, l’ Etna. Ritenendo molto probabile che la montagna di cui parla il mito sumero si riferisca all’Etna, e che la devastazione che Enki provoca con la sua arma letale sia stata apportata ad essa, ci chiediamo se possa essere giustificata, utilizzando una buona dose d’immaginazione che al ricercatore è necessaria per costruire le sue ipotesi di lavoro, la tesi secondo la quale l’enorme depressione denominata Valle del Bove – la cui genesi è tutt’oggi oggetto di studi da parte dei geologi, ma che questi comunque ipotizzano che possa attribuirsi ad un periodo intorno ai sessantaquattro mila anni fa – possa essere la conseguenza dell’esplosione dell’arma costruita da Enki, forse appellato odhr (odranu/adrano) in Sicilia, ovvero il furioso, proprio nell’occasione di questo catastrofico evento. Una osservazione che sottoponiamo all’attenzione del lettore, sebbene di primo acchito possa apparire puerile, consiste nel fargli notare che la Valle del Bove si trova sul versante orientale dell’Etna e si presenta come un enorme cratere dai margini però non simmetrici. I margini del recinto craterico, infatti, si presentano inclinati, come se la montagna fosse stata colpita da un proiettile che proveniva da est e lanciato con inclinazione a quarantacinque gradi. Il proiettile non avrebbe perciò colpito la montagna in “caduta” libera, ma, “lanciato” da un mezzo in volo che proveniva da est (Medio Oriente?). Adottando un approccio laico all’analisi degli eventi che si sono verificati sul pianeta Terra nei millenni precedenti, con particolare attenzione alk’ area etnea, ecco che anche il famoso passo di Diodoro Siculo, in cui lo storico afferma che il popolo dei Siculi si insedió pacificamente nella zona orientale della Sicilia, trovata vuota di genti, si presta ad una nuova interpretazione: i Sicani avrebbero abbandonato l’enorme area etnea in seguito ai rumori di guerra che in quel tempo si susseguirono minacciosi. Se poi volessimo tracciare un parallelismo tra la compassione dimostrata da Enki verso una parte della popolazione mesopotamica mettendone in salvo una parte prima che il disastro del diluvio sopra giungesse, e quella del dio siciliano Adrano, a cui secondo il mito era stato dedicato un tempio alle falde dell’Etna, presso la città che porta il suo nome, dovremmo supporre che i Sicani avrebbero abbandonato l’area etnea avvertiti dal dio. Nonostante l’incredulità della ricostruzione qui tentata, ipotesi che farà storcere il naso a molti studiosi che comodamente dai loro pulpiti preferiscono aggiungersi alla cordata della tesi canonizzata, riteniamo che non possa più mettersi in discussione l’esistenza di civiltà antidiluviane che si sono avvicendate nel corso dei quattro miliardi e cinquecento milioni di anni da che la Terra si è formata. Queste civiltà del resto hanno lasciato strutture oggi non facilmente riproducibili, nonostante le avanzate tecnologie di cui gli scienziati dispongono. Come ignorare ancora il rinvenimento di quegli oggetti definiti fuori dal tempo ? Questi, secondo la canonizzata cronologia della frequentazione dell’uomo sul pianeta, non dovrebbero esistere. Basti qui far accenno alle impronte fossilizzate di piedi umani datate a milioni di anni fa ritrovate in più aree geografiche del pianeta. Pertanto concludiamo il nostro excursus con la ovvia deduzione che la Sicilia orientale possa essere stata sede di una civiltà avanzatissima, di cui un Archimede e un Majorana non rappresentano che gli eredi più conosciuti. A noi Siciliani che dopo e prima i due illustri scienziati sopra citati la divina isola abbia dato ospitalità a esoteristi, astronomi, alchimisti della portata di un Fibonacci e di un Michele Scoto, non desta meraviglia alcuna.
Ad majora.

Francesco Branchina