Sicani: un laboratorio nel Mediterraneo.

Prima di proseguire nel tentativo di svelare un’altra pagina della criptica storia della Patria sicana è doveroso mettere in guardia il lettore da quanto qui verrà vergato, da noi ritenuto forse un maldestro tentativo di condividere alcuni risultati a cui siamo pervenuti. Le riflessioni qui esposte, potrebbero perciò diventare nel futuro, oggetto di revisione e/o smentita se, strada facendo, si approdasse a risultati contrastanti. Infatti, rispecchiandoci pienamente nelle affermazioni di Gandhi, che si definiva un campione di incoerenza a motivo delle mutanti condizioni politiche del suo paese in subbuglio, preghiamo il lettore che anche a noi venga concessa l’opportunità di rivedere, correggere e riproporre certe affermazioni alla luce di nuove scoperte che mai come ai giorni nostri si succedono con inusitata frequenza.
In mancanza di dati storici documentali antichissimi riguardanti la nostra Sicilia, ritenendo tuttavia che i nostri lettori abbiano ormai fatta propria la tesi secondo la quale, durante il periodo antico della storia del pianeta, lo stesso sia stato inizialmente abitato da una civiltà globale, rimane nostro convincimento il fatto di essere riusciti a ottenere preziose informazioni dalla lettura e reinterpretazione, alla luce di nuove scoperte, soprattutto nel settore della biogenetica, degli antichissimi testi ritenuti sacri dagli Avi nostri. Tra questi antichi testi, l’Avesta, a nostro avviso, fornisce riferimenti precisi circa la genesi delle civiltà umane che si sono susseguite e delle trasformazioni geologiche subite dal pianeta a partire dalle epoche glaciali, a causa delle quali, alcune civiltà furono costrette a migrare dai poli presso le più miti zone centrali (med) equatoriali della terra.
Ancora una volta, per tentare la ricostruzione dell’evoluzione dei fatti trascorsi in epoche così distanti dalla nostra, attueremo un approccio multidisciplinare, attingendo qua e là ad informazioni che studiosi accreditati hanno – con un non comune senso di altruismo- divulgato attraverso metodi a loro più congeniali. La mitologia aprirà l’excursus che ci accingiamo a percorrere.

Una indagine sulle conoscenze della genetica durante il periodo Preistorico.

I bassorilievi egiziani, in cui si osserva il prelievo spermatico da una figura umana itifallica, ci ha dato assai da

Bassorilievo egiziano di abido. Luxor
Bassorilievo egiziano di abido. Luxor

riflettere circa l’interpretazione che bisognava dare a tale criptica raffigurazione. Il recente superamento di nuove barriere nel campo della biogenetica, da parte di arditi ricercatori, ci è venuto in soccorso. Al di là dell’interpretazione più o meno logica che verrà fornita in questo breve excursus, osservando con attenzione le immagini di Luxor, che non possono essere interpretate, come è stato sopra affermato, se non come quelle raffiguranti un prelievo del liquido seminale maschile, con relativi spermatozoi messi ben in evidenza, bisognerebbe chiedersi di quali avanzate tecnologie, paragonabili nel caso specifico ai nostri microscopi da laboratorio, disponessero alcune civiltà vissute in epoche antichissime.

Il bassorilievo egiziano di cui stiamo trattando, ma ve ne sono di simili in Thailandia e altre parti del mondo, diventa assai loquace ed esplicativo se lo si integra all’interpretazione del mito di Horus. Il mito egizio racconta di come sia avvenuto l’accreditamento di Horus quale erede del dio Osiride e suo successore al trono di Egitto dopo che questo era stato usurpato dallo zio Set. Poiché bisognava dimostrare che Horus era il figlio segreto di Osiride ucciso da Set, nascosto dalla moglie Iside per evitare che l’usurpatore uccidesse anche Horus, ecco che per la dimostrazione viene chiamato in causa il dio Thoth il quale, prelevato il liquido seminale da Horus (come si evince dal bassorilievo), dopo averlo esaminato afferma solennemente che Horus era realmente il figlio di Osiride. A noi pare che il mito egizio intendesse trasmettere, tra l’altro, il messaggio secondo il quale, lo scienziato ante litteram il cui nome egiziano veniva fonetizzato Teuti nella lingua greca, corrispondente al germanico e al sicano Teuto e ancora al latino Tito, conoscesse i comportamenti del genoma umano e le leggi dell’ereditarieta’. La “storiella” egiziana, ricca di particolari raccapriccianti che risparmiamo al lettore, potrebbe essere considerata frutto della fervida fantasia degli antichi se non fosse per una molteplicità di indizi che si trovano sparsi anche in altre civiltà e di cui diremo sotto. Ma vi è di più: nel mito di Horus viene affermato che questo dio sia nato dal padre dopo la morte e lo smembramento del corpo di questi, cioè il dio Thot – sempre Lui- viene pregato da Iside affinché, utilizzando la sua scienza, ella potesse essere ingravidata col seme del marito Osiride, morto e sezionato da Set, ma del quale lei era riuscita a mettere assieme i pezzi tranne il fallo. Dunque, pare che il genetista Thot avrebbe estratto dal cadavere di Osiride alcune cellule, non certo dal liquido seminale dal momento che il fallo di Osiride era l’unico membro del cadavere che era andato perduto dopo lo smembramento e la dispersione dei pezzi. Per farla breve, Thoth, accolto il grido disperato di Iside, non insensibile al ripristino della giustizia, si mise a lavoro riuscendo a ingravidare Iside attraverso frammenti del dna estratti dal cadavere di Osiride. Se si tiene in conto che alcuni studiosi dei nostri tempi ritengono che si potrebbero riprodurre dei mammut attraverso procedimenti che ricordano il mito egiziano di Horus, la possibilità che ciò possa essere stato realizzato da civiltà antidiluviane progredite e poi scomparse, non dovrebbe stupire. Il mito greco della evirazione di Urano, e la nascita di Afrodite dalla schiuma emessa dal membro evirato, raccontato da Esiodo nella sua Teogonia, potrebbe essere una variante del mito egizio di Horus ed entrambi potrebbero rappresentare il ricordo di fatti antichissimi riconducibili a tentativi di applicazione di ingegneria genetica che non cessò mai di affascinare i genetisti di ogni epoca, fino a condurre il blasfemo scienziato russo Gustav Ivanovic Ivanov durante il periodo staliniano, a inseminare a loro insaputa, giovani donne africane con liquido seminale di scimpanzé maschi, col fine di creare un ibrido che potesse collaborare con l’esercito dell’armata rossa.

Poiché stiamo qui esaminando la possibilità che attraverso il mito, gli Avi possano aver raccontato alcuni fatti storici, non è a noi passato inosservato neppure il possibile collegamento che potrebbe sussistere tra il mito egiziano e il viaggio della speranza intrapreso dal patriarca Abramo in compagnia della sterile moglie/sorella, verso la terra dei faraoni, magari diretto in una qualche clinica egiziana specializzata nella fecondazione assistita, al fine di sottoporre all’intervento la sterile moglie Sara. Non può non essere sospetto, alla luce dei molti collegamenti qui esposti, il fatto che dopo questo viaggio, Sara avrà un figlio. Ci chiediamo: intende forse comunicare il bassorilievo di Abido, che l’inseminazione artificiale non rappresentava un tabù per gli antichi Egizi? e che anche i Sumeri e i Palestinesi ne facessero palesemente ricorso come si evincerebbe dalla lettura dell’Antico Testamento e delle tavolette sumeriche? Se così fosse, le tavolette sumeriche che raccontano di un mesopotamico Enki, dio scienziato, creatore dell’uomo ad opera di una inseminazione artificiale avvenuta grazie al liquido seminale prelevato dai ” figli degli dèi”, inoculato nell’ovulo delle figlie degli uomini, si inserirebbero ad incastro perfetto.

I Sicani: tra Genetica e Metafisica.

Se quanto affermato nella premessa, cioè che nella preistoria alcuni individui possedevano conoscenze di biogenetica, questi individui avrebbero potuto agire in diverse zone geografiche, magari indicate cripticamente nei miti, il cui nome opportunamente decodificato avrebbe condotto il ricercatore al luogo ambito. L’evoluzione linguistica a cui inevitabilmente è condannata ogni lingua, ci ha reso più difficile, ma non impossibile il tentativo di decifrare gli appellativi apposti a certi luoghi. Tuttavia, sebbene noi non abbiamo l’ardire di sostenere, al pari di Assurbanipal, che si vantava di aver imparato la lingua primordiale parlata dagli dèi, crediamo per lo meno di averne scalfito la superficie. Ebbene, se così fosse potremmo affermare che parte delle conoscenze divine fossero state deposte nel Mediterraneo, anzi, abbiamo buoni motivi per credere che in questo angusto mare avesse sede il laboratorio primigenio: l’Abzu. Nel nome stesso di questo mare si nasconderebbe, infatti, uno degli indizi che hanno costituito l’impalcatura della tesi sopra affermata. Rimandando il lettore all’articolo “La lingua dei Sicani” onde egli possa comprendere il metodo da noi utilizzato per la traduzione dei nomi, qui risulta che Il nome del Mare Nostrum risulta formato dall’unione del lessema med, che significa medio, con il lessema tarn, che significa celato, nascosto. Ora, In una tavoletta sumerica si legge che il luogo in cui venivano celati i “segreti” era il palazzo laboratorio di Enki, ciò viene detto dal fratello Enlill durante un banchetto. Quindi, mettendo assieme questa affermazione con quanto si sostiene nel mito di Osiride, e cioè che Set aveva chiuso il corpo del fratello in una cassa, poi “nascosta” nel Mar Mediterraneo, si potrebbe giungere alla conclusione che l’appellativo apposto al nostro Mare, indichi il luogo depositario di indicibili segreti. In una tavoletta sumerica, Enlil si lamenta con il padre Anu, per il fatto che il suo fratellastro Enki sia l’unico a possedere i poteri a lui preclusi, nonostante egli sia stato eletto a capo del Pantheon sumero. Se abbiamo visto bene, e il laboratorio di Enki si trovava nel Mediterraneo, come esposto negli articoli precedentemente pubblicati, ne consegue che il laboratorio di Enki rappresentava lo scrigno in cui erano nascosti i segreti.

A corroborare questa tesi si aggiunga quanto segue: nel testo sumerico denominato Atra Hasis, in cui si racconta del diluvio, Ziusudra il Noè sumero, per giustificare agli occhi dei suoi cittadini la costruzione dell’arca, afferma che l’imbarcazione gli sarebbe servita per raggiungere il suo signore Enki che si trovava nell’Abzu. Dunque, in questo passo viene confermato che la reggia di Enki si trovava distante da Sumer, in un mare che poteva essere raggiunto soltanto con solide imbarcazioni, che nulla avevano a che vedere con quelle più piccole utilizzate per solcare le acque del Tigri o dell’Eufrate. Il mare che si presta ad essere identificato con quello che avrebbe dovuto raggiungere Ziusudra, non può essere dunque che il Mar Mediterraneo (vedi l’articolo: “Sumer, gli dèi vengono da occidente”, miti3000.eu) e il laboratorio di Enki non poteva che trovarsi in Sicilia a motivo della biodiversità ancora oggi riscontrabile a millenni di distanza. L’importanza politica a cui assurse la Sicilia, forse grazie alla presenza di questo laboratorio scientifico, la si evince altresì dal fatto che nell’isola venisse edificata una reggia, l’E(a)nna. La reggia avrebbe dovuto ospitare il dio padre Anu, affinché vi dimorasse durante le sue visite (di controllo?). Ci chiediamo cosa sia mai accaduto in una di queste visite perché Anu venisse appellato il furioso cioè odhr, Odhr-Anu (Adrano). Forse che la rivolta dei semidei placata dalla saggia intercessione di Enki, di cui si racconta in una tavoletta sumerica, sia avvenuta nell’isola divina, allora quasi attaccata all’Africa tramite un ponte di isolette, successivamente sommerse a causa dello scioglimento dei ghiacciai, ricordato come il grande diluvio? Certo è, che alcuni passaggi della storia siciliana trovano corrispondenza nel mito comune di Egizi e Sumeri; infatti, il nome del figlio di Enki, Ningishzidda in sumerico, Thoth per gli Egizi, a cui il padre aveva trasmesso tutte le conoscenze scientifiche in suo possesso, ricorre in Sicilia ancora nel corso del VI sec. a.C. nella città di Innessa, rinominata in Adrano nel 400 a.C. Lo storico greco Polieno, nel suo trattato Stratagemmi, cita infatti il nome del principe sicano Teuto. Il nome del principe verrà successivamente ritrovato inserito in una iscrizione in lingua sicana, incisa in una lapide incastrata nelle mura di un sito archeologico della periferia della attuale città di Adrano (vedi saggio: “Dalla Skania alla S(i)kania” gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu).

Le cose potrebbero essere andate così.

Se la ricostruzione sopra tentata avesse una probabilità di attendibilità, si spiegherebbe, tornando alla genetica, la presenza del corredo funerario ritrovato in un sepolcro adranita, in cui ricorre un vasto e ricco simbolismo che non potrebbe essere altro che un linguaggio attraverso il quale si racconterebbe la storia isolana, la quale verrebbe a intersecarsi con eventi più globali.

La metafisica della morte nel simbolismo di Castelluccio e la genetica.

Tornando alla genetica, il lettore che ci ha seguito in questo lungo excursus, si ricorderà di quanto si affermava nell’articolo “IL SACERDOZIO MISTERICO PRESSO IL TEMPIO DELL’AVO ADRANO”. Nell’articolo si sosteneva la tesi secondo la quale il simbolismo riportato in un piatto facente parte del corredo funerario di un sicano adranita, forse uno scienziato dello staff di Enki o Thoh, equiparabili ad Adrano, si rifacesse all’elica del DNA. Ebbene, in chiave meno biologica e più metafisica, per quanto esso potesse essere diretto al mondo profano,

Portellone di tomba a Castelluccio

essendo posto in bella vista, inciso in un pubblico portellone che sbarrava l’ingresso di una tomba del II millennio a. C., presso Siracusa, a Castelluccio, venivano rappresentati gli organi riproduttivi maschile e femminile: lo Ying e lo yang della cultura sicana. L’effige siracusana riproducente gli organi sessuali maschili e femminili in un luogo di morte, sembrerebbe stridere se non si avesse la consapevolezza che nella religiosità degli Avi, la morte rappresentava l’indispensabile passaggio alchemico che conduceva l’essere a una nuova rinascita.

Se volessimo spingere oltre l’immaginazione del ricercatore, non troveremmoestraneo al mondo delle conoscenze genomiche sicane, il riferimento al DNA del pittogramma riproducente i rombi contigui, dipinti nel piatto del IV/III millennio a. C., a cui abbiamo fatto riferimento sopra.

Ora, tre sono gli elementi che compongono la sacra istituzione della famiglia, cioè l’organismo deputato a tramandare la continuità della stirpe e a trasmettere un patrimonio genetico esclusivo: il padre, la madre e figli. La sede del culto della triade divina si trovava nella capitale sicana Adrano, città in cui gli storici antichi: Plutarco, Ninfodoro, Polieno e altri, celebravano la grandiosità del santuario edificato all’Avo. Si dà il caso che di tre elementi, o lettere, come vengono comunemente chiamate, sono composte le informazioni contenute nel DNA decodificate da un messaggero detto RNA. Questo gruppo di tre lettere sembra altresì essere alla base di tutte le forme di vita sulla terra e forse dell’universo. Che la sequenza di rombi dipinti nel piatto adranita possa riferirsi al dna, lo si deduce ancora attraverso l’affinità parentale che abbiamo riscontrato tra i Sicani e i popoli proto germanici. Questi ultimi, come è stato dimostrato attraverso i nostri studi, erano accomunati ai Sicani da una lingua e da una medesima weltanshauung, pertanto non risulterà peregrino accostare i nostri rombi alla runa chiamata odal – un rombo con due code in basso, equiparabile a quello utilizzato nel simbolismo sicano- a cui si può attribuire un valore interpretativo affine a quello da noi riscontrato in Sicilia. Grazie agli studi del runologo

Runa Odal
Runa Odal

Kennet Meadows, si evince, infatti, che alla runa odal i popoli germanici attribuivano “I caratteri innati ereditati dalla genealogia spirituale”. Restando in ambito germanico e al significato misterico attribuito all’aggettivo tarn che compone la seconda parte del nome Mediterraneo, luogo in cui la divinità sicana aveva edificato la propria reggia laboratorio, a noi pare che possa vedersi un collegamento etimologico, mitologico e simbolico collegabile alla collina irlandese di Tara, luogo in cui dovevano recarsi i re prossimi all’intronazione e, forse, iniziati ai misteri (cioè alle cose “nascoste”) della divinità preposta.

Ad maiora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *