Veio: il paradiso perduto degli Ari

Il canone.

È opinione universalmente condivisa che tra i numerosi popoli stanziali nell’Italia centrale, quello degli Etruschi sia stato il più versato nell’arte della divinazione.

Le remore.

Ebbene, pur volendo sorvolare sul fatto che Romolo, da qualunque tribù provenisse tra quelle insediatesi nel Lazio, si presenti agli occhi di Plutarco (vita di Romolo) e T. Livio (Ab Urbe condita) come un Druida a cui è sacro l’albero della quercia (Livio 1,10), che divide il cielo in quattro parti col suo lituo, che interpreta egli stesso gli auspici, che traccia il solco o cerchio magico per impedire alle potenze negative di penetrare all’interno, appare infondata l’opinione ricordata nell’introduzione se consideriamo le scelte del re Tarquinio Prisco, le quali smentiscono la fama degli Etruschi in quel campo. Il quarto re della cosmopolita Urbe affida il ruolo di aruspice, carica paragonabile a quella del papa per il mondo cristiano, non a un Etrusco, bensì a un Sabino. L’aruspice sabino Attio o Atto Navo, come riferisce T. Livio nella sua Ab Urbe condita, viene messo alle strette dal re etrusco affinché dia prova della sua abilità. Attio riesce nell’impossibile impresa di tagliare un sasso col rasoio. L’impresa di Attio o Atto, condotta a buon fine, fa sensibilmente lievitare il prestigio dell’intera casta sacerdotale degli aruspici a cui il Nostro appartiene, al punto che da quel momento innanzi, è sempre lo storico latino a riportarlo, non verrà intrapresa guerra o altra operazione importante per lo Stato, senza aver prima consultato gli auguri e gli aruspici. Il gesto eclatante, pone, a nostro avviso, Atto al limite tra il ruolo svolto dallo sciamano, dall’aruspice e dal sacerdote; è altresì verosimile che in un tempo più antico tali confini non esistessero affatto per l’operatore del sacro. È plausibile che Attio, o Atto, sia stato semplicemente l’esponente di spicco di una categoria di specialisti del sacro. Questi specialisti, in tempi anteriori rispetto a quelli in cui si trova ad essere protagonista il Nostro, cioè il VI sec. a.C, se abbiamo ben tradotto l’appellativo, venivano detti Sabini. Se abbiamo visto giusto, infatti, l’attributo apposto a questa categoria di operatori del sacro, che per estensione venne successivamente allargato all’intero popolo cui appartenevano e che Livio dice essere stato secondo per potenza delle armi e numero di gente soltanto a quello etrusco, significa coloro che traggono da dentro (le viscere?) le loro conoscenze. L’appellativo Sabino risulta composto dall’unione dei lessemi sa, che dal germanico sehen significa visto, ma nella accezione di conoscere, sapere, dalla preposizione ab, da, che indica provenienza da un luogo, sottrazione, e inna con il significato di dentro, interiore. Anche il nome dell’aruspice, Atto, ha una derivazione germanica. Akt significa azione, atto spesso afferente all’ambito del sacro con il significato di sacrificio. Zarathustra, il riformatore dell’antica religione persiana, nell’Avesta fa il nome di un mago, un certo Akt, suo acerrimo e temuto rivale.

I testi sacri dell’antichità.

Nell’Avesta, il testo sacro degli antichi Persiani, si può agevolmente scorgere una moltitudine di lessemi riconducibili alla lingua germanica, lingua di cui, è bene ricordarlo, si servi lo studioso ceco Hronzny per tradurre le tavolette ittite.
La presenza di lessemi germanici nell’Avesta non deve stupire, dal momento che lo storico greco Erodoto nella compilazione della sua Storia, sosteneva che fra le tribù stanziate in Persia e sottomesse da Ciro, vi era quella dei Germani. Il termine mago, utilizzato per designare una categoria di persone “speciali” presenti in Persia, deriva tra l’altro dal tedesco Mögen potere, compenetrare, attrarre. Il verbo, utilizzato nei confronti di una persona significa desiderarla, volerla fondere a sé, possederla, voler divenire un tutt’uno con essa. Ora, la regione per eccellenza che ospitava questa genia di individui che si diceva espertissima anche in astronomia, era la Persia.
A testimonianza che la casta sacerdotale degli antichi popoli germanici avesse dimestichezza con il cielo e gli astri, forse non è un caso che nella cittadina tedesca di Nebra sia stato ritrovato un disco di bronzo fatto risalire alla media età del bronzo, su cui, sono riprodotti con l’oro e incastonati, il sole, la luna e la costellazione delle Pleiadi. L’analisi della lega con cui era stato realizzato il disco di bronzo, eseguita da specialisti che si sono avvalsi di tecniche moderne, porta alle miniere della Scozia. Il nome dell’antica Scozia era Alba, come quello dato alla città laziale Alba Longa (vedi voce). La Scozia era anche la terra in cui Cesare poté osservare la presenza di quei curiosi quanto potenti sacerdoti chiamati druidi, i cui tratti ci sembrano caratterizzare i comportamenti del primo re di Roma il cui nome o appellativo, come si evince da quanto affermato da T. Livio, era, oltre a quello di Romolo, Ramnes. Come esposto in precedenti articoli, nell’Avesta, il nome con cui gli Ariani designavano la terra di provenienza, era VAEJO. Il toponimo airayanem-vaejo è stato tradotto con il paradiso degli Ariani. Noi, pur cambiando di poco la traduzione che porta comunque al medesimo significato, vorremmo tuttavia fornire la nostra traduzione, spiegando la modalità di cui ci siamo avvalsi per giungere al risultato. Il lemma risulterebbe composto dall’unione dei lessemi Ve sacro e jah veloce, repentino. L’aggettivo jah è dunque funzionale a descrivere la modalità con cui il sacro si manifesta agli uomini. Il nome Jah+Ve, con cui i Giudei esprimono la presenza del sacro, si presta alla medesima interpretazione semantica, trattandosi di una semplice inversione dei lessemi Ve e jah. L’affinità linguistica che intercorre tra il teonimo giudeo e il toponimo ariano, va spiegata e giustificata alla luce di una presenza ittita che sarebbe passata sia in Persia che a Gerusalemme. Infatti, nel testo sacro degli Israeliti si legge che Uria, l’ittita, era uno degli eroi che assieme a Davide avevano contribuito a conquistare la città filistea di Gebush successivamente rinominata Gerusalemme. Come affermato precedentemente, gli Ittiti parlavano una lingua protogermanica tradotta da Hronzny con l’ausilio dell’antico alto tedesco. L’Anatolia rappresentava il primo luogo di insediamento in medioriente per i popoli del nord Europa che, a piedi e con l’ausilio di carri trainati da buoi, che gli valse l’appellativo di mandriani o siculi, passando per il Caucaso o con canoe attraverso il Danubio, giungevano nel Mar Nero.

Conclusione.

Tornando circolarmente al tema inizialmente proposto, da quello che fin qui è stato affermato, emerge che, se è vero che nel toponimo Vejo, la città più importante degli Etruschi e forse la loro prima fondazione nell’Italia centrale, e nel nome Atto si nascondono origini linguistiche e culturali nord europee, sarebbe lecito dedurre che le affinità tra i popoli che abitavano il centro Italia, Rutuli, Sabini, Sicani (Sequani?), Equi (Edui?), Latini, Boi, Etruschi, etc. siano state preponderanti rispetto alle differenze, anzi potremmo spingerci ad affermare che ci si trovi di fronte ad un unico popolo composto da tribù che venivano rispettivamente appellate i Rossi, i Veggenti, gli Eredi dell’Avo, i Cavalieri etc. Questo popolo, abbandonato il rigido clima artico ove le condizioni di vita erano diventate impossibili a causa del mutato clima, giunto nelle amene terre dell’Italia centrale, definì Vejo, cioè paradiso, la nuova località in memoria della patria abbandonata, quando essa, prima che il dio della distruzione Angra Mainyu la congelasse, era un paradiso. Giunti nell’Italia centrale, chiamarono età dell’oro la nuova era che per loro iniziava, l’era di Saturno ovvero sat che nella lingua germanica significa sazio, pieno, soddisfatto, abbondante e Ur antico, primordiale a ricordo del periodo trascorso nell’antica patria. È probabile che il popolo degli Etruschi, sul finire dell’età del bronzo, in seguito a interazioni avvenute con popoli orientali (secondo una tradizione tramandata per via orale, il fondatore di Troia, Dardano, proveniva dalla Tirrenia), si fosse gradualmente allontanato dalla tradizione indoeuropea assumendo nel VII sec. a.C., epoca a cui si riferiscono i ritrovamenti archeologici etruschi più antichi, tratti culturali irriconoscibili rispetto a quelli maturati nell’antica patria. La società etrusca aveva abbandonato il patriarcato dei popoli indoeuropei per assumere quello del matriarcato rinvenibile nell’età dei Tarquini, i quali devono a Tanaquilla, la nobildonna di Vetulonia sposa del futuro re, la loro ascesa politica e sociale. La trasformazione sociale e culturale per la quale si passa dal patriarcato dei popoli del centro Italia al matriarcato della cultura orientale, è già rinvenibile nell’Eneide. L’autore del poema, di origini galliche, infatti non riesce a nascondere questo passaggio e le antipatie per l’eroe troiano nonostante che il racconto gli fosse stato commissionato per celebrare l’arrivo degli esuli troiani nel Lazio. Durante lo scontro in armi tra Turno ed Enea, il Mantovano lasciandosi andare definisce femmineo l’eroe levantino, mal celando le proibite e inconfessabili sue simpatie per il rutulo principe Turno.

Ad maiora.

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