Vasche Rupestri: Rito o Scienza?

Valle delle Muse, Adrano. Ara degli Dei Palici

La presenza in Sicilia di un elevato numero di vasche scavate nella roccia calcarea, in luoghi difficilmente accessibili, ha incuriosito da sempre gli studiosi. La domanda per quale uso fossero state realizzate, nacque spontanea. Se alcune di esse furono riadattate a palmenti rupestri in un momento di recessione economica dell’isola subito dopo la Grande Guerra, non toglie nulla alla domanda posta dagli studiosi che rimane ancora senza risposta. Noi, come di abitudine, desideriamo condividere con gli affezionati lettori dall’ampia prospettiva, studi, ricerche e intuizioni maturate attraverso l’osservazione del vasto fenomeno rupestre.

Il Rito.

Se dovessimo scegliere di sostenere l’ipotesi che maggiormente viene condivisa dagli studiosi, la realizzazione delle vasche dovrebbe avere avuto come fine lo svolgimento di riti ancestrali. In questo caso non dovrebbe passare inosservato il contenuto di un passo dei Veda, il testo sacro degli Indiani, in cui, inneggiando alla madre terra, si fa riferimento ai sacrifici di vario genere. In uno degli inni – AV, XII,I- viene detto: “Su di lei (la terra) sono eretti la piattaforma e i ripari per l’oblazione; su di lei è innalzato il palo sacrificale”.
Alla luce di quanto affermato nel citato inno vedico, per comparazione, dovremmo spingerci ad ipotizzare che i buchi osservati nella roccia, in numero di tre, ai margini delle vasche rupestri, numerosissime nella Sicilia orientale, di cui siamo venuti a conoscenza diretta, potrebbero essere serviti per introdurvi il palo a cui legare la vittima sacrificale. In questo caso, dunque, l’utilizzo delle vasche, profonde circa trenta centimetri, delle quali la seconda ha un dislivello di una cinquantina di centimetri rispetto alla prima e comunicanti tramite un foro, avrebbero dovuto avere il ruolo di altari, di are sacrificali.
Tradizionalmente, proprio con il nome di Ara degli dèi Palici, viene indicata, presso la città di Adrano, la roccia che

Valle delle Muse, Adrano. Ara degli Dei Palici

la natura ha posto sul letto del fiume Simeto, in cui sono state ricavate due vasche. Una domanda che ci si pone, nel caso in cui si volesse costruire una ipotesi alternativa a quella di ruolo di ara delle vasche, è quella se queste, generalmente sempre in numero di due e sempre orientate verso il polo magnetico, raramente in numero di tre o di una, avessero lo scopo di contenere acqua?

Particolari delle due vasche

Ebbene, nel caso in cui volessimo dare una risposta affermativa alla legittima domanda, per avere delucidazioni sul tipo di acque utilizzate, dovremmo ricorrere alle informazioni fornite dallo storico Erodoto e al geografo Strabone. Quest’ultimo, nel suo trattato, Geografia, nel libro III,1,4, descrivendo una località presso Gibilterra, in Spagna, una sorta di Stonehenge iberico, fra le righe di quanto afferma, ci aiuta a comprendere che non tutte le acque potevano andar bene per il rito che si voleva svolgere.
Ciò ci porta a comprendere, sulla scorta di quanto sarà detto più avanti, il motivo della presenza di un modesto canale profondo qualche centimetro, scavato nella roccia in cui venivano ricavate le due vasche, a monte e ai margini della vasca superiore. La presenza di un canale scavato attorno ad un altare è attestata nell’Antico Testamento in Re 18, ove si apprende che è il profeta Elia a realizzarlo. Seppure nel testo biblico non emerge lo scopo per cui il canale viene realizzato, nel caso delle vasche siciliane, il suo scopo appare invece chiaro, come si evidenziera’ più giù. Ma torniamo a Strabone. Il geografo afferma che, chi desiderava visitare il luogo da lui descritto nel suo trattato o andarvi per compiere sacrifici, mancando in quel luogo l’acqua, doveva portarla con sé. Questo passo, letto da chi è privo di una predisposizione all’indagine, potrebbe far credere che la necessità di portare l’acqua con sé derivasse dalla desertificazione del luogo. Ma, avendo verificato in diverse occasioni quanto il geografo fosse insensibile e disattento ai fenomeni che esulavano dai propri interessi di geografo, e, mettendo insieme il passo di Strabone con quello di Erodoto – Storia, I,188-, si comprende che le cose non erano poste in questi termini.

Conoscenze scientifiche dei magi della Persia.

Erodoto, vissuto nel V sec. a.C., nel suo trattato, in riferimento al re persiano Ciro, afferma che il Gran Re, durante le lunghe campagne belliche, era solito portare con sé e per proprio uso, su moltissimi carri tirati da muli, contenuta in vasi d’argento, l’acqua del fiume Coaspe bollita. Ritenendo impossibile che il Gran Re potesse bere quelle enormi quantità d’acqua e ritenendo un inutile spreco ed ingombro che essa fosse contenuta in vasi d’argento piuttosto che in otri di pelle; soffermandosi sui particolari che indica Erodoto riguardo al tipo di metallo dei vasi in cui era contenuta l’acqua, appunto l’argento, e che questa fosse preventivamente o successivamente bollita, induce piuttosto a pensare che quell’acqua fosse funzionale ad esercitare pratiche che stavano al confine tra l’esercizio del sacro e quello della chimica. Infatti, è noto che i Magi persiani, sempre al seguito del Gran Re, erano esperti in molte discipline, tra queste anche quella dell’astronomia. Non si può escludere, dunque, che i Nostri avessero nozioni anche di chimica e di fisica.
L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà, infatti, dell’ipotesi avanzata in articoli precedenti, sulla funzione dei numerosi menhir presenti nell’isola, per formulare la quale ci siamo avvalsi degli approfonditi studi di archeoacustica del prof. Debertolis. Il noto fisico, oltre che insegnare discipline scientifiche nella Università di Trieste, guida una prestigiosa equipe di scienziati con la quale ha raccolto dati in moltissimi templi preistorici sparsi per il mondo, mettendo in evidenza che in quei templi venivano applicate insospettate conoscenze di acustica. Lo studioso, a conclusione delle sue osservazioni scientifiche, si convinse che i costruttori dei templi avevano utilizzato le vibrazioni e le onde elettromagnetiche sprigionate dal sottosuolo per ottenere determinati effetti sulla corteccia cerebrale dei frequentatori dei templi. Ebbene, per comprendere il possibile utilizzo delle nostre vasche, abbiamo invece scomodato Ohm e le sue leggi sull’elettricita’, che però risparmiamo di esporre ai nostri lettori.
Tornando ai magi al seguito di Ciro e all’utilizzo dell’argento nell’ambito delle reazioni chimiche in generale, va notato che la medicina moderna è oggi in grado di utilizzare il proteinato d’argento per trattare la gonorrea. A motivo della sua proprietà battericida viene inoltre utilizzato principalmente come antisettico lo ione di argento, Ag+. Ma non è tutto! Siamo a conoscenza che gli scienziati, da oltre quarant’anni, utilizzano lo ioduro d’argento, sparso nelle nubi con aerei Antonov An-26 per provocare la caduta sulla terra della pioggia.
Chi potrebbe dunque, affermare con assoluta certezza, che i Magi al seguito di Ciro, non conoscessero gli effetti chimici dell’argento e di altri composti? È dunque possibile che l’acqua trasportata in grande quantità in vasi d’argento, lo fosse non per motivi di sterile pomposita’, ma affinché essa assumesse migliore conducibilità elettrica. A questo punto dell’indagine non appare infondato il sospetto che il canale scavato lungo il margine delle vasche rupestri siciliane, avesse lo scopo di impedire all’acqua contenuta dentro le vasche rupestri, trattata con una soluzione a base di sali minerali, di venire diluita dall’eventuale pioggia che, scorrendo lungo la parete rocciosa che si trovava a monte delle vasche, precipitasse al loro interno. Infatti, si sa che l’acqua piovana, priva di sali minerali, è un pessimo conduttore di elettricità.
Che gli antichi avessero nozioni di chimica applicata, è deducibile dalla consultazione delle antiche fonti letterarie. Grazie allo storico greco Polibio, per esempio, si sa che i Cartaginesi, durante il passaggio delle Alpi erano in grado di liberare la via ostruita da rocce calcaree, sfaldandole. Ottenevano questo effetto riscaldando con il fuoco la roccia per poi gettare sopra del semplice aceto.

Vasche comunicanti rupestri. La chimica nella preistoria.

L’elettrolisi dell’acqua è un processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell’acqua in ossigeno ed idrogeno gassoso.

Vasche di Castiglione di Sicilia, valle dell’ Orgale.

La corrente esce dall’alimentatore (un menhir nelle vicinanze o la stessa roccia su cui è ricavata la vasca rupestre? ) e riesce a fluire nei due cilindri (vasche?) grazie alla soluzione elettrolitica. Ci chiediamo: nel caso delle vasche rupestri, ammesso che sia credibile l’ipotesi dell’utilizzo chimico o elettromagnetico delle stesse, quale potrebbe essere stato il fine della loro realizzazione? Gli studiosi delle sacre scritture, analizzando le vasche rupestri siciliane, potrebbero trovare analogie con l’impiego che fa Elia dell’altare di cui si è detto e meglio esporremo oltre? Non lo sapremo mai con certezza.

Vasche di Castiglione di Sicilia, valle dell’ Orgale.

Ma siamo convinti, e gli esempi che porteremo saranno loquaci, che gli antichi conoscevano le reazioni chimiche provocate dagli elementi, se opportunamente combinati. Apprendendo dall’Antico Testamento che il profeta Elia riuscì ad accendere un fuoco, gettando sopra a della legna posta su un altare eretto con “pietre” (biossido di manganese?), una certa quantità di “acqua” – I Re, 18-33-, come non concepire la possibilità che il fenomeno dell’accensione del fuoco causata dallo “scienziato” Elia, non potesse essere stata causata da una soluzione chimica a base di biossido di manganese? Ed ancora, ci chiediamo: la pioggia provocata da Elia, come descritto nell’A. T., aveva a che fare con lo ioduro d’argento che i nostri scienziati utilizzano per raggiungere lo stesso scopo ancora dopo tre millenni? Era forse riuscito Elia dove i nostri scienziati hanno fallito?
Tralasciando di soffermarci sui geroglifici di Dendera su cui i pareri degli studiosi sono controversi, i quali sembra che riproducono lampade e rispettivi alimentatori, non possiamo omettere di segnalare ai nostri lettori l’esistenza della pila di Bagdad sul cui utilizzo gli studiosi sono invece concordi. Questa pila, stando agli esperti che l’hanno esaminata, venne realizzata con metodi rudimentali nei primi secoli della nostra era, utilizzando un grezzo contenitore di argilla cotta, rame e ferro e funzionava per elettrolisi. Continuando con gli esempi afferenti alla tesi che gli antichi potessero essere in possesso di conoscenze nel campo della chimica, citiamo ancora la colonna di Indra. Questa colonna realizzata in ferro si trova in India, a Delhi, è antica di mille e seicento anni ed è stata ottenuta da un tipo di ferro che non arrugginisce. Ed ancora, non si trova risposta alla domanda su come sia stato ottenuto il misterioso dicroismo della coppa di vetro di Licurgo. Di epoca romana, questa coppa di vetro è stata ottenuta fondendo microparticelle di oro e argento così piccole da essere visibili soltanto al microscopio. Nel curioso indagatore, osservando i mezzi rudimentali di cui l’autore dei manufatti si è servito per ottenere intricati procedimenti fisici, come per esempio la pila di Bagdad di cui si è detto o le vasche rupestri di cui ci stiamo occupando, concesso che allo scopo rituale di queste vi si possa aggiungere anche quello chimico o elettromagnetico, si fa strada la banale riflessione: forse che ad ottenere simili manufatti siano stati una minoranza di individui, portatori di conoscenze di cui si sono serviti in condizioni di precarietà? magari utilizzando mezzi di fortuna di cui disponevano in un territorio a loro sconosciuto.
Concludiamo la nostra digressione sulle vasche rupestri senza aver trovato una soluzione riguardo al loro certo utilizzo. Ci auguriamo, tuttavia, di essere riusciti a stimolare chi, per autorevolezza e competenza, potrà cimentarsi allo studio del fenomeno, fornendo le risposte a noi precluse.

Ad maiora.

Si ringrazia il presidente di Siciliantica di Castiglione, Salvatore Verduci, per averci fatto da guida tra le sacre vie dell’Orgale e il sindaco di Roccella Giuseppe Sparta’ per l’impegno profuso in seguito alla scoperta della “collina della fertilità”.

Tuistone: il Dio della risonanza magnetica

Il megalitismo in Sicilia.

“(…) In antichi carmi,
la sola forma di tradizione
storica che essi (i Germani)
abbiano, celebrano il
dio Tuistone, nato dalla terra”.

Tacito, La Germania, lib. I, 2.

Il fenomeno del megalitismo attraversa tutte le coordinate geografiche del mondo. Da oriente a occidente, da nord a sud con una maggiore densità in Europa, si osserva la presenza di enormi pietre, inequivocabilmente considerate opera dell’uomo, di cui non se ne comprende l’utilizzo. Come far passare, dunque, sotto silenzio la presenza dei tremila menhir (monolite conficcato nel terreno) allineati l’uno accanto all’altro, nella città francese di Carnac, che impressionano l’incredulo osservatore? i cromlech che si osservano in Inghilterra, in Portogallo, e i numerosi dolmen e menhir, dell’Irlanda e della Sicilia?
Tacito, lo storico romano del I secolo, osservando e commentando i costumi e la religione dei popoli germanici sottomessi dal suocero, Publio Agricola, cita il nome di una divinità germanica che, ad oggi, non è stata compresa né si è riusciti a compararla con divinità del pantheon greco o latino. Si tratta di Tuistone, il dio nato dalla terra. Tacito nel riportare il nome della divinità, nel suo trattato redatto in lingua latina, lo trascrive certamente secondo la fonetica che egli ode dai parlanti germanici. Pertanto, il nome della “divinità”, che risultava formato dai lessemi two e stone, due e pietra, viene trascritto dallo storico latino con un’unica parola, in base alla pronuncia germanica o britannica, Tuistone. Non sarebbe peregrina l’ipotesi che lo storico romano potesse aver raccolto le superficiali informazioni su questa divinità, dal suocero, Publio Agricola, che aveva sottomesso gran parte dell’Inghilterra fino all’altopiano della Scozia, dal momento che egli stesso, in un passo del suo trattato riferisce: “Spesso gli sentivo dire che con una sola legione si potrebbe mantenere l’Ibernia (Irlanda)”. Nella lingua inglese two, che si pronuncia tu, significa due. Sebbene Tacito non si soffermi nella descrizione del culto professato nei confronti di questa divinità, né tanto meno descriva la struttura architettonica del tempio, noi possiamo arrivare a dare all’una e all’altro una connotazione il più verosimile possibile grazie al resoconto dello storico greco Erodoto – Storia, lib. II,155/6-. Erodoto, dopo aver visitato e descritto l’Egitto e i suoi mirabili monumenti, le piramidi in particolare, affermava che fra tutti i templi, quello che lo aveva particolarmente affascinato e stupito, era il tempio dedicato a Latona (la madre mortale del dio Apollo). “C’è in questo tempio consacrato a Latona un tempio costruito con una sola pietra” affermava lo storico, “Come copertura del tempio c’è posta sopra un’altra pietra” continuava. La pietra che fungeva da tetto o cappello, stando alle misure fornite da Erodoto, era circa un terzo di quella sottostante. Poi, descrivendo il tempio di Apollo edificato in una isola artificiale, lo storico sembra riferirsi a quelli che potrebbero essere stati dei dolmen. Infatti Erodoto afferma: “In essa (l’isola) sorge un tempio di Apollo e tre specie di altari”. Erodoto, a nostro avviso, stava descrivendo il tempio e il culto che Tacito in Germania, cinque secoli più tardi, avrebbe identificato con quello dedicato a Two Stone o Tuistone, le due pietre. La constatazione della presenza di un culto dedicato al dio Apollo in Egitto, divinità occidentale di origine iperborea, (I Romani identificavano la terra Iperborea con l’Irlanda che chiamavano Ibernia), è compatibile con l’affermazione di Diodoro Siculo, lo storico di Agira, il quale sosteneva che i Cimbri, popolo germanico, nei tempi antichi, avevano reso tributaria tutta l’Asia. Noi siamo dell’avviso che quei Germani non si erano limitati a “riscuotere le tasse” in Asia, ma si spingessero a plasmare il Medioriente e l’Oriente della propria weltanshauung ispirando la stesura di testi quali furono i Veda e l’Avesta, testi in cui, tra le righe, è possibile leggere l’epopea di un popolo nostalgico della patria, Vaejo, abbandonata in seguito a cataclismi climatici.
L’Europa, si può dire, rappresenta la patria del megalitismo per numero e spettacolarità delle strutture di pietre, complesse nel caso di Stonehenge, semplici nel caso dei menhir. La quantità di monoliti, triliti o dolmen e cromlech presenti nel vecchio mondo, non hanno pari in altri luoghi della terra. Strabone ne descriveva un gran numero presso lo stretto di Gibilterra. Il geografo romano, vissuto nel I sec.a.C., andando alla ricerca del tempio o colonne, dedicato ad Ercole, nel suo trattato, Geografia, nel libro III, 1,4, afferma che in quel luogo era constatabile soltanto la presenza di pietre disposte a tre o quattro. Il nostro dio Tuistone o megalite di due pietre, two stone, ad

Two Stone di Roccella Valdemone

oggi non è oggetto di nessuna particolare attenzione di studio rispetto alle altre tipologie di megaliti. Ciò sarà dovuto alla sua equivoca caratteristica di roccia naturale in cui, l’opera umana non è particolarmente evidente, apparendo come opera modellata dalla natura, risultato dell’erosione dovuta alle intemperie. Alla luce della visione più laica della storia arcaica, tesa a rivalutare le conoscenze dei nostri prischi antenati, grazie alle nuove tecnologie di indagine, alle discipline scientifiche come lo studio della religione comparata, a noi, che facciamo uso dell’intuizione, i megaliti formati da due pietre sovrapposte, two stone, appaiono sempre meno opera della natura e più frutto della conoscenza dell’uomo, e, dunque, degni di indagini più approfondite.

Two Stone: Il megalite catalizzatore.

Non potremo comprendere la funzione di queste grandiose strutture di pietra senza il notevole contributo fornito da una giovane scienza qual è l’archeoacustica. Il “sacerdote”, che più e meglio, a nostro parere, la rappresenta, è il prof. Paolo Debertolis docente all’università di Trieste, al quale rimandiamo chi volesse approfondire le proprie conoscenze sulla fisica, a noi basti, in questa sede, riassumere per sommi capi, quanto da lui osservato e rilevato con l’ausilio di una strumentazione tecnologica di ultima generazione e una equipe di lavoro di fisici i cui nomi, per le loro eccezionali competenze, fanno tremare le vene ai polsi. Agli studi ed ai risultati del sommo professore, vorremmo noi, con l’umiltà dell’ allievo che si accosta al dotto, integrare intuizioni che sono invece le nostre, e per l’azzardo delle quali chiediamo venia ai nostri lettori.
Secondo lo studioso, i templi preistorici, senza eccezione alcuna, venivano edificati dagli Avi nostri, con cognizione di causa, in luoghi ove vi era emissione di vibrazioni provenienti dal sottosuolo. Le vibrazioni provocate da fenomeni aventi la loro origine nel sottosuolo, si sarebbero trasmesse al tempio, cioè, nel nostro caso, alle due pietre che lo costituivano. A loro volta le risonanze acustiche trasmesse alla roccia, misurate in hz, avrebbero interagito, influenzando la corteccia cerebrale di chi si trovava sul luogo, stimolandola e provocando in essa una maggior attività creativa. Il nostro dio Tuistone, stando alle poche nozioni apprese dal Nostro, altro non era, dunque, che un ” punto energetico” in cui si convogliavano le onde elettromagnetiche e le vibrazioni positive provenienti dal sottosuolo, che ispiravano, con il loro benefico effetto, chiunque vi si avvicinava. Come recitava il mito germanico tramandato da Tacito, Tuistone era un dio metaforicamente nato dalla terra, esattamente come appare la roccia emergente dalla crosta terrestre. Con la terra, la roccia emergente, continua perciò a mantenere, come un figlio con la madre attraverso il cordone ombelicale, un rapporto di continuità. Grazie al rapporto di consustanzialita’ tra la terra e la roccia, si può facilmente intuire il perché di un così consistente numero di questi templi.

Two Stone di Castiglione di Sicilia

Come affermato, i megaliti o templi di pietra, potevano essere formati da un’unica pietra a cui si dà il nome di menhir o monolite, da più pietre singole e vicine o opportunamente sovrapposte le une alle altre, chiamate cromlech e dolmen. Il nostro Two Stone, a motivo della combinazione delle due pietre sovrapposte, quella sovrastante sempre in un rapporto di grandezza non casuale rispetto a quella sottostante, come faceva notare Erodoto, funzionale allo scopo di cui gli Avi nostri erano consapevoli, ci ha fatto sospettare che avesse potuto avere la capacità di fungere da antenna a dipolo (in sintesi, il dipolo è una sorgente costituita da un conduttore elettrico collegato a due sfere che fungono da serbatoio. La caratteristica fondamentale del dipolo è la forte “omnidirezionalità” di irradiazione/ricezione delle ondeelettromagnetiche).

Two Stone di Gagliano Castelferrato

Abbiamo potuto inoltre osservare che, nei pressi dei Two Stone in cui ci siamo imbattuti, vi è sempre la presenza di un metanodotto realizzato in tempi recenti, ma in passato il gas era celato nel sottosuolo e scorreva come fiumi carsici o si trovava stagnante in sacche di contenimento. I megaliti che si trovano in situ, avrebbero potuto, dunque, captare le vibrazioni prodotte dal gas, ma anche dalle acque carsiche sottostanti o dal movimento di faglie in frizione tra loro, e riverberarle in superficie, nell’etere, provocando gli stati di benessere psicofisico, di cui si è detto sopra, negli individui che vi stavano vicini, come rilevato dagli studi condotti dal prof. Debertolis.

Ad maiora.

L’ impollinazione mistica: Castiglione di Sicilia

La valle dell’ Orgale.

Abbiamo voluto riservare le nostre attenzioni alla contrada denominata Orgale, nel comune di Castiglione di Sicilia, poiché, a nostro avviso, nel toponimo e nei monumenti preistorici in essa insistenti, nonché nella simbologia ritrovata incisa nei sepolcreti, si nasconde la visione del mondo degli Avi nostri a cui poca attenzione fino ad oggi e stata dedicata. I lettori sono a conoscenza dei nostri studi sulla decriptazione della lingua sicana e conoscono l’importanza che attribuiamo ai toponimi, in quanto nel significato di essi è spesso racchiusa la storia del luogo. Conoscono ancora, i lettori, la tesi da noi proposta secondo la quale i Sicani che abitarono la nostra isola fin dall’epoca paleolitica, appartenevano alla grande famiglia del popolo indoeuropeo e che, fra i popoli che la costituivano, con i Germani avevano maggiore affinità tanto è vero che anche la lingua, come si evince dalle epigrafi sicane giunte fino a noi, mostra molte somiglianze. Proprio dalla toponomastica, dunque, inizieremo per proporre l’ipotesi di studio riguardante la cultura che si stabilì nella valle dell’Orgale presso il suggestivo borgo di Castiglione di Sicilia.
Il toponimo Orgale deriverebbe dal lessema hörgr con il quale, nella lingua nordica antica, si indicava un altare costruito con pietre sovrapposte a secco. Sull’altare posto davanti al santuario, che di solito era parte della natura stessa, un luogo particolarmente suggestivo e carico di forze come una grotta, un fiume, un bosco, veniva poi eretto un pilastro. La modalità appena descritta con la quale i popoli germanici esprimevano l’edilizia sacra, viene ricostruita anche grazie alla lettura del canto di Hyndla contenuto nell’Edda poetica. In un brano del su citato canto viene infatti affermato: “Egli ha eretto in mio onore un hörgr di pietre ammonticchiate. Egli l’ha di fresco arrossato di sangue di giovenca”. Il fatto che si preferisse sacrificare una giovenca piuttosto che un toro, ci induce a pensare che il sacrificio descritto nel canto riportato, venisse praticato a conclusione di un rito della fertilità. Il pilastro eretto sull’altare, a cui l’animale veniva legato, potrebbe infatti rappresentare il simbolo della virilità. Il padre Cielo (con il sostantivo Ano, nell’antico alto tedesco, si indicava l’avo, il nonno, l’antenato. Il sostantivo Ano, Avo, era sinonimo di Cielo, in quanto era il luogo di residenza del padre della stirpe sicana il cui appellativo era Adrano), sapientemente evocato e grazie al rito, funzionale ad ottenere il suo consenso, attraverso le piogge che avrebbe profuso avrebbe inseminato la terra da cui traggono la loro vita tutte le creature che la abitano. Il mito greco, e il mito è l’espressione del sacro, suggerisce che, attraverso l’evirazione di Urano (Ur-Ano=Cielo primordiale, firmamento), il cui membro sarebbe caduto nel mare in cui si formò la vita, si sarebbe praticato un rito sacrificale cruento della fertilità con spargimento di sangue (con il termine hörgr si indicava anche tramite il suono della parola, l’altare su cui si praticava tale rito). Il rito della sacra evirazione, mal interpretato in Medioriente, si sarebbe ancora riprodotto in epoca storica. Annalisti romani la descrivevano con orrore, affermando che durante la processione svolta in onore della dea Cibele, i sacerdoti, in preda ad una frenetica esaltazione prodotta dal suono di cembali e tamburi, si eviravano pubblicamente. Ora, nella valle dell’Orgale, un menhir modellato secondo le fattezze dell’organo maschile di riproduzione, si erge accanto a due grandi rocce. Queste gli stanno di fronte in modo da formare una insenatura (vulva?). Se queste rocce siano state modellate dalla natura o dalle sapienti mani istruite dalla devozione religiosa degli Avi nostri, sarà il lettore a decidere, attingendo a quanto affermeremo e a quanto il suo intuito gli suggerirà, non esistendo strumenti scientifici adeguati a stabilire la verità.

La vulva della terra e il fallo del cielo.

Menhir

Quale eterno santuario di pietra, come sopra descritto, si erge un menhir di fronte a due vicine rocce.
Non essendo noi degli astrofisici non ci spingeremo oltre l’intuito, non entreremo nei meandri della antica scienza e ci limiteremo ad affermare che non ci stupiremmo se si osservasse, durante il periodo dell’equinozio, il sole proiettare l’ombra del menhir fra le due pietre. Del resto, il concetto della sacra unione tra il Cielo e la Terra fu talmente metabolizzato dalle antiche civiltà di tutto il mondo, da essere utilizzato fino ai tempi odierni, anche se spesso in forma di poesia.
Nei Veda, il testo sacro degli antichi indiani, in cui tremila anni fa furono vergate le intuizioni dei Rsi, sono riportate le frasi che il marito pronunciava durante l’unione con la propria moglie. Attraverso le parole pronunciate si evince che la coppia, paragonandosi al Cielo e alla Terra, era conscia dell’analogia che esisteva tra questi. Ma anche se volessimo attribuire agli Avi nostri non un comportamento religioso, ma semplicemente superstizioso o magico, tale atteggiamento ci porterebbe comunque ad accettare una conoscenza esperienziale dei fenomeni naturali, agricoli nel caso specifico, da loro posseduta. In questa esperienza si manifesta la consapevolezza che la natura femminile, sia pure nel mondo vegetale, necessita della presenza dell’elemento maschile per essere fecondata. I nostri contadini, infatti, sanno che in una piantagione di pistacchio per esempio, bisogna introdurre una pianta di maschio (così come per la palma da dattero e il kiwi). Soltanto così può avvenire l’impollinazione della pianta femmina. L’elemento analogico che si manifestava in ogni elemento, fu presto intuito dagli Avi sicani. Si comprese che i meccanismi che determinano la nascita, la vita e la morte, sono i medesimi per ogni essere vivente, mondo vegetale incluso; l’universo stesso con le sue stelle e i pianeti si conduce con le medesime regole.

Il ciclo della natura nella valle dell’ Orgale.

La valle dell’Orgale rappresenta un libro di pietra su cui è scritto l’eterno ciclo di nascita, crescita e morte. Il menhir e la vulva che abbiamo immaginato essere formata dalle due vicine rocce, simboli della riproduzione, le vasche rituali ricavate nella eterna roccia in cui veniva raccolta l’acqua, simbolo di vita e di purezza, e infine le tombe, in cui si concludeva il ciclo della vita umana;

Nicchie funerarie

tutto ciò coesiste nella valle dell’Orgale quale monito per l’uomo, affinché non dimentichi il proprio ruolo nel creato, quello di essere garante dell’equilibrio cosmico. Un simbolismo, presente nel pavimento di una nicchia sepolcrale, sembra attestare che non ci siamo sbagliati circa l’universalita’ della veltanshauung posseduta dalle genti indoeuropee a cui i Sicani, nostri Avi, aderivano. Si tratta del simbolo del sole, della luce, della rinascita, consistente in otto raggi perciò detto anche sole raggiato.

Dettaglio del bassorilievo simbolico sul pavimento della nicchia

Questo simbolo si ritrova impresso con inusitata frequenza anche su molti pesetti da telaio che venivano deposti, come parte del corredo funebre, nelle tombe del periodo arcaico. Non stupisca la compresenza del simbolo della procreazione con la necropoli, poiché la morte, per i prischi Sicani, rappresentava soltanto il passaggio a nuova vita, ad una rinascita. L’esplicito simbolismo dell’atto sessuale rappresentato sul chiusino di una tomba di Castelluccio ne è l’ennesima evidenza. Sul simbolismo della spirale, del numero otto, del sole raggiato con otto aculei, abbiamo dissertato sufficientemente nei nostri precedenti articoli per ripeterci in questa sede. Spenderemo invece qualche parola in più sulle vasche rituali, ritrovate numerosissime non solo in Sicilia, ma anche in tutta Europa, e che soltanto nella nostra isola sono state catalogate incredibilmente come palmenti rupestri. Che alcune di queste vasche possano essere state riutilizzate in anni recenti, durante cioè la depressione dell’ultimo dopoguerra, come palmenti è plausibile, ma non fu quella la prima destinazione d’uso.

Le vasche rituali.

Che le vasche ricavate nelle rocce abbiano avuto uno scopo rituale, si intuisce dal luogo difficilmente accessibile in cui esse vennero ricavate: sulla cima di alte rocce, come nel caso di Adrano, dell’Argimusco, di Cerami etc., in luoghi di difficile accesso come nel caso di quella rinvenuta nella valle dell’Orgale.

Vasche rituali

In questa valle abbiamo trovato le più grandi e spettacolari vasche. Non sapremo mai per quali riti si utilizzavano le vasche, ma conosciamo il grande valore simbolico che i nostri maggiori attribuivano all’acqua. Facendo riferimento alla disciplina delle religioni comparate, possiamo utilizzare al nostro scopo un passo dei Veda, – PGS I,16,19,22-, in cui viene descritto il momento del parto. Ebbene, si può in esso notare che il padre ponendo ritualmente una bacinella d’acqua vicino alla testa della madre, si rivolgeva alle acque definendole custodi, assieme agli dèi, della madre, e come custodi ne invoca quindi la protezione. Ancora un collegamento tra le acque e la donna, entrambe donatrici di vita, si presenta nel passo X, 85,24 del Rig Veda, allorché, lo sposo, rivolgendosi al cielo, invocando un matrimonio stabile, afferma di liberare la sposa dalle catene protettrici di Varuna che era la divinità delle acque. Nel sostenere che le catene del dio delle acque proteggevano la donna avvinghiandola, si afferma implicitamente che l’elemento acqua è consustanziale al genere femminile. A tale proposito, ricordiamo che il feto si sviluppa nel liquido amniotico e che il momento del parto è definito rottura delle acque. Alla luce di quanto osservato fin qui, non stupirebbe l’idea che la valle dell’Orgale rappresentasse per gli avi Sicani il luogo sacro in cui si celebravano in primavera i matrimoni tra le giovani coppie, in armonia con il matrimonio tra il Cielo e la Terra. Le coppie avrebbero dovuto percorrere un tragitto che, a nostro avviso, iniziava dal menhir, simbolo di fecondazione, e terminava nelle vasche, simbolo di nascita, crescita e purificazione.

Ad maiora.

La collina della fertilità: Roccella come Eleusi

Roccella Valdemone.

Il piccolo villaggio di Roccella Valdemone rappresenta il luogo ideale per chi volesse celebrare la Natura nella sua magnificenza, la Mater Matuta latina, l’anatolica Cibele o la siciliana Demetra, dea delle messi e della fertilità. Il fiume che scorre nei pressi del borgo tra le insenature dei Peloritani, quasi secco d’estate, inganna l’avventuriero che trova più giù fragorose cascate, alimentate da vitali e inestinguibili vene sotterranee. Non poteva essere celebrato che in questo luogo l’ancestrale culto della fertilità; qui più che altrove la terra venne intesa quale nutrice del genere umano. Qui, secondo l’interpretazione fornita dagli archeologi da noi consultati, in una collina a mille e duecento metri, gli Avi Sicani, incisero nelle rocce di arenaria, decine e decine di rappresentazioni della sessualità femminile, evidente allegoria del seme nascosto sotto la nera terra, pronto a dar frutto. Qui, nella fertile isola di Sicania, si anticipo’, rispetto alle culture mediterranee coeve, a nostro avviso, e spiegheremo i motivi più sotto, un culto che successivamente, nella arida e pietrosa Grecia, sarebbe diventato misterico e conosciuto dalla storia con il nome di Misteri Eleusini.

Misteri Eleusini.

Secondo una prima datazione effettuata dalla dott.ssa Tatiana Melaragni sulla base delle foto che le abbiamo inviate, le rocce intagliate nella collina di Roccella, che palesemente introducono ad un culto della fertilità, sarebbero collocabili cronologicamente intorno al quattromila a.C. Ora, attingendo a piene mani dal notevole lavoro svolto da Angelo Guidi (I Misteri di Eleusi, Genova 1979) , il Nostro rileva dai marmi di Paros, che i Misteri Eleusini furono introdotti in Grecia nel 1511 a.C. Sotto il regno di Eretteo nel 1397 a. C., sconfitti gli Eleusini, il re atenise ne avrebbe importato il culto nell’Attica e riconosciuto a Eumolpo, sacerdote di Demetra in Eleusi, il diritto di gestire i riti misterici riservati alla dea. Se ora uniamo a questa affermazione quanto asserisce Diodoro siculo sulla dea delle messi Demetra, che andando alla ricerca della figlia rapita, si spinse in Grecia ove fece dono del grano agli abitanti che l’avevano aiutata nella ricerca, introducendo così la coltivazione di questo cereale anche nell’Ellade, si evince che la semina del grano sia stata introdotta in Grecia dopo che in Sicilia, isola in cui Demetra aveva la propria sede. Il mito greco continua affermando che i Greci, riconoscenti del dono ricevuto, resero onore alla donatrice dedicandole le cerimonie che furono dette Misteri Eleusini. Tuttavia, come spiegheremo oltre, crediamo che anche queste cerimonie siano state mutuate dai Greci da quelle già esistenti da tempo immemorabile in Sicilia. Infatti, così come i Greci resero onore alla dea per il dono ricevuto, non avrebbero potuto fare altrimenti i Siciliani, sudditi diretti della dea, dalla quale ricevettero per primi la conoscenza del prezioso cereale. Demetra, infatti, come fu universalmente riconosciuto attraverso il mito greco (la variante sicana, più antica, è stata da noi ricostruita in un articolo pubblicato su miti3000.eu), aveva ad Enna la propria sede. Che un culto nei confronti della dea venisse praticato in Sicilia e dall’isola fosse passato in Grecia, magari con i dovuti adattamenti locali, si evince ancora dalla presenza ad Eleusi di un sacerdote addetto alla purificazione del neofita il cui nome, chiaramente di origine barbarica, era Hidrano.

Hidrano il grande jerofante.

Lo Hidrano aveva il compito di purificare il neofita che veniva iniziato ai piccoli Misteri Eleusini, probabilmente attraverso abluzioni in vasche rituali che in Sicilia si trovano in gran numero ricavate nella roccia. A questa conclusione si arriva, oltre che grazie ad annalisti del tempo quali Clemente Alessandrino, dal significato dell’appellativo Hidrano. Pertanto, attingendo dal filologo ed esperto in lingua indoeuropea nonché specializzato in idronimia Hans Krahe, che fa derivare da una base comune antico-europea convenzionalmente chiamata protogermanico il termine “drowos” a cui attribuisce il significato di corso di un fiume, risulta che il nome del sacerdote addetto alle abluzioni è composto dall’unione dei lessemi drowos acqua e Ano, avo, antenato. Si fa qui notare di passata, che il nome della maggiore divinità sicana della Sicilia pre greca era Adrano, che è collegabile al “furore’ o impeto delle acque fluviali (vedi glossario etimologico miti3000.eu). Ora, come affermato sopra, l’Hidrano aveva il ruolo di purificare il neofita e a tal fine significativo è che in Grecia, presso il villaggio di Agra, vi era un piccolo tempio sulle sponde del fiume Ilisso dove l’Hidrano compiva il suo ufficio. Così come abbiamo proceduto fin qui emerge, dunque, che Il termine Hidrano con cui si indica quel tipo di sacerdozio è palesemente barbarico, non greco, sicano e ciò concorre alla tesi qui formulata secondo la quale sarebbe siciliana l’origine del culto di Demetra e posteriori alle cerimonie siciliane dedicate alla dea i Misteri eleusini.

Il ruole delle donne.

Come si apprende dagli annalisti antichi, molti dei quali iniziati ai Misteri, come Firmico Materno che si convertirono al cristianesimo, per cui non essendo più tenuti alla segretezza rivelarono il contenuto dei riti, ai misteri Eleusini venivano iniziate anche le donne. Queste, secondo le indiscrezioni fornite da Esichio, interamente nude venivano condotte al cospetto della sacerdotessa. Apuleio, a sua volta, afferma che l’organo sessuale femminile, che egli chiama mundum muliebre, fu posto come oggetto sacro nelle ceste mistiche di Cerere. Le affermazioni dei nostri due letterati ci portano indietro ai primordi, in Sicilia omphalos del Mediterraneo, e al primigenio culto della fertilità nel quale si espone l’organo femminile della riproduzione, a Roccella Valdemone inciso su decine di rocce. A motivo della presenza di una Tholos che esiste ancora proprio sulla collina, anche se parzialmente diroccata, si desume che il luogo di culto dovrebbe essere stato frequentato senza aver subito modificazioni sostanziali, dal periodo eneolitico fino all’età del bronzo, periodo in cui si colloca appunto la Thòlos. Presumiamo che il rito dovette conservare immutate le sue caratteristiche primordiali fino all’età del bronzo. Auspichiamo che la sovrintendenza di Messina, alla quale abbiamo segnalato il ritrovamento, inizi subito un sopralluogo, specialmente nella collina della fertilità in cui ci aspettiamo di trovare, oltre che numerosi artefatti sullo stile di quelli già osservati, un ipogeo, un’ara, vasca rituale etc.

Ad maiora

La collina della fertilità: Roccella Valdemone

Il Matriarcato.

Sugli studi e le opinioni fornite da illustri sociologi e antropologi, circa la visione del mondo che ha interessato alcune civiltà arcaiche, denominata con l’alto sonante appellativo di matriarcato, ben poco abbiamo da aggiungere rispetto a quello che è stato autorevolmente affermato dallo studioso svizzero J. J. Bachofen (Das Mutterrecht, Stoccarda 1861) a cui rimandiamo quanti volessero approfondire l’argomento. A motivo degli interessi più circoscritti che questo breve excursus si pone, ricordiamo soltanto ai nostri lettori che il mito greco afferma come la Sicilia sia stata donata da Zeus a Proserpina quale dono per il suo matrimonio con il dio del sottosuolo Ade. Demetra, a sua volta, fu grandemente onorata per il dono dei cereali che i Siciliani da lei ricevettero per primi. Gli isolani, per ricompensare la dea del dono ricevuto, le tributarono un culto nel territorio di Enna che raggiunse fama in tutto il mondo e fu mutuato successivamente in Grecia e conosciuto con il nome di misteri eleusini. Ad Erice, era famoso il tempio dedicato alla madre dell’eroe Troiano Enea, Afrodite. Nelle recondite sale del tempio della dea dell’amore si praticava la prostituzione sacra, un istituto importato in Sicilia dall’Oriente. In fine, ma non ultimo, ricordiamo la presenza di Cretesi, giunti al seguito di Minosse intorno al XIII sec. a.C. e rimasti nell’isola dopo la morte del loro re. Essi introdussero nelle contrade che abitarono, come afferma Diodoro Siculo, il culto delle madri, erigendo in loro onore splendidi templi. Tuttavia, nonostante le numerose testimonianze mitiche e storiche, alcune delle quali sopra riportate, riteniamo che possa considerarsi patriarcale il culto largamente diffuso nell’isola di Sicilia e minoritario il culto tributato alle divinità femminili, se teniamo in conto il fatto che l’isola derivava il proprio nome dall’Avo Adrano (vedi glossario etimologico della lingua Sicana miti3000.eu), tanto da essere appellata in suo onore come afferma lo storico greco Tucidide, Sicania, ovvero la terra dell’Avo. Ma nello stesso tempo non si può negare che, come sopra affermato, in Sicilia si celebrassero riti di natura agricola propiziatori della fertilità e della riproduzione. Noi siamo fermamente convinti che la collina nei pressi di Roccella Valdemone rappresenti, facendo nostra l’intuizione avuta dalla dott.ssa Tatiana Melaragni, uno dei luoghi più arcaici in cui venivano svolti riti della fertilità legati al culto della dea madre. Il luogo in questione, a motivo della recente scoperta, non è stato ancora studiato dalle autorità competenti a cui lo abbiamo segnalato – si tratta di un’intera collina cosparsa di manufatti simbolici- noi ci siamo limitati ad una ispezione sommaria di parte di essa e tuttavia sufficiente per renderci conto dell’importanza cultuale che il sito ricopre.

Incisioni ( simboli della fertilità?)

Un giudizio sommario sui reperti è stato fornito da archeologi di provata esperienza, sulla base delle foto che abbiamo sottoposte; essi attribuiscono i reperti al periodo eneolitico e le incisioni praticate nelle numerosissime rocce di arenaria, fanno riferimento senza ombra di dubbio all’organo femminile della riproduzione. La scelta della roccia da parte degli artisti nostri progenitori, quale materiale su cui rappresentare l’organo femminile della riproduzione, riconduce al mito greco di Deucalione, presente anche nella mitologia nordica, secondo cui gli uomini sarebbero stati creati dalla trasformazione di pietre, cioè creati direttamente dalla madre terra. In effetti, osservando la posizione del presunto organo femminile della riproduzione inciso nelle suddette pietre, rispetto al terreno sembra che le pietre stiano per partorire e la terra sia lì pronta a ricevere il frutto del loro parto.

Il segno dei tempi.

Il rinvenimento dei manufatti sulla collina che abbiamo battezzata della fertilità,

Incisioni ( simboli della fertilità?)
Incisioni ( simboli della fertilità?)

                                                                                                                                                                       coincide a nostro avviso con un momento in cui l’elemento femminile ha preso il sopravvento nella nostra tanto discussa società. In essa la donna. mascolinizzata, al centro di malinteso emancipazione e indipendenza irrompe nei settori un tempo esclusivo campo d’azione degli uomini, in quanto ritenuti a lei inopportuni se non sconvenienti perché abbrutenti per loro natura, come quello della politica e degli affari. L’aver involontariamente destato il “genius loci” della collina di Roccella, vorrebbe essere da noi interpretato come un auspicio, affinché il ruolo della donna nella nostra società torni ad essere quello che la natura le ha assegnato, consapevoli che ogni forzatura coincida con una distorsione e provochi una rottura dell’armonia universale.

Il Patriarcato.

Come affermato sopra, il culto dedicato all’Avo divinizzato, in età antichissima si esprimeva anche attraverso il simbolo solare del menhir. Questo simbolo di pietra poteva essere naturale, nel caso in cui nel luogo che irradiava forze solari percepite dagli Avi, vi fosse stata la presenza di una roccia che aveva caratteristiche adeguate, o poteva venire modellato parzialmente o totalmente dalla mano umana. Come si può facilmente constatare, in molte zone del nord Europa, attorno ad un luogo di culto, che, come sopra affermato poteva essere un semplice menhir, si poteva erigere un recinto sacro. Lo scopo del recinto era quello di “contenere” le influenze emanate dal luogo affinché queste non nuocessero chi non era in grado di controllarle.

Mannara Gesuitto: Roccella Valdemone.

Da fonti letterarie, si apprende che un grandioso menhir si trovava nel luogo dove oggi vi è un ovile dismesso, presso Roccella Valdemone.

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

I muri del recinto adibito ad ovile, sono stati realizzati con ciclopiche pietre. Alla sommità del muro sono poste trasversalmente lastre di calcare del peso di alcune tonnellate – una inspiegabile anomalia per il modesto uso dell’opera, considerando le risorse economiche e fisiche occorse per realizzarla-. L’imponente recinto che per modalità di costruzione richiama i famosi menhir di Carnac,

Dolmen di Carnac in Francia

a quanto affermano gli eredi, fu realizzata intorno agli anni trenta del novecento da don Giuseppe, loro Avo. Non saremo mai in grado di contestare né di confermare quanto asserito dagli eredi, a motivo dei rimaneggiamenti continui che il sito ha subito, non ultimi gli scavi per l’installazione di un metanodotto un po’ più a monte dell’ovile, e l’ inspiegabile atteggiamento ostile dei suddetti eredi nei confronti di chi avrebbe soltanto voluto studiare il sito e ripulirlo dai rovi. Certo è, ed è quello che a noi preme qui stabilire, che il terreno su cui insiste anche l’ovile, venne antropizzato fin da epoca neolitica. Quanto da noi constatato per via autonoma e qui esposto, è stato precedentemente intuito e poi messo per iscritto nel suo libro, dallo studioso astronomo dott. Pantano.

Conclusioni: La collina della fertilità.

Riteniamo, in base alle tracce ritrovate, di cui abbiamo resi edotti i nostri lettori, che l’ampia area archeologica da noi indagata, insistente nell’attuale comune di Roccella Valdemone, sia stata interessata dallo svolgimento di una devozione cultuale e rituale del popolo indigeno dei Sicani. Il culto ivi praticato, verteva sul concetto di complementarità che spesso ritorna nella visione del mondo sicana e di cui abbiamo ampiamente trattato nei nostri molti articoli. È pertanto probabile che il principio virile e solare espresso dal simbolismo del menhir, di cui riferisce il dott. Pantano nel suo studio, trovasse nella contrada Portella Zilla la sua migliore collocazione, mentre più in là sulla collina da noi battezzata della fertilità, a meno di un chilometro dal punto in cui esisteva il menhir, trovava espressione invece il culto dedicato alla dea madre. Se volessimo tentare una interpretazione di carattere metafisico del rito che si svolgeva, potremmo presumere che idealmente, secondo una concezione magico evocativa a cui gli Avi nostri facevano riferimento, si svolgesse una unione sacra tra il divino maschile e quello femminile. Per analogia, la sacra unione tra il dio e la dea, tra il principio virile e quello femminile, ripetuta idealmente tra Cielo e Terra, faceva sì che venisse garantita la fertilità di ogni cosa vivente sulla terra. Una traccia del culto agrario primordiale, è ancora ravvisabile durante il periodo romano nel rito della primavera sacra. In primavera il dio sole feconda la terra, questa, subito dopo, dona agli uomini il frutto della divina unione. Sono moltissimi i santuari

Pietra Perciata di Nicosia

sparsi per l’isola in cui simbolicamente si consumava l’atto divino, e in essi troviamo le “pietre perciate”, consistenti in rocce nella quali veniva scientemente praticato un foro in modo tale che nel equinozio di primavera, questi fori venissero attraversati da un raggio di sole il quale, colpendo la terra, penetrando in essa, la fecondasse e la rendesse fruttifera.

Ad maiora.

I Peloritani e le civiltà sepolte

La scoperta.

Se abbiamo ben interpretato il significato etimologico del nome dei monti Peloritani (vedi. “Glossario etimologico della lingua Sicana”, miti3000.eu e Adranoantica.it gratuitamente fruibili) che si ergono quali cattedrali, a memoria e gloria degli Avi nostri nella provincia di Messina, siamo certi che in questi monti si troveranno numerosi siti archeologici, ormai resi invisibili dalla natura che avanza laddove l’uomo arretra, come quello da noi recentemente scoperto tra i boschi di pini che con le loro cime toccano il cielo e di cui forniremo ulteriori resoconti.

Comparazioni.

Lo studio delle religioni comparate ci induce a fare un parallelismo tra le credenze religiose e le abitudini di vita intercorse tra gli Avi Sicani e il popolo indoeuropeo dei Daci. Gli uni e gli altri appartenevano al ceppo indoeuropeo. Il sito archeologico siciliano, a una spanna dal piccolo centro di Roccella Valdemone, al momento senza nome, in cui ci siamo imbattuti, arroccato su un promontorio di arenaria ormai totalmente ricoperto da un fitto bosco, è caratterizzato dalla presenza di mura ciclopiche.

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

A motivo delle caratteristiche morfologiche del paesaggio su cui venne edificato l’insediamento, questo potrebbe essere paragonato alla capitale religiosa, politica e militare dei Daci, Sarmizegetusa. Quest’ultima, oggi in Romania, era stata edificata su un colle alto 1200 metri S.l.m. ed era della grandezza di appena 9 ettari. Le caratteristiche anzidette coincidono con il sito siciliano nei pressi di Roccella Valdemone che abbiamo scoperto e preso in esame. Si tenga ben conto che nella concezione religiosa di quel lontano mondo, – Sarmizegetusa viene sottomessa dalle legioni romane nel 98 della nostra era-, non era ancora avvenuta la cesura tra mondo divino e mondo terreno che caratterizza il nostro secolo. Le città edificate sugli alti colli, dalla Palestina alla Sicania, stabilivano, secondo la concezione religiosa degli Avi, un “ponte” tra il Cielo e la Terra. Per questo motivo, a nostro avviso, furono fondati un numero considerevole di villaggi sui monti Peloritani che col cielo sembrano compenetrarsi, fermo restando che alla prerogativa religiosa si aggiungeva allora, la facilità con cui questi villaggi si prestavano ad essere difesi in caso di attacco nemico. Questa ultima considerazione viene confermata da Tucidide (Guerra del Peloponneso, Lib. VI, 88,4) allorché afferma che i Siculi, alleati degli Ateniesi, grazie al controllo che avevano dei passi montuosi, inflissero gravi perdite ai nemici siracusani durante la guerra del Peloponneso per quell’arco di tempo che si protrasse in Sicilia. Dunque, a nostro avviso ben si giustifica l’antico nome dei monti messinesi Bal+hör+eitan ovvero Peloritani (vedi glossario), appellativo che tradotto liberamente significa “Il luogo dove si ascolta la voce del divino”.

Ad maiora.

Le antiche civiltà dei monti Peloritani e dei monti Nebrodi

Premessa

Non si può affrontare una ricostruzione dei fatti pre-storici senza tener conto della weltanshauung dei popoli che li determinarono. Non si può, di conseguenza, affrontare la storia delle origini prescindendo dal giusto punto di vista di partenza. Questo sarà per tanto il primo nostro atteggiamento nei confronti del lavoro di cui ci stiamo per sobbarcare.

Poiché nulla ci è pervenuto di prima mano di quel lontano periodo, dobbiamo poterci districare attraverso il linguaggio primordiale del simbolismo che in Sicilia abbondantemente è presente, scolpito nell’eterna pietra. Figure antropomorfe e zoomorfe, vasche rituali, menhir, dolmen, templi rupestri ci comunicano, attraverso un linguaggio primordiale, non una storia di guerre e conquiste territoriali, frutto della degenerazione di un uomo che avrebbe successivamente abbandonato il rapporto con il Padre Cielo, ma un rapporto spirituale intrattenuto con il mondo delle origini e rappresentato sulle pietre. Alla luce di quanto qui espresso e a motivo della originalità dei metodi interpretativi da noi proposti, temiamo che il nostro lavoro, proprio per la metodologia di cui si avvale, sia condannato alla congiura del silenzio. Noi siamo rassegnati a scrivere per molti, ma non per tutti, certi che non sempre il numero sia sinonimo di potenza e verità.

Roccella, l’ Argimusco e le nuove scoperte.

L’atteggiamento mentale in cui ci si deve porre accostandoci ad un sito qual’e’ quello dell’Argimusco e dintorni, non può essere quello dello storico alla ricerca di fatti da collocare in tempi cronologici. Qui ci si trova di fronte ad un mondo atemporale che immortalo’ sulla pietra i fatti dello spirito. Qui non saranno le pergamene a parlare, ma il mito e il simbolo. In ausilio della ricerca che condurremo, concorreranno le diverse discipline scientifiche, per prima la toponomastica.

Toponomastica: Arke-Muse

L’enigmatico sito dell’Argimusco si trova nei pressi della città chiamata Elicona. Ora, poiché il Monte Elicona per i Greci era il luogo dove abitavano le nove Muse, divinità protrettici delle arti e delle scienze, l’Argimusco, a nostro modo di vedere, può avere nelle Muse un preciso riferimento. Le Muse erano figlie di Mnemosine, la memoria, il ricordo, appare dunque plausibile che il sito dell’Argimusco sia stato realizzato dagli Avi col chiaro intento di consegnare una memoria ai posteri.

La fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

Un muro ciclopico forma un recinto in Contrada Mannara Gesuitto, nel territorio di Roccella Valdemone. Questo

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

muro realizzato in opus quadrato con pietre del peso di tonnellate, è stato riutilizzato come recinto di mandrie e mai è stato preso in considerazione il motivo per il quale vennero impiegate enormi risorse ed energie per realizzarlo. Grazie all’utilizzo di droni abbiamo altresì potuto constatare che a monte del recinto esistono ben altri quattro muri ciclopici. All’interno di quello che ormai ci appariva un sito archeologico, risalente forse all’età del bronzo, nascosto da un fitto bosco di pini, si può soltanto osservare l’insistenza di rocce che, per la particolare caratteristica e forma, apparivano come volutamente lasciate in situ.

Il culto della Dea Madre.

Poco più in là del ciclopico recinto, presso il bivio Zilla, a meno di un chilometro di distanza, all’interno di un fitto bosco notammo ancora la presenza di rocce stranamente intagliate. La dottoressa Tatiana Melaragni, archeologa di lunga esperienza, osservando le foto che le inviammo, non ebbe dubbi a collocare nell’ eneolitico i manufatti e, a motivo delle fessure realizzate nelle rocce di morbida arenaria, ad attribuirli ad un culto celebrato in onore della grande dea madre. Se così fosse, a nostro parere, i tre vicinissimi siti dell’Argimusco, di Contrada Mannara Gisuitto e quest’ultimo, sarebbero in qualche modo collegati. Una antropizzazione senza soluzione di continuità culturale, dovette protrarsi dall’eneolitico fino ad epoca greca per poi sparire assieme all’abitato in epoca romana, quando, grazie alla globalizzazione che viaggiava sulle gambe dei legionari, villaggi fortificati a mille e duecentometri sul livello del mare, un tempo nerbo militare dei Siculi fino ad allora invitti, come quello qui documentato, risultarono anacronistici ed economicamente improduttivi rispetto agli agevoli mercati della pianura.

Non perderemo di vista questo squarcio di mondo in cui vissero gli Avi nostri in perfetta armonia con il paradisiaco paesaggio che li circondava: le suggestive cascate di Palazzolo, i boschi dei Peloritani, le rocce dalle forme scolpite dal dito di Dio. Li, lungo la via delle tholoy, come sentinelle sempre in allerta, sembrano ammonirci perché il nostro sguardo si volga di tanto in tanto al passato.

Ad maiora.

Veio: il paradiso perduto degli Ari

Il canone.

È opinione universalmente condivisa che tra i numerosi popoli stanziali nell’Italia centrale, quello degli Etruschi sia stato il più versato nell’arte della divinazione.

Le remore.

Ebbene, pur volendo sorvolare sul fatto che Romolo, da qualunque tribù provenisse tra quelle insediatesi nel Lazio, si presenti agli occhi di Plutarco (vita di Romolo) e T. Livio (Ab Urbe condita) come un Druida a cui è sacro l’albero della quercia (Livio 1,10), che divide il cielo in quattro parti col suo lituo, che interpreta egli stesso gli auspici, che traccia il solco o cerchio magico per impedire alle potenze negative di penetrare all’interno, appare infondata l’opinione ricordata nell’introduzione se consideriamo le scelte del re Tarquinio Prisco, le quali smentiscono la fama degli Etruschi in quel campo. Il quarto re della cosmopolita Urbe affida il ruolo di aruspice, carica paragonabile a quella del papa per il mondo cristiano, non a un Etrusco, bensì a un Sabino. L’aruspice sabino Attio o Atto Navo, come riferisce T. Livio nella sua Ab Urbe condita, viene messo alle strette dal re etrusco affinché dia prova della sua abilità. Attio riesce nell’impossibile impresa di tagliare un sasso col rasoio. L’impresa di Attio o Atto, condotta a buon fine, fa sensibilmente lievitare il prestigio dell’intera casta sacerdotale degli aruspici a cui il Nostro appartiene, al punto che da quel momento innanzi, è sempre lo storico latino a riportarlo, non verrà intrapresa guerra o altra operazione importante per lo Stato, senza aver prima consultato gli auguri e gli aruspici. Il gesto eclatante, pone, a nostro avviso, Atto al limite tra il ruolo svolto dallo sciamano, dall’aruspice e dal sacerdote; è altresì verosimile che in un tempo più antico tali confini non esistessero affatto per l’operatore del sacro. È plausibile che Attio, o Atto, sia stato semplicemente l’esponente di spicco di una categoria di specialisti del sacro. Questi specialisti, in tempi anteriori rispetto a quelli in cui si trova ad essere protagonista il Nostro, cioè il VI sec. a.C, se abbiamo ben tradotto l’appellativo, venivano detti Sabini. Se abbiamo visto giusto, infatti, l’attributo apposto a questa categoria di operatori del sacro, che per estensione venne successivamente allargato all’intero popolo cui appartenevano e che Livio dice essere stato secondo per potenza delle armi e numero di gente soltanto a quello etrusco, significa coloro che traggono da dentro (le viscere?) le loro conoscenze. L’appellativo Sabino risulta composto dall’unione dei lessemi sa, che dal germanico sehen significa visto, ma nella accezione di conoscere, sapere, dalla preposizione ab, da, che indica provenienza da un luogo, sottrazione, e inna con il significato di dentro, interiore. Anche il nome dell’aruspice, Atto, ha una derivazione germanica. Akt significa azione, atto spesso afferente all’ambito del sacro con il significato di sacrificio. Zarathustra, il riformatore dell’antica religione persiana, nell’Avesta fa il nome di un mago, un certo Akt, suo acerrimo e temuto rivale.

I testi sacri dell’antichità.

Nell’Avesta, il testo sacro degli antichi Persiani, si può agevolmente scorgere una moltitudine di lessemi riconducibili alla lingua germanica, lingua di cui, è bene ricordarlo, si servi lo studioso ceco Hronzny per tradurre le tavolette ittite.
La presenza di lessemi germanici nell’Avesta non deve stupire, dal momento che lo storico greco Erodoto nella compilazione della sua Storia, sosteneva che fra le tribù stanziate in Persia e sottomesse da Ciro, vi era quella dei Germani. Il termine mago, utilizzato per designare una categoria di persone “speciali” presenti in Persia, deriva tra l’altro dal tedesco Mögen potere, compenetrare, attrarre. Il verbo, utilizzato nei confronti di una persona significa desiderarla, volerla fondere a sé, possederla, voler divenire un tutt’uno con essa. Ora, la regione per eccellenza che ospitava questa genia di individui che si diceva espertissima anche in astronomia, era la Persia.
A testimonianza che la casta sacerdotale degli antichi popoli germanici avesse dimestichezza con il cielo e gli astri, forse non è un caso che nella cittadina tedesca di Nebra sia stato ritrovato un disco di bronzo fatto risalire alla media età del bronzo, su cui, sono riprodotti con l’oro e incastonati, il sole, la luna e la costellazione delle Pleiadi. L’analisi della lega con cui era stato realizzato il disco di bronzo, eseguita da specialisti che si sono avvalsi di tecniche moderne, porta alle miniere della Scozia. Il nome dell’antica Scozia era Alba, come quello dato alla città laziale Alba Longa (vedi voce). La Scozia era anche la terra in cui Cesare poté osservare la presenza di quei curiosi quanto potenti sacerdoti chiamati druidi, i cui tratti ci sembrano caratterizzare i comportamenti del primo re di Roma il cui nome o appellativo, come si evince da quanto affermato da T. Livio, era, oltre a quello di Romolo, Ramnes. Come esposto in precedenti articoli, nell’Avesta, il nome con cui gli Ariani designavano la terra di provenienza, era VAEJO. Il toponimo airayanem-vaejo è stato tradotto con il paradiso degli Ariani. Noi, pur cambiando di poco la traduzione che porta comunque al medesimo significato, vorremmo tuttavia fornire la nostra traduzione, spiegando la modalità di cui ci siamo avvalsi per giungere al risultato. Il lemma risulterebbe composto dall’unione dei lessemi Ve sacro e jah veloce, repentino. L’aggettivo jah è dunque funzionale a descrivere la modalità con cui il sacro si manifesta agli uomini. Il nome Jah+Ve, con cui i Giudei esprimono la presenza del sacro, si presta alla medesima interpretazione semantica, trattandosi di una semplice inversione dei lessemi Ve e jah. L’affinità linguistica che intercorre tra il teonimo giudeo e il toponimo ariano, va spiegata e giustificata alla luce di una presenza ittita che sarebbe passata sia in Persia che a Gerusalemme. Infatti, nel testo sacro degli Israeliti si legge che Uria, l’ittita, era uno degli eroi che assieme a Davide avevano contribuito a conquistare la città filistea di Gebush successivamente rinominata Gerusalemme. Come affermato precedentemente, gli Ittiti parlavano una lingua protogermanica tradotta da Hronzny con l’ausilio dell’antico alto tedesco. L’Anatolia rappresentava il primo luogo di insediamento in medioriente per i popoli del nord Europa che, a piedi e con l’ausilio di carri trainati da buoi, che gli valse l’appellativo di mandriani o siculi, passando per il Caucaso o con canoe attraverso il Danubio, giungevano nel Mar Nero.

Conclusione.

Tornando circolarmente al tema inizialmente proposto, da quello che fin qui è stato affermato, emerge che, se è vero che nel toponimo Vejo, la città più importante degli Etruschi e forse la loro prima fondazione nell’Italia centrale, e nel nome Atto si nascondono origini linguistiche e culturali nord europee, sarebbe lecito dedurre che le affinità tra i popoli che abitavano il centro Italia, Rutuli, Sabini, Sicani (Sequani?), Equi (Edui?), Latini, Boi, Etruschi, etc. siano state preponderanti rispetto alle differenze, anzi potremmo spingerci ad affermare che ci si trovi di fronte ad un unico popolo composto da tribù che venivano rispettivamente appellate i Rossi, i Veggenti, gli Eredi dell’Avo, i Cavalieri etc. Questo popolo, abbandonato il rigido clima artico ove le condizioni di vita erano diventate impossibili a causa del mutato clima, giunto nelle amene terre dell’Italia centrale, definì Vejo, cioè paradiso, la nuova località in memoria della patria abbandonata, quando essa, prima che il dio della distruzione Angra Mainyu la congelasse, era un paradiso. Giunti nell’Italia centrale, chiamarono età dell’oro la nuova era che per loro iniziava, l’era di Saturno ovvero sat che nella lingua germanica significa sazio, pieno, soddisfatto, abbondante e Ur antico, primordiale a ricordo del periodo trascorso nell’antica patria. È probabile che il popolo degli Etruschi, sul finire dell’età del bronzo, in seguito a interazioni avvenute con popoli orientali (secondo una tradizione tramandata per via orale, il fondatore di Troia, Dardano, proveniva dalla Tirrenia), si fosse gradualmente allontanato dalla tradizione indoeuropea assumendo nel VII sec. a.C., epoca a cui si riferiscono i ritrovamenti archeologici etruschi più antichi, tratti culturali irriconoscibili rispetto a quelli maturati nell’antica patria. La società etrusca aveva abbandonato il patriarcato dei popoli indoeuropei per assumere quello del matriarcato rinvenibile nell’età dei Tarquini, i quali devono a Tanaquilla, la nobildonna di Vetulonia sposa del futuro re, la loro ascesa politica e sociale. La trasformazione sociale e culturale per la quale si passa dal patriarcato dei popoli del centro Italia al matriarcato della cultura orientale, è già rinvenibile nell’Eneide. L’autore del poema, di origini galliche, infatti non riesce a nascondere questo passaggio e le antipatie per l’eroe troiano nonostante che il racconto gli fosse stato commissionato per celebrare l’arrivo degli esuli troiani nel Lazio. Durante lo scontro in armi tra Turno ed Enea, il Mantovano lasciandosi andare definisce femmineo l’eroe levantino, mal celando le proibite e inconfessabili sue simpatie per il rutulo principe Turno.

Ad maiora.

E Catania divenne una costola della vetusta città dell’Avo.

Il nostro lettore, abituato ormai alle ricerche border line che temerariamente esponiamo a chi ci segue da anni, non si stupirà di quanto verrà affermato nell’esposizione che segue. La città ove venne innalzata l’ara dedicata all’avo della stirpe sicula, Adrano, è la più antica della Sicilia e la città di Catania la ebbe quale modello e riferimento religioso, culturale e mitologico, tanto da mutare, in un particolare momento storico, il proprio nome in quello di Etna, già appartenuto alla città sede dell’Avo, come meglio esporremo più avanti.

Maggiore vetustà delle città dell’entroterra rispetto alle città costiere.

Come viene continuamente confermato dagli studiosi, dai ritrovamenti archeologici e da noi accennato nell’articolo “I Feaci”, il vulcano siciliano, intorno al IV millennio a. C., implose. In parte sprofondando a formare l’odierna Valle del Bove e in parte scivolando sul mare, provocò delle onde così alte da sommergere le coste e le città del Mediterraneo che erano state edificate in prossimità della costa. Atlit Yam, che ora giace sotto la sabbia in fondo al mare egiziano, è una di queste. Imparata la lezione, che non era stata l’unica né la prima inflitta agli abitatori della costa siciliana, i quali, durante i periodi di glaciazione e interglaciazione susseguitisi nei millenni, avevano osservato salire e poi ridiscendere il livello del mare, gli abitanti dell’isola, i Sicani, da quel momento costruirono le loro città all’interno dell’aurea isola di Sicania, sugli alti colli, come afferma Diodoro siculo e come confermano i reperti archeologici ivi rinvenuti. Il territorio adranita in particolare, ha restituito, nei circa dodici villaggi che lo ricoprivano, reperti archeologici datati a partire dal 7.000 a.C., come abbiamo argomentato nell’articolo “Adrano, il pagus e il territorio”. I su detti villaggi, a partire dalla media età del bronzo, vennero abbandonati dai loro allarmati abitanti. Questi ritennero più sicuro, a ragione, di trasferirsi nell’unico villaggio fortificato con poderose mura ciclopiche, centro cultuale della stirpe sicana. In questo villaggio, abitato esclusivamente da “adranitani” ovvero i sacerdoti di Ano, l’avo, veniva praticato il culto nei confronti dell’ avo divinizzato Adrano, il primo uomo, il capo della stirpe dei Sicani che riuscì, attraverso il superamento di prove al lui imposte dagli dèi, ad ascendere e a loro rendersi simile. Per comprendere il motivo per cui i sapienti sacerdoti “adranitani”, comparabili alla casta sacerdotale degli annunaki sumeri e ai druidi celti, scelsero il sito dell’attuale città di Adrano (nel tempo, la città dell’Avo avrebbe subito diverse rinominazioni) per edificare il tempio più importante della Sicilia, sede di pellegrinaggio da parte degli abitanti dell’isola, rimandiamo chi desiderasse saperne di più alle tesi esposte nell’articolo citato.

La nascita delle città portuali.

Quando i villaggi dell’interno dell’isola progredirono demograficamente e i commerci aumentarono notevolmente, negli anfratti costieri, dove prima vi era un semplice approdo per le barche che solcavano i navigabili fiumi dell’entroterra fino al mare aperto, come si evince ancora in epoca romana in cui Cicerone nelle verrine afferma che la nave dei Centuripini era la più veloce – Centuripe è una città dell’entroterra sotto la quale confluiscono i fiumi Salso e Simeto -, sorsero le città; Catania fu una di queste.

Le due Etna.

Dunque, sulla base dei reperti archeologici raccolti, delle fonti letterarie consultate, degli indizi colti e delle deduzioni tratte, è possibile affermare che, ancora prima di pensare ad una fondazione della città di Catania, i prischi Sicani avessero concepito, appena giunti nell’isola di Trinacria, ovvero l’isola delle “tre potenze”, di erigere il tempio dell’Avo nella città di Innessa, primo nome dato alla città di Adrano. Questa, come afferma Diodoro siculo nel capitolo dedicato al principe siciliano Ducezio, senza soffermarsi sul motivo del cambiamento, aveva mutato il proprio nome in Etna e dopo ancora in Adrano secondo le conclusioni a cui siamo pervenuti con le nostre ricerche, i risultati delle quali sono state sottoposte al vaglio di un attento uditorio in diversi incontri culturali pubblici e privati e pubblicate infine sui siti web miti3000.eu e Adranoantica.it. Ora, si dà il caso che nel 470 a. C., la città di Catania assumesse il nome di Etna prima appartenuto, come sopra affermato, alla futura Adrano, e poiché l’antico adagio recita che il meno viene tratto dal più, si intuisce che se Catania abbandonava – o gli veniva imposto di abbandonare–il proprio nome per assumere quello di Etna, certamente questo cambiamento avrebbe dovuto significare per i Catanesi o per l’ispiratore del cambiamento, un salto di qualità in termini di prestigio, in quanto la città di Etna, ex Innessa, avrà dovuto rappresentare nell’immaginario collettivo isolano, una città portatrice di carisma e prestigio, comunque superiore a quello della città portuale. Ciò appare plausibile se si considera che a Etna, oltre che essere presente il tempio dell’Avo, gli abitanti avevano portato, appena dieci anni prima, quando cioè a dirigere le operazioni militari vi era Gelone, il fratello di Jerone che avrebbe mutato il nome di Catania in Etna, un notevole contributo nella battaglia di Imera combattuta tra gli alleati siciliani e i Cartaginesi, anzi, nelle pagine di storia vergate da Diodoro, emerge che, grazie al contributo militare degli Etnei, le sorti incerte della battaglia mutarono a favore degli alleati. Non è tutto. Attraverso il racconto dello storico Polieno – Stratagemmi- si evince che la città di Innessa/Etna, era la più ricca fra quelle Etnee se non proprio della Sicilia tutta, tanto da indurre il tiranno di Agrigento Falaride a un tentativo di rapina nei suoi confronti. La presenza della enorme ricchezza nei forzieri della città stato di Innessa/Etna/Adrano non deve stupire, in quanto a motivo del tempio dedicato al culto nazionale e della inespugnabilità del sito di Adrano, anche le città limitrofe deponevano il proprio oro cittadino presso il tempio, così avveniva anche a Delfi nel tempio dedicato ad Apollo. Di conseguenza, si può ben essere certi, che ad Adrano come a Delfi, si fosse allora costituita una anfizionia a protezione del tempio, cioè era stata costituita una guardia formata da militari provenienti dalle città che partecipavano del culto. Il tiranno agrigentino, riconoscendo l’impossibilità di un successo militare se si fosse avventurano in una guerra aperta contro la città dell’Avo, fece ricorso ad uno stratagemma per appropriarsi degli ori del tempio, unico suo cruccio. Sorvolando sulla perfidia del tiranno greco che ognuno può verificare leggendo il testo di Polieno, a noi preme ricostruire in questa sede i fatti storici che videro protagoniste le città di cui ci stiamo occupando. Dal racconto di Polieno si può appurare che il re sicano Teuto aveva una figlia da maritare, e molti erano i pretendenti nell’isola. Secondo la nostra ricostruzione, esposta nell’articolo “Un matrimonio illustre nella Adrano del IV sec. a.C.” , risulta probabile che la principessa di Innessa si chiamasse Etna e che avesse sposato un illustre cittadino catanese, magari il figlio di Caronda, che visse nello stesso periodo dei Nostri. Riteniamo pertanto plausibile che, la città di Innessa facesse parte della dote che il re Teuto aveva messo a disposizione della figlia, con la promessa che essa sarebbe diventata regina di Innessa dopo la propria morte, essendosi interrotta la discendenza patrilineare per mancanza di figli maschi nella casa regnante. Le relazioni tra la città dell’Avo e Catania, prima che questa venisse completamente grecizzata nel periodo di cui ci stiamo occupando, dovettero essere assai buone e ciò si evince dal nome del mitico fiume Amenano che un tempo scorreva a Catania. Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a menzionarlo, epperò vi ritorneremo nel capitolo seguente.
Dando per buona la ricostruzione fin qui proposta, è ipotizzabile che i Catanesi non abbiano sollevato alcuna obiezione a Jerone che rinominava la città in Etna, riconoscendo nella principessa adranita la propria “Ava”. La prestigiosa posizione di Teuto e di Etna, regnanti, e, probabilmente, pontefice e sacerdotessa del culto nazionale, in una fase aurea della storia siciliana, dovette condizionare assai lo jerofante Jerone che, sebbene fosse un pessimo regnante, dovette certamente essere stato assai edotto in ambito religioso come si evince dal significato del suo nome. La conferma di una sua profonda conoscenza delle sacre cose, ci proviene dalla constatazione che nel programma del re catanese vi era quello di consolidare i rapporti tra la città di Etna e Catania, se non addirittura fondere politicamente l’una città all’altra, utilizzando la mitologia sicana opportunamente rielaborata in chiave greca, che, come vedremo, era alla base del prestigio della prima e di cui si sarebbe nutrita la seconda. Le due città consorelle, ricordiamolo, si trovavano in quel momento storico, – 470 a.C. -, sotto la giurisdizione politica e militare di Jerone; Diodoro afferma infatti che, per il re, l’aver ottenuto di installare sull’acropoli della libera città di Innessa/Etna, una semplice guarnigione militare, il successo divenne motivo di grandi festeggiamenti. Il tentativo di rielaborare la mitologia sicana, doveva avere, come sopra affermato, quale fine del programma esteso da Jerone, quello di unire in un abbraccio politico la sicana Innessa/Etna (futura Adrano) alla sede regia di Catania. Il compito di rielaborare il mito sicano viene affidato ad un esperto in ambito religioso, iniziato ai misteri di Eleusi e già sospetto ai sacerdoti di Delfi per il suo vezzo di svelare ciò che doveva rimanere velato, Eschilo. Questi compone per il re l’opera teatrale le “Etnee”, incentrata sul culto degli dèi Palici, figli dell’avo Adrano. Il culto a cui erano interessati il re catanese e il tragediografo, e che si prestava allo scopo, si svolgeva nella città di Etna (futura Adrano), come si evince dal suo contenuto. Infatti, in esso, si fa tra l’altro riferimento alle fonti dei gemelli Palici, che scorrono nella Valle delle Muse, sulla riva sinistra del fiume Simeto nei pressi di Adrano e di cui parlerà anche Virgilio nel libro IX dell’Eneide. Del contenuto del mito rielaborato da Eschilo in chiave filo greca, purtroppo, ci sono arrivati soltanto pochi frammenti provenienti da citazioni di autori posteriori, ma sufficienti per permetterci la qui tentata ricostruzione dei fatti.

Ad Eschilo parve bene intitolare la sua opera “ le Etnee” , giocando così sulla ambiguità di un nome che sarebbe appartenuto sia alla città dell’Avo che, successivamente, a Catania quello di Etna. In comune, le due città avevano avuto anche l’Ava, Etna (?) figlia di Teuto, grazie al matrimonio da Lei contratto con un Catanese (?). Ma un’altra Etna, che i Greci intendevano condividere con i prischi Sicani di Innessa/Etna/Adrano entrava in gioco nella rielaborazione eschilea; era, questa, la Ninfa di cui i Palici erano figli e Adrano era sposo, appunto la ninfa Etna. La ninfa Etna, nella mistificazione mitologica messa in scena da Eschilo, avrebbe fatto da trait d’union tra la cultura sicana e quella greca, tra la sicana città di Innessa/Etna e quella greca di Catania/Etna, concependo al greco Zeus i gemelli Palici che il sicano dio Adrano avrebbe preso in adozione. A noi, eredi dei prischi Sicani, piace credere che l’Avo abbia punito, per l’infame mistificazione mitologica messa in atto dai perfidi greci, il re Jerone condannandolo ad una meritata damnatio memoriae, e il tragediografo Eschilo, disperdendo l’indegna sua opera teatrale.

Amenano

Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume catanese, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a tentare una analisi etimologica dello stesso, esternando in pari tempo ai nostri lettori alcune intuizioni sul motivo che avrebbe portato i Sicani di Catania alla scelta dell’idronomo.
Il mitico nome del fiume catanese avrebbe implicazioni assai importanti con la cultura sicana, mettendo altresì in evidenza le origini pre elleniche del sito e della cultura catanese.
Infatti, il nome del divino fiume risulta formato dall’accostamento dei lessemi MN e ANO. Traducendo l’appellativo verbum pro verbo, esso può essere così formulato: mente/avo. Volendo invece esercitare la libera interpretazione del significato del nome, azzardiamo per esso il significato di “ La memoria dell’Avo” o “In memoria dell’Avo” . La apparente, leggera differenza della traduzione del nome ha implicazioni assai più profonde di quanto sembri. Infatti, recenti studi di prestigiosi ricercatori fanno cenno ad una memoria dell’acqua, e se, forzando ulteriormente il significato attribuito al nome del fiume, mettessimo questo significato in relazione alle affermazioni fatte dagli scienziati, potremmo ancora una volta ipotizzare che le conoscenze da noi attribuite alla casta sacerdotale degli “Adranitani”, non fossero per nulla inferiori alle conoscenze dei moderni scienziati e a quelle attribuite agli omologhi sumeri, egizi, celti, iraniani etc. Le conoscenze attribuite a questi, analizzate alla luce di recenti tecnologie e con una mente laica più di quanto lo sia stata in passato, stanno facendo riscrivere la storia.

Ma torniamo al nome del mitico fiume che un tempo scorreva nel villaggio catanese, l’Amenano. Grazie all’idronomo si può dunque immaginare che il conio fosse stato apposto al fiume in una epoca in cui l’isola era denominata Sicania, ovvero la terra dell’Avo o, comunque in una epoca in cui le tradizioni sicane erano ancora predominanti nell’isola. Infatti, il significato del sostantivo Ano, nell’alto antico tedesco, lingua che noi abbiamo ipotizzato essere la più aderente a quella parlata dai Sicani (vedi l’articolo: “Jam akaram, la lingua dei Sicani”) significava avo, antenato, nonno. Il sostantivo in questione, unito ad aggettivi, preposizioni, avverbi etc. va ancora a formare i nomi dei fiumi Ana-po, che scorre nei pressi di Siracusa e che traduciamo con: “procedente dall’avo” (Ana-ab) ; Adr-ano che un tempo scorreva nella omonima città; lo ritroviamo anche nel fiume Adrana (oggi Eder), in Germania, citato da Tacito); anche in Spagna, ancora oggi, scorre un fiume Adrano. La traduzione da noi proposta per il nome Adrano è quella di Avo furioso, significando l’aggettivo odhr appunto furioso.
Ma non è soltanto il sostantivo Avo che ritroviamo a formare il nome dell’antico fiume ad essere condiviso da Adrano con Catania. Pare che un più lungo cordone ombelicale che porta fino ai giorni nostri unisca le due città, anche se, successivamente, a ruoli invertiti.

Ansgerio vescovo di Catania e priore di Adernò.

Questo vescovo inglese, venuto in Sicilia al seguito del Gran Conte Ruggero, come era di abitudine nell’era di mezzo, venne insignito dal suo signore di una moltitudine di titoli tra i quali compariva quello di Priore di Adernò, nome quest’ultimo, di Adrano, storpiato dalla pronuncia francese della lingua parlata dai Normanni. Il titolo assunto dal vescovo conferma l’importanza politica, religiosa e militare, che Adrano conservò immutata nei millenni. Per ciò che concerne il ruolo militare di perno degli eventi isolani, della città dell’Avo negli eventi isolani, mai dismesso fin dalla battaglia di Imera del 480 a.C., a cui si è accennato sopra, e poi ancora del 344 a.C., combattuta da Timoleonte per la cacciata dei tiranni dalla Sicilia e vinta grazie alla anfizionia che era a guardia del tempio del dio Adrano, come si evince da Plutarco nel ‘Timoleonte’, non vi sono più dubbi. Approfittiamo dell’argomento qui trattato per esprimere la convinzione che il Gran Conte Ruggero avesse già trovata edificata la torre di guardia, convinzione suffragata da vari elementi, tra i quali la data del 1009 incisa nella pietra della porta del gran maniero adranita, ed egli si fosse limitato a riadattarla, ampliarla e modificarla secondo le nuove sopraggiunte necessità.

Ordini Cavallereschi.

Se da un lato la città di Catania diventava grande e ricca per i commerci che la mutata era metteva al primo posto nella nuova concezione del mondo, ad Adrano rimaneva il prestigio fornito da importanti famiglie, prelati, ordini cavallereschi che l’avevano abitata a partire da Adelicia, nipote del Gran Conte, che dalle sale della sua torre normanna, elargiva donazioni a chiese e altre ne edificava. Se affermiamo che il prestigio adranita rimaneva inalterato a partire dall’immediato insediamento sicano e dalla costruzione del tempio dedicato all’Avo, non è da considerarsi tale affermazione una iperbole o dettata da cieco amor patrio, altrimenti non si spiegherebbe come mai proprio ad Adrano, dopo quella fondata a Palermo pochissimi anni prima, si decidesse di fondare la più prestigiosa confraternita a carattere filantropico che portava il titolo di Confraternita dei Nobili Bianchi e alla quale potevano aderire, come si evince dal nome, per statuto, soltanto coloro che potevano certificare la propria nobile origine. Uno statuto così concepito risale agli ordini monastico cavallereschi che presero vita in terra Santa e, però, in Europa trovarono il vero campo d’azione. Ma di ciò è stato sufficientemente scritto altrove.
Ritornando alla nascita della prestigiosa Confraternita ad Adrano, ebbene, soltanto dopo seguì la formazione di quella di Catania. Non si spiega ancora come potesse essere stato possibile che nella “oscura” e modesta cittadina di Adrano si potesse costruire un teatro che, soltanto anni dopo, la grande metropoli catanese, prese a modello per costruirne uno uguale seppur in scala più grande. Parliamo del teatro Bellini. A proposito di teatro, segnaliamo in questa circostanza alla sovrintendenza, che la struttura muraria circolare, di cui emergono pochi metri nei pressi di via Catania e di cui la sovrintendenza è bene a conoscenza in quanto, in illo tempore, intervenne per bloccare i lavori di una costruzione abusiva a ridosso di questi ruderi, trattandosi a nostro avviso degli ipotetici gradoni di un anfiteatro, attendono di essere portati alla necessaria visibilità, affinché possano testimoniare, assieme ai notevoli resti di altre strutture, di quale prestigio poté vantarsi la patria della civiltà sicana, Adrano.
Ci preme riaffermare che le nostre non sono deliranti supposizioni di un febbrile amor patrio, ma tesi, frutto di studi e ricerche poste in essere attingendo alle discipline capaci di contribuire a disvelare la vetusta storia adranita e, per riflesso, quella dell’isola. Concludiamo ponendo ai lettori l’ultimo arcano: come è stato possibile che l’oscura cittadina di Adrano abbia espresso nel XIX secolo dell’era volgare un esagerato numero di sedi massoniche capaci di interloquire con forze d’opposizione politica sparse in Italia? Se non possedessimo la documentazione epistolare intercorsa tra alcuni dei nostri concittadini Adraniti con esponenti della Giovine Italia, anche queste potrebbero apparire illazioni. Tralasciando ogni giudizio in merito, in attesa che vengano fuori nuovi documenti, che magari dimostrino un forte contributo adranita alla politica isolana, a noi piace far notare ai nostri concittadini, che delle sei logge massoniche presenti ad Adrano, una di esse si chiamava “Levana”. Era questo il nome dell’antica dea preposta ad assistere le partorienti. Il nome, oltre che a ricondurre ad un concetto esoterico, in coerenza con le intenzioni della loggia, di portare in vita o alla luce ciò che è celato, riflette la necessità di utilizzare non solo i miti ma una lingua primordiale ancora non completamente in disuso, la lingua sicana, che meglio veicola gli inesprimibili concetti superiori. Infatti nel nome Levana si può rintracciare la radice AN. Ana significa ava, antenata, nonna. L’aggettivo leu-lug-luk, con il significato di luce, conferisce dunque all’Ava la doppia veste di custode della vita fisica e di quella metafisica. Essa è dunque preposta all’iniziazione del neofita che, tramite suo, rinasce a nuova vita. Essendo Levana la portatrice di luce, quei concittadini, evocandola, si riproponevano forse di diffondere la luce che si “levava” dal tempio dell’avo primordiale Adrano?

Ad majora.

Dalla Terra Santa ad Adrano. Ishtar, Salomone, i Templari: quali relazioni?

Dalla Terra Santa ad Adrano. Ishtar, Salomone, i Templari: quali relazioni?
Nel 1314, l’ultimo maestro templare, Jacques de Molay, in seguito alle accuse infamanti mosse da Filippo IV re di Francia soprannominato il bello, venne arso vivo e l’Ordine templare di cui egli era il gran maestro, dichiarato sciolto da papa Clemente V. Tutti i possedimenti appartenuti ai Templari vennero allora assegnati all’ordine Gerosolimitano, al quale quello dei Templari era affine e del quale probabilmente era stato la costola. In Sicilia, intanto, laboratorio da cui provenivano le innovazioni, non solo politiche, che furono adottate spesso in tutta Europa, Federico II anticipava il re di Francia di mezzo secolo. Infatti, dopo le ostilità mostrate dai due Ordini nei confronti di Federico in Terra Santa, in quanto appoggiavano la politica del papa, l’Ohenstaufen nel 1229 espropriava i due ordini di tutti i beni da loro posseduti nel territorio siciliano. Ma se un anno dopo l’imperatore, venuto a patti con il papa, restituiva i beni agli ordini caduti in disgrazia, il re di Francia, ottant’anni dopo, non avrebbe fatto altrettanto. Tuttavia, se Filippo il bello, nel 1307 riusciva nell’opera di spoliazione dei possedimenti templari, le ricchezze trasportabili quali erano gli ori che potevano essere contenuti nei robusti forzieri, le conoscenze scientifiche e metafisiche acquisite dall’Ordine in Terra Santa, quando si manifestarono i prodromi della persecuzione francese, presero il largo al seguito dei cavalieri con la croce cucita sul petto. Alcuni di questi cavalieri con i loro pesanti forzieri si recarono in Portogallo ove furono ben accolti e dove assunsero il nome di cavalieri dell’Ordine del Cristo. Altri Cavalieri, con navi stracolme di forzieri, passarono in Scozia ove una famiglia tra le più nobili della regione, i Sinclair, fornì loro la necessaria protezione politica. Mezzo secolo dopo l’arrivo dei Templari in Scozia, i Sinclair erano diventati così ricchi da essere in grado di finanziare spedizioni nel nord America, in un luogo che assumerà il nome di nuova Scozia, e ciò ancor prima che Colombo scoprisse ufficialmente le Americhe nel 1492. Dai documenti emerge che un Sinclair aveva partecipato alla prima crociata del 1096; conclusa questa tre anni dopo con la conquista della città di Gerusalemme e avendo i cavalieri eletto Goffredo di Buglione protettore suo protettore, veniva anche costituito l’Ordine del Tempio, così chiamato in quanto aveva la propria sede in una delle stanze del distrutto tempio di Salomone a Gerusalemme. Successivamente la figlia dello scozzese era andata in moglie a uno dei fondatori dell’Ordine, Ugo de Payns (forse da identificare con Ugo dei Pagani come affermato nel nostro articolo “I Templari in Adrano”). Si giustifica così, in seguito alla persecuzione di Filippo il bello, la scelta di alcuni Templari di recarsi in Scozia.
GLI (O) SPITALERI DI ADRANO.
Si potrebbe tracciare per la città di Adrano un parallelismo con le vicende dei Templari scozzesi?
Di certo è che la famiglia degli Spitaleri appare in Adrano fin da quando gli ordini monastico cavallereschi si insediarono nella città plurimillenaria che fu sede del tempio della divinità sicana eponima. Tuttavia il loro nome sembra essere collegato agli Ospitalieri e non ai Templari e i primi, a differenza dei secondi, non furono né sciolti da papa Clemente V, né spogliati dei loro beni dal re francese, anzi essi acquisirono i beni di cui i Templari verranno successivamente espropriati ed è possibile che proprio da questa espropriazione la famiglia adranita abbia accresciuto il proprio prestigio e le proprie ricchezze. Infatti, non è a noi passato inosservato che nella lista genealogica della famiglia appare un Barone Spitaleri di S. Elia. Era, quella di S. Elia, una ricca contrada appartenuta ai Templari, coltivata per la maggior parte a vigneti, come si evince da alcuni atti di compravendita fra privati, redatti rispettivamente negli anni 1135-60-90 in cui compaiono, come testi firmatari, certi ‘sospetti’ frati (articolo citato). Dagli atti sopra citati, si evince dunque, che ancora fin al 1190 il priorato di S. Elia di Adrano, rientrava fra i beni posseduti dall’Ordine; l’acquisizione da parte di un privato (Barone (O) Spitaleri?) pertanto, dovrebbe collocarsi dopo questa data e potrebbe dunque essere avvenuta nel 1230, quando cioè Federico II espropriò i Templari e gli Ospitalieri dei beni acquisiti in terra di Sicilia. E’ altresì possibile che lo stesso appellativo di Ospitalieri, che diventerà il cognome della famiglia, sia stato acquisito dal nuovo possessore (un cavaliere crociato che orbitava tra gli interessi degli Ospitalieri?) dei feudi nel momento del passaggio di proprietà. Infatti, sfogliando il poderoso libro -” Mille anni di storia dei migliori vini dell’Etna” -, generosamente a noi omaggiato dal suo autore rampollo della prestigiosa famiglia degli Spitaleri, Arnaldo, in cui si raccontano mille anni di storia dei vini prodotti dalla famiglia, e in cui indirettamente si traccia una genesi della famiglia medesima, non è a noi sfuggita l’affermazione qui riportata per esteso: “Ormai imparentati con le nobili famiglie siciliane scelgono già dal Trecento anche loro (gli Spitalieri) un simbolo, uno stemma, che li possa contraddistinguere”. Ebbene, la data in cui si effettua il su citato salto sociale con il quale la famiglia, da grande detentrice di fertili terreni agricoli accede alla nobiltà, ci riporta al periodo in cui si svolse la brevissima diatriba tra l’ordine degli Ospitalieri, quello templare, e Federico II. Quando l’Ohenstaufen sarà costretto a barattare la propria riabilitazione politica compromessa dalla scomunica papale e restituire i beni sottratti ai due ordini, gli (O) Spitaleri verosimilmente sarebbero entrati già a far parte, attraverso matrimoni trasversali, di quelle nobili famiglie ritenute ormai intoccabili, alcune imparentate con lo stesso Federico II, come quella dei Ventimiglia, conservando per sé i terreni appartenuti all’ordine e acquistati legittimamente.
Onde dar corpo alla ricostruzione degli eventi che interessano il territorio adranita e le nobili famiglie che lo abitarono, e fare intendere quali intrecci di interessi politici ed economici potessero essere stati intessuti allora come ora, fra i nobili da un lato e i nuovi arricchiti dall’altro, basti fare riferimento ad un atto notarile datato 1131 giunto integralmente fino a noi, attraverso il quale avvengono dei trasferimenti di terreni presso l’isola di Lipari. Ebbene, tra i testi firmatari del su detto atto, è presente il sacerdote Fulconis il cui cognome riconduce alla dinastia reale dei Plantageneti della quale successivamente Federico II avrebbe sposato una lontana erede, Isabella d’Inghilterra. Isabella, l’ultima moglie del re siciliano, era la figlia di Giovanni senza terra, fratello di Riccardo detto cuor di leone. Con questi, Federico, come diremo più avanti, intreccerà il suo destino in Terra Santa. .
SCOZIA E SICILIA: I RE IMPARENTATI.
Si evince, grazie alle ricerca documentaria, che i re al governo delle nazioni che costituiranno la futura Europa non solo erano imparentati tra loro, ma facevano convergere i propri interessi e le proprie ambizioni, non senza scontrarsi spesso, su obiettivi comuni. Uno di questi obiettivi era costituito dall’ambizione di ottenere il prestigioso regno della Terra Santa che, attraverso la prima crociata, era stabilmente detenuto dai Franchi. Le ambizioni di Federico II e Riccardo, re d’Inghilterra, ora si scontravano o forse semplicemente si incontravano, in Terra Santa. Con la morte di Riccardo e il matrimonio di Federico con la nipote del re, Isabella d’Inghilterra, veniva verosimilmente appianato ogni possibile disguido e stemperata ogni ambizione inglese nei riguardi della città santa. Non possiamo allargare le indagini in questa sede, per ovvi motivi di brevità, circa gli interessi incrociati che intercorsero tra Saladino e Riccardo re d’Inghilterra prima, e successivamente tra Federico II, nipote del re, e Al’Kamil nipote di Saladino, rapporti sospettosamente cordiali fra i quattro protagonisti, che portarono alla pacifica suddivisione del territorio palestinese tra Cristiani e Musulmani. .

Chiesa di S. Agostino, già Chiesa dell’Annunziata.

LA CHIESA DELLA MADONNA ANNUNZIATA DEI PADRI AGOSTINIANI DI ADRANO.
La chiesa cui facciamo cenno nel titolo del capitolo che segue, oggi intitolata a S. Agostino, fu la originaria cappella della Compagnia dei Nobili Bianchi – sorta ad Adrano nel 1568, subito dopo quella di Palermo e due anni prima di quella di Catania -; è quanto deduciamo dalla lettura della biografia del sacerdote adranita Francesco Musco, vissuto ad Adrano nel ‘500, compilata dal Barone Vincenzo Spitaleri, che la diede alle stampe nel 1735. Nell’opera apologetica del sacerdote, a Pag 35, il barone fa cenno alla chiesa dell’ Annunziata come il luogo scelto per la sepoltura dei poveri. Durante i lavori di ripavimentazione della sacrestia, come affermato dal parroco Rev. Padre Abate, si rinvenne nella attuale chiesa di S. Agostino ex Annunziata, un solaio a copertura di un ipogeo; non essendo interessati ad esplorarlo, motivati da umana pietas, non avendone tra l’altro individuato l’ingresso, ci si limitò, in quella circostanza, a eseguire la ripavimentazione del solaio, consegnando all’indagine documentaria le possibili prove di quanto in questa sede ricerchiamo. La genesi della Compagnia dei Nobili Bianchi, sorta ad Adrano nel 1568, subito dopo quella di Palermo e due anni prima quella di Catania, e che assurse in Sicilia ad un improvviso prestigio e potere economico, è stata dagli storici poco indagata: noi, in uno dei precedenti nostri articoli, avevamo avanzata l’ipotesi secondo la quale essa potesse essere stata una ricostituzione del disciolto Ordine dei Templari (vedi l’articolo ‘Rinominazione della città di Adernò in Adrano). Il nome di Chiesa dell’ Annunziata, si riscontra anche per una cappella appartenuta ai Nobili Bianchi a Castelfranco di sopra, nei pressi di Firenze, nel XIV sec. La stessa città di Firenze in cui i Nobili Bianchi si costituirono prima che altrove, presenta un simbolismo riconducibile alla Compagnia di cui diremo a suo luogo. Il fatto che il Palazzo dei Bianchi fosse appartenuto alla nobile e antica famiglia dei Ventimiglia, e questi l’avessero ceduta ai Bianchi di Adrano per farne la loro sede, avvalora ulteriormente la ricostruzione che esporremo di seguito. Si aggiunga che i Moncada consideravano Adrano la perla dei loro possedimenti. I componenti di questa famiglia, giunta in Sicilia alla fine del ‘400 divennero prima conti di Adrano e Caltanissetta e nel 1565 principi di Paterno’.

Castello di Threave in Scozia
Castello di Threave in Scozia

IL SIMBOLISMO TEMPLARE DALLA TERRA SANTA AD ADRANO.
I recenti lavori di restauro, tuttora in corso nella su nominata chiesa adranita, hanno portato alla luce un tripudio di affreschi decorativi nelle pareti e sulla volta che, a nostro avviso, contribuiscono a darci ragione sull’ intuizione a noi balenata in tempi non sospetti circa il ruolo esercitato ad Adrano e in Sicilia, dalla Compagnia dei Nobili Bianchi e che di seguito esporremo. I lavori di restauro hanno fatto emergere una stupefacente decorazione di natura floreale in cui sono raffigurati, attraverso il sapiente e armonico utilizzo di colori di un tenue azzurro e candido biancore, corone di gigli che corrono lungo le pareti e le alte volte della ora chiesa, e poi di rose, queste dipinte soltanto sul soffitto dell’abside della chiesa. Ora si dà il caso che il motivo floreale che appare nella chiesa adranita sia il medesimo di quello che adorna le due colonne e il tetto della cappella scozzese di Rosslyn di proprietà della nobile famiglia dei Sinclar. La famiglia scozzese, come si ricorderà anche per quella degli (O) Spitaleri di Adrano, aveva preso parte alla prima crociata per la riconquista del Santo Sepolcro. Dalla Terra Santa, come già detto, nei primi anni dell’anno mille e cento, aveva preso vita il nuovo Ordine dei Templari. I Templari, una volta costituitosi in ordine monastico cavalleresco, in Terra Santa avevano ricavato la loro sede in una stanza del distrutto Tempio di Salomone. Come si evince attraverso la lettura dell’Antico Testamento, Il giglio e la rosa si trovavano raffigurati nelle due colonne di Boaz e Iachin poste rispettivamente a sinistra e a destra dell’ingresso del tempio di Salomone a Gerusalemme. Il giglio domina, come elemento decorativo, ovunque all’interno del salomonico tempio così come domina all’interno della chiesa adranita. Ma ora, alcune associazioni che porremo all’attenzione del lettore, faranno comprendere quanto intricati fossero i rapporti tra civiltà così distanti tra loro e quanto intensa fosse la mobilità nel mondo antico.
La cappella di Rosslyn venne costruita in Scozia un secolo dopo il rogo del gran maestro templare Jacques de Molay avvenuto nel 1314; la costruzione della “possibile” cappella dei Nobili Bianchi oggi chiesa di S. Agostino in Adrano, dovrebbe porsi agli inizi del ‘500, ma la compagnia si era già costituita sul territorio italiano subito dopo lo scioglimento dell’ Ordine dei Templari. Infatti, a Firenze essa appare già nel 1375 e il simbolo di Firenze è il giglio. L’ addebito della costruzione adranita – o riadattamento della cappella-, alla confraternita dei filantropi Nobili Bianchi, si rende compatibile con le finalità che la stessa si era proposte : curare gli ammalati, dare una degna sepoltura agli indigenti, soccorrere i poveri ecc. Pertanto, a tal fine, la Compagnia si propose di edificare l’ospedale annesso alla su detta cappella, il quale, ancora oggi, oltre cinque secoli dopo, assolve al medesimo compito. In altra sede accenneremo ad altri riferimenti che uniscono la città di Adrano alla Scozia, come per esempio il castello di Threave.
Ma torniamo ai Templari e al Tempio di Salomone la cui costruzione ebbe inizio nel 961 a.C. grazie all’impegno e alle ingenti risorse economiche e di uomini, profuse dal terzo re di Gerusalemme, che con quella costruzione aveva voluto saldare il debito contratto dal padre Davide nei confronti della divinità. Infatti, Davide, non potendo ottemperare alla promessa di costruire il tempio che avrebbe dovuto ospitare l’arca dell’alleanza, sul letto di morte consegna al figlio Salomone il progetto del futuro tempio fornendogli le misure per la sua realizzazione, misure che egli aveva ricevuto direttamente dalla divinità (edilizia sacra?). Davide, l’ideatore del progetto, aveva origini ittite, come abbiamo ipotizzato nel saggio “Il paganesimo di Gesù”, e soleva sacrificare alle divinità pagane; il figlio Salomone ne aveva continuato la tradizione, come si evince in I Re, 11,4-8. Tra le divinità pagane a cui i re israeliti prestavano culto, Salomone sembrava essere stato particolarmente devoto a Ishtar o Astarte, la dea Inanna dei Sumeri.
Ora, si dà il caso che le rose che troviamo raffigurate sul soffitto dell’abside della cappella adranita, su quello scozzese, nelle colonne sia scozzesi che del tempio di Salomone a Gerusalemme (nel A. T. : I Re, 6,18 si fa cenno a ghirlande di fiori; e inoltre in 7,20 si afferma che ghirlande di gigli adornavano l’interno del tempio, non possono perciò passare inosservate le ghirlande di gigli dipinte sulle pareti della chiesa adranita), erano sacre a Ishtar. Ci chiediamo: i cavalieri dell’Ordine del Tempio avrebbero appreso (o recuperato) le loro conoscenze esoteriche presso il tempio di Salomone e ne avrebbero poi esportato il simbolismo? La risposta sembrerebbe affermativa se teniamo conto che le costruzioni che Federico II avrebbe successivamente fatto erigere, una fra le tante il castello del Monte, sono infatti opere definite dagli studiosi libri di pietra (il parallelismo con il tempio di Gerusalemme le cui misure erano state dettate a Davide dalla divinità, è pertanto dovuto. Particolarmente significativo è il riferimento al numero otto – I Re, 6, 38; 7,10).
La corrispondenza epistolare intercorsa tra l’imperatore tedesco e l’emiro Al’Kamil, basata spesso sulla disquisizione filosofica e metafisica, farebbe presupporre che, sia l’islamismo esoterico (il sufismo) che quello occidentale, siano debitori ai segreti celati in Terra Santa. Ma ritornando sulle possibili origini etniche del terzo re di Gerusalemme Salomone, che non era Ebreo, va notato che non lo erano Baldovino né i suoi eredi, né Al’Kamil, né il tedesco Federico II e molti altri. Avendo notato che l’investitura/iniziazione di Saul, primo re di Israele era stata possibile soltanto dopo che il re aveva superato le prove a cui era stato sottoposto dal sacerdote Samuele; ci chiediamo se ancora al tempo di Federico, in Terra Santa, esistesse una corrente sotterranea esoterica (seguendo le speculazioni dell’esoterista Rene’ Guenon sembrerebbe che essa esistesse ancora fino al suo tempo, anzi pare che egli stesso fosse stato iniziato) che imponeva ai re di Gerusalemme, per diventare tali, una iniziazione ai misteri. Se così fosse si spiegherebbe il motivo per cui i rapporti tra Al’Kamil e Federico, che sembrano riproporre quelli ottimi intercorsi due millenni prima tra il fenicio re di Tiro Hiram e Salomone, fossero più che cordiali, fraterni. È infatti possibile che tra i due re si fosse instaurato quel legame spirituale infuso attraverso l’iniziazione, che successivamente avrebbe fatto chiamare fratelli gli appartenenti alla massoneria (ufficialmente costituita nel 1717). Si noti che anche la massoneria affonda nel tempio di Gerusalemme e nel sigillo di Salomone, le proprie radici e Adrano fino al XIX secolo vantava ben 4 logge massoniche: Figli dell’Etna; Barone Guzzardi; Rinnovamento e Levana, come emerge dalle ricerche dello storico adranita A. Montalto, La costruzione del tempio di Salomone, così come descritta in Re, 6, sembra aver costituito l’esempio di un modello di edilizia sacra basata sulle proporzioni, sui numeri, sull’armonia, che fu di riferimento anche per Castel del Monte. Entrambi gli edifici sono ricchi di simboli numerici tra i quali appare il numero otto. Le conoscenze a cui facciamo cenno non cessarono mai di operare nel territorio adranita, sede di forze primordiali. A questo proposito è importante ricordare ai nostri affezionati lettori, le colonne ottagonali provenienti dalla città sicula del Mendolito presso Adrano, databili all’ VIII sec. a. C. e le quattro logge massoniche che, ultime, continuarono a trasmettere una tradizione plurimillenaria. Successivamente le pratiche esoteriche esercitate nella loggia massonica nata per prima in Inghilterra, patria di Isabella moglie di Federico II, sarebbero state definite “di rito scozzese”. Ma della Gerusalemme dei Re abbiamo sufficientemente disquisito nel citato saggio, in questa sede concluderemo il nostro excursus affermando che, il simbolismo templare di provenienza Palestinese, in realtà deriva da altre coordinate geografiche e da ere cronologicamente incommensurabili e che il Medioevo rappresentò soltanto un momento congiunturale in cui determinate forze esogene si ripresentarono prepotentemente.
Ad majora.