Circe e i Neanderthal

Circeo: un laboratorio genetico della preistoria.

Nella ipotesi di lavoro esposta negli articoli precedenti si riteneva che l’Abzu, una sorta di laboratorio di ricerca e di sperimentazione, alla cui esistenza si fa cenno nelle tavolette sumeriche, per i motivi addotti negli articoli precedenti, potesse trovarsi nel Mare Mediterraneo e che la Sicilia potesse essere fra i luoghi candidati ad ospitarlo. Questa intuizione nasceva dalla constatazione – ma non è l’unica – che la Trinacria (il simbolo che raffigura la Sicilia affonda le proprie radici nella preistoria) sia ancora oggi caratterizzata dalla presenza di una biodiversità che non ha pari in altri luoghi del Mediterraneo e men che meno in Medio Oriente, in particolare nella Mesopotamia ove gli studiosi che si sono cimentati nella traduzione delle tavolette cuneiformi hanno tradizionalmente collocato l’Abzu.

La descrizione che di questo luogo viene fatta nei miti sumerici, si presta altresì alla interpretazione del toponimo da noi tentata e che si potrebbe liberamente tradurre con “andirivieni”. Infatti, l’etimo risulta composto dai lessemi ab e zu, che nella lingua tedesca moderna, affine a quella sumerica e accadica, corrispondono alle preposizioni da e per, verso, in direzione di, rimandando all’idea di un luogo da cui si va e si viene, un luogo in cui non manca la possibilità dell’interscambio e la voglia della ricerca sui diversi piani dello scibile. E ancora, utilizzando un lessico religioso, non certo in disuso in quell’antico mondo popolato da dei, potrebbe essere utilizzato per indicare il salire e lo scendere dal cielo di anime incarnate e disincarnate.

L’Abzu, come si evince dalle traduzioni delle tavolette a cui parteciparono eminenti studiosi, per citarne uno su tutti Samuel Kramer, si presta ad essere interpretato secondo l’ipotesi in altri articoli formulata e qui ripresa, in quanto Kramer afferma che nella tavoletta si sostiene che l’edificio era stato edificato con lo scopo di conservare i segreti dei poteri custoditi da Enki. L’Abzu era la sede in cui egli, definito il vivificatore del paese, decideva i “sacri destini”. Insospettisce e afferisce alla tesi secondo la quale Enki operasse in Sicilia, presso il vulcano Etna, il tipo di materiale edile utilizzato per la costruzione della reggia: oro, argento, lapislazzuli e stranamente canne per le pareti; c’è da sospettare che questi materiali servissero agli scienziati per le loro qualità di buoni conduttori di energia elettrica e magnetica (vedi gli studi di Paolo Debertolis sull’archeoacustica), anzi ne siamo certi poiché viene affermato che la azurite, un materiale funzionale alla costruzione del laboratorio, serviva a contenere i raggi. La azurite è un minerale piuttosto raro ma in piccole quantità si trova nell’area vesuviana. La corniola utilizzata per la base della costruzione, una pietra che si trova in terreni vulcanici (Etna?) veniva a sua volta impreziosita con l’azurite. Afferma Kramer, che il palazzo così costruito, che a noi ricorda quello di Alcinoo edificato in Sicilia in cui il poeta greco metteva in evidenza i metalli preziosi al suo interno, visitato da Ulisse e descritto da Omero con le modalità poetiche che richiamano lo stile della tavoletta qui indagata, era stato edificato sul mare, sulle acque, elemento questo con cui Ea/Enki veniva identificato e che era invece assente a Sumer. A Sumer Ea aveva edificato l’Eridu, la reggia omonima a quella siciliana (?). Assente era in Mesopotamia anche la presenza delle pietre minerali sopra menzionate. Il luogo o area di pertinenza in cui si trovava il palazzo di Enki nel Mediterraneo(?), che veniva anch’esso chiamato Eridu, viene da noi tradotto, secondo il metodo noto ai lettori, con il significato di: il giuramento o la promessa del signore o il nobile giuramento, da Er signore, nobile ed eid promessa, giuramento, parola data. È da notare che il giuramento rappresenta un leit motiv nella vita di Enki. Grazie a un giuramento disatteso da parte di Enki, a cui il dio fu costretto dal fratello a aderire, salvò il genere umano dal diluvio. L’attributo Poseidone, utilizzato dai Greci per indicare Enki, contiene anch’esso il lessema eid giuramento: böse-eid-one ovvero adirato per il mancato giuramento.

Per i motivi sopra addotti, l’Abzu nel Mediterraneo potrebbe essere stato scelto come sede da una equipe di ricercatori guidati dai fratelli divini, Enki e la sua sorellastra Ninmah. Quest’ultima, appellata anche come Ninhursag, come si evince nelle tavolette denominate Enuma elish svolse la parte più importante nella creazione dell’uomo, tanto che nelle tavolette sumeriche la ritroviamo indicata con l’appellativo di “Madre del genere umano” e probabilmente le statuette di argilla che raffigurano le donne corpulenti, appartenenti all’epoca paleolitica, denominate le veneri del Paleolitico, si riferiscono proprio a lei. È plausibile che fratello e sorella, nella terra Sicana che identifichiamo con l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, venissero appellati con nomi diversi rispetto a quelli adottati in Mesopotamia, in quanto gli appellativi nascono spesso come conseguenza del ruolo socialmente svolto. Infatti è risaputo che gerarchicamente il numero degli appellativi con cui gli dèi venivano indicati decresceva man mano che dal vertice, occupato da Anu, si scendeva verso la base (Enki che occupava il terzo grado del sistema gerarchico a base sessagesimale, veniva appellato con quaranta epiteti, mentre Anu con sessanta ed Enlill con cinquanta). In questo ipotetico laboratorio primordiale chiamato Abzu, potrebbero dunque essere stati iniziati quegli esperimenti genetici di cui si parla nei testi sumerici detti della creazione, Enuma elish in sumerico. La possibilità che questa ipotesi di studio possa trovare conferma, presuppone la capacità da parte del ricercatore moderno, di sapersi denudare di alcuni preconcetti nei confronti dell’uomo antico, che questi fosse cioè alieno da conoscenze scientifiche. Questa affermazione non sarebbe di difficile accoglienza se si tiene conto dei numerosissimi reperti, così detti fuori dal tempo per la loro anacronistica complessità, che sono stati ritrovati negli ultimi decenni. Molti di questi oggetti, invece, troverebbero la giusta collocazione nei miti e nelle storie se queste venissero lette attraverso una formazione culturale più laica. In tal modo apparirebbero meno incongruenti gli intercalari di fatti di cronaca nella storia di Roma raccontata da T. Livio, allorché lo storico romano fa riferimento ad una botte d’argento che, avvolta da fiamme e fuoco, calata dal cielo nel bel mezzo degli schieramenti romani, durante la guerra civile tra Mario e Silla, in Spagna, induce le legioni a fuggire e rimandare lo scontro; oppure il riferimento di Omero alle navi feaciche che si muovevano nel Mediterraneo a velocità fuori dall’ordinario, senza remi e guidate con il pensiero. Quest’ultimo riferimento induce a maggior riflessione riguardo ad un meccanismo metallico dentellato, ritrovato negli abissi delle acque greche, presso una nave greca naufragata, identificato dagli studiosi come una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo e denominato meccanismo di Antikitera.

Antikitera e i sommergibili della storia.

Trattando di questo ritrovamento, aggiungendo alcune nostre riflessioni, si invita il lettore a riflettere anche sull’ipotesi che la famosa arca del diluvio potesse nulla avere a che fare con l’immagine che noi abbiamo delle imbarcazioni di epoca antica. Infatti, nel testo sumerico si legge che Enki, dettando al Noè mesopotamico le misure utili per la costruzione dell’imbarcazione, appella la stessa “su e giù” cioè ab-zu. Questa imbarcazione, quindi, avrebbe dovuto resistere, assecondare e sostenere i flutti sprigionati dal diluvio, i quali avrebbero certamente spinto l’imbarcazione anche al di sotto dell’acqua. Questo tipo di movimento è consentito ai sommergibili. Inoltre, nella versione sumerica del diluvio, vista la strana imbarcazione che Utnapistim costruiva, il Noè sumerico fu costretto a giustificare ai curiosi osservatori la costruzione di quella strana ed enorme imbarcazione, fuori dai canoni di quelle più modeste che venivano costruite per solcare in superficie le placide acque del Tigri e dell’Eufrate. Utnapistim rassicura quindi i curiosi osservatori, affermando che l’imbarcazione gli sarebbe stata necessaria per raggiungere il suo dio Enki il quale, lasciando Sumer a motivo delle liti che aveva avuto col fratello Enlill, si era recato nel mare vicino, dove ora lui lo avrebbe raggiunto. Ebbene, il mare in cui Enki dimorava, ci chiediamo: ha le caratteristiche per essere identificato con il Mediterraneo? Le tecnologiche navi di Alcinoo, solcavano i mari già prima di quelle sumeriche? Queste ultime erano attrezzate secondo i canoni moderni con a bordo bussole, computer e carte nautiche? Si noti che nel racconto sumerico viene affermato che Enki invio’ a Utnapistim un nocchiero perché guidasse l’imbarcazione e la conducesse nel luogo che egli aveva indicato al nocchiero. I marinai del periodo sumerico al servizio di Enki erano dunque esperti navigatori! Conoscevano le rotte, avevano stilato delle carte nautiche che indicavano le coste, gli approdi, i continenti. A questo punto si giustificherebbe la presenza di carte medievali, redatte in tempi ancora anteriori, arrivate fino a noi, che mostrano l’Antartide priva dei ghiacciai che, ormai da migliaia di anni, la ricoprono e le coste delle Americhe scoperte ufficialmente pochi secoli fa.

Analizzando perciò il mito sumerico sotto una nuova luce, senza distogliere lo sguardo dai racconti vedici, che ai racconti sumerici, avestici, biblici e greci sono complementari, e che descrivono con dovizia di particolari l’esistenza di civiltà tecnologicamente avanzate, si riscontra che in esso vengono descritti con ricchezza di dettagli, degni di un cronista scientifico dei tempi nostri, i primi risultati condotti dal dio scienziato Enki, coadiuvato, come si è sopra affermato, dalla sorellastra Ninmah che un ruolo determinante avrà nei successi raggiunti. Gli esperimenti vennero condotti a discapito o a beneficio, a seconda il punto di vista, di un bipede che Enki, durante i suoi viaggi di esplorazione, aveva incrociato nelle foreste Africane. Analizzando la lettura delle tavolette, riguardo ai primi imperfetti risultati degli esperimenti genetici, si nota già manifestarsi la nobile e compassionevole natura del creatore del genere umano Enki. Il dio, lo scienziato, infatti, mostra di possedere un non comune sentimento di pietà nei confronti delle creature malferme da lui create, tale da fare trasparire nello scienziato un concetto di sacralità attribuibile ad ogni forma di vita in quanto tale: Enki amava le proprie creature indipendentemente dalla forma da esse assunta e conferiva ad ognuna di quelle creature, frutto di errori genetici, comunque un diritto alla vita investendole di ruoli sociali adatti alle loro condizioni psico fisiche.

Enki il dio compassionevole.

I primi tentativi di creazione non andarono a buon fine, gli individui creati in virtù del mescolamento tra il genoma divino – appellativo con il quale questi scienziati della preistoria amavano definirsi- con quello degli ominidi africani, furono non tutti eccellenti; gli individui che ne derivarono non erano infatti in grado di essere autosufficienti. Enki edificò per loro degli ospedali e impose ai suoi assistenti di prendersi cura di loro con amorevole compassione. Da quanto ci è dato capire attraverso la lettura della traduzione dei testi sumerici in cui si sono cimentati gli studiosi, Enki allontanò dal laboratorio la sorella Ninmah, a motivo degli atteggiamenti di questa, considerati poco compassionevoli nei confronti dei soggetti che venivano studiati. Infatti Enki aveva concesso a Ninmah di condurre degli esperimenti sul genoma per proprio conto. Dai testi sembra che Nimah producesse alcuni esseri mostruosi, pare volontariamente, poiché, interrogata, affermò che ella creava esseri come il suo cuore le dettava.

Ciò avveniva in un luogo solitario che tenteremo di individuare proseguendo nelle nostre ricerche. La dea, animata soltanto dalla propria sete di conoscenza, non mostrava per le creature oggetto dei suoi esperimenti la stessa sensibilità mostrata dal fratello: incurante delle sofferenze delle proprie cavie, le incatenava e le segregava. Enki, venuto a sapere del comportamento della sorella, recatosi presso di lei e avendo constato personalmente gli impietosi metodi da lei messi in atto nei riguardi delle cavie, con atto imperioso derivante dal ruolo ricoperto di capo della equipe di scienziati, le impedì categoricamente di continuare ad esercitare la professione di genetista, irelegandola, come viene affermato nella traduzione del passo sumerico, in un territorio definito come “colto da sfortuna”. Da quel momento Enki non degno’ la sorella di ulteriori visite. Ninmah, come si afferma nella tavoletta, ne fu molto afflitta e pregò il fratello di rivedere il suo atteggiamento ostile nei suoi confronti; probabilmente è in questa occasione che Ninmah compone l’inno adulatorio nei confronti del fratello, tradotto da S. Kramer con il titolo di Ninmah ed Enki, ain cui è evidente la captatio benevolentiae che Ninmah esercita nei confronti di Enki. Il compassionevole creatore dell’umanità in effetti venne ammorbidito dalle lusinghe della sorella e le fece delle concessioni, rivedendo così in parte la propria drastica posizione. Tuttavia le impose di liberare le creature malferme che ella teneva recluse e di prendersene cura come si conveniva. Il dio adirato chiuse infine l’incontro con la sorella pronunciando le tremende parole: “La tua opera sia maledetta, avevi giurato di migliorare la mia opera (cioè la creazione dell’uomo attraverso l’innesto del DNA divino negli ominidi), dammi dunque indietro gli uomini malfermi affinché io provveda a loro”. Ed Enki, ottenuti i malati, costruì una casa in cui veniva prestata a loro la dovuta cura”.

Circe e il Circeo.

A questo punto della narrazione è possibile integrare al racconto sumerico quello greco riguardante l’incontro di Ulisse con la maga Circe. Il racconto omerico potrebbe rappresentare un adattamento poetico, a cura del poeta cieco, di un mito antichissimo trasmesso oralmente per millenni. Infatti, dal racconto sumerico risulta difficile non accostare alla omerica Circe la sumerica Ninmah: entrambe erano manipolatrici del genoma umano ed entrambe insensibili alle sofferenze delle loro cavie. Entrambe, nei miti che le vedono protagoniste, vengono costrette a rivedere il loro comportamento in virtù di una imposizione che deriva da una autorità superiore. Il sospetto che il mito greco possa derivare dalla fonte sumerica o entrambe da una fonte comune ancora più antica, appare dunque sempre più probabile. Omero potrebbe aver utilizzato e rielaborato il racconto sumerico in cui Enki si reca dalla sorella per liberare le cavie per adattarlo all’eroe di Itaca.

La domanda che qui ci si pone è quella che riguarda la collocazione della dimora di Circe/ Ninmah, che nelle tavolette viene definita come un “luogo colto da sfortuna”, appellativo che dice tutto e nulla nello stesso tempo se non fosse che, grazie all’approccio multidisciplinare che guida i nostri studi, a noi pare di poterlo agevolmente individuare là dove la tradizione e la toponomastica lo indicano: il centro Italia, nell’attuale Lazio.

 Il Circeo: laboratorio genetico preistorico(?).

L’appellativo di “luogo colto da sfortuna”, dove la scienziata Ninmah prende dimora, si adatterebbe assai bene ai Campi Flegrei, i quali vengono definiti ancora oggi dai geologi come il luogo più pericoloso e infernale del pianeta, ma in pari tempo esso è un luogo ricco di acque termali che posseggono notevoli proprietà curative e ove sono presenti purissime argille utilizzate per la cosmesi. L’argilla, secondo la Genesi, venne utilizzate da Jahve’ per la creazione dell’uomo. Le argille dei Campi Flegrei, grazie alla loro purezza, vengono utilizzate come prodotti per la cosmesi soprattutto per il “ringiovanimento” della pelle. All’uso delle argille, per gli scopi su detti, si addice il mito secondo cui la Sibilla Cumana avrebbe ottenuto da Zeus una lunga vita, ma non la giovinezza di cui si era dimenticata di fare richiesta. I biologi hanno osservato che nella fangaia di Pozzuoli, a temperature proibitive, riesce a sopravvivere un batterio che gli studiosi credono rappresentare se non la prima forma di vita che si sia manifestata sulla terra, comunque una delle prime e per questo il batterio viene chiamato archeobatterio. I luoghi su citati, se visti da una ottica divina, non distano molto dal Circeo, un promontorio attualmente facente parte della Regione Lazio, in cui la tradizione assegna la dimora della maga, o scienziata che dir si voglia, proveniente, secondo quanto Apollonio Rodio afferma nel suo poema le Argonautiche dalla Colchide. La Colchide è identificabile con l’attuale Georgia presso la costa orientale del Mar Nero, terra ancora oggi popolata da maghi e sciamani. L’area del centro Italia è intrisa ancora oggi di mistero. A Pozzuoli esistono i resti di un tempio dedicato a Iside (il lettore ricorderà che nel mito egiziano, il cadavere smembrato del marito Osiride, era stato “nascosto” – Lazio deriva dal verbo latere, nascondere- da Set nel Mar Mediterraneo) e un altro a Serapide, mentre il basso Lazio è caratterizzato dalla presenza di un numero spropositato di città recintate con mura ciclopiche edificate in tempi primordiali. L’edificazione di cinque città in particolare, denominate saturnie, viene attribuita direttamente al dio Saturno. Nei campi Flegrei, l’antico mito collocava la porta – una delle tante presenti nel pianeta- per la discesa nell’Ade. Non va sottovalutato il significato del rito che bisognava compiere per poter avere accesso nell’Ade. Il rito non poteva prescindere dal versamento del sangue di un animale sgozzato. In epoca romana furono molti i poeti che si occuparono del triste luogo, tra questi Virgilio veniva additato come mago a sua volta e tale era la dimestichezza ch’egli aveva con le potenze infernali che Dante nel suo famoso canto lo sceglierà come guida per il proprio viaggio negli inferi. Nelle vicinanze del Circeo si trova l’isola di Ea, il lettore ricorderà che questo era l’appellativo di Enki; ma proprio sul monte Circeo esistono ancora i resti del tempio dedicato dai Romani a Giove Anxur (An cielo o Avo e zur verso, in direzione di), edificato – o soltanto rinominato e riadattato dai Romani–sopra le rovine di un tempio preesistente di epoca preistorica.

Occorre qui segnalare che nella stessa area, a testimonianza di quanto antica sia la frequentazione umana del luogo, vennero ritrovate negli anni cinquanta del XX secolo, in una delle tante grotte che si trovano nei pressi del Circeo, rimasta sigillata da un crollo avvenuto sessantamila anni fa, numerose ossa di uomini appellati di Neanderthal dal primo ritrovamento di questa specie nella città tedesca. Si tratta di nove individui di diversa età e sesso, la cui datazione include un periodo che va dai quattrocentomila ai settanta mila anni fa. Ma la cosa straordinaria consiste nel fatto che assieme alle ossa di uomini do Neanderthal, nella medesima grotta in cui giacevano, vi erano le ossa di un individuo identificato dagli antropologi come Sapiens. La cosa che ha richiamato la nostra attenzione, è la contemporanea presenza delle ossa di Neanderthaliani e di Sapiens nella grotta, motivo per cui la nostra immaginazione non poteva evitare di spingersi fino a Ninmah/CIRCE, ai suoi esperimenti e alla segregazione delle sue cavie. Bisogna dire che gli studiosi, a nostro avviso, tentando di semplificare, come è loro consuetudine fare quando si trovano in presenza di ciò che non può essere spiegato con metodi scientifici, addebitano la coesistenza delle ossa al trasporto di esse da parte di un animale predatore. L’animale, una jena, a loro dire, avrebbe trasportato i resti degli uomini nella propria tana, ma trattandosi di resti che appartengono a individui separati gli uni dagli altri da enormi distanze temporali, a noi non esperti, tale tesi appare assai improbabile. A questo si aggiunga che gli stessi studiosi che hanno elaborato questo escamotage, si accapigliano intorno alle rispettive conclusioni circa i segni di scalfiture osservati nelle ossa: alcuni li attribuirebbero alla pressione esercitata dai denti della Jena, altri a segni di cannibalismo rituale. Tra contraddizioni di tale natura, la fervida immaginazione del libero ricercatore non ancora contaminato da pregiudizi, non può non intersecare il racconto del mito che spesso si è rivelato il più aderente alla realtà dei fatti.

A tal proposito, avendo tirato in ballo la frequentazione di alcune caverne da parte di un non meglio conosciuto Homo del Paleolitico, crediamo che anche le incisioni nelle pareti della grotta dell’Addaura, in Sicilia, datate a ventimila anni fa, vadano riviste sotto una luce diversa e magari collegate ad una frequentazione dell’intero Mediterraneo che, come il suo nome suggerisce (vedi glossario etimologico) nasconde molti misteri.

Ad majora.

GLOSSARIO

ABZU. Il toponimo risulta formato dall’unione delle preposizioni di derivazione germanica ab, che indica provenienza, da, e zu verso, in direzione di. Presumibilmente il toponimo soleva indicare un luogo sì geografico ma anche di interscambi, che potevano essere di informazioni, culturali, di merci, scientifiche e, perché no, di tipo metafisico dal momento che, utilizzando un lessico religioso, sovente riferito alle anime degli uomini, si può affermare di esse che salgono e scendono. Pertanto, utilizzando una libera traduzione, si potrebbe tradurre il termine abzu con “andirivieni”. Molti elementi forniti dai testi sumerici lasciano sospettare che questo luogo, in cui venivano custoditi i segreti del dio Enki e in cui il dio aveva costruito la propria dimora, si trovasse nel Mar Mediterraneo. La letteratura antica fornisce una serie di indizi che porterebbero in Sicilia, quale sede più accreditata, per individuare la dimora di Enki, che, naturalmente, nell’isola sarebbe stata conosciuta attraverso epiteti diversi da quello sumerico. Tra i luoghi della Sicilia che avrebbero potuto ospitare il palazzo di Enki, appellato come quello sumerico Eridu, ovvero il luogo in cui si presta il giuramento al signore (Er signore, eid giuramento, promessa), la zona etnea sarebbe quella candidata, se non altro, per il continuo riferimento alla montagna sacra ( l’Etna?), in cui gli dèi che intendevano interloquire con Enki dovevano recarsi. Inoltre, le pietre minerali occorse per la costruzioni di ambienti particolari dell’ Eridu, azurite e corniola, si trovano nei territori vulcanici. Non è superfluo qui far notare al lettore per le relazioni che intercorrevano tra la Sicilia e l’Egitto, che nella terra dei faraoni, la corniola era ritenuta probabilmente l’emblema della vita oltre la morte; infatti gli antichi egizi usavano inserirla nelle tombe con lo scopo principale di accompagnare i defunti nell’aldilà e per propiziare e celebrare la nuova vita.

Per ciò che concerne il palazzo di Enki, si prenda in considerazione il fatto che, in Sicilia, il santuario dedicato all’antenato, all’avo sicano, che porta il nome del padre di Enki, Ano, si trovava presso l’Etna, nella città di Adrano (il termine Ano veniva utilizzato ora come nome, ora come appellativo). Infatti, nella IV tavoletta dell’Enuma elish, viene detto che Marduk ricevette da suo padre Anu (Enki) alcune delle potenze a lui necessarie per sconfiggere Tiamat. La tradizione letteraria, poi, vuole che l’Etna fosse considerata la fucina degli dèi ove i Ciclopi svolgevano le mansioni di aiuto fabbri a quel dio che in età greca venne denominato Efesto. Nel poema lo Scudo di Eracle, composto da Esiodo nell’ottavo sec. a.C., emerge chiaramente che in quel lontano secolo, in Grecia e in Sicilia, si possedevano insospettabili conoscenze scientifiche. Efesto, secondo il racconto del poeta di Ascra, sarebbe stato in grado di costruire due ancelle di metallo (robot?) del tutto simili agli umani, tanto da non essere distinguibili da questi. Enki, nel racconto sumerico intitolato Il Viaggio di Inanna agli Inferi, fa la stessa cosa. Nella letteratura greca antica, sono citate numerose invenzioni di Efesto che, se lette alla luce delle recenti scoperte archeologiche, potrebbero far

prospetto della Chiesa Madre. Una antica tradizione orale vorrebbe che le colonne interne siano quelle dell’ antico tempio di Adrano.

 

 rivedere ai moderni il concetto di preistoria che ci si era fatto. La città siciliana di Adrano, edificata in illo tempore su una balza lavica perfettamente piatta, alle falde dell’Etna, sede, come si è sopra affermato, del grandioso tempio della divinità sicana, di cui fanno menzione Plutarco, Ninfodoro, Eliano ed altri, era cinta da mura ciclopiche, di cui sono ancora visibili possenti resti, realizzate con enormi pietre squadrate ricavate dal duro basalto. La città , nella sua vicina periferia, è ancora oggi ricca di canneti ed acque di falda che affiorano in

cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
cascate presso il tempio di Marte. Adrano, primi anni del ‘900
fiume Simeto nei pressi del tempio di Marte ad Adrano.

superficie oltre che di fragorose cascate ancora presenti agli inizi del secolo scorso. Uno degli appellativi di Enki, è bene ricordarlo, era Ea, cioè acqua; sarà forse una coincidenza che l’etimo Adrano, il nome del dio sicano, scomposto nei lemmi A-dr-Ano si riferisca al furore delle acque (?). Queste, non solo scorrevano – in parte lo fanno ancora oggi- copiose in ogni luogo della città, ma riversandosi dall’alta rocca lavica, fino a raggiungere il sottostante fiume Simeto, formavano “furiose” quanto fragorose cascate e i fiumi così alimentati, pullulavano di vita.

Per quanto concerne recenti studi condotti sulle qualità dell’acqua, le modificazioni chimico fisiche in cui andrebbe incontro se stimolata, studi condotti da scienziati che aderiscono al progetto Tesla, hanno potuto verificare che l’acqua ha capacità di immagazzinare la memoria fornita da impulsi elettromagnetici. Questi ultimi verrebbero ceduti alle piante che verrebbero così liberate da parassiti fornendo produzioni superiori anche del 300%. In uno dei testi sumerici si apprende che Enki era riuscito a soddisfare le esigenze alimentari dell’umanità in aumento demografico esponenziale, intervenendo e ottimizzando la produzione agricola.

Per quanto concerne la carica elettrica e la memoria dell’acqua di cui tratta il podereso studio del professor Roberto Germano, rinviamo all’autore chi volesse approfondire l’argomento. A noi qui, basta acquisire la consapevolezza che l’epiteto Ea acqua, apposto all’Avo scienziato, venga messo in relazione all’elemento indispensabile alle sue sperimentazioni e che pertanto la scelta, nel costruire il proprio laboratorio, in parte all’aperto onde poter osservare direttamente e per via naturale lo studio degli elementi naturali, appaia al lettore come una semplice ovvietà.

L’ipotesi di una città presso l’Etna, abitata dal dio Enki o/e dal figlio Thot che segui e continuò le ricerche del padre, verrebbe corroborata dal ritrovamento in una grotta di scorrimento lavico nella periferia dell’antica città, di pitture e incisioni su vasellame del VII e IV millennio a. C., che alla luce di nuove e inedite interpretazioni, potrebbero essere spiegate come motivi simbolici, riferendosi appunto a conoscenze scientifiche di cui si è affermato sopra. L’occhio in questione poi, inciso in un frammento di ceramica, datato dagli studiosi al VII mill. a.C., potrebbe riferirsi al concetto di onniscenza, ed essere considerato un prototipo siciliano dell’occhio riproposto successivamente in Egitto, attributo sia del dio Ra che del di lui fratello Toth. Tra l’altro, proprio il nome sicano di Toth, Teuto, si ritrova ad Adrano inciso su una stele del V sec. a. C., e ancora in una citazione di Polieno con riferimento al principe sicano che nel VI sec. a.C. governava la città di Innessa rinominata in Adrano nel 400 a.C. Il caso vuole che la città di Adrano sorga nei pressi della confluenza tra i fiume Simeto e il fiume Salso. Questa casualità induce inevitabilmente a fare un parallelismo tra la città di Eridu edificata a Sumer, sede di Enki , anch’essa edificata fra due fiumi: il Tigri e L’eufrate e l’ipotizzata omonima dimora siciliana di Enki tra i fiumi Salso e Simeto. È infatti sconcertante notare come oltre ai teonimi Ano, Bal da cui deriva il toponimo Belice, Ur (Urio è il nome di una divinità siciliana attestata da Cicerone nelle verrine) anche l’antroponimia trova dei punti di contatto tra la Sicilia e la Mesopotamia. Si fa qui veloce riferimento alle ricerche di studiosi che hanno ipotizzato l’affinità tra Etna, probabile nome della figlia di Teuto, principe sicano di Innessa (futura Adrano), ed Etana, re della città mesopotamica di Kish. È ancora la toponomastica siciliana a ripetersi con inusitata frequenza in area mesopotamica: Ebla, Acate (Agate), Assoro (Assur), Enna (Eanna), Erbita (quello di Eribbiti era l’appellativo della casta sacerdotale babilonese), Eloro, antico insediamento presso Siracusa (Aloro era il nome del primo re mitico della Mesopotamia) al punto da immaginare un integro cordone ombelicale che univa l’Oriente all’Occidente ancora fino al IV sec. quando cioè in Sicilia il culto professano nei confronti della dea Iside, contendeva il primato a quello della cristiana Maria. Ipotizziamo ancora, che il mito sicano degli dèi Palici, figli di Adrano, cantati da Virgilio nel IX libro dell’Eneide e da Eschilo nelle Etnee, sia la versione sicana del rapporto dicotomico intercorso tra i fratelli sumeri Enlill ed Enki. Sarà ancora un caso che la sede più influente del culto di questi fratelli si trovasse nelle campagne della città di Adrano presso il santuario del padre, proprio sul fiume Simeto e presso le acque – l’elemento naturale di Ea/Enki- sacre dette delle Favare denominate acqua chiara e acqua scura ad accentuare il rapporto antitetico tra i fratelli, ancora più evidente nel mito sumerico. Ora, si dà il caso che, come viene affermato nelle tavolette mesopotamiche, sia la sede sumerica di Enki, Eridu, che quella nell’Abzu (nel Mediterraneo?) custodissero: la prima i famelici “me”, oggetti o entità non identificabili capaci di attribuire un enorme potere al possessore, la seconda grandi poteri nascosti. Da ciò si deduce che questi poteri erano rappresentati da qualcosa che poteva essere facilmente trasportabile da una sede all’altra; la conoscenza.

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