Caltabellotta ovvero la Fortezza Del Signore.

La nobile gens sicula a cui dedichiamo i nostri studi, ha forse smarrito il ricordo del proprio nobile retaggio e il ruolo centrale che ha avuto nella cultura mediterranea. Il compito che si è dato il sito internet www.adranoantica.it è quello di rispondere ad una chiamata (Kalla) interiore e di ‘urlare’, a propria volta, a chi è sordo ed ha corta la memoria, che la triangolare isola di Trinacria, terra di miti, di forze primordiali, scelta dall’avo Adrano quale sede in cui manifestarsi, non ha affatto dismesso il ruolo per il quale fu ‘chiamata’ in illo tempore. Il significato celato dal lessico utilizzato fin dai primordi, cristallizzato nel continuo suono emesso pronunciando alcuni toponimi con il fine di evocare le primordiali forze, oggi viene svelato perché si prenda coscienza che il momento della risposta alla chiamata è giunto; ai migliori di quest’isola divina, dunque, viene assegnato l’obbligo di rispondere; al primus Inter pares quello di fungere da guida.

Il preambolo di cui ci siamo serviti per esporre le nostre ricerche a chi vuole aggiungere stimoli al proprio desiderio di conoscenza, fornisce l’assist per spiegare il significato del radicale ‘cal’ che forma alcuni toponimi siciliani quali Calatino, Calacta, Caltavuturo, Calatabiano. Attraverso il significato dei nomi e gli stralci di storia a cui abbiamo potuto attingere, che vede partecipi le suddette cittadine, tenteremo di formulare alcune ipotesi afferenti al  ruolo da esse svolto nella storia isolana.

È la volta di Caltabellotta. Il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi  Kalla, chiamare, evocare e Bal Signore. Sul verbo ‘kalla’ nulla aggiungeremo in questa sede essendoci soffermati nelle sedi opportune e nel trattare dei  toponimi che abbiamo sopra elencato, in particolare trattando delle cittadine di Calatabiano e Caltavuturo. Il sostantivo Bel, plurale di Bal, offre l’occasione per soffermarci in questa sede  sull’influenza storica e religiosa esercitata dal sito conosciuto come valle del Belice, abitato fin da antichissima epoca, come testimoniano i numerosi reperti archeologici rupestri sparsi nella suddetta area  geografica. Il cospicuo numero dei toponimi contenenti il radicale  Bal: Belice, Gibellina, Gibilmanna ecc. contribuiranno a rendere plausibile la tesi che esporremo oltre.

Della cittadina di Caltabellotta non esistono molte fonti storiche a cui potere attingere: la si trova citata assieme ad altre fortezze in una cronaca dell’arabo Ibn Haldun; viene ancora citata dallo storico di corte Al Idrisi che, però, è interessato ad esaltare la personalità e le conquiste del re Ruggero II dal quale è stato invitato a corte per compilare su commissione la storia del suo operato.

Tuttavia, grazie al trattato di Al Idrisi, venendo a conoscere che la rocca oggi sovrastante il paesino di Caltabellotta veniva appellata in lingua araba Qal’at ‘at ballut,  che significa la rocca delle querce, potremo elaborare una tesi che supporti la ricostruzione storica del piccolo centro siculo, consapevoli che nei toponimi è spesso racchiusa in sintesi la storia del luogo.

 ROCCA DELLE QUERCE

Chi ha seguito le precedenti ricerche che conducevano ad una ricostruzione storica dei siti di Calatino, Calacta, Caltavuturo e Calatabiano pubblicati in questo sito web, avrà potuto verificare che, almeno i primi due su citati toponimi, erano presenti ancor prima  dell’arrivo degli Arabi in Sicilia, apposti in tempi non sempre certi, ma con la volontà ben precisa di veicolare un messaggio espresso attraverso il radicale “Cal”. Il vocabolo era riconducibile ad una semantica del sacro, a volte opportunamente transitato in ambito militare col fine di conferire all’azione militare un riconoscimento di santità, di guerra giusta. Il termine, in tempi antichissimi, venne utilizzato anche per caratterizzare una tribù germanica in quanto la loro abitudine consisteva nello scendere sul campo di battaglia cantando i peana o  inni sacri – kalla- in uno stato di esaltazione al punto da terrorizzare gli eserciti nemici, era questo popolo quello dei Galli, guidato dai sacerdoti druidi che tanto spazio hanno avuto nell’immaginario collettivo fin dal tempo di Cesare. Parlando di inni sacri non può passare inosservato in questa sede, che il testo in cui vengono raccolti gli inni finnici, ha il nome di ‘Kalevala’, né che esiste un documento di epoca normanna nel quale si evince che, a Tortorici, il cavaliere Eleazar, nel 1123 si impegnava, su richiesta della contessa Adelaide, a dotare la prioria di S. Anna di Galath, o Gala come trascriverà il Pirri successivamente (Il monachesimo latino nella Sicilia normanna – L. T. White Jr.). Dal documento si mettono in evidenza due fattori: che il termine cala o gala rientra nel lessico delle lingue nord europee e che il suo significato semantico è riconducibile alla sfera del sacro.

E poiché il verbo evocativo kalla caratterizzava  il ruolo degli antichi re che erano anche sacerdoti, non può non essere tirato in ballo il più prestigioso tra loro che regnò proprio nel territorio di cui Caltabellotta fa parte, il sicano Cocalo, “ khu Kalla” ovvero colui che recrimina il regno, quel regno che Minosse tentava di sottrargli con lo sbarco  e le sue pretese egemoniche sull’isola. Ma sulla  affascinante ricostruzione delle vicende del re sicano Cocalo, rinviamo i lettori interessati all’articolo: “kamico, spiritus loci del popolo sicano” . Ma tornando sull’argomento, siamo certi che dopo i tanti articoli pubblicati a sostegno, dando ormai per consolidata la tesi secondo la quale il significato attribuito al verbo Kalla è quello di chiamare, evocare, far ‘discendere’ il sacro, possiamo procedere ad esaminare l’ipotesi fondata sul ruolo che la cittadina di Caltabellotta, che Idrisi, ricordiamolo, chiama con l’appellativo di  ‘rocca delle querce’, avrebbe potuto avere prima che l’oblio della memoria ‘calasse’ su di esso.

RUOLO DELLA QUERCIA NEL MONDO ANTICO.

Essendo evidente che Idrisi con il toponimo Qal’at ‘at ballut indicasse un bosco formato da querce, abbiamo spostato, avvalendoci della ricerca comparata, l’attenzione sulla funzione che il bosco sacro esercitava presso le antiche popolazioni ed in particolare sull’albero della quercia. Abbiamo così compreso quanto simbolicamente importante fosse la presenza di questo albero nei  luoghi di culto  presso le popolazioni indoeuropee: ad Abramo appare il Signore presso il querceto di More’ nella terra dei Filistei e proprio in un terreno presso questo querceto, che i Filistei intendevano donargli, seppellisce la propria moglie (Genesi 12, 6- 18,1-23,19); Poco dopo la fondazione di Roma, viene consacrata sul Campidoglio la grande quercia che si riteneva essere la trasposizione in terra del re del cielo Giove; i Druidi, sacerdoti Celti, si riunivano durante i loro sacri consessi, presso il drunemeton ovvero il boschetto sacro di querce; I Sacerdoti di Dodona, i Selli, prendevano i loro responsi dal rumore delle foglie di una quercia equiparata a Zeus, mosse dal vento, e gli esempi potrebbero ancora continuare per molto.

Quello descritto dallo storico arabo ‘Al Idrisi nella storia di Ruggero II compilata intorno al 1150, appare, dunque, il luogo in cui sorgeva un boschetto sacro. Il boschetto doveva esistere ancora al tempo dello storico arabo ed avrà occupato la parte sommitale della cittadella. Ipotizzato che Idrisi facesse riferimento ad un bosco, in origine sacro e che al suo tempo non lo era più, rimane da chiedersi per quale divinità esso fosse stato tenuto in vita.

I PALICI, SIGNORI DEL BELICE

La ricorrenza con la quale sono presenti i toponimi che richiamano i gemelli divini, i Palici, nell’area geografica in cui si trova il sito di Caltabellotta, è tale da indurre a credere che questi gemelli trovassero un culto davvero speciale da quelle parti. Ma andiamo per ordine. Bal, nelle lingue indoeuropee, di cui fa parte la lingua sicana, significa Signore. I gemelli Palici, figli del dio (ma sarebbe più corretto appellarlo Avo, come suggerisce il significato del sostantivo Ano che in antico alto tedesco significa appunto Avo, antenato, capostipite) Adrano, erano onorati in tutta la Sicilia. Addirittura sembrerebbe che in un determinato momento storico il culto a  loro tributato superasse quello celebrato nei confronti del loro padre Adrano. Infatti, Diodoro, non sappiamo se in modo fazioso, essendo egli greco e i Greci erano impegnati a sovrapporre la mitologia greca a quella siciliana, o perché il culto dell’Avo Adrano fosse già in decadenza al suo tempo, mentre ignora completamente il culto e  i riti esercitati nei confronti del dio Adrano, si sofferma, nella sua ponderosa opera storica ‘Biblioteca Historica, con dovizia di particolari nella descrizione del  tempio e del rito svolto in onore dei Palici presso la cittadina oggi chiamata Palagonia che noi facciamo derivare dall’ accostamento dei lessemi Bal-gonner con il significato di i Signori protettori. Il culto tributato ai gemelli divini era, come sopra affermato, esercitato in tutta la Sicilia, seppur particolarmente importante dovette essere stato quello celebrato ad Adrano se stiamo a quanto affermato da Virgilio nel libro IX dell’Eneide, notevole era anche quello di Palagonia su cui Diodoro si sofferma, come detto, con dovizia di particolari e sicuramente, come più giù tenteremo di ricostruire, quello esercitato presso la valle del Belice.

LA RELIGIOSITÀ NEL BELICE NEOLITICO

Non siamo in possesso di fonti storiche che possano confermare quanto tenteremo di ricostruire circa la religiosità praticata dai vetusti Sicani nella valle del Belice, pertanto per la ricostruzione della weltanshauung sicana ci affideremo al buon senso, all’intuito e alla multidisciplinarietà.

Il toponimo appare nelle fonti storiche citato dall’arabo ‘Ibn Haldun, nato a Tunisi nel 1332, il quale compilò’ un “Libro dei resoconti storici” , kitab ‘al cibr in arabo. Il Nostro, riporta l’episodio della contemporanea espugnazione da parte degli Arabi  delle fortezze (in arabo il vocabolo qsar indica il castello, mentre con Qal’ at si indica una rocca naturalmente fortificata) di Caltavuturo e Caltabellotta nell’anno 938. Lo storico siciliano Michele Amari – Storia dei Musulmani in Sicilia– citando Caltabellotta conferma l’episodio  dell’espugnazione del sito nella stessa data, prima, però, né aveva annunciata la liberazione da parte degli isolani, testimonianza questa, di quanto effimere siano state molte conquiste arabe in quel breve e travagliato lasso di tempo in cui i Magrebini ‘soggiornarono’ nell’isola.

Non ci è dato sapere, consultando le fonti arabe, se il toponimo oggetto della nostra indagine fosse già esistente prima del loro insediamento nell’isola. Appare lecito supporlo se all’intuito aggiungiamo la constatazione della presenza, nell’enorme area geografica della valle del Belice  di una copiosa toponomastica contenente il radicale Bel (Balatanuh cioè Platani; Gibellina ecc.), toponomastica che non può essere  attribuita nella totalità a rinominazioni o fondazioni arabe, avendo i conquistatori dominato per un brevissimo periodo l’isola e non nella sua globalità. Uno dei motivi che ci inducono a ipotizzare una preesistenza all’arrivo degli Arabi,  dei toponimi presenti nel Belice, è dovuto alla tipologia del culto riservato nell’intera isola ai gemelli divini, culto caratterizzato dal concetto di dicotomia e/o complementarietà che essi metaforicamente rappresentarono. È da notare che Il culto a loro dedicato era imprescindibile dalla presenza in loco di acque, non solo, queste dovevano presentare  caratteristiche opposte e, come detto, di dualità. Pertanto, due erano i laghetti di Palagonia – uno di acqua calda l’altro di acqua fredda-; due le fonti presso l’ara dei Palici sul fiume Simeto a due passi da Adrano, una detta di acqua scura l’altra di acqua chiara e, finalmente, due erano gli affluenti del fiume Belice, Belice destro e Belice sinistro. Tutti i luoghi citati soddisfacevano dunque il requisito di complementarietà richiesto dal culto. Caltabellotta dista soltanto qualche chilometro dal fiume Belice. Nella sua rocca, immerso tra le querce, doveva ergersi con ogni probabilità, un luogo di culto in cui poter evocare, far ‘calare’ la ‘protezione dei Signori’. La presenza di un boschetto sacro era imprescindibile là dove veniva dedicato un santuario alla divinità evocata. Virgilio lo pone presso i Palici di Adrano dove viene cresciuto (iniziato al sacerdozio?)  da una Ninfa il principe Capi. Il racconto virgiliano sui Palici di Adrano presenta una straordinaria analogia con la iniziazione del principe irlandese Finn. Presso i Filistei il bosco sacro nel quale Abramo si recava senza remore, sembra possedere le medesime prerogative se perfino Salomone (I Re 3,2- 11,7) dopo la costruzione del famoso tempio, avvertì la necessità di recarsi sul monte (rocca?) Gabaon per evocare e sacrificare al generico Signore (Bal?).

LA LINGUA E LE GENTI DI SICILIA DURANTE IL PERIODO ARABO.

Della lingua parlata dai Sicani primi  abitanti dell’isola e dai Siculi loro affini, ci siamo occupati in altre circostanze (La lingua dei Sicani) per riprendere l’argomento in questa sede. In questa sede piuttosto, desideriamo appurare se i toponimi siciliani formati con il termine ‘Cala’ siano di derivazione araba o meno. Poiché abbiamo constatato che i nomi di Calatino e Calacta esistevano a partire dal V sec. a. C., appare evidente che, qualora i toponimi Calatabiano, Caltavuturo, Caltabellotta ecc. fossero stati apposti successivamente a quel periodo, la lingua utilizzata fosse comunque la medesima e lo stesso il significato attribuito al verbo kalla. Che il toponimo Calatafimi venisse apposto alla rocca in onore del comandante bizantino Eufemio, è infatti inconfutabile e l’argomento verrà ripreso più sotto.

Poiché abbiamo attribuito origini nord europee alla lingua siculo sicana, con affinità maggiori rispetto alle altre all’antico alto tedesco (ata), abbiamo accostato il vocabolo Cala al  verbo Kalla chiamare, in una accezione sacra, sia in ambito religioso che militare (il concetto romano di guerra giusta, per esempio, afferiva ad una semantica del sacro).

FUSIONE LINGUISTICA E CULTURALE TRA VANDALI E ARABI.

La Sicilia ha rappresentato un laboratorio alchemico da cui sono sprigionata forze inimmaginabili, che sono culminate nella creazione del primo parlamento europeo, come è noto. Nel periodo storico qui indagato, era avvenuta una operazione di sincretismo culturale e linguistico, come noi crediamo, tra i Vandali insediati nel Maghreb fin dal 429, e gli Arabi sopraggiunti nel 652, come abbiamo riferito nell’articolo dedicato a Caltavuturo.

Un sopraggiunto sincretismo linguistico e culturale viene altresì tradito, come diremo oltre, dalla copiosa toponomastica e onomastica araba arrivata fino a noi.

I Vandali provenienti dalla Scandinavia, parlanti una lingua germanica, si fusero con gli Arabi sopraggiunti nel Maghreb poco dopo che si erano indeboliti con la morte del loro astuto capo Genserico e si videro costretti ad una apertura nei confronti di Costantinopoli che militarizza il Maghreb nel 553. Dopo quella data l’esercito vandalo si polverizzò’ confluendo nelle file dei nuovi arrivati, i Bizantini prima e gli  Arabi subito dopo, ma, come accadde per i Greci nei confronti dei Romani conquistatori, i Vandali fornirono il proprio contributo agli Arabi in diversi settori: marinaro, militare, linguistico e, forse, perfino religioso dal momento che numerose appaiono le analogie tra l’idea del paradiso maturata dai Vandali, con quello immaginato dagli islamici come abbiamo messo in evidenza nell’articolo dedicato a Caltavuturo.

È lecito supporre che in ambito religioso alcuni Vandali si fossero convertiti all’Islam, altri al cristianesimo ortodosso, altri rimanessero ariani e altri ancora avessero indossato il saio. Non siamo in grado di poter stabilire l’influenza sociale che questi ‘barbari’ addomesticati esercitarono in Sicilia durante il loro primo sbarco avvenuto nel 440. Comunque sia, il contributo linguistico che i Vandali apportarono alla lingua araba appare evidente ed è rinvenibile nel nome Ab(u) Thur, dalla Porta, nome ancora attuale in Sicilia, riportato dallo storico M. Amari nella sua ‘Storia dei Musulmani in Sicilia’; è ancora evidente nel nome dello storico Ibn Haldun (Alduino?) nato a Tunisi, antica sede dei Vandali, anche se lo storico vi nasce nel 1332, questi è l’autore del libro storico ‘Kitab’ al cibr’ nel quale si ritrovano episodi dedicati a Caltabellotta e dal quale abbiamo copiosamente attinto notizie importanti. Nel resoconto di Ibn Haldun si trovano numerosi riferimenti che inducono a confermare la tesi qui esposta circa i contributi linguistici germanici confluiti nella lingua araba. Citiamo il riferimento dello storico alla casata dei ‘Banu’ at Tabari’ (che nella lingua araba significa potente casa, in cui il termine casa va inteso nell’accezione di  lega, unione, tribù, famiglia ecc), il termine band in lingua germanica significa lega, unione. La casata araba (?) sopra citata era  in conflitto  con un’altra casata araba: i Kutamah (i monaci o i religiosi? ), in tedesco kutte significa tonaca.

Attingendo ancora informazioni dalla cronaca di ‘Ibn’Al’Atir, che mette per iscritto  intorno al 1200, riflettendo sul frequente ribaltamento di alleanze, ci chiediamo se il Capitano bizantino di nome Eufemio, a cui viene intitolata la rocca che darà luogo al toponimo Calatafimi, ribellatosi a Bisanzio in quanto ambiva a costruire un regno di Sicilia tutto proprio, non avesse richiesto nel 827, aiuto militare agli Arabi del Maghreb, ma di  etnia vandala, per il semplice motivo che anche egli potesse esserlo (alcuni Vandali, ricordiamolo, nel 553 erano confluiti nell’esercito bizantino dopo che Costantinopoli era riuscita a militarizzare il Maghreb). Infatti ci è sospetto che uno tra i due più ragguardevoli consiglieri arabi che disputarono sull’opportunità di fornire aiuti al bizantino Eufemio, si chiamasse Al-Furat significando il suffisso rat, in lingua germanica, consiglio, riflessione, discussione, e, guarda caso, alla fine fu proprio il consiglio di fornire aiuti a Eufemio, proposto da Furat  ad essere quello seguito. È per noi oggetto di ulteriore riflessione il nome del generale al servizio di Eufemio, un certo Balatah che quasi subito abbandona Eufemio nel tentativo di creare a propria volta, un regno di Sicilia a proprio uso e consumo. Il nome di quest’ultimo ha tale assonanza con il toponimo Belice e dunque con Bal, al punto da immaginare che nello scacchiere politico e militare di quel secolo, caratterizzato da una presenza multietnica in lotta per imporre i propri interessi nell’isola, il cospiratore Eufemio avesse attinto, al fine di potenziare il proprio esercito, da chiunque fosse in grado di fornirgli i mezzi e gli uomini adeguati, tra questi il siciliano Balatah che  derivava il suo nome o appellativo, dal luogo di provenienza o, come era abitudine presso i Romani (cognomen ex virtute) da una località che aveva conquistato: la valle del Belice(?). Infatti, “La cronaca araba” afferma Umberto Rizzitano – La Sicilia islamica– “precisa che il primo scontro con l’esercito bizantino comandato da Balata avvenne in una località omonima: forse Rahl Balata”. Ci chiediamo ancora se le infinite guerre civili arabe, in Sicilia concluse con la totale espulsione dei Berberi da parte degli Arabi nel 1014, possano essere spiegate alla luce delle differenze etniche e culturali mai sopite tra i popoli del Maghreb.

Ad majora.

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