Oceano ovvero la stirpe acquatica dell’Avo

Poiché la primordiale stirpe sicana affidava soltanto alla memoria, alla “forza della mente”, la propria perpetuazione spirituale e poiché il mito era la modalità attraverso la quale i nostri antichi progenitori rappresentavano la propria visione del mondo, a noi tocca tentare la decodifica di quella rappresentazione che gli Avi ci hanno tramandato utilizzando un linguaggio metaforico e plastiche allegorie. In questo breve saggio ci occuperemo del mito di Oceano, uno dei figli di Urano e, ancora una volta, nel corso dell’analisi sarà possibile constatare come una globalizzazione culturale informava le civiltà pre storiche che abitavano il pianeta. Sarà ancora possibile comprendere come attraverso l’onomastica, gli Avi intendessero veicolare interi concetti e tradizioni.

Etimologia del nome.

Il lettore avrà certamente riscontrato come spesso nell’onomastica si faccia esplicitamente riferimento, con orgoglio, alle proprie radici etniche. Ebbene, il nome Oceano non fa certo eccezione.
Nel mito greco, Oceano era figlio di Urano.
Ora, al ricercatore non sarà passato inosservato che entrambe i nomi sono formati con la radice An. Il sostantivo Ano, nella lingua antico alto germanico significa avo, antenato, nonno, ma anche cielo, sede degli antenati. Pertanto, se si scompone il nome della divinità marina secondo la lingua agglutinante tedesca, utilizzando la grammatica avremo la sequenza: ö-cened-ano. Chi ci ha seguito nelle ricerche dei significati etimologici attribuiti all’onomastica, ricorderà che Oannes era l’appellativo apposto dai Babilonesi agli uomini pesce, esseri questi, secondo il resoconto del sacerdote babilonese Berosso vissuto nel III sec. a. C., civilizzatori venuti dal mare occidentale. Gli Oannes venivano raffigurati nei bassorilievi mesopotamici come esseri per metà pesce e per l’altra metà del corpo uomini. Nella lingua sumera e babilonese acqua si scriveva ea; ignoriamo la fonetizzazione della sillaba, se non che si constata che nell’attuale lingua francese acqua si scrive eau e si pronuncia O. Non appare pertanto peregrina la tesi secondo la quale il prefisso O del nome Oannes indichi proprio l’elemento acqua. Per quanto riguarda il concetto di stirpe veicolato dal nome Oceano, si riscontra che in antico irlandese, il termine cenedl indica un gruppo umano accomunato da vincoli parentali. Del significato di ano si è già detto e dunque non ci ripeteremo. A questo punto si può azzardare una libera interpretazione del nome Oceano: scomposto in o-cenedl-ano, potremmo dedurre che esso fosse un appellativo per indicare una “stirpe di esseri acquatici” che, padroni dell’elemento acqua, si muovevano con grande padronanza in esso. Questa stirpe – cenedl- si riconosceva forse nel comune antenato – ano- il quale potrebbe corrispondere alla figura del dio mesopotamico Enki appellato Ea, cioè acqua. A corroborare questa intuizione afferisce la presenza di alcuni bassorilievi sumerici di tre o quattromila anni fa, in cui vengono rappresentati uomini che con l’ausilio di respiratori dalla forma di otri, esplorano i fondali marini. Ritorna utile alla nostra ricerca, constatare che filosofi dello spessore di Platone si siano interessati al mito del continente Atlantideo, sprofondato nell’Oceano.

Atlantide.

Il mitico continente sparito sotto i flussi del mare nel giro di una notte, secondo le notizie apprese dal filosofo greco del IV sec. a. C., e riportate dallo stesso in due suoi dialoghi, il Crizia e il Timeo, oltre che aver dato – o forse preso- il nome all’oceano che lo circondava, ha rappresentato un rompicapo per gli studiosi e ricercatori di tutti i tempi. Noi non ci occuperemo della veridicità del mito né faremo cenno ai reperti archeologici sottomarini ritrovati nell’area in cui si ritiene fosse sorto il mitico continente, né ci soffermeremo sugli studi condotti dai geologi che confermerebbero un innalzamento dei mari di 140 m. circa @lin seguito alla deglaciazione iniziata intorno al 10.500 a. C., innalzamento che ebbe come conseguenza l’inabbissamento di parte delle coste di terre emerse e la scomparsa sotto i fondali di intere isole, ma circoscriveremo la formulazione delle nostre tesi allo studio del significato che il mito intendeva veicolare e ciò grazie al contributo multidisciplinare.

La progenie dell’Avo.

Si è fatto sopra cenno al dio Enki, divinità mesopotamica, cosa che potrebbe apparire bizzarra se si volesse tentare un collegamento con Oceano, inteso questo sia come luogo geografico che, come affermato sopra, nome in codice per veicolare una storia comprensibile ad una cultura antidiluviana, etnicamente omogenea, che abitava allora il pianeta, e che si esprimeva per metafore. Per chiarire la nostra ricostruzione di fatti accaduti migliaia di anni fa, dobbiamo fare cenno alla gerarchia divina. In tutte le culture: mesopotamica, greca, romana ecc., le divinità occupavano un loro posto nella gerarchia divina, posizione che si traduceva in termini di potere oltre che di prestigio man mano che si saliva verso il vertice. La posizione occupata dal singolo dio nel Pantheon, veniva collegata ad un numero. Al numero assegnato alla divinità corrispondevano altrettanti nomi o appellativi. Nel caso della divinità mesopotamica Enki, il suo numero era il 40 che, come si è affermato, corrispondeva al numero dei nomi con i quali il dio era conosciuto. Dei quaranta appellativi, quelli che ricorrono con maggiore frequenza per indicare il Nostro, sono collegabili all’elemento acqua: Enki ed Ea. Il nome Enki è infatti composto dai lessemi En che nella lingua norrena significa uno, primo e Kiel che significa chiglia, parte importante di una imbarcazione, riconducibile per metonimia a nave. Dunque, l’appellativo Enki, ci racconta che il dio era considerato un abile navigatore: il primo, il numero uno sui mari, tanto da formare una unica cosa con l’acqua da essere appellato egli stesso acqua, Ea. In effetti, dalla traduzione delle tavolette sumeriche, emerge che il dio, dopo che il comando della terra era passato al fratello Enlil, si fosse dato all’esplorazione del pianeta attraversando i mari, giungendo fino in Africa. Tralasceremo in questa sede di raccontare l’odissea che il dio Enki avrebbe vissuto nel corso delle sue esplorazioni, navigando per i mari, e che, secondo le ipotesi esposte nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico” durante le quali avrebbe deciso, a motivo della biodiversità riscontrata nell’isola, di creare in Sicilia un laboratorio di biologia da cui sarebbero stati diffusi i risultati delle sue ricerche, per tornare al concetto di una globalizzazione della civiltà preistorica. Ma tornando al mito di Oceano, non si può qui evitare di gettare un ponte di collegamento tra il mito greco e il mito sumerico, in quanto Oceano potrebbe essere stato uno degli eredi di Enki emigrato verso occidente, come esporremo più avanti. Infatti, secondo quanto si legge nelle tavolette sumeriche, in quella parte intitolata dagli studiosi Epopea di Erra, a Marduk, il primogenito del dio delle acque, venne assegnato l’Egitto che dovette però abbandonare subito dopo a motivo dell’esilio a cui era stato condannato dal consiglio di dèi, accusato di aver provocato, sebbene involontariamente, la morte del fratello Dumuzil. In quella occasione il regno dei futuri faraoni passò momentaneamente ad un fratello di Marduk, Ningishzidda – Thot per gli Egiziani, Tehuti per i Greci, Teuto per i Germani e i Sicani. Tra i Sicani di Sicilia, nella città di Innessa, oggi Adrano, ritroviamo con questo nome un principe che governò la città nel VI sec. a. C. -. È ipotizzabile che nel regno egiziano, come avviene oggi per chi assume il vescovato nella religione cristiana, Ningishidda cambiò nome o gliene venne aggiunto uno nuovo, quello di Thot. Marduk, richiamato dall’esilio per intercessione dei suoi potenti consanguinei, ritornò in possesso del regno egiziano. A questo punto, una volta reinsediato Marduk al trono egizio, il fratello Thot, che si era ormai affezionato al ruolo di regnante e mal volentieri restituiva il regno, venne a propria volta inviato in esilio, oltremare, là dove fonderà un nuovo regno: Atlantide. Verosimilmente il nome con il quale Ningishzidda/Thoth, verrà chiamato nella nuova sede, sarà quello di Oceano, un appellativo in cui il sostantivo Ano diventa il denominatore comune per indicare coloro che appartenevano ad un medesimo ceppo familiare, quello a cui facevano parte i divini Urano, Oceano, Adrano, Jahno (Giano bifronte), Manno, Manu, Manitou, tutti nomi derivanti da Ano/u, dio citato nei testi sumerici ( Epica di Atra-Hasis) quale capostipite dei fondatori delle città mesopotamiche. Tra i discendenti di Anu potrebbero essere inclusi anche gli Anakiti, abitanti di parte della Palestina, citati nell’Antico Testamento e definiti appunto figli di Anak. Quanto qui dedotto trova una sua giustificazione anche grazie alle affermazioni di Esiodo. Il poeta, nel suo poema, Le opere e i Giorni, afferma infatti, che i figli di Oceano erano tremila, tra i quali figuravano i fiumi Nilo, Danubio, Po.. insomma tutti quei fiumi metaforicamente collegabili alla stirpe degli Indoeuropei: Egiziani, Germani, Italici… In tal modo verrebbe a giustificarsi anche il motivo per cui i Greci accomunavano il mare Oceano al mare Atlantico (Aristotile), identificandolo sempre col Mediterraneo Occidentale con il quale Oceano comunicava.

Dal diluvio alla covid 19.

È con sacro pudore che ci avviamo alla conclusione di questo excursus, accostandoci ad un argomento che apparentemente esula dalle iniziali intuizioni, rischiando così di sconfinare in un terreno scivoloso che potrebbe farci precipitare nella disistima di alcuni lettori. Facciamo pertanto appello a questi ultimi affinché vedano in noi la buona fede nella divulgazione delle ricerche operate.
Come è stato affermato più volte nei nostri articoli, citando il Vico, la storia è destinata a ripetersi ciclicamente, seppur si presenti con modalità diverse, adeguate ai tempi. Infatti, passando in rassegna lo svolgimento dei fatti odierni riguardo alla “pandemia” in corso, chi non intravede nelle modalità messe in atto per affrontarla un ripetersi di quelle messe in atto da divinità ostili al genere umano raccontate dai superstiti del diluvio? Il racconto sumerico della sommersione del pianeta, passato alla storia con il titolo di Epopea di Gilgamesh, poi fatto proprio da molte altre civiltà, descrive una catastrofe causata da fenomeni naturali, non provocata dunque dal volere divino come affermato nell’antico Testamento, e tuttavia dagli dèi conosciuta, cavalcata e nascosta agli umani affinché, il numero eccessivo di questi, ritenuto dagli dèi insostenibile per l’armonico procedere della vita nel pianeta, venisse sensibilmente ridotto.
Ma un dio compassionevole, Enki, biologo, il cui simbolo era quello di due serpenti che si attorcigliavano attorno ad un bastone, creatore del genere umano, costretto dal fratello Enlil appoggiato da un consesso di divinità, al giuramento di non comunicare ad alcun essere umano l’approssimarsi dell’evento catastrofico, trascorreva notti insonni, dilaniato dalla domanda se fosse giusto l’editto emanato dal congresso divino di annientare le sue creature. Giunto alla conclusione di quanto “disumana” fosse la determinazione divina, Enki pervenne all’idea di mettere in atto uno stratagemma che salvasse il genere umano senza venir tuttavia meno al giuramento rilasciato al divino consesso. Entrato dunque nella dimora dell’uomo più saggio della città di Uruk, Ziusudra, si pose di fronte a una parete dietro la quale si trovava l’uomo, e si mise a parlare alla parete, ma in modo che l’uomo potesse udire quanto egli diceva: “parete ho da dirti quanto segue… “, proferiva il buon dio, e raccontando quanto stava per accadere al pianeta terra, suggerì alla parete di mattoni di costruire una nave. Da esperto navigatore quale egli era, detto’ alla parete le misure e le tecniche di costruzione adatte affinché l’imbarcazione potesse resistere alle acque che da lì a poco si sarebbero abbattute sulle terre emerse e che avesse anche dimensioni tali da riuscire a contenere le specie botaniche e animali che potessero ripopolare il pianeta quando la catastrofe fosse cessata. Oggi non sono le acque del diluvio a minacciare il genere umano, ma un morbo, più o meno vero nella gravità della sua manifestazione. Esso, il morbo, si presta al medesimo ruolo che il diluvio svolse dodicimila anni fa: fungere da strumento per riorganizzare il pianeta. Ancora una volta, il motivo per cui gli “dèi” odierni, forse eredi di quelli dei tempi del diluvio, evocano un “reset” del pianeta terra, con la conseguente decimazione della popolazione, è rappresentato, a loro modo di vedere, dalla insostenibilità demografica.
E ancora una volta, il dio compassionevole che salvò, attraverso un escamotage, parte dell’umanità una prima volta, ripropone una seconda volta, attraverso modalità diverse adeguate ai tempi odierni, il medesimo sotterfugio, rivelando cioè, a registi, fumettisti, scrittori di romanzi, cantautori e artisti di vario genere, i piani degli odiatori del genere umano. Questi prediletti del dio, a loro volta, attraverso la produzione delle loro creazioni artistiche e letterarie: films, romanzi considerati di fantascienza etc. avviano la divulgazione in anticipo dei piani che gli odiatori del genere umano intendono mettere in atto. Il messaggio di salvezza diffuso attraverso le criptiche modalità sopra descritte, pur diretto a tutti gli individui, verrà purtroppo decriptato soltanto da pochi, tanto da rendere comprensibile il biblico messaggio secondo il quale “molti saranno i chiamati ma pochi gli eletti”.

Ad maiora.

I Sicani: La civiltà del Patriarcato

Prefazione.

Riteniamo necessario chiarire, in questo articolo, la posizione assunta dal prisco popolo dei Sicani riguardo a quell’atteggiamento dello spirito per il quale prestigiosi studiosi stabilirono se le società umane fossero fondate sul diritto paterno o quello materno.
Poiché lo studio qui esposto interessa più che i fatti storici una predisposizione dello spirito, costruiremo le nostre tesi sulla traccia dei simboli, dei riti, dei costumi fino a noi giunti numerosi e loquaci, e la dove fossero assenti le fonti storiche dirette, seguiremo il metodo dell’analisi interdisciplinare.
Sebbene siano stati sparsi numerosi indizi negli articoli da noi altrove pubblicati, che facevano riferimento alla visione del mondo incentrata sul diritto del padre nella società sicana, ci sembra, tuttavia, che il religioso pacifico atteggiamento del popolo sicano venga ancora interpretato come un pacifismo in una moderna era di stampo femminista. È pur vero che le civiltà ginecocratiche erano caratterizzate dall’assenza di discordie interne, ma se il disordine sociale non si manifestò nella società sicana siciliana, per lo meno fino al sopraggiungere nel VIII sec. a.C. dei rissosi e perfidi Greci, il motivo va ricercato, oltre che nella omogeneità etnica della popolazione isolana, nel saldo culto che aveva conformato la civiltà sicana. Il Pantheon sicano vedeva al vertice della scala gerarchica il padre degli dèi Adrano, il quale, aveva fatto del territorio siciliano quel laboratorio produttore di benessere, che avrà ancora in Federico II il fedele continuatore alchemico, capace di farsi eleggere re – di Gerusalemme– senza spargere una goccia di sangue. Ma di ciò è stato detto nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, a cui rimandiamo.
Ciò che ci interessa precisare in questa sede è che lo studio esposto non ha lo scopo di stabilire primati o promuovere una visione del mondo a discapito di un’altra, non è questo lo scopo che il ricercatore e lo storico si prefiggono, non noi, tanto che non ci soffermeremo sulla considerazione che l’epoca attuale, a nostro giudizio, stia assumendo sempre più i tratti di una condizione ginecocratica. Siamo invece convinti, che la coesistenza di entrambe le concezioni del mondo, rimanendo ognuna nell’ambito del proprio ruolo sia garanzia di equilibrio e armonia nella gestione del consorzio umano. Pertanto, certi che entrambe le visioni fossero armonicamente coesistenti nella vetusta società sicana fin dalla sua prima costituzione, riteniamo nostro dovere, in questo studio, fornire al lettore gli strumenti affinché egli, in autonomia, possa riuscire ad aprirsi una personale via di indagine, tenendo ben presente la problematica che pone lo studio di un periodo così lontano dal nostro.

Il Matriarcato.

Riteniamo che la parola matriarcato si debba intendere come un atteggiamento protettivo, conservatore, insito nella natura della madre, che accudisce e custodisce la propria prole, paurosa del cambiamento che con sé porta incertezze. La madre, per propria natura, teme il cambiamento, anche se questo potrebbe potenzialmente essere apportatore di benefici. Ogni novità, per la madre, è foriera di destabilizzazione del sereno, consolidato status quo. Su questa base, dunque, poggia la questione: tanto il matriarcato quanto il patriarcato, si identificano con un atteggiamento, una inclinazione dello spirito.
La questione non va posta perciò in termini di cromosomi. Immaginare come causa dell’affermazione del matriarcato il subentrare di atteggiamenti di mollezza ed effeminatezza assunti dal sesso maschile, sarebbe un errore. La mollezza, quale concausa, potrebbe essere soltanto l’aspetto più esteriore della decadenza interiore, della perdita di un centro di forza interiore che avrebbe dovuto esercitare un ruolo stabilizzante della propria identità. Ci sembra tanto vero quanto affermato che si può infatti notare nell’atteggiamento dei Cretesi dell’età del bronzo, guidati dal nerboruto re Minosse, come questo atteggiamento si conformi piuttosto ad una visione del mondo. Lo storico greco Erodoto, ci fa sapere, con suo personale sconcerto, che i Cretesi chiamavano “Matria” la Patria e che, al contrario dei Greci, onoravano le madri piuttosto che i padri. Lo storico di Agira Diodoro, ci porta a sua volta a conoscenza del fatto che, i Cretesi, giunti in Sicilia al seguito di Minosse, nel tentativo di rendere tributaria l’isola, sebbene venissero scoraggiati da questo tentativo dal re sicano Kokalo, dopo che Minosse era morto, rimanendo l’esercito cretese in Sicilia, fu concesso loro di fondare una città ove rendere onore alle madri. L’episodio citato dallo storico di Agira è tanto prezioso in quanto, tra le righe del racconto, lascia intendere come il culto delle madri non appartenesse al costume sicano, in caso contrario, infatti, non si sarebbe reso necessario che i Cretesi lo introducessero. Che la civiltà sicana si fondasse sul diritto paterno, e che questo perdurasse ancora fino a quando i Greci cominciarono a introdurre le tirannidi nell’isola, lo si evince da un passo della preziosa Biblioteca Historica di Diodoro Siculo. Lo storico narra che, dopo la battaglia di Himera del 480 a. C., Gelone, tiranno di Siracusa, per onorare gli Etnei, che con il loro contributo militare avevano deciso le sorti del conflitto a favore della coalizione greco sicula contro i Cartaginesi, fa costruire nella città di Etna, a proprie spese, un tempio dedicato a Demetra, che nella città mancava. Ricordiamo al lettore, che secondo le nostre ricerche, verificabili in quanto pubblicate, la città di Etna veniva rinominata nel 400 a.C, in Adrano.
Chiarito dunque il presupposto che non si aderisce al matriarcato o al patriarcato per una questione di corredo cromosomico, si deve ricercare il motivo di tale adesione in una affinità elettiva, dalla quale l’individuo viene spontaneamente attratto. Dopo tale premessa, e i postulati sopra elencati, spingiamo oltre la ricerca, col fine di tentare di comprendere a quale delle due visioni del mondo i Sicani aderirono.

Il Teonimo.

Premesso che della cultura sicana si conosce ben poco, avendo i Greci fatto tabula rasa delle fonti storiche e adattato i miti sicani alle proprie esigenze, stravolgendo i significati metaforici da essi veicolati, la nostra indagine deve necessariamente avvalersi della multidisciplinarietà e in particolare dello studio comparato dei miti e delle religioni. Riteniamo che lo studio della religiosità di un popolo sia molto importante per i fini che ci siamo dati in questo studio, poiché dalla sua comprensione si individuano i comportamenti sociali che di quella religione sono l’espressione. Pertanto, laddove non saremo in grado di consultare le fonti storiche per la loro assenza, chiameremo in causa il simbolo e il mito a cui spesso la stessa storia si rifà per risalire alle origini e ci affideremo all’interpretazione del significato dell’onomastica.

Significato di Sicano.

Il termine Sicano, oltre che indicare l’abitante dell’isola chiamata Sicania, cioè la Sicilia, indicava colui che orgogliosamente si riteneva progenie dell’Avo primordiale. Il sostantivo Avo, nella lingua sicana, secondo i risultati a cui siamo pervenuti attraverso gli studi della lingua parlata da questo popolo, da noi pubblicati su saggi e articoli, veniva reso con il termine Ano. In Sicilia il sostantivo sicano Ano, veniva preceduto dall’aggettivo odhr, cioè furioso. Sarebbe dunque sufficiente registrare la presenza del sostantivo Ano, cioè Avo, con cui si faceva riferimento al capostipite del popolo sicano, perché questo vetusto popolo, il primo che abitò la Sicilia, si possa assimilare alla grande famiglia degli Indoeuropei. La cultura di questi ultimi, infatti, era caratterizzata dal ritenersi gli eredi dell’Avo comune. La percezione di questo Avo comune, dalla Germania all’India, sotto l’influsso di adattamenti locali, veniva aggettivato dai Greci antico cioè ur: ur.Ano; percettivo o sensitivo dai Latini: jah.Ano (Giano bifronte); mentale dagli Indiani e dai Germani: mn.Ano, cioè Manu per i primi e Manno per i secondi da cui deriva l’etnico Alemanno; semplicemente Avo, Anu, dai Sumeri. Di più, il termine Sicano si spingeva oltre la semantica della genetica, esso intendeva esprimere, oltre al patronimico, grazie al pronome riflessivo sich, che significa sé, se stesso, che precede il sostantivo Ano, un concetto di consustanzialita’, volendo trasmettere una garanzia della continuità della stirpe e della tradizione atavica. Sopra si è fatto cenno al corrispondente teonimo romano: Jah.Ano, ovvero Giano bifronte, la citazione non è casuale, in quanto tornerà utile per le affermazioni che faremo più avanti. I Romani, che fondarono la propria civiltà sul diritto paterno, giunti in Sicilia nel 263 a. C., ebbero il primo scontro con la città di Adrano, la quale ospitava il grandioso santuario del dio eponimo. I Romani intuirono che il dio etneo era l’omologo del dio laziale Jah.Ano, un dio guerriero che Cicerone nelle verrine, anni dopo definirà “imperatore”, in quanto la statua da lui osservata a Siracusa riprendeva il dio sicano in atteggiamento marziale: armato di lancia, così come anche Plutarco (Vita di Timoleonte) l’aveva descritta quando nel 344 a.C., il dio siciliano aveva mostrato il proprio consenso al condottiero greco Timoleonte. La presenza del dio Sicano in Sicilia – Sicana era anche la divinità laziale- non può non accomunare la cultura Sicana di Sicilia a quella sicana del Lazio a cui fa riferimento anche Virgilio nell’Eneide e, dunque, alla civiltà di quei Sabini, che Cicerone, nel “pro Ligario” definiva “fortissimi viri” e romana, incentrata sul diritto paterno. Tra l’altro, l’affinità religiosa – e la religione conforma le civiltà– tra i Siciliani e i Romani, traspare dal principio di accoglienza e ospitalità che caratterizza anche il dio laziale, il quale, secondo il mito latino, condivise il regno con il transfugo dio Saturno fraternamente accolto. Lo stesso spirito di accoglienza lo si rinviene nell’atteggiamento dei regnanti siciliani quali furono Alcinoo, Cocalo, Iblone e l’infinita lista di altri ancora.

L’Avesta.

Nell’Avesta, il testo religioso dei Persiani, un documento per noi di estrema importanza, in quanto ci permette di comparare il dio creatore Haura Mazda con il dio sicano Adrano, si osserva come il dio di Zarathustra sia un dio che impone l’equilibrio, la misura, come del resto, l’etimologia del suo nome Mazda derivante dal germanico – in tedesco Maß, Mass significa misura-, lascia intendere. La religione mazdea, fondata sul diritto del padre, si oppone dunque a quello della madre in cui, la natura femminile, difficilmente trova un proprio punto di equilibrio e di misura, passando dal matriarcato alla ginecocrazia per finire agli estremi dell’innaturale amazzonismo. La posizione mazdea sul patriarcato ci appare così in linea con quella sicana, che essa poté esprimersi perfino attraverso la medesima lingua (vedi il saggio: “Il Paganesimo di Gesù” gratuitamente fruibile attraverso il sito www.miti3000.eu). Infatti, nello Yast zamyad del testo vedico, descrivendo l’origine delle montagne, fra quelle elencate ne figura una che porta il nome di Adarana. In un’area geografica europea, il nome Adrana veniva dato dai Germani al fiume che oggi si chiama Eder (da odhr furioso). La presenza dello stesso nome apposto a molti fiumi sia in Persia che in Germania, come in Spagna e in Sicilia, non deve stupire il lettore, dal momento che Erodoto citava la presenza di tribù germaniche in Persia al tempo di Ciro. Germani, Persiani e Sicani condividevano dunque sia la lingua originaria che la visione del mondo.

Discendenza Patrilineare.

La conseguenza di quanto sopra affermato, cioè l’identificazione del Sicano con il proprio Avo, determinato dal pronome riflessivo sich, sé, se stesso, contraddicendo gli studiosi che sostengono tesi opposte alle nostre, ma che nei decenni precedenti si sono affermate non tanto per le prove da essi apportate, ma per l’autorevolezza di chi sosteneva quelle tesi, fa del Sicano il più eminente rappresentante della famiglia indoeuropea, in quanto la successione veniva garantita per via patrilineare. Il Pantheon sicano non sembra essere affollato da un numero caotico di divinità che caratterizza la civiltà ginecocratica di altri popoli, esso si basa sulla triade divina: la famiglia, composta dal padre, dalla madre e dai figli, che in Sicilia in numero di due, gemelli, espressero il concetto di complementarietà di forze apparentemente opposte.
È vero che non possiamo attingere a fonti dirette che attestino quanto sopra affermato, tuttavia, frammenti di letteratura che ripropongono alcuni miti Sicani, seppur rielaborati in chiave greca, quale è quello de “Le Etnee” di Eschilo, ci autorizzano ad azzardare quest’ultima ipotesi. Nel mito sicano sopra citato, rielaborato da Eschilo, la successione non accenna ad una via matrilineare come accadeva, per esempio, per i Lici, tra i quali la figlia aveva una preminenza sul figlio; la sorella sul fratello, anzi, l’eredità femminile, nel caso del mito sicano dei gemelli Palici figli di Adrano, è completamente assente e le due forze che si oppongono l’una all’altra, scaturite come forze equilibratrici, emanazione della forza uranica del padre, a beneficio della discendenza umana, a differenza del mito greco dei gemelli divini Apollo/Artemide o di quello sumero Utu/Innanna e altri ancora, sono entrambi maschie.
La presenza in Sicilia di principi sicani, di estrazione aristocratica, a capo delle città stato dell’isola, dall’età del bronzo fino a quella greca, citati dagli storici greci, non lascia dubbi circa la gestione olimpico virile della società sicana. La citazione da parte di Polieno dell’antronimico Teuto, principe sicano, vissuto nel VI sec. a. C. – – vittima della perfidia del tiranno greco Falaride-, primus inter pares nella città di Innessa, poi rinominata Etna come afferma Diodoro siculo e infine Adrano come emerge attraverso le nostre ricerche, induce a pensare che la gestione della propria comunità, avesse da parte del principe Teuto una connotazione paternalistica; infatti, l’appellativo teuto significa padre del popolo. Il nome Teuto era frequentissimo fra i regnanti indoeuropei: Teuta era infatti il nome o l’appellativo della regina degli Illiri; Teutomato quello del re dei Galli Ambrogeni ecc. I re sicani, – compresi quelli del Lazio della prima ora, dei quali facevano probabilmente parte Latino e successivamente Numa- venivano scelti per le loro virtù e queste virtù erano garanzia del loro futuro operare a beneficio del popolo. Il re era altresì garante del mantenimento dell’armonia universale, rinvenibile ad Adrano e a Sumer nel simbolismo del numero otto, ad Adrano anche attraverso le spirali incise su capitelli di basalto esposti nel museo cittadino. Anche Thot, Theuth per i Greci, la divinità egiziana equivalente alla greca Ermes, elargiva gratuita conoscenza al proprio popolo. Dunque, il titolo di Theuth, padre del popolo, è collegabile al latino Tito, che nella sua forma originaria ebbe il significato di genio, come si evince dalla iscrizione cumana “Tito Sanquvos”, genio Sancus. Le incisioni rupestri della Val Camonica, a sua volta, si lasciano collegare a quelle svedesi di Tanum in Svezia. Nelle incisioni rupestri della Val Camonica, così come in quelle svedesi di Tanum, sono del tutto assenti figure femminili, mentre abbondano quelle maschili che brandiscono asce bipenne o sollevano ruote solari.

Il principio olimpico virile nel simbolismo dei Sicani.

Simbolo solare. Adrano.

Nell’ambito del simbolismo utilizzato dal popolo sicano, in Sicilia l’astro luminoso, cioè il sole, ebbe un ruolo di centralità, al punto che fra i tanti toponimi apposti all’isola figura anche quello di isola del sole, abitata dai figli del sole cui fa cenno Apollonio Rodio. Fin dal Paleolitico, come dimostrano i numerosi reperti (rocce bucate) per la celebrazione del solstizio e che sono stati definiti calendari solari, sparsi per il territorio isolano, il culto tributato al sole fu centrale nella cultura sicana. Questa civiltà, come si evince dal simbolismo adottato, paragonava la fissità dell’astro all’ideale uranico di immutabilità, incarnato dal padre, in opposizione alla mutevolezza della luna, collegata alla donna. Le espressioni lessicali sicane

Simbolo solare. Adrano
Simbolo solare

utilizzate nelle iscrizioni funerarie ritrovate ad Adrano non lasciano spazio a dubbi circa la visione olimpica che questo popolo aveva del mondo. Le epigrafi fanno sempre riferimento ad un regno del sole, che il defunto avrebbe dovuto raggiungere. Il regno di luce a cui si fa riferimento nei tegoli, così come in iscrizioni adranite riconducibili a formule rituali di iniziazione ai misteri, era il luogo in cui si trovava anche la sede di Ano, cioè, il regno della luce coincideva con il regno dell’Avo.
Infatti, il lemma An, che significa antenato, era sinonimo di cielo, motivo per cui il re, che dell’Avo celeste era la trasposizione terrena, veniva appellato figlio del cielo – in Giappone il titolo viene ancora utilizzato nei confronti dell’imperatore-. Un ricordo della cultura ancestrale che fa derivare l’uomo dal Padre Cielo, lo si ritrova pure nell’Antico Testamento. Dunque, era in torto Erodoto a meravigliarsi del fatto che i Cretesi chiamassero matria la patria, poiché essi erano nel giusto quando accostavano la terra alla donna, poiché l’antica patria dell’uomo fu considerata non la terra, ma il cielo e ad esso egli ambiva a fare ritorno.

Il Simbolismo attribuito al numero nella cultura Sicana.

Tavoletta mesopotamica. La croce richiama per stile le croci rinvenute nel territorio adranita

Come sopra affermato, per comprendere al meglio la cultura sicana, mancando le fonti dirette degli storici del tempo, dobbiamo ricorrere alla multidisciplinarietà e alla comparazione con i popoli affini. Uno dei popoli con i quali i Sicani condividevano conoscenze e tradizioni mitiche è quello dei Sumeri. Presso questo popolo, il quale adottava per il proprio antenato divinizzato lo stesso sostantivo utilizzato dai Sicani, Anu, all’Avo veniva attribuito il numero sessanta, che nella scala sessagesimale adottata dai Sumeri rappresentava il vertice del Pantheon.

Oggetto non catalogabile. Rinvenuto nel territorio adranita. Il n. 8 e lo stile con cui è stata realizzata la croce riconduce ad un simbolismo in uso anche in Mesopotamia.
Simbolo solare nel pavimento di una tomba a grotticella. Castiglione di Sicilia.

Il pittogramma che indicava il dio sumero Anu era un sole con otto raggi. Il Pantheon sumerico era formato da dodici divinità il cui numero doveva rimanere immutato, sebbene gli dèi che ne facevano parte potessero alternarsi.
La sposa di Anu, Antu, seguiva la scala numerica con il numero cinquantacinque; cinquanta era il numero assegnato al primogenito di Anu Enlil, destinato a regnare dopo il padre, e quarantacinque era il numero che contraddistingueva la di lui consorte, e così via fino all’ultima delle dodici divinità.
Come si può dunque constatare, il vertice veniva sempre occupato da una divinità maschile, mentre quella femminile veniva a trovarsi in uno stato di subalternità. .

Il Simbolismo della Trinacria.

La più antica rappresentazione delle tre gambe, ritrovata in Sicilia, il cui nome Trinacria significa le tre forze dell’Avo o del Cielo, è quella di Palma di Montechiaro. La Trinacria di Palma di Montechiaro è caratterizzato dall’aver un apparente senso rotatorio che va da destra verso sinistra, dettato dalla posizione dei piedi. Ora, nell’ambito simbolico, la destra corrisponde al simbolismo attivo, virile e uranico della natura. La suddetta Trinacria, dipinta su un piatto del XII sec. a.C., forse proveniente dalla reggia del re sicano Kokalo, ha ,dunque, lo stesso andamento apparente del sole, simbolo questo, è il caso di ricordarlo, associato alla componente virile, all’uomo. Anche la scrittura sicana aveva il medesimo andamento. Nella cultura indoeuropea, tutto ciò che proveniva da destra, aveva un valore augurale, rappresentava, cioè, un segno di benevolenza divina. Quanto affermato per la Trinacria vale pure per la svastica dipinta su un vaso esposto nel Museo di Caltanissetta.

Le Veneri del Paleolitico.

Il territorio adranita, a motivo della costruzione del tempio dedicato dai Sicani al capostipite Adrano, rappresenta il fulcro degli studi per la comprensione della religione sicana, in quanto, quale nucleo religioso isolano, grazie alla presenza della casta sacerdotale, le tradizioni ataviche si conservarono più a lungo che altrove. L’ampio territorio adranita, rappresenta altresì il centro più importante per gli studi preistorici in Sicilia, ciò grazie ai numerosi reperti dell’epoca ivi ritrovati. Dall’altro lato, a nostro parere, gli studiosi non si sono sufficientemente soffermati sul significato simbolico tracciato dalle pitture vascolari, liquidato semplicisticamente come decorazioni. A nostro avviso, questi manufatti trasudano, attraverso la simbologia espressa, la weltanschauung di cui ci stiamo occupando in questa sede. Le numerose asce martello, ritrovate nelle grotte laviche utilizzate come luoghi di sepoltura dal periodo Paleolitico al Neolitico, ricavate dal duro basalto lavico, alcune maneggevoli, di media grandezza, utilizzabili come arma di difesa e di offesa, non lasciano spiegazione alla presenza di altre asce martello di pietra di enormi proporzioni, non facilmente maneggevoli per uomini di media statura. È nostro parere che nel secondo caso, ci si trovi in presenza di asce utilizzate a scopo rituale – i patrizi latini durante il rito del matrimonio, usavano sacrificare un maiale colpendolo con una ascia di pietra–, la loro presenza testimonia, forse, la volontà di sottolineare che si faceva parte di una civiltà che fondava sulla forza e sul diritto virile la propria civiltà. Per lo stesso motivo asce giocattolo si depositavano in tombe di bambini, ritrovate in Svezia. Lo stesso dicasi per il considerevole numero di corna preistoriche riprodotte con argilla cotta, esposte nel museo adranita. Le corna simboleggiano la forza incontrollabile del toro, simbolo fatto proprio dai tiranni greci, ed è anche simbolo di virilità. Nessuna traccia di matriarcato è stata trovata nel territorio adranita, sono assenti gli idoli femminili, nessuna venere preistorica da venerare nel vasto territorio adranita che ospitava il santuario dell’Avo, progenitore della stirpe sicana. Non si è rinvenuto nel territorio dell’Avo, durante i numerosi scavi effettuati, nessun riferimento universalistico di tipo matriarcale che accenni a comunità promiscue; anzi, più in dietro si va nel tempo, più i reperti archeologici ritrovati testimoniano la presenza di una civiltà improntata sul principio della forza spirituale paterna, ostentata, perché no, anche attraverso simboli che, come le grandi asce martello, esprimevano la superiore forza fisica, garanzia di successo e stabilità.

Sepolture.

Particolare di un pithos con croci potenziate. Museo archeologico di Adrano

L’ascia martello, il simbolismo della croce nella duplice forma potenziata e a bracci che si allargano all’estremità, la sequenza di rombi che si susseguono prendendo la forma di serpi intrecciate che richiamano la sequenza del dna; tutti questi aspetti simbolici presenti nella tomba di quello che certamente doveva essere un nobile capo villaggio del IV mill. a.C., rinvenuta ad Adrano, sono intimamente connessi tra loro e tradiscono l’aspetto patriarcale della gestione della comunità sicana.

Ruota del sole su capitelli lavico in arte sicula. Adrano.

Colpisce in particolare la presenza della croce, che trova una forte analogia con le croci rinvenute in Mesopotamia. Lo studioso Zachariah Sitichin si è spinto ad interpretare questo simbolo ritrovato nell’area mesopotamica, in termini astronomici, indicante l’incrocio di pianeti.Certo è che lo studio degli astri era in Mesopotamia una pratica consueta ed importante, non c’è motivo alcuno per non considerarla tale anche nella terra sicana, taluni indizi, come la presenza dei simboli solari della ruota raggiata, le spirali, la svastica, i cerchi incisi nella

Ruota del sole in una sepoltura svedese.

pietra arenaria da noi rinvenuta, i calendari solari, il megalitismo, lo lasciano pensare. Abbiamo ritenuto che la Sicilia fosse un “crocevia” importante battuto da sempre da eroi di ogni età : Greci, Troiani, Cretesi; vi fecero scalo gli Argonauti, semidei come Ercole, Enea, Minosse, eroi come Ulisse.. Mito o no, i racconti afferiscono all’idea che la Sicilia rappresentasse nell’immaginario collettivo un luogo in cui bisognava recarsi per conseguire qualcosa che ancora ci sfugge.

Conclusione.

Quanto esposto sopra potrebbe far pensare alla forzatura narrativa di un ricercatore che, innamoratosi della tesi esposta, tenta di cancellare ogni forma di presenza matriarcale nella civiltà sicana, pur avendo sostenuto in principio la necessità di una compresenza equilibratrice delle due visioni del mondo. Ebbene, rassicureremo il lettore accennando alla presenza del culto tributato alla dea Hibla o Etna e di un principe sicano di nome Iblone che riteniamo essere stato un probabile sacerdote di questa divinità femminile in quanto, questo principe sacerdote incarna i tratti tipici del matriarcato: accoglienza dei profughi guidati da Archia per i quali fonda addirittura una città (vedi articolo: “La Sicilia preellenica: i Feaci e la fondazione di Sicher-usa (Siracusa)”, mostra compassione, è fondatore di numerose città intitolate alla dea (Hibla Major, Hibla Gereatis, Megara Hibla ecc.). La politica dl principe sacerdote Iblone dimostra che il culto della madre ebbe la sua importanza anche in Sicilia, terra feconda e generosa, equiparabile al grembo materno. Tuttavia, oltre agli importanti misteri di Demetra, celebrati ad Enna, dimora della dea, il culto che nell’immaginario collettivo sopravviverà fino all’avvento del dio dei cristiani, e che manterrà vivo tutto il proprio carisma, sarà il culto tributato all’avo Adrano, divinità che i Romani temettero ed equipararono al loro Avo primordiale Jah.Ano (Giano bifronte). Cicerone, come già affermato sopra, fa ancora cenno all’epoca sua, alla divinità indigena Urio, cioè l’antico, il cui tempio si trovava anche a Siracusa e dove si recavano i pellegrini Siculi provenienti da tutta la Sicilia, così come avveniva ad Adrano nei confronti del dio eponimo, tanto che si dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che Urio, l’antico, fosse uno dei tanti appellativi utilizzati per indicare l’avo primordiale o antico Adrano.

Ad maiora.

Sicania: Le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico

Premessa.

Leggendo le opere di alcuni storici antichi, di Omero piuttosto che di Apollonio Rodio, si ha la sensazione che questi ispirati autori raccontino gli eventi come se il loro svolgersi fosse osservato dall’alto, come se potessero dominare l’intero campo d’azione sul quale gli eventi raccontati si svolgevano: Omero lo sterminato campo di battaglia in cui si scontravano gli Achei con i Troiani, talche’ potesse osservare contemporaneamente la fuga di Enea e dall’altra estremità della sterminata pianura il bellicoso Aiace Telamonio fare strage di nemici; similmente, Apollonio, da sopra una nuvola, poteva osservare la nave Argo che veleggiava dalla Colchide alla Sicilia facendo scalo qua e là.
La medesima sensazione si prova osservando antiche carte nautiche, come la famosa mappa di Piri Reis che riprende le coste dell’Antartide priva dei ghiacciai che oggi le rende invisibili. Ebbene, nel gioco letterario che abbiamo intrapreso con i nostri lettori, abbiamo provato a staccare lo spirito dal corpo, immaginando che, vagando libero per l’aere, potesse guardare al mondo globale; vi abbiamo visto uomini e dèi interagire parlando un unico linguaggio, un linguaggio ancora in uso, e tuttavia compreso da pochi.

Le  Divine Ambasciate.

Quanto ipotizzato negli articoli precedenti, frutto di studi che vedevano nell’utilizzo della multi disciplinarieta’ l’inevitabile strumento di lavoro, ha fatto emergere che la Sicania, la terra di proprietà dell’Avo primordiale Anu, fosse stata scelta per essere la sede, diciamo così, delle ambasciate divine e, dunque, preservata da conflitti bellici che, invece, trovavano nel vicino Medio Oriente il proprio privilegiato campo d’azione. Le guerre cola’ combattute dal IV fino al II millennio a.C., quella di Arappa nella valle dell’Indo, la sumerica in Mesopotamia, la vedica in India ecc. furono talmente violente da cancellare intere città come Moenjo Daro, Sodoma, Gomorra e distruggerne altre come Gerico ecc. Posta la questione in questi termini, il lettore potrebbe trovare esagerato tale scenario se i ritrovamenti archeologici delle suddette città non confermassero tali affermazioni. Tralasciando di citare i testi sacri appartenenti alla tradizione di molti popoli, che parlano di guerre apocalittiche combattute da eserciti antidiluviani con l’ausilio di tecnologie tanto evolute quanto sconosciute – i vimana e il bramastra indiani-, ricordiamo al lettore che pone la sua fede soltanto al servizio della scienza moderna, che gli antropologi, sulla base del DNA estratto dai fossili di ominidi ritrovati in diverse aree geografiche del pianeta, hanno tratto le conclusioni che la terra sia stata popolata da almeno cinque razze di esseri umani e quella dell’ Homo Sapiens, a cui noi apparteniamo, sia l’unica ad essere sopravvissuta. Ora, noi, memori di quella rivoluzione copernicana che seguì ai roghi combinati da chi riteneva di possedere le certezze scientifiche o fideistiche nei confronti di tesi opposte alle loro, rivelatesi quest’ultime successivamente esatte, abbiamo scelto di rimanere laici di fronte alle tesi esposte dai così detti eretici, lasciando che siano le prove apportate dai sostenitori di tali tesi a fare si che siano accolte o respinte. Al momento, non è possibile escludere la possibilità che fra le quattro razze umane estinte, catalogate dagli studiosi, una di queste potesse aver raggiunto una evoluzione tecnologica talmente avanzata da essere in grado di costruire quei manufatti archeologici che noi oggi, nonostante le moderne tecnologie, non saremmo in grado di riprodurre (si consiglia di leggere il libro di Marco Pizzuti “Scoperte Archeologiche Non Autorizzate”). Ma torniamo alla ricostruzione che tenteremo di realizzare in questa sede sulla base della consultazione delle fonti sumeriche, fonti che utilizzeremo per comparazione essendo stato appurato ormai, che i Sicani e i Sumeri, erano rami dello stesso albero. Riteniamo che la Sicilia, mentre si combattevano guerre cruente in Medio Oriente, continuasse ad essere quel paradiso terrestre abitato da divinità legate tra loro da vincoli di parentela, tanto che nessuno tra gli storici antichi ha mai narrato di episodi di guerre intestine in seno all’isola combattute tra i popoli che l’abitavano. La pax deorum, dovette prolungarsi fino all’arrivo degli infidi Greci, in epoca relativamente recente, nel VIII sec. a.C., tanto da far presumere veritiera l’affermazione riportata nei testi vedici, secondo la quale il mondo, in illo tempore, venne suddiviso in quattro parti, tre abitate dagli uomini, la quarta, a occidente, abitata dagli dèi. L’ipotesi che questa quarta parte comprendesse il bacino del Mediterraneo e le sue isole, e che il suo epicentro fosse ubicato in Sicilia, potrebbe essere suffragata dalla tradizione tramandata fino al tempo di Cicerone che spinge l’oratore romano ad affermare che la Sicilia era ritenuta una terra abitata da dèi. Infatti, è stato da noi altrove supposto, che il dio mesopotamico Anu, appellato dai Sicani, in Sicilia, furioso, odhr, avesse posto la propria reggia, chiamata Aenna nella lingua sumerica, proprio nella citta’ siciliana di Enna, la quale è ubicata al centro dell’isola, mentre il tempio a lui dedicato, costruito fra le eterne lave di basalto, riteniamo affondasse le sue solide fondamenta alle falde dell’Etna, nella acropoli della città di Innessa, successivamente rinominata Etna, come afferma Diodoro Siculo, e in ultimo Adrano, come risulta dai nostri studi. Le divinità, in numero di dodici, come prevedeva il Pantheon dei popoli indoeuropei di cui i Sicani facevano parte, avevano scelto ognuno la propria sede in un luogo della Sicilia a loro congeniale: Eolo, l’Enlil sumero, aveva gettato le fondamenta della sua dimora nell’isolotto di Lipari e governava l’arcipelago delle isole che da lui prese il nome di Eolie; Urio/Enki/Poseidone conduceva i suoi esperimenti su tutto il territorio isolano, ma, fra le città candidate ad ospitare il suo tempio laboratorio, ci sarebbe la città di Innessa per i motivi spiegati nell’articolo “Come Adrano divenne la sede dell” Avo”.
La presenza della triade divina in Sicilia, Anu, Enlil, Enki, il primo padre dei due fratellastri, si trasformò, forse, in Sicilia nella espressione istituzionale per eccellenza, percepita dai Sicani come la più importante in assoluto: la famiglia. E dal momento che i testi sumerici parlano delle visite terrene di Anu in compagnia della divina consorte Antu, la divina famiglia siciliana sarebbe stata formata da Ano, da Antu, corrispondente forse alla dea siciliana Hibla e dai due fratelli, Enki ed Enlil appellati Palici dai Sicani, cioè i Signori. La presenza della triade divina, padre-madre-progenie, fece sì che la Sicania, ovvero la terra di Ano, godesse della pax deorum di cui si è detto sopra, e che l’isola fosse appellata anche Trinacria, ovvero le tre potenze del cielo. Noi supponiamo che le tre potenze a cui faceva riferimento il toponimo Trinacria, corrispondessero ai ruoli istituzionali assunti dai tre componenti maschili della famiglia divina. Infatti, le tre divinità maschili: Anu-Enlil-Enki, ovvero Adrano e i Palici, la cui centralità culturale non può dare spazio alla presunta civiltà matriarcale attribuita ai Sicani, ma a questo argomento dedicheremo un articolo a parte, si erano spartiti il dominio dei cieli, della terra e delle acque. Il cielo, che era toccato ad Anu/Adrano andrebbe inteso come luogo in cui dimora il potere assoluto, su tutti i piani: fisico e metafisico; Enlil/Eolo esercitava il suo potere sullo spazio, inteso come un luogo interposto tra il cielo e la terra. A Enlil spettava anche il comando sulle sorti del pianeta, mentre il dominio dell’elemento fluido era talmente connaturato ad Enki/Poseidone, da essere soprannominato egli stesso Ea, che nella lingua sumerica significa acqua, eau nella lingua francese, O in quella babilonese da cui facciamo derivare il nome delle divinità che avrebbero portato la civiltà a Babilonia, divinità che il sacerdote Beroso chiama O.anes, cioè gli antenati venuti dal mare o dall’acqua. Anche il nome Enki, che dai sumerologi è stato tradotto come, colui che comanda sulla terra (ki), da noi è stato supposto che si riferisca invece al suo primato sui mari, quale infaticabile navigatore; infatti, Ea viene descritto nei testi sumerici sempre a bordo di una nave alla ricerca di novità. Di conseguenza facciamo derivare l’appellativo enki dall’unione dei lessemi en, che nella lingua norrena significa uno, primo (ein in tedesco) e Kiel, la chiglia, che per metonimia indica la nave tutta. L’equivalente troiano dell’appellativo sumero en.kiel sarebbe stato quello di Enea: En primo ed Ea acqua, il primo nell’acqua, il migliore; Enea potrebbe forse aver coperto il grado di ammiraglio della flotta troiana che: “per viltà dei padri” , come fa dire Omero ad Ettore nel suo poema l’Iliade, non poté esprimere le proprie capacità nautiche. Ma torniamo alla Sicilia del periodo felice.

Museo archeologico di Adrano. III millennio a.C.

Riteniamo, per i motivi che verranno addotti durante il percorso dell’indagine, che intorno al duemila a.C. si consumarono sulla terra alcuni sconvolgimenti che resero necessaria una rimodulazione socio politica nell’area del Mediterraneo e nella affine società mesopotamica.

Essendo le fonti letterarie riguardante il secondo millennio a.C. inesistenti in Sicilia, ci avvaleremo della interpretazione del simbolismo

Ruota del sole su capitello lavico in arte sicula.  Museo archeologico di Adrano CT

riprodotto sulla ceramica adranita del III e II millennio a.C., oltre che, per comparazione, alla mitologia e alle fonti sumere. Le fonti letterarie del periodo qui indagato sono state ritrovate numerose in Mesopotamia. Esse, tradotte dai sumerologi, si prestano, grazie alla comparazione, ad essere utilizzate per tentare una lettura del periodo storico siciliano qui indagato. Il collegamento principale tra la Sicilia e la Mesopotamia, a cui abbiamo fatto più volte riferimento, è rappresentato dal teonimo Anu, il cui pittogramma era rappresentato da otto cunei che si dipartivano da un

Simboli all’interno di una tomba di Kivik in Svezia
Oggetto di ceramica del IV mill. a.C. rinvenuto a Susa

punto centrale. Riteniamo che il nome Anu sia diventato in seguito un titolo adottato dai principi preposti al comando, paragonabile al titolo di Cesare per gli imperatori romani e poi per i regnanti delle nazioni europee che si susseguirono. Anu, che letteralmente significa avo, antenato, nonno, è altresì sinonimo di cielo. Pertanto, tutte le volte che si incorre nel lessema Anu, per il significato che occorre fargli assumere, bisogna tenere conto del contesto dell’argomento trattato.

Le rissose divinità della seconda generazione.

Sostenevamo sopra che, alla fine del III millennio a.C., l’assetto sociale nel bacino del Mediterraneo cominciava a destabilizzarsi. Nuove divinità, dèi di seconda generazione, figli e nipoti della triade divina che aveva garantito la stabilità del potere in Occidente fino a quel momento, cominciavano a sgomitare per ottenere un regno tutto proprio. Marduk o Baal, il Signore, manifestava insofferenza per il suo destino, segnato dalle regole basate sulla ereditarietà del regno, per cui era destinato ad una eterna sudditanza nei confronti dei cugini, giudicati militarmente e politicamente meno capaci di lui. La sua insofferenza cresceva ancora di più, nel constatare che suo padre Enki (forse appellato Urio dai Sicani, e forse identificabile con il dio locale citato da Cicerone, la cui statua venne osservata nel tempio di Siracusa), lo scienziato che deteneva i poteri, i Me, di cui si è parlato negli articoli precedenti, nonostante fosse il primogenito di Anu dovesse essere subalterno al fratellastro Enlil. Enki/Urio/Poseidone, però, suo malgrado, rimaneva rispettoso delle leggi ancestrali, emanazione della saggezza degli Avi. Queste leggi stabilivano che l’erede al trono fosse non il primogenito, quale era Enki, ma colui che era nato dal rapporto avuto dal re con la propria sorellastra, a motivo di leggi d’ordine genetico ancora non chiare agli scienziati contemporanei e mai chiarite dagli storici antichi. Dunque, la discendenza regale di Anu camminava lungo la sequenza cromosomica di Enlil/Eolo. Marduk/Baal, intendeva però sovvertire le regole, introducendo quella che oggi noi definiremmo la meritocrazia. Così, il giovane principe, rampollo particolarmente amato da Enki/Urio/Poseidone, come testimonia il contenuto dei dialoghi tra padre e figlio impresso nelle tavolette di argilla, rinvenute in Mesopotamia, dette inizio alla propria scalata al potere. Le ambizioni dei suoi cugini, figli di Enlil/Eolo, non erano certo da meno; non lo erano quelle della vispa cuginetta Innanna/Proserpina e di tanti altri ancora. Anzi, a motivo dei matrimoni tra consanguinei, erano ostili a Marduk/Baal anche alcuni dei suoi fratelli, i quali, avendo sposato le figlie di Enlil/Eolo, erano entrati a far parte del diritto di successione dinastica . Insomma, durante la seconda e terza generazione divina, le questioni politiche tra gli dèi erano arrivati a una situazione disperata, di rottura senza possibilità di ritorno, tanto che i piccoli espedienti intrapresi dalle divinità minori, come quello di Innanna/Proserpina, concretizzate nel furto dei Me, i non meglio definiti poteri, custoditi da Enki/Urio, o il blitz di Jasone che porto’ via il vello al re della Colchide Eeta, e altre piccole scaramucce raccontate dai poeti greci successivi, presero una piega così pericolosa, da trasformare le rappresaglie in una guerra totale, con il risultato che vennero cancellate, come detto sopra, città con le rispettive civiltà.

I prodromi del mutamento sociale nella terra degli Dei: La Sicilia.

Da quello che emerge attraverso le interpretazioni mitologiche da noi tentate, l’ascesa al potere di Marduk riguardava soltanto l’area mediorientale, essa si arrestava nelle coste cananee della Palestina, non osando il dio di imbarcarsi nel mare siciliano, come Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, soleva definire il Mediterraneo. Le acque di questo mare fungevano da solco invalicabile, da confine primigenio interdetto alle contese. Un indizio che sancisce la inviolabile neutralità della Sicania, crediamo di averlo riscontrato grazie ai toponimi Assoro, in provincia di Enna e di Belice, da Baal, Signore, uno dei cinquanta appellativi dati a Marduk. Infatti, nonostante quest’ultimo si fosse imposto cultualmente e militarmente in Mesopotamia, soltanto gli Assiri, irriducibili avversari di Baal/Marduk, riuscivano ancora a contrapporre il loro dio Assur. Ebbene, Assur, ovvero Assoro, e Baal, ovvero Belice, città siciliane in cui le due divinità venivano onorate, non fecero registrare negli annali della storia siciliana, dissapore alcuno, in Sicilia, nelle loro dorate ambasciate, potevano sostenere soltanto scaramucce diplomatiche.
La terra di Sicania, grazie alla presenza in loco delle dodici residenze divine, si teneva dunque lontana dai conflitti armati, era questa considerata, terra neutrale. Le guerre, come sopra affermato, si combattevano violente, senza esclusione di colpi, in Medio Oriente; i partecipanti ai conflitti orientali, a loro volta, inviavano tutt’al più, ambasciatori in Sicilia (Argonauti), oppure arrivavano nell’isola esuli (Spartani, Greci, Cretesi) stremati, reduci delle guerre combattute in Oriente; vi trovavano asilo perseguitati politici come Dedalo ecc. Se qualcuno osava avvicinarsi all’isola divina con cattive intenzioni veniva subito messo fuori gioco, come accadde al temerario Minosse e al suo poderoso esercito. Tuttavia, il tentativo da parte del re cretese di invadere l’isola lascia comprendere come i tentativi di Marduk/Baal di sconvolgere l’ordine costituito, avevano comunque, in un mondo ormai globalizzato, creato un precedente; avevano provocato una lieve crepa nello scudo protettivo siciliano. La rottura con le tradizioni, perpetrata da Marduk, potrebbe considerarsi un precedente che incoraggiava i successivi tentativi di invasione, a iniziare da quella di Minosse, a cui seguì quella greca nell’VIII sec. a.C. Le mire egemoniche di Marduk, che avevano avuto parzialmente successo in Medio Oriente con l’assoggettamento di Babilonia, sono cronologicamente collocabili intorno al 2000 a. C., epoca in cui assistiamo alla sostituzione del culto tributato ad altre divinità mesopotamiche con quello tributato a Marduk. Il V sec. a.C., rappresenta una ulteriore svolta per l’assetto geopolitico e per quello mediorientale in particolare. Infatti, nel 539 a.C. Babilonia cadde sotto l’egemonia persiana, Zarathustra, il riformatore dell’antica religione, al seguito di Ciro, fece da battipista all’ingresso della religione che ancora oggi viene praticata da un terzo degli abitanti del pianeta, seppur adattata ai nuovi tempi. La Sicania, come affermato, grazie ai tiranni greci, cominciava a mostrare delle crepe nella tradizione atavica. Questi Greci, definiti spregiativamente dai Romani “contemplatori di statue”, eredi degeneri di quegli estinti eroi Micenei, accolti a partire dall’VIII sec. a.C. dai regnanti siciliani quali supplici, cominciarono ad infiltrarsi nei gangli della politica locale per sostituirsi poi agli autoctoni, e cancellare la tradizione, la lingua e mistificare la nobile storia dei prischi Sicani. La succinta e inevitabile citazione da parte degli storici greci, ancora nel V sec. a.C., di principi sacerdoti Sicani, quali furono Arconide, Ducezio e nel III sec. a.C. Adranodoro, addetti al culto delle divinità locali, e in particolare di Adrano e i suoi figli Palici, che tentano di arrestare l’ascesa politico militare degli infidi Greci, attesta come le tradizioni culturali sicane fossero durature e monolitiche fino a tempi relativamente recenti. Tuttavia, le divinità orientali, che premevano in occidente al seguito dei legionari, non più Romani, era destino che gettassero nel caos anche l’isola divina e che fra tutte le divinità orientali, che si accalcavano alle porte dell’isola sacra, l’avesse vinta quella che era a capo di un popolo, il più minuto sì, ma di una tenacia e virulenza senza pari.

Ad maiora.

Come Adrano divenne la sede dell’Avo

Prefazione.

Ora che i nostri lettori hanno metabolizzato la tesi secondo la quale, in tempi assai remoti, antidiluviani, la civiltà terrestre era caratterizzata dalla globalità culturale, si stupiranno sempre meno della comparazione che faremo in questa sede tra la civiltà sumera e quella sicana. Ripercorreremo i testi dell’epica sumera, applicando ai rispettivi contesti il contenuto delle tavolette anche alla Sicilia, convinti dal contenuto dei testi, che vi fosse in essi un riferimento al Mediterraneo, all’isola, a un rapporto di interessi reciproci tra le due aree geografiche e che, come abbiamo accennato negli articoli precedenti, in Sicilia si trovasse l’Abzu, cioè il laboratorio scientifico messo su dal dio Enki, spesso citato nelle tavolette sumere. La Sicilia, come altrove affermato, conserverebbe ancora oggi, attraverso la sua biodiversità, i risultati degli esperimenti del dio scienziato Enki. Ricordiamo a tal proposito, che il mito assegna al territorio di Enna il primato della coltivazione del grano, e che da questo territorio la dea Demetra/Cerere/Innanna, patrona della città, lo conducesse in Grecia e, conseguentemente, in Medio Oriente. Ricordiamo al lettore, capace di cogliere con mente laica il mito e le ricerche di frontiera condotte con coraggio da chi sa guardare l’ampio orizzonte, quanto affermato dai biologi con univoca voce: che il grano non può essere un derivato della spontanea mutazione genetica di un cereale cresciuto nell’isola, ma esso è certamente il risultato di una combinazione genetica artatamente voluta. Quanto qui affermato basti al lettore, che, se vuole, può raccogliere le briciole di informazioni da noi raccolte la dove possibile e poi sparse nei nostri articoli. Passiamo ora al nucleo dell’argomento secondo il titolo che abbiamo scelto quale passepartout.

Enna: La Reggia di Anu.

Rinvenimenti occasionali nel territorio adranita. Immagini 1, 2, 3, 4

Come affermato, per la ricostruzione e interpretazione dei fatti protostorici o mitologici, ci serviremo dellacomparazione e utilizzeremo in abbondanza le fonti sumeriche, cioè le tavolette in cui è incisa la storia, le mitologie e la letteratura sumera. Il contenuto delle tavolette è stato interpretato da studiosi seri, tra i quali emerge tra tutti, lo studioso G. Pettinato, il quale, con non comune umiltà, ricordava agli stregoni che detengono la certezza dellaverità assoluta, che la lingua sumera conserva pur sempre una difficoltà interpretativa.

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Volendo prevenire la domanda dell’arguto lettore, riteniamo che anche in Sicilia si praticasse la scrittura, magari diversa da quella sumera, forse pittografica, essendo questa antichissima, al punto che il re Assurbanipal si vantava di essere in grado di conoscere il significato delle iscrizioni incise sulla roccia, di memoria antidiluviana. Nel museo archeologico di Adrano, la ceramica del neolitico fino a quella dell’età del bronzo è caratterizzata dallapresenza di una “decorazione”, segni che per noi hanno una certa familiarità e che per questo abbiamo

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immaginato trattarsi di scrittura pittografica o di segni che gli addetti ai lavori dell’epoca sapevano interpretare così come i chimici dei nostri tempi possono tradurre disinvoltamente le loro formule incomprensibili ai profani. Del resto, se vogliamo abbracciare l’idea che in Sicilia il dio scienziato Enki avesse costituito il proprio laboratorio, lo stesso non poteva non esprimersi se non con formule, dirette soltanto ai suoi stretti collaboratori.
Per comprendere come la città di Enna diventasse la reggia di Anu e successivamente la città della dea Innanna/Demetra/Cerere dobbiamo ricorrere al testo sumerico intitolato dagli studiosi “‘Innanna ed Enki”. Il testo afferma che era stata costruita per il dio Anu, padre di Enki, una reggia terrena onde trascorrere il periodo di permanenza sulla terra quando questi decideva di visitarla con la consorte Antu. In una di queste visite si affeziono’ particolarmente alla pronipote Innanna, al punto da decidere, poiché la reggia, chiamata Eanna in sumerico, serviva al dio soltanto per un breve periodo e in rare occasioni, di farne dono alla piccola e vispa nipote. Ma la piccola divinità cresceva assieme alle sue grandi ambizioni da desiderare un regno tutto suo e non meno importante di quello dei propri simili. Intendeva a tal fine, trasformare da una semplice reggia ad una città stato la sua dimora terrena, l’Eanna. Per ottenere potere e carisma, aveva però la necessità di possedere gli stessi attributi che avevano le altre città stato in cui imperavano le divinità maggiori. Il custode di questi poteri, chiamati ME, e che se vogliamo ricorrere all’ipotesi interpretativa da noi elaborate circa la lingua primordiale, che il lettore conosce, starebbe per Men mente, memoria, cioè qualcosa che poteva conferire conoscenza ed essere trasmessa senza troppe difficoltà e senza privazione delle stesse da parte di chi li custodiva. Si trattava, dunque, di una semplice condivisione di segreti attraverso i quali si acquisiva potere. Innanna, continua il testo, si reca da Enki nel suo Abzu ed ottiene senza problemi alcuni dei su detti ME custoditi dallo scienziato, ma l’ambizione della giovane dea andava oltre ogni misura e non ritenendo sufficiente quanto ricevuto, mettendo in atto le arti intrinseche alle donne avvenenti che sanno di esserlo, circuisce l’anziano dio, che gli era anche zio, al punto che il canuto è avvinazzato scienziato, tra le traboccanti coppe e le sinuosità della giovane, come Erode a Erodiade, concesse, salvo poi pentirsene, ciò che avrebbe fatto bene a custodire. Ecco, dunque, che l’Eanna assurse da reggia residenziale a potente città stato e sede stabile della dea Innanna/Demetra/Cerere. Questo episodio dovette essere stato tramandato dagli antichi abitatori dell’isola, i Sicani, fino ai tempi di Cicerone, il quale ricorda nelle verrine il mito di Cerere, affermando altresì che la città di Enna era stata da sempre abitata da dèi, che ancora vi abitavano, e che la mitologia siciliana era la più antica.

Adrano: Sede Templare di Anu.

Se, dunque, Anu cedette la propria reggia alla nipotina, va da sé che egli doveva comunque essere accolto in un luogo durante le sue visite terrene. Crediamo che egli durante le sue occasionali visite terrene scegliesse di dimorare nel tempio che a lui era stato edificato alle falde del monte Etna – va distinta la reggia dal tempio, luogo di relax la prima, di culto il secondo-. Questa ipotesi viene corroborate, tra l’altro, dal fatto che nei racconti epici sumeri, si fa continuamente cenno “alla Montagna” in cui si recavano le divinità, magari per essere ricevute da Anu in udienza. A questa ipotesi fa eco quanto affermato da Plutarco nella vita di Timoleonte, che i pellegrini di tutta l’isola si recavano nel tempio di Adrano per rendere onore al dio. Per quanto riguarda la montagna frequentemente citata nei testi sumerici, fa specie che essa non abbia un nome e che ritorni con l’abitudine dei Siciliani di fare riferimento ad essa, quasi come una sorta di memoria di razza perdurata nei millenni, con il semplice appellativo di “a Muntagna” come se nel pianeta non potessero esservene altre da compararle e che rimaneva pertanto l’unica, la montagna per eccellenza, la sede dell’Avo con il suo tempio alle falde di essa.

Il laboratorio scientifico.

Intrecciando ancora gli indizi a nostra disposizione sorge la domanda dove Enki avesse costruito il suo laboratorio. Un centro studi di tale portata non poteva passare inosservato nell’isola e, di fatto, sebbene oggi, in un periodo di tempo così distante da quello qui indagato, poche siano le tracce rimaste, le riteniamo tuttavia sufficienti per azzardare le ipotesi che di seguito esporremo. È plausibile che il tempio sorgesse nella città di Innessa che Diodoro Siculo afferma essere stato il primo nome della città di Etna, e che noi, attraverso il risultato dei nostri studi pubblicati abbiamo identificato con la città di Adrano, rinominata così da Dionigi il vecchio, da Etna che si chiamava. Se si dà per buona la tesi circa le origini proto germaniche della lingua sicana, riconducibile a propria volta ad una lingua comune, parlata prima della dispersione dei popoli, il nome Innessa sarebbe formato dall’unione dei lessemi inna, che significa dentro, ed essen che significa cibo, messe, mangiare. Dai testi sumeri si apprende quanto il dio Enki si preoccupasse di sfamare le sue creature, gli esseri umani, e che per loro aveva creato i cereali, in questo caso non sarebbe peregrina l’ipotesi che proprio nella fertile Valle del Simeto, nei pressi di Innessa/Etna/Adrano, si mettesse in atto la sperimentazione, e che, il successo della semina facesse guadagnare al territorio messo in coltura, l’appellativo di Innessa, ovvero il cibo che cresce dentro (le viscere della terra). Naturalmente il laboratorio scientifico gestito da Enki e i suoi aiutanti, fece sì che questi, nell’immaginario collettivo, venissero guardati come sciamani o sacerdoti e le loro formule chimiche come simboli sacri: la sequenza di rombi (DNA) ; l’occhio nel triangolo e i chicchi di grano ecc. Le caratteristiche del territorio adranita, ricordate dallo storico greco Tucidide, a proposito dell’incendio doloso perpetrato dagli Ateniesi durante la Guerra del Peloponneso ai campi di grano degli Inessei, e poi ancora descritte dallo storico Strabone, erano tali, e lo sono ancora oggi nonostante l’avanzante desertificazione, da risultare compatibili con le esigenze agricole di ogni tempo: fertilità del suolo, ricchezza di sorgenti di acqua, clima mite, collinare, giustamente ventilato.. – ricordiamo che Adrano venne scelta, nel progetto europeo per le energie alternative, come luogo ideale per installare i primi pannelli solari sperimentali-.

Ad maiora.

Da Newgrange al Golgota: Ricostruzione di una dinastia

Molte leggende riferiscono di una migrazione ebraica verso il nord Europa. La più nota è quella che vorrebbe la Maddalena incinta, accompagnata da un piccolo gruppo di individui che avevano visto in Gesù un maestro, tra cui figura l’enigmatico Giuseppe di Arimatea, diretta in Francia. Già cinquecento anni prima della Maddalena, secondo la lista di successione delle famiglie ebraiche in Francia, fornita dall’erede dello statista Giacomo Rumor, noto nella politica italiana del primo dopoguerra per aver fornito un contributo alla formazione dell’Unione Europea, a cui rimandiamo chi volesse approfondire l’audace argomento -Paolo Rumor, L’altra Europa, Ed. Panda- vi si era recata la famiglia ebraica dei Kokba. In verità, a nostro avviso e secondo la ricostruzione da noi effettuata sulla base di ricerche documentarie, pubblicate nel saggio “Il Paganesimo di Gesù”, dato alle stampe nel 2012, e consultabile gratuitamente nel sito web miti3000.eu, le cose sarebbero andate in modo diametralmente opposto. Poiché un tentativo di ricostruzione dei fatti è stato tentato nel succitato nostro saggio, a cui rimandiamo il lettore che vuole approfondire la propria conoscenza, in questa sede ci limitiamo a equiparare le migrazioni ebraiche in Europa, che avvengono copiose ancora ai nostri giorni, al ritorno della stirpe dardanica in Italia, antica patria dei fondatori di Troia. Nel “mito” virgiliano, infatti, Enea, ritornando nell’Italia centrale, altro non faceva, che ricongiungersi agli eredi degli Avi comuni, che alcune generazioni prima, avevano lasciato l’Italia centrale per recarsi in Asia dove avrebbero fondato Troia. Ora, tornando alla migrazione ebraica in Europa che nella lista Rumor viene fatta risalire al VI sec.a.C., non è fuori luogo segnalare qui, che la nonna di re Davide, Ruth, veniva appellata la rossa. Di origine celtica, Ruth, come ricostruito nel nostro saggio, avrebbe trasmisso la cultura e i caratteri somatici al futuro re di Israele, come si evince dalle pagine del nostro saggio, e Boz, cioè Boss, il capo, appellativo con il quale era conosciuto il consorte di Ruth, non è che un attributo ancora attestato nella lingua germanica e, verosimilmente, la coppia, o gli antenati di Davide, erano imparentati con quei Rutuli, i rossi appunto, stanziati anche nell’Italia centrale nello stesso arco temporale della presenza biblica di Ruth (vedi Pag. 92/93 del saggio “Dalla Skania alla S(i)cania, le grandi migrazioni protogermaniche* pubblicato nel 2011 e gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu). Pertanto, se la Maddalena davvero andò in Europa, stanziandosi in Gallia, nei pressi del famoso villaggio di Rennes-le-Château, ella non fece altro che intraprendere un viaggio di ritorno alla cultura ancestrale, magari con il tentativo di reintegrare nella cultura europea, mai del tutto abbandonata dagli Ebrei/Filistei in terra di Palestina, come viene ipotizzato nel nostro saggio, Il figlio che portava in grembo. Se poi, questo figlio era il frutto dell’amore, non solo spirituale, intercorso tra la donna e il re dei Giudei Gesù, visto l’ascendenza di questi, riconducibile al celta re Davide, a buon diritto l’erede che la Maddalena portava in grembo avrebbe potuto rivendicare un regno celtico in terra di Gallia. Da qui nascerebbe la pretesa al regno, secondo una storia scritta parallelamente a quella canonica degli evangelisti, della dinastia dei Merovingi. Il cordone ombelicale che univa le genti della vecchia Europa alle genti d’Oriente, sarebbe stato così ricucito e un nuovo ponte avrebbe unito politicamente le due estremità geografiche. Attraverso i Merovingi, nel disegno della politica internazionale occidentale, caduta Roma, si sarebbe comunque gettato un ponte su Gerusalemme, e questa sarebbe rimasta in mani occidentali, anzi, franche, Merovinge. Il testimone passerà per un lungo arco temporale di mano franca in mano franca; da Goffredo di Buglione a Baldovino fino al Davide redivivo Federico II di Svevia per metà normanno.

Ad maiora.

Eolo: storia di un “grande” Dio minore

Le inspiegabili tecnologie degli antichi.

Perché Lui? si chiederà frastornato il lettore! Perché interessarsi a lui? nessuno lo conosce! né grandi gesta da lui compiute lo pongono al vertice del Pantheon siciliano. Perché i grandi burattinai non calcano mai la scena! risponderemo noi. E ancora perché egli è un dio siciliano che incarna il carattere degli umani abitanti dell’isola sua: calmo, silenzioso e impassibile convitato di pietra, osservatore degli eventi; prende incondizionatamente le decisioni sulla base oggettiva dei fatti che determinarono il nefasto cambiamento.
Nelle gesta degli Argonauti, così come vengono raccontate da Apollonio Rodio, sembrerebbe che Eolo assuma piuttosto le sembianze del deus ex machina, o per restare nell’ambito del cliché siciliano, del padrino che, lucido organizzatore delle azioni che porteranno al successo dell’impresa, pianifica un programma che i sottoposti dovranno attuare attenendosi scrupolosamente ad ogni suo comando. E poi, come vedremo, egli è il silenzioso custode di indefinite potenze che risiedono nel triangolo divino che è la terra di Trinacria; forze occulte che si palesano nel significato del toponimo apposto all’isola. Ebbene, in questa sede indagheremo le qualità di queste forze celate e i parallelismi che pongono la Trinacria e la civiltà sumerica sullo stesso piano di conoscenze.

Eden e Abzu.

Ritenendo inopportuno tornare su quanto è stato indagato circa la sede di questi due luoghi, citati nelle tavolette sumeriche – identificati come un paradiso il primo e un laboratorio sperimentale il secondo-, rinviamo il lettore che volesse approfondire le proprie conoscenze all’articolo: “Dalla Colchide alla Sicania” pubblicato in questo pregevole sito; diamo pertanto per acquisito che il primo fosse ubicato in Mesopotamia e il secondo nel Mediterraneo, dove la terra di Trinacria risulta la candidata più probabile, tenendo conto che né l’isola né il Mediterraneo, avevano a quell’epoca la odierna conformazione. Nell’indagine risalterà subito all’occhio vigile del ricercatore, il parallelismo che intercorre tra la Mesopotamia e la Sicilia, ovvero tra l’Eden e l’Abzu, luoghi in cui si riscontra la presenza di incomprensibili forze di cui diremo più giù, forze che vengono sottratte dai nipoti ai legittimi proprietari.

Le potenze sottratte.

In Mesopotamia, su alcune fra le migliaia di tavolette ritrovate, sulle quali è stata incisa la storia della civiltà sumerica, si apprende che il dio Enki, figlio di Anu, era in possesso di indefinite forze chiamate me. I me vennero sottratti al dio delle acque Enki, attraverso artifizi da femmine, dalla astuta quanto ambiziosa nipote Innanna, la quale aspirava ad avere un regno mondano tutto proprio.
In Sicilia il maltolto era rappresentato da un manto, montone o vello d’oro, che però, se bene abbiamo interpretato il significato del toponimo Trinacria, rappresentava soltanto una delle tre potenze che erano custodite nell’isola, alle quali torneremo. Anche nella sottrazione del vello siciliano – lo definiamo siciliano in quanto era stato ideato o custodito da Eolo, e per altri motivi ancora, che spiegheremo oltre-, come nel furto dei me sumerici, sono coinvolti i nipoti delle divinità gabbate. La coincidenza della presenza dei nipoti coinvolti nel furto – di furto del vello d’oro parla esplicitamente il re Pelia nel momento in cui riferisce a Giasone che da quando il vello era stato trafugato, la terra su cui governava era stata impoverita- ci fu subito sospetta. Per ciò che concerne questi oggetti misteriosi, portatori di poteri o di imprecisate forze, del vello d’oro in particolare, sottratto a Eolo in Sicilia, la cui privazione, ricordiamolo, impoveriva la terra, ci chiediamo: il vello era nella semplice disponibilità del dio siciliano, o forse egli ne era il realizzatore? A dir il vero ciò poco influirà sulla ricostruzione dei fatti qui tentata. Comunque sia, la dimora del mitico Eolo era tradizionalmente collocata presso il vertice orientale del triangolo formato dal perimetro dell’isola siciliana. Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, pone la sede dei Feaci, a cui gli Argonauti si rivolgono dopo il recupero del vello e a cui forse lo consegnano, nell’estremità occidentale della triangolazione di forze che vi erano, e oseremmo dire persistono, in Sicilia. Le tre estremità del triangolo siciliano corrispondono a Capo Peloro ad oriente, Capo Lilibeo a occidente e Capo Passero a sud-est. Tra le pieghe del racconto di Apollonio Rodio, in due episodi del poema Le Argonautiche, si riesce ad individuare le coordinate geografiche dei luoghi in cui le tre forze sarebbero state collocate in Sicilia. Due dei tre luoghi sono stati sopra citati: Drepane o capo Lilibeo, che rappresenta una delle dodici sedi occupate dai Feaci, come viene sostenuto da Alcinoo nell’Odissea rivolgendosi a Ulisse, e Capo Peloro o isole Eolie, sede del vello d’oro. Va da sé che la terza forza doveva trovarsi nei pressi del terzo angolo del triangolo siciliano: Capo Passero, vicino Siracusa. Questo ultimo luogo risulta altresì coincidente – se si fa passare la ricostruzione del naufragio di Ulisse da noi esposta in altri luoghi- con Siracusa. Scorrendo l’Odissea, si apprende che i Feaci di Siracusa confidarono ad Ulisse che le loro navi (intendasi mezzi di spostamento non necessariamente, o non solo acquatiche) venivano manovrate con il pensiero, non utilizzavano remi. Risulta, dunque, in Omero, ma anche in Apollonio, in quanto il vello era servito a trasportare i due nipoti di Eolo nella Colchide viaggiando per aria, che i Siciliani erano in possesso di tecnologie avanzate, funzionali ad attuare spostamenti veloci per mare, grazie a navi senza remi, e per aria grazie a non meglio identificati mezzi di trasporto, e, forse, anche attraverso la terra, grazie a sospetti veloci carri cui si fa spesso menzione nei poemi.
Ci chiediamo dunque se gli avi nostri, utilizzando il toponimo Trinacria, volessero consapevolmente riferirsi al territorio che ospitava forze capaci di interagire con l’aria, la terra e l’acqua o si riferivano a forze di altro tipo, magari spirituali. La domanda apparirebbe pertinente se si accettasse la traduzione del toponimo ottenuta grazie al metodo da noi elaborato e ormai noto ai lettori.
In tal caso il toponimo potrebbe nascondere tra i diversi significati, anche quello di “le tre potenze celesti” o “le tre forze dell’avo”. Tenendo conto che la lingua sicana era agglutinante, potremo scomporre il toponimo come di seguito: tri con il significato di tre, an con il significato di cielo o Avo, e kr nesso consonantico che nella lingua nord europea indica una forza, che applicata su un oggetto ne produce la rottura, da cui la derivazione del suono onomatopeico delle parole crac, crepa, crampo ecc.

I “ME” delle Tavole Sumeriche.

Ritornando a quanto affermato sopra, tenendo conto di quanto difficile sia approcciare una visione del mondo appartenente a genti che vissero in un periodo storico così distante dal nostro, facciamo rilevare al lettore, che gli indizi afferenti alla presenza di tre potenze presenti nell’isola di Trinacria, ci portano alle non meglio identificate, ma equivalenti forze presenti a Sumer, chiamate “me”. Seguendo il contenuto di una tavoletta sumerica che fa riferimento alla confusione delle lingue, si apprende che la sede di queste forze si trovava su una montagna; assente nelle immense distese del territorio sumerico. I me, viene affermato nel testo, erano nella disponibilità del dio della saggezza Enki. Questo dio, assieme alla sua compagna Ninkhursag, aveva scelto di abitare in un luogo chiamato Dilmun. Questo luogo si trovava nell’Abzu. Nell’Abzu la coppia divina conduceva ricerche di natura botanica col fine di soddisfare le esigenze di approvvigionamento alimentare del genere umano, che si moltiplicava a dismisura, motivo per cui, su una tavoletta, fra i molti appellativi apposti ad Enki appare quello di dio dell’abbondanza. Si ricorderà il lettore, che gli antichi miti greci attribuivano a Demetra l’invenzione del grano, la quale aveva la sua sede a Enna, in Sicilia. Ora, si potrebbe supporre che il furto dei me sumerici e quindi il racconto che è stato elaborato in Mesopotamia, potesse derivare da una trasposizione del racconto del mito siciliano che raccontava della sottrazione del vello o viceversa, oppure si potrebbe ritenere che i due episodi siano indipendenti l’uno dall’altro. Potrebbe allora tornare utile fare dei paralleli con i tempi a noi contemporanei, in quanto la natura umana rimane invariata nonostante il trascorrere dei millenni, e richiamare i moderni casi di cronaca in cui le Nazioni, servendosi di organi occulti, intraprendono azioni di spionaggio nel tentativo di carpire informazioni ai concorrenti stranieri. Nel racconto sumerico a cui si è dato il nome di Enmerkar e il signore di Aratta, nella traduzione del sumerologo Giovanni Pettinato, si legge di una ambasceria: l’ambasciatore inviato al signore di Aratta, avverte quest’ultimo, che il proprio signore di Uruk, che egli definisce “drago che vive a Sumer”, è in grado di polverizzare le montagne come farina. Il lettore é a conoscenza del significato etimologico che abbiamo attribuito (Glossario Etimologico delle lingue antiche, gratuitamente fruibile nei siti www.miti3000.euwww.adranoantica.it) ai nessi consonantici dr+gr che formano il metaforico nome dell’animale inesistente in natura, per cui questa definizione apposta ad Enmerkar sarebbe suonata metaforicamente minacciosa al signore di Aratta. Ma il signore di Aratta, sicuro di sé, risponde al l’ambasciatore che la regina del cielo Innanna, la quale possiede i “lussureggianti me” (sottratti allo zio, dio Enki) sta con lui. Di conseguenza la sua sottomissione al re di Uruk è fuori discussione.

L’Onomastica decriptata.

Purtroppo nulla conosciamo della storia pre greca siciliana, né della teogonia avendo i Greci cancellato ogni reliquia sicana; tranne che dell’onomastica, rimasta quasi invariata. Ora, facendo nostra l’affermazione del noto sumerologo Giovanni Pettinato, il quale con umiltà e onestà intellettuale riconosce quanto poco agevole sia l’esatta interpretazione dei testi sumeri, riteniamo nostro dovere mettere in guardia il lettore affinché accolga col beneficio dell’inventario anche il modesto nostro tentativo di decriptare l’onomastica sicana.

Lo spazio e le potenze che lo percorrono.

Abbiamo appreso dalla mitologia, che Eolo veniva definito dio dei venti e che aveva la sua sede all’estremità nord orientale della Sicilia. Valutando più attentamente il ruolo del dio dei venti nell’ambito della teogonia sicana, per quel poco che ne sappiamo, riteniamo opportuno conferire a Eolo il ruolo di una divinità che sovrintende allo spazio, intendendo per spazio quella dimensione che sta tra il cielo e la terra e dove, per l’appunto, si formano le correnti d’aria dette venti. Il nome Eolo tradirebbe infatti questo suo ruolo poiché lo si può far derivare da Hell, nome con il quale nella lingua nordica si indicava lo spazio in cui si pensava albergassero delle ingovernabili forze extrafisiche, seppure di ordine spirituale. Anche Cicerone fa riferimento a questo luogo nel suo trattato De Divinazione quando afferma che in quel luogo vagano le anime degli antenati. A Sumer Enlil, il cui nome ha molta assonanza con quello del dio siciliano, si trovava, dopo suo padre Anu, al vertice del Pantheon e veniva considerato, guarda caso, il dio del vento e dell’aria. Il nome della nipote di Eolo, Helle, poi, risulta aderire ancora meglio alla ipotesi sopra esposta. A questo punto dell’indagine si potrebbe supporre che Eolo, avesse potuto affidare alla nipote Helle una missione segreta, quella di recarsi nella lontanissima Colchide, sulla costa orientale del Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, terra ancora oggi fitta di mistero e abitata da sciamani. Per compiere il viaggio, il dio che controllava lo spazio aereo, forniva la nipote Helle di un non meglio precisato veicolo, un montone che si spostava per l’aere. Il veicolo veniva chiamato Ve Hell cioè vello, ovvero traducendo verbum pro verbo “il sacro spazio”, da hell spazio e ve sacro. Che questo oggetto misterioso fosse stato realizzato con delle leghe metalliche tra le quali figurava l’oro, o la ricerca dell’oro fosse l’obiettivo del viaggio di Helle, allo stato della ricerca non ci è dato congetturare. Una cosa appare comunque probabile, che tra la Mesopotamia e la Sicilia, le relazioni erano in corso da lungo tempo, altrimenti non si spiegherebbe il viaggio di Helle in Colchide se questo luogo fosse stato completamente sconosciuto ai Siciliani. Un altro indizio che i testi antichi ci forniscono a conferma delle relazioni esistenti fra le due aree geografiche, deriva dal fatto che Circe, sorella del re della Colchide, ancor prima che Helle venisse inviata in missione nella perduta patria di Circe, aveva posto la sua sede sul monte Circeo, nel centro Italia. Circe era fuggita dal fratello Eeta; il motivo della fuga non lo conosceremo mai, ma il fatto che come luogo del suo esilio la maga scegliesse il centro Italia, corrobora la tesi secondo la quale esistevano relazioni tra l’est e l’ovest, tra la Sicilia e la Colchide, ancor più dal momento che Circe manda sua nipote Medea, in possesso del vello rubato al padre, dai Feaci. Il viaggio di Helle verso il Mar Nero si concluse però con un fallimento a causa di un incidente di percorso (guasto del velivolo?) in cui la giovane perse la vita precipitando nel mare, che da lei prese il nome di Helles Ponto. Il fratello Frisso, che viaggiava assieme alla sfortunata, raggiunse comunque la Colchide. Poiché il giovane venne ucciso dal suocero poco tempo dopo le sue nozze con la figlia Calciope, – forse si trattava di nozze determinate da ragioni di stato- dobbiamo supporre che l’operazione diplomatica finisse con un nulla di fatto, motivo per cui, Eolo fu costretto a ripetere subito dopo l’operazione, utilizzando questa volta le maniere forti, inviando, cioè, un esercito formato dai migliori eroi raccolti da tutto il Mediterraneo, alcuni (secondo Apollonio, che era greco, gli eroi erano tutti Greci) provenivano dall’Hellade cioè dalla Grecia, molti dei quali erano nipoti e pronipoti di Eolo. Anziché per via aerea, questa volta Eolo fornì agli eroi una nave, che come quelle possedute dai Feaci, di cui parla Omero nell’Odissea, aveva qualità fuori dalle consuete tecnologie nautiche dell’epoca: Argo, così venne chiamata la nave, avrebbe avuto una specie di radio di bordo, poiché ad un certo punto del racconto, Apollonio fa parlare l’imbarcazione. Grazie anche al contributo di alcuni nipoti di Eolo figli di Frisso, che si trovavano nella Colchide, l’equipaggio formato dai nipoti chiamati Argonauti, riuscì ad entrare in possesso del Ve Hell. L’equipaggio, con qualche perdita, rientrò in Sicilia con il bottino di guerra. Il fatto che gli Argonauti, che Apollonio Rodio, come si è detto lascia intendere fossero tutti Greci al servizio di Pelia re di Jolco, si dirigessero a Trapani dai Feaci, piuttosto che in Grecia o nell’isola dove Eolo aveva la sua reggia, pone l’enigma se la partenza degli Argonauti, che Apollonio fa avvenire da Ortigia, non fosse avvenuta dall’isolotto siracusano che porta appunto questo nome. Comunque siano andate le cose, l’episodio lascia presupporre che l’isola di Sicania o Trinacria, fosse popolata ancora in quel momento, da genti che formavano una monolitica coesione politica e probabilmente etnica. Questa ultima analisi verrebbe corroborata da un altro episodio svoltosi in Sicilia quasi in contemporanea ai fatti qui raccontati: un altro terribile aggressore, Minosse, re di Creta, veniva reso innocuo dal tentativo di assoggettare la Sicilia da un ignorato quanto potente principe sicano, Kokalo. Vogliamo far notare all’attento lettore, che i re Sicani, che governavano in quel frangente la Sicilia, alcuni dei quali erano Alcinoo, Kocalo, forse Eolo ecc. dissuasero i potenti eserciti di Eeta, re dei Colchi e quello di Minosse dai loro propositi bellicosi, senza utilizzare armi convenzionali, cioè non furono combattute guerre né per mare né per terra, ma gli aggressori semplicemente desistettero dai loro bellicoso propositi. Quali tecniche di persuasione erano in grado di mettere in atto i Siciliani di allora? Gli sventati combattimenti messi in atto dai principi sicani sono da attribuire alla feconda oratoria siciliana che prenderà successivamente corpo nella scuola del siciliano Gorgia? può darsi, ma non può essere qui ignorato il parallelismo che corre con il signore di Aratta in possesso dei misteriosi me sumerici, di cui si è detto sopra, e ci si chiede quale potente deterrente abbiano messo in campo i re sicani per scoraggiare gli aggressori. Ritorna perciò prepotente la domanda: di quali forze dissuasive disponevano i Siciliani? Un residuo di tali forze o di conoscenze per crearne di nuove, si era forse tramandato per vie occulte fino alla storia recente? fino a quando cioè Archimede, da solo riuscì a ostacolare l’ingresso nella Polis agli agguerriti eserciti romani grazie a certe “macchine” da lui create nel III sec. a.C.; macchine che nessuno tra gli storici dell’epoca è stato in grado di descrivere con esattezza, tanto da fare spingere qualche studioso a ipotizzare che perfino il meccanismo di Antichitera, una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo ritrovato in una nave affondata, fosse opera dello scienziato siciliano; ed ecco che torna alla mente la nave Argo con la sua radio di bordo. Appare altresì sospetto, che le formidabili armi create per rendere invincibili gli eroi, spesso dèi e semidei, venissero forgiate in Sicilia presso il monte Etna, ritenuto la fucina di Efesto.

Il Tempio di Anu a Dilmun nell’Abzu (?)

Singolare è ancora, che di questo dio fabbro siciliano, Efesto, nel racconto omerico venga affermato che avesse forgiato “(…) due ancelle d’oro, in tutto simili a giovinette vive.. che hanno forza e favella (..,) ” Iliade XVIII. Ma a proposito del monte Etna, è il caso di fare una breve digressione su di esso, in quanto nei testi sumerici ritorna spesso una montagna in cui si recavano spesso gli dèi, pur non esistendo montagne nel territorio di Sumer, tanto che furono innalzate colline artificiali. Al contrario, in Sicilia, non solo la Montagna era nota fra i popoli delle coste mediterranee — nel quattromila a.C., secondo l’affermazione degli studiosi, a causa di una sua parziale implosione, la parte crollata sul mare, aveva provocato un maremoto le cui onde erano giunte fino alle coste dell’Egitto, sommergendo la città di Atlit yam — ma alle sue falde era stato edificato un tempio ad Ano, aggettivato furioso, odhr, famosissimo e, come afferma Plutarco nella vita di Timoleonte, vi affluivano numerosi i pellegrini, provenienti da tutta la Sicilia. Ancora oggi, sebbene la desertificazione in corso ne ha ridotto notevolmente la portata, corsi di acqua dolce, fonti, cascate e fiumi caratterizzano il luogo in cui venne edificato il rinomato tempio. Va ancora aggiunto che il dio Enki, che aveva portato la sua dimora a Dilmun nell’Abzu, luogo delle sue sperimentazioni, era soprannominato acqua, Ea nella lingua sumerica.

Da Est a Ovest.

Tornando al titolo introduttivo di questo breve saggio e alla tesi iniziale, secondo la quale dal Mediterraneo, con la Sicilia quale possibile luogo di propagazione, isola questa, in cui la documentata evoluzione dalla preistoria ai giorni nostri, colma l’incolmabile vuoto cronologico esistente invece in Mesopotamia, dove l’assenza di una evoluzione non giustifica l’improvvisa nascita delle “moderne” città delle ziggurat, una civiltà si sarebbe spostata da ovest verso est, lasciando lungo il suo percorso una moltitudine di indizi storici comprovanti la suddetta avanzata; indizi sul piano culturale, etnico, linguistico, epigrafico che, come le onde provocate da una pietra gettata in uno stagno, si affievoliscono man mano che ci si allontana dalla sede iniziale. Indizi dell’esistenza di una cultura sovrapponibile a quella siciliana si ritrovano abbondanti in Siria, a cominciare dall’antichissima città di Ebla, il cui nome riconduce alle diverse Hible sicule, indizi si ritrovano nel significato del nome Baal, il Signore, il cui appellativo riconduce alla sicula valle (Belice) intitolata ai figli dell’ Anu siciliano, dove dai Sicani veniva appellata furioso. Non più indizi ma prove, si trovano incise su di una tavoletta sumerica a cui si è dato il nome di Lista dei saggi: facendo riferimento ai sette upcalli collegati al dio della saggezza Enki, si legge nella tavoletta, che i saggi si spostarono in oriente provenendo dal mare occidentale (Mediterraneo?), uno dei sette saggi si chiamava Oannes. Questo individuo, definito uomo pesce, forse per la maestria con cui solcava i mari, secondo quanto affermato da Beroso, un sacerdote babilonese dell’epoca di Alessandro Magno, portò la civiltà a Babilonia. Questa civiltà superiore esisteva dunque da prima e altrove. Nella stessa tavoletta si legge ancora che, l’apkallu, cioè il saggio, Nungalpiriggal fece scendere dal cielo nell’Eanna la dea Innanna, equivalente della dea Isthar assira e della greca Persefone, la quale fece costruire una lira di bronzo per Anu. Sia la lira che l’ effige del dio Anu, in Sicilia appellato il furioso, Adrano, sono rappresentati su monete sicule coniate nella zecca della antichissima città di Adrano, la Uruk siciliana, mentre non possiamo non fare la seguente curiosa constatazione: al centro della Sicilia esiste la città di Enna in cui il mito vuole sia avvenuta la discesa agli inferi di Persefone – Innanna. Potremmo continuare all’infinito con le analogie ma concludiamo citando la città di Assoro, facendo notare al lettore l’assonanza del nome con quello che indica il popolo degli Assiri.

L’Oriente come base logistica.

Gli antichi, nel chiedersi come mai il sole che si tuffava al tramonto nel mare occidentale, risorgesse poi dai monti orientali, si dettero la logica risposta che il sole, nel periodo notturno, ripercorreva in senso inverso la terra, invisibile agli uomini in quanto rifaceva il percorso di notte e dalla parte opposta. Ispirandoci a questa intuizione, immaginiamo che la civiltà, un percorso “notturno” lo abbia intrapreso in illo tempore in senso orario, con la variante che noi, col nostro lavoro di ricerca e decodificazione della metastoria, intendiamo gettare luce su ciò che è avvenuto nel buio dei millenni trascorsi. Per finire, lasciando la conclusione al lettore, riportiamo un passo del poema sumerico intitolato Enmerkar ed il signore di Aratta, in cui si legge che: ” l’Eanna di Uruk fu prescelto (..) quando Dilmun non esisteva ancora, quando l’Eanna di Uruk fu fondato (…) Oro, argento, rame, stagno, lapislazzuli (…) non erano stati portati giù dalla montagna”. Da parte nostra interpretiamo il passo riportato, che seppur presentando qualche lacuna non cambia il senso generale del messaggio, come se pur esistendo diversi luoghi chiamati Eanna, una sorta di reggia-tempio-fortezza venisse “prescelto” quello di Uruk in quanto lo si riteneva funzionale allo scopo. È presumibile che lo scopo consistesse nello sfruttamento delle risorse minerarie sopra menzionate; l’Eanna avrebbe dovuto fungere dunque da base logistica in cui sarebbero stati installati stabilimenti per la lavorazione dei metalli estratti. La creazione di basi ad alta densità lavorativa, spiega altresì come mai le città mesopotamiche venissero edificate improvvisamente e fossero concepite già moderne, complete e autosufficienti in un’area prima ignorata da qualsiasi civiltà. Le città sumere appaiono prive di una preistoria! È vero, invece, che la civiltà che avrebbe costruito le basi doveva esistere altrove, come viene esplicitamente affermato nel mito babilonese di Oannes. Crediamo pertanto, che alla fine della glaciazione, essendo le condizioni orografiche del pianeta mutate, come conferma la paleoclimatologia, la quale sostiene che ottomila anni fa il livello dei mari era più basso di circa centoquaranta metri, consentisse gli spostamenti umani. Divenne possibile allora, che nei nuovi insediamenti venissero trasferite e applicate le conoscenze architettoniche e tecnologiche, nonché la toponomastica della civiltà madre. La Sicilia, per l’acclarata presenza di una civiltà antidiluviana nel proprio territorio, evidente anche dalla presenza delle pitture parietali nelle grotte dell’Addaura e di Levanzo, per la presenza di ceramica, opere ciclopiche e per una serie di indizi sopra riportati, è, dunque, candidata ad essere il centro d’irradiazione della civiltà mediterranea.

Bassorilievo egiziano.Tempio di Luxor
Bassorilievo sumerico
Decorazioni geometriche sicane. Museo di Adrano. Corredo funerario del III mill. a. C. Piatto con sequenza romboidale.
Le sequenze di rombi dipinti nel piatto rituale adranita e il bassorilievo sumerico, sembrano richiamarsi all’elica del DNA. Il bassorilievo egiziano è troppo esplicito per essere commentato.

Ad maiora.

Glossario etimologico.

DILMUN. È il luogo in cui Enki e sua moglie hanno preso dimora e dove svolgono esperimenti di botanica. Il toponimo potrebbe essere formato dall’unione dei lessemi Dell, nascosto, celato e mun mente, pensiero creativo. Il toponimo si presta ad immaginare un luogo celato in cui si effettuano ricerche sperimentali. In Sicilia veniva praticato un culto ai figli di Anu, appellato Odhr il furioso. I figli di Anu venivano appellati, oltre che Palici, cioè i signori (Baal), Delli, cioè i nascosti.

EANNA. Comunemente viene interpretato dai sumerologi quale luogo in cui il dio Anu aveva la propria reggia. Traducendo il lessema verbum pro verbo si ha la sequenza acqua-antenati, lasciando così immaginare un luogo circondato dalle acque. In Sicilia, al centro dell’isola esiste una città chiamata Enna. Un mito narra che in questo luogo, protagonista il lago presso la rocca, avvenisse il ratto di Proserpina. Questa dea greca corrisponde alla dea sumera Innanna nipote di Anu. La conformazione di questo luogo farebbe pensare che con il nome Eanna si intendesse indicare un luogo naturalmente fortificato.

VELLO. L’etimo è composto dal lessema ve che significa sacro e Hell con il quale si indica lo spazio. Con il termine si sarebbe potuto indicare un’area circoscritta e, forse, non accessibile a chiunque: uno spazio vietato.

Dalla Colchide alla Sicania, ovvero dalle tenebre alla luce

E anche Priamo sposò una siciliana (?).

I nostri lettori, ormai avvezzi ai colpi di scena, non si stupiranno del bizzarro titolo che abbiamo dato alla ricerca storica qui condotta, focalizzata più che sulle vicende degli Argonauti e dei Dardanidi sui rapporti intercorsi tra il popolo sicano e quelli che trovarono sede sulle sponde del Mar Nero. Sconcertati saranno piuttosto i lettori di questo pregevole sito che, bontà sua lascia libero movimento alla penna impazzita, i quali invitiamo tuttavia, a tenere duro nella lettura e giungere fino alla fine della esplorazione mitico storica qui tentata, tenendo ben in mente quanto intricata sia stata la rete intessuta fra le parentele dei regnanti di tutta Europa. I re delle nazioni europee, sia quelli in carica sia coloro che hanno dovuto lasciare il posto a forme alternative di governo, sono tutti imparentati tra loro seguendo, forse, una consuetudine ancestrale che affonda le proprie origini nel periodo da noi qui indagato.
È nostra intenzione, nel seguente studio, iniziare l’excursus puntando i riflettori sul re Priamo, in quanto desideriamo dare continuità all’articolo che aveva il titolo di “Enea: l’altra faccia della storia”, nel tentativo di colmare le lacune storiche e cercare spiegazioni agli omissis degli storici riguardo alle parentele intercorse tra gli eroi di schieramenti opposti che si scontrarono nel conflitto più famoso della storia, conflitto che cela, tra le pieghe del racconto, messaggi altri, rispetto a quelli evidenti di carattere storico mitologico. Gli eventi qui analizzati e reinterpretati alla luce delle nuove conoscenze, acquisite grazie alle moderne tecnologie e alle nuove discipline di ricerca scientifica, assumono i tratti di un viaggio nella dimensione ultraterrena ed extrafisica.

Gli omissis storici.

Osservando con quale metodicita’ scientifica venissero ignorate nell’Iliade alcune parentele, a noi ricercatori, sembrava quasi che l’attività pedagogica esercitata da Omero, ma vale per tutti gli storici antichi, imponesse loro di porre un tabù ai conflitti che non avrebbero trovato l’approvazione dell’atavica tradizione e rischiato altresì, rievocandole, di risvegliare le Erinni che non perdonano coloro che versano il sangue familiare. È per questo motivo, supponiamo, che Omero omettesse di dichiarare apertamente la parentela che intercorreva tra Teucro, il figlio bastardo di Telamonio, ed Ettore, i quali si cercavano sul campo e si combattevano l’un l’altro da irriducibili nemici; per lo stesso motivo crediamo che il custode delle tradizioni, Omero, tacesse circa le accuse di collaborazionismo col nemico che gravavano su Enea. Tacque ancora, l’imbarazzato poeta cieco, sulle vicende di Anchepolo Anchisiade, evitando di soffermarsi più del dovuto sul personaggio, onde evitare di incorrere nel rischio di rivelare l’insanabile odio che aveva percorso l’animo degli Anchisiadi e dei Priamidi, i primi scacciati dalla città e dal potere dai secondi. Nessun riferimento da parte di Omero, al greco nipote del troiano Priamo, Teucro, figlio della sorella, che Telamonio, inseparabile compagno di Ercole, aveva preso in moglie. Invece, il poeta, portando l’esempio positivo, utile allo scopo educativo affidato alla sua colossale opera, l’Iliade, mise in luce il nobile ruolo svolto dal cognato di Enea Alcatoo. Questi, aveva cresciuto il figlio di Afrodite, assai più giovane di lui, nella propria casa. In questo commovente passo del poema, si evince altresì, come la vulgata degli storici antichi, i quali asserivano che Anchise avesse avuto oltre a Enea, altri figli e figlie, è accettata anche da Omero, che definisce la sorella di Enea, sposa di Alcatoo: “La maggiore delle figlie di Anchise”.

La Sicilia: vagina di eroi e dei.

Ma torniamo a Priamo non senza prima aver manifestato il dovuto apprezzamento al poeta tedesco Goethe, che nella frase da lui pronunciata: “È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”, ha dimostrato di essere stato capace di penetrare verità ad altri precluse.
Nel lib. VIII, 303, Omero descrive l’arciere greco Teucro, figlio di Telamonio e Esione sorella di Priamo, il quale, nel ripetuto tentativo di scagliare i suoi dardi in direzione del cugino troiano Ettore, colpisce un altro figlio di Priamo, Gorgitione, avuto dal re troiano da Castianira. Priamo l’avrebbe sposata a Esima, una non identificata città o regione, che il re avrebbe visitato durante, presumiamo, uno dei suoi numerosi viaggi. La fugace apparizione nel poema di questa moglie e dello sfortunato figlio di Priamo, la vaghezza con cui il poeta descrive la loro provenienza, il nome del genero di Anchise Alcatoo, il cui suffisso riconduce ai nomi dei re feaci Alcinoo, Nausitoo etc. ed ancora le nozze contratte da Ercole in Sicilia di cui parla Apollonio Rodio nelle Argonautiche, ed ancora l’affermazione degli Scoliasti e di Ellanico di Lesbo, secondo i quali Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte, ci induce a spingere le indagini fino in Sicilia. Proprio qui, in questo divino triangolo di terra, si intrecciarono i destini degli eroi – non solo i loro- che si combatterono in terra troiana e, come appureremo anche oltre il Caucaso

Eroi di tutti gli schieramenti contraggono matrimoni in Sicilia.

L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico mitologico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà che Telamonio, l’inseparabile amico di Ercole, aveva preso con sé la figlia del re di Troia Laomedonte, Esione, dopo che i due eroi greci, diretti in Sicilia con i compagni Argonauti, fuggiaschi e reduci del loro viaggio nel Mar Nero, avevano insediato sul trono di Troia il figlio più giovane di Laomedonte Perdace, successivamente appellato Priamo. Se abbiamo dunque visto bene, in accordo con gli Scoliasti ed con Ellanico, possiamo supporre che i fratelli di Priamo, i quali avevano agli occhi di Ercole la colpa di aver sostenuto contro di lui la causa del padre Laomedonte, erano fuggiti ancor prima che il figlio di Zeus mettesse a ferro e a fuoco la città di Troia. Dalla ricostruzione dei fatti tentata in questa sede, sembra che tutti: eroi greci e fuggiaschi troiani, facessero rotta verso l’ospitale terra dei Sicani dove, un popolo sicano in particolare, quello dei Feaci, aveva fama di essere non solo ospitale, ma, come vedremo, detentore di tecnologie, virtù e qualità sovrumane. A questa gara di virtuosismi consistenti in viaggi avventurosi e perigliosi, funzionali ad alzare il prestigio di re ed eroi, apparirebbe poco credibile che il giovanissimo e piissimo re troiano si astenesse, scrollandosi di dosso a cuor leggero, il filiale amore e il fraterno affetto, dimentico dei fuggiaschi suoi congiunti in terra sicana. Per tal motivo non riteniamo peregrina l’ipotesi, suffragata dagli indizi che esporremo più giù, che anche il giovane figlio di Laomedonte si recasse in Sicilia alla ricerca dei propri cari, se non altro per avvertirli che l’implacabile semidio, figlio di Zeus, Ercole, era alle loro calcagna per portare a termine la vendetta nei loro confronti. Infatti, ecco che, con cronologica puntualità, l’implacabile semidio, giunge nell’isola sicana. Ma, in Sicilia, secondo quanto affermato da Apollonio Rodio nel IV libro delle Argonautiche, Ercole, anche lui ospite del re dei Feaci Nausitoo, prende moglie. Il semidio, avrebbe sposato infatti la figlia del fiume Egeo, Melite, ma noi saremmo propensi a credere che Apollonio aderisca ad un topos e che Melite fosse in realtà la figlia di Nausitoo, dal momento che nella generazione successiva, Alcinoo, erede di Nausitoo, vorrebbe dare a sua volta la propria figlia Nausica in moglie ad un altro illustre eroe, Ulisse. Se la nostra intuizione avesse colto nel segno e Priamo si fosse recato in Sicilia, presso i Feaci, perché avrebbe dovuto fare eccezione rispetto ai principi che ambivano a contrarre matrimoni con la stirpe degli dèi, i Feaci, e non imparentarsi con la più potente dinastia regale siciliana? Se così fossero andate le cose, dunque, ecco spiegarsi la presenza di Alcatoo, un nome feacio, presso la reggia dei Dardanidi. Un matrimonio contratto da Priamo con la principessa dei Feaci, qui ipotizzato, non proviene dalla mera fantasia di chi ha proposto questa ricostruzione storica o, se preferite mitologica, ma dalla stessa affermazione del re troiano ormai anziano, che sulle mura di Troia, ripercorrendo con Elena le antiche sue memorie, fa cenno ad un suo viaggio compiuto in gioventù nella lontana Ascania – luogo che noi identifichiamo con la Sicania-, dove avrebbe appunto preso moglie. Il supposto errore commesso dai copisti nella trascrizione del toponimo Sicania in Ascania, da noi rilevato, prende corpo considerando che nell’Odissea, lo stesso poeta dell’Iliade, fa convivere i nomi di Sicania e Trinacria quando afferma che la serva di Laerte proveniva dalla Sicilia. Come giustificare, poi, il nome del nipote di Priamo, Ascanio, se non collegandolo ai parenti della moglie sicana da cui aveva avuto forse Creusa ? (il nome di persona Sicano, era molto frequente in Sicilia. Tucidide cita con questo nome un comandante siciliano, in carica durante la Guerra del Peloponneso). Nel lib. XIII, 793 dell’Iliade, fra gli alleati dei Troiani, fanno apparizione alcuni condottieri: Palmi, Mori e Ascanio, che provengono, si dice nel poema, dalla “fertile” Ascania. La definizione di fertile riferita ad Ascania, pone poco spazio per una diversa collocazione della regione citata, dalla mediterranea isola, basti infatti leggere nell’Odissea la meraviglia che destava in Ulisse, l’osservare i giardini feaci nei quali dagli alberi si ricavavano più raccolti durante lo stesso anno. Secondo quanto viene affermato dagli Scoliasti e da Ellanico di Lesbo, Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte; gli eventi e le date in cui essi si svolgono, dunque, convergono con la ricostruzione qui proposta. Anche l’apparente incongruenza tra Apollonio Rodio e Omero circa la sede dei Feaci trova spiegazione: il primo la pone a Trapani, ma Omero, nell’Odissea fa affermare ad Alcinoo, che da lui dipendono dodici (numero sacro spesso utilizzato dagli storici) principi i quali amministrano le dodici province dell’isola. A questo punto dell’indagine possiamo affermare che sono numerosi i punti di contatto rilevati nel nostro excursus, che uniscono Troia alla Sicilia per sostenere che quest’ultima potesse rimanere estranea ai fatti di Troia.

Le jerofanie in Sicilia.

Per quanto concerne la celebrazione dei matrimoni illustri, sembra che la Sicilia fosse il luogo della consacrazione delle unioni se, come emerge da Apollonio Rodio, dalla lontana Colchide, perfino Medea, affrontando un viaggio periglioso per celebrare il proprio matrimonio con Giasone, avverte la necessità, per lei che apparteneva assieme al padre Eeta e la zia Circe, alla stirpe del Sole, di celebrarlo nell’isola e ricevere la benedizione dei Feaci.

Il Manto D’Oro.

Ora, non è scopo di questo breve saggio indagare cosa in realtà gli eroi cercassero in terra di Colchide e ben che meno in cosa consistesse in realtà il famoso vello d’oro, alla custodia del quale, erano state poste forze terribili. Appare comunque evidente, che ci troviamo di fronte ad una allegoria, utilizzando la quale, gli autori evitavano di palesare le terribili forze che si nascondevano dietro i nomi di creature immaginarie quali drago, vello o oggetti dalle caratteristiche extrafisiche quali la nave argo che perfino “parlava”. Tuttavia, osservando quanto il nobile metallo avesse un ruolo centrale nel racconto di Apollonio, non potevamo non cogliere una puntualizzazione sull’argomento: all’arrivo degli Argonauti in Sicilia, viene osservata la presenza nei prati della Trinacria, di greggi con le corna d’oro, pascolati da due figlie del Sole, Faetusa e Lamezia, le quali tenevano in mano, la prima una verga d’argento, d’oricalco la seconda. Ci chiediamo a questo punto, se gli Argonauti (sospetto é il numero di cinquanta che, assieme ad altre caratteristiche, riconduce a quello degli Annunachi sumeri, anch’essi incaricati di raccogliere oro in Mesopotamia e di cui parleremo più avanti), considerato che il vello, elemento centrale del racconto, era d’oro e d’oro erano parti delle “greggi” che pascolavano in Sicilia, in realtà non stessero riportando nell’isola ciò che, probabilmente con dolo, era stato sottratto. A questa conclusione giungiamo grazie alla constatazione che, come meglio diremo oltre, molti degli eroi componenti l’equipaggio degli Argonauti, erano nipoti del dio Eolo.

La Sicilia dimora di Dei.
Feaci e Annunaki: i due bracci di Anu.

Dalla constatazione che eroi e semidei provenienti da tutto il mondo, ambivano a contrarre o celebrare matrimoni in Sicilia, venne spontaneo porci la domanda: perché? La risposta giunse immediata, la fornì indirettamente lo stesso Alcinoo, re dei Feaci, quando nell’Odissea, attraverso la penna di Omero, definisce il suo popolo stirpe degli dèi. Con i Ciclopi e i Giganti, i Feaci sostenevano di appartenere alla stirpe degli dèi, e questi, afferma Alcinoo, usavano intrattenersi normalmente con loro, manifestandosi apertamente, senza veli. Alla luce di queste affermazioni, si può dedurre che nell’immaginario collettivo della casta cui appartenevano gli eroi e i semidei, prendere moglie tra le figlie dei Feaci, significava imparentarsi con gli dèi. Come abbiamo constatato durante il nostro excursus, i Feaci si erano legati attraverso i matrimoni, ai Troiani. Osservando altresì la continuità con cui i Feaci inviavano propri comandanti in supporto ai Dardanidi, impegnati nel famoso conflitto, siamo stati indotti ad immaginare un principio di vasi comunicanti tra le due stirpi, e nel contempo, constatando già la presenza di una globalizzazione, nel periodo qui indagato, della cultura e delle conoscenze acquisite, da rendere indistinguibili, per esempio le sepolture e i corredi funebri Sicani da quelle Micenee (vedi la tomba del principe a S. Angelo Muxaro e quella di Agamennone a Micene), abbiamo tracciato un parallelismo con i miti sumeri. La nostra attenzione si è focalizzata su due luoghi in particolare citati nelle tavolette sumeriche tradotte dallo studioso Zacharia Sitichin. Questi luoghi, l’Eden e l’Abzu, appaiono di vitale importanza per le attività svolte dalla civilta’ mesopotamica.

L’Eden Siciliano.

L’Eden, descritto nell’antico Testamento come una sorta di paradiso terrestre, dagli studiosi viene tradizionalmente posto in Mesopotamia. Anche l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche avrebbe sede nella medesima area geografica. Tuttavia, spingendoci oltre misura con la nostra immaginazione, che qualcuno non tarderà a definire eccessivamente fertile, dovremo prendere in considerazione l’ipotesi che l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, potrebbe avere avuto la sua sede non nella sabbiosa e sterile pianura mesopotamica, bensì nella fertilissima Sicilia, in quanto il significato del toponimo Abzu, secondo il nostro ormai conosciuto e consolidato metodo interpretativo, riconduce al concetto di un “andirivieni”. Infatti, il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi ab, che nella lingua nord europea, e dunque in quella sicana con la quale è imparentata, significa da, proveniente da, e Zu che significa verso, incontro, andare in una direzione. Ecco dunque che l’Abzu, la cui traduzione verbum pro verbo è da/per, diventa il luogo da cui si parte e il luogo dove si viene; esso appare ai nostri occhi come un laboratorio polivalente in cui avviene la sintesi di ogni ricerca, il luogo in cui si forma il coagulo di ogni sapere. Se così fosse, i Feaci avrebbero allora avuto, nella versione siciliana del mito sumero, il medesimo ruolo che gli Annunaki avrebbero assunto a Sumer. Sarà forse un caso che, in Sicilia i Sicani, come gli Annunachi in Mesopotamia, riconoscevano ad Anu il ruolo di capo e padre della stirpe, con la variante che in Sicilia Anu cioè l’Avo, veniva appellato furioso, odhr nella lingua locale. L’aggettivo furioso applicato all’avo siciliano Adrano, appare tra l’altro compatibile con l’episodio dell’ammutinamento – riportato nei testi sumeri- avvenuto nell’Abzu, ammesso che ci venga data ragione e questo luogo possa essere identificato con la Sicilia-, ammutinamento messo in atto da coloro che avrebbero dovuto eseguire gli ordini impartiti da Anu, i Feaci nel nostro caso(nell’ Odissea si fa riferimento a Poseidone adirato con i Feaci che disattendono i precetti del dio). Sarà ancora un coincidenza che molti di coloro che erano al seguito di Giasone, partiti per recuperare qualcosa che è stato tramandato ai posteri come se fosse un vello d’oro, consegnato antecedentemente da Eolo ad alcuni suoi nipoti o forse da questi trafugato, e condotto nella sponda orientale del Mar Nero, a restituirlo fossero ancora dei nipoti del dio dei venti, ma di terza generazione? Eolo, come si sa, aveva la sua reggia in un isolotto, forse a quei tempi unito alla Sicilia, e governava misteriose forze aeree che per semplificazione vennero definite venti.

Il dubbio.

Soffermandosi sulla festosa quanto sospetta accoglienza riservata dai Siciliani agli Argonauti, descritta da Apollonio, essa appare anche ai più ingenui investigatori come eccessiva e ingiustificata se manifestata nei confronti di estranei, che, agli ignari osservatori, sarebbero potuti apparire perfino come potenziali nemici o pirati, che da sempre hanno solcato il Mediterraneo. Ha pertanto richiamato la nostra attenzione un passo sibillino del poema, che Apollonio si fa sfuggire involontariamente: lo storico greco fa partire gli Argonauti da Ortigia, dove nel tempio di Apollo, cioè il dio evocato all’inizio del Poema e che impose l’impresa agli Argonauti per il recupero del vello, gli eroi compiono un sacrificio per ingraziarsi la divinità. Ora, pur ammettendo un caso di omonimia del toponimo come accade spesso tra la Grecia e la Sicilia, si dà il caso, che ancora oggi ad Ortigia, una appendice questa della città siciliana di Siracusa, ove secondo l’interpretazione da noi fornita studiando i fatti narrati nell’Odissea, vi era la reggia dei Feaci, esistono imponenti le vestigia del tempio di Apollo. Inoltre, a conforto della tesi che noi sosteniamo, e cioè che il vello lasciò la Sicilia e nella Sicilia ritornò, si pone ancora l’incomprensibile viaggio degli Argonauti che, partiti dalla Colchide nel Mar Nero, una volta entrati in possesso del vello a costo di rischi e per il quale alcuni eroi ci rimisero la vita, invece di tornare in tutta fretta in Grecia, destinataria dell’ambito trofeo, nella loro navigazione per la Sicilia la superano, portandosi dietro il manto d’oro, con il rischio di perderlo per vie diverse. Ed ancora, come ignorare la totale mobilitazione degli dèi siciliani: Eolo, Efesto, le Nereidi etc. che per garantire un sicuro approdo nel porto dei Feaci utilizzano tutti i poteri di cui dispongono? E invece sembrano assenti, per lo meno in questa fase, le divinità greche: Zeus, Era, Ares… Il riferimento alla Sicilia, più o meno esplicito, è poi così ossessivo nel trattato di Apollonio Rodio, che lo storico greco, descrivendo le coste del Mar Nero da cui si dipartono in tutta fretta gli eroi e facendo riferimento a cartine geografiche molto antiche, redatte antecedentemente al periodo cui si riferisce Apollonio, afferma che uno dei due bracci dell’Istro (l’attuale Danubio) si riversava nel Mare orientale cioè nel Mar Nero, l’altro nel Mare Trinacrio, facendo presupporre, talmente elevato era il prestigio e la potenza marittima della Sicilia a quel tempo, che il Mediterraneo non fosse ancora chiamato con questo nome o che questo convivesse con quello di Mar Trinacria.

Abzu: Laboratorio Alchemico Siciliano.

Tornando all’Abzu, nel mito sumero si apprende che questo luogo era considerato come una sorta di laboratorio, nel quale, se vogliamo seguire l’interpretazione che ha fornito lo studioso Zachariah Sitichin, il dio Enki, figlio primogenito di Anu, creò l’uomo. Facendo ancora ricorso al mito sumerico, mutuato e riadattato da altre civiltà secondo le esigenze culturali locali, ritenuto il più antico ed originale fra quelli che si riferiscono alla creazione, seguendo la traduzione dello studioso Sitichin, uno dei traduttori delle tavolette sumere, pare che l’uomo, creato nell’Abzu ad immagine di dio, venisse successivamente tradotto nell’Eden, luogo questo che sì, va posto in Mesopotamia, per svolgere imprecisati compiti a lui assegnati da dio. Emerge perciò la tesi, suffragata dalla totale assenza di una preistoria sumera, che nel mesopotamico Eden venisse introdotta l’opera finita di un prodotto che veniva prima sperimentato, poi testato e perfezionato nell’Abzu, cioè nel grande laboratorio naturale rappresentato dall’isola siciliana. In questo contesto potrebbe inserirsi il metaforico racconto di Apollonio, basato sul recupero di qualcosa non meglio identificata che per semplificazione si è chiamato manto o vello d’oro.
Soffermandosi ancora sulla fertilità della Sicilia che giustificherebbe l’impianto di un laboratorio botanico ante litteram, non si può ignorare la descrizione che Ulisse fa nell’Odissea del giardino dei Feaci, in cui avvengono nella medesima stagione strane e molteplici fruttificazioni degli alberi, non si può ignorare la straordinaria diversità biologica presente ancora oggi in Sicilia. Ed ancora, volendo dare credito a Diodoro e Cicerone, i quali sostengono che il mito siciliano di Demetra-Cerere sia il più antico del mondo, ripercorrendo il mito di Proserpina emerge che l’invenzione del grano sia stata una esclusività siciliana, che Demetra, soltanto dopo farà conoscere ai popoli orientali, come conseguenza del viaggio che la dea farà in oriente alla ricerca della figlia Persefone. Alla luce di quanto affermato, l’ipotesi che l’Abzu, questo laboratorio scientifico ante litteram in cui si sarebbero creati i primi ogm, non potrebbe essere sorto nella desertica Mesopotamia ma piuttosto nella fertile Sicania, prende sempre più corpo. Volendo condurre alle estreme conseguenze la ricerca fin qui condotta, continueremo a comparare le due aree geografiche: la mediterranea e la mesopotamica e il ruolo svolto dagli Annunachi da un lato e dai Feaci dall’altro, evitando di esprimere giudizi viziati da preconcetti e di entrare in discipline scientifiche in cui, per ignoranza, non sapremmo districarci; ci limiteremo piuttosto ad osservare con spirito laico, con quale atteggiamento gli autori classici si accostavano alla percezione di dimensione altre, extrasensibili, favolose o mitiche che definir si voglia, e tentare di comprenderne il significato recondito da loro attribuito, facendo leva sulle numerose connessioni e corrispondenze culturali tra le aree geografiche qui poste all’attenzione del lettore.

Le tecnologie degli antichi.

Continuando la illuminante lettura dell’Odissea, apprendiamo che all’astuto Ulisse viene rivelato dai Feaci, che le loro navi venivano pilotate con l’ausilio del solo pensiero; dall’altro lato agli Annunachi viene attribuita dagli studiosi, la conoscenza di tecnologie avanzatissime. Apollonio nelle Argonautiche, pone in evidenza che la lama della spada di Giasone era retrattile e l’eroe, a differenza dei combattenti che si facevano guerra a Troia, i quali

Quadranti solari risalenti al primo millennio a. C. Il primo, il più antico e perfetto, in argilla, è stato ritrovato nell’Appennino Emiliano, in Italia, il secondo in argilla, è stato ritrovato in Palestina, a Qumran.

indossavano tutti elmi di bronzo, ne indossava uno d’oro, certamente più bello ma meno resistente ai colpi eventualmente inferti, ma forse l’eroe doveva essere protetto da forze più sottili e occulte rispetto a quelle tradizionalmente conosciute. L’arma di Giasone ci porta altresì al confronto con il bramastra di Krsna citato nei Veda, un’arma che, stando alla descrizione fornita dai Veda, lanciava strali di fuoco e che l’etimologia del suo nome: brand ardere e strahl raggio, sembra confermare; il carro veloce montato dall’eroe Giasone, fa poi correre il confronto con i vimana, veicoli grazie ai quali si spostavano nei cieli le

particolare del quadrante italiano

divinità vediche; non può passare inosservato neanche il riferimento di Apollonio ad antichissime carte nautiche, né il riferimento alla conoscenza della scrittura con la quale veniva conservata l’ antichissima storia dei popoli che costeggiavano il Mar Nero. Questa storia era messa per iscritto su tavole d’argilla incisa con caratteri definiti cuneiformi, conservate da quei popoli e, come davvero si evince dalla traduzione effettuata da Sitichin, sebbene questi non raccolga i consensi di tutti gli accademici del settore, le tavolette raccontano la storia della nascita della civiltà sulla terra.
A questo punto dell’indagine non possiamo sottrarci dal segnalare all’attento lettore la sospetta perfezione stilistica delle pitture rupestri della grotta dell’Addaura, a Palermo, datate a ventimila anni fa. Anche queste pitture, che descrivono in pochi tratti una civiltà avanzata, si colorano ora di una nuova e chiarificatrice luce.

Enna: la Reggia di Anu.

Nei testi sumerici viene affermato che al dio Anu, col fine di trascorrere un gradevole soggiorno sulla terra, adeguato al suo rango, viene costruita una reggia alla quale viene dato il nome di Aenna (forse da Ahne, avi, antenati). Ebbene, una città posta al centro della Sicilia, edificata in illo tempore su un’alta collina, tanto da fargli guadagnare il primato di comune più alto d’Italia, non solo si chiama Enna, ma ancora al tempo di Cicerone, come riporta l’avvocato nelle sue verrine, veniva indicata come una città abitata da dèi. Onde concludere coerentemente col titolo dato a questo breve saggio, a noi piace porre accanto alla definizione ciceroniana, la specificazione di Apollonio circa la natura solare degli dèi che abitavano il fertile (in tutti i sensi) triangolo sacro. La scelta di porre in Sicilia la fine del viaggio, che ristabilisce la luce momentaneamente oscurata a causa del furto, fuor di metafora della luce, ribalta l’antico aforisma che recita: ” ex oriente lux”, ponendo nella Colchide la sede di Ecate o Proserpina, divinità infera o delle tenebre. Corrobora tale interpretazione il significato etimologico del nome di Colchide, che facciamo derivare da kol carbone, nella accezione di oscuro, tenebroso. La Colchide, terra della maga Medea e Circe, corrisponde alla attuale Georgia, nella costa orientale del Mar Nero, terra di sciamani, che ancora oggi praticano l’antica arte di Medea.

Ad maiora.

Glossario etimologico dei nomi.

ABZU. Da ab andare e zu, verso, nella direzione di.

ANU. (Ano in alto tedesco antico). Significa nonno, avo, antenato.

AENNA. Reggia di Anu. Enna è il nome di una città siciliana. Il nome Ahne, che si conserva nella lingua tedesca, indica i parenti, gli avi, gli antenati.

ANNUNACHI. Coloro che compiono la volontà di Anu, da AN avo, Nun, ora, adesso e akt atto, azione.

BRAMASTRA. Da brand bruciare e strahl raggio.

COLCHIDE. Corrisponde alla Georgia, nel Mar Nero. Il nome deriva da Koke carbone, forse ad indicare la fama che avevano le maghe Circe e Medea, probabili sacerdotessa di Ecate, dea del sottosuolo. Un’alternativa interpretativa potrebbe essere quella di un giuramento nefasto, da koke, carbone nella accezione di nero, oscuro, nefasto e eid giuramento, lemmi semanticamente legati ad un concetto di sacralità.

EDEN. Il primo giuramento o promessa, da Eid giurare e En primo.

EN.KI, detto Ea acqua, per le sue doti nautiche. Figlio di Anu. Da En primo e Kiel chiglia della nave.

MEDEA. L’acqua di mezzo, da med mezzo e Ea acqua.

SUMER. ZU-MER. Ricorrendo all’ausilio dell’antica lingua nord-europea, il suo significato è “dal mare” o meglio “in direzione del mare”, con chiara allusione alla provenienza del popolo insediatosi in Mesopotamia.

VELLO. Dall’unione dei lessemi Ve sacro ed hell spazio, indicherebbe un luogo sacro che avesse a che vedere con l’oro: forse delle miniere di estrazione del nobile metallo.

Assoro-Assur: Sicani e Assiri

“È in Sicilia che si trova
la chiave di tutto”.
Goethe.

Forse i lettori, non coloro che ci seguono da tempo nelle ricerche, saranno sconcertati dalla tesi qui di seguito esposta, secondo la quale, in tempi antichissimi, nella preistoria, sarebbe esistita nel pianeta terra una civiltà che aveva globalizzato la cultura di appartenenza. Sostenere, come fa Goethe tra le righe delle sue affermazioni, che questa civiltà avesse la sua base di espansione nella terra dell’Avo, la Sicilia, sarà meno difficile di quanto sembri e, con tutta sicurezza si attirerà gli strali di quanti, fermi nelle loro posizioni dogmatiche, hanno costruito le loro carriere sugli ipse dixit di una accademia autoreferenziale. Al fine di osteggiare la tesi che esporremo, qualcuno

Adrano

potrebbe tirare in ballo la civiltà per eccellenza, quella ove nacque la scrittura, per mezzo della quale può “sfogliare” la storia del mondo, la civiltà sumerica. Volendo precedere i sicuri interrogativi che verrebbero posti,saremo pertanto proprio noi a tirare per primi in ballo la civiltà che appare sul palcoscenico del mondo soltanto nel tremila e cinquecento circa a.C., di contro, in Sicilia, si attesta una raffinata civiltà che, nelle grotte dell’Addaura (PA), lasciava ai posteri di ventimila anni successivi, graffiti nei quali si può leggere la raffinatezza alla quale era giunta la stirpe sicana.

Adrano

Onde rafforzare la tesi della maggior vetustà diun paradiso siciliano rispetto a quello tradizionalmente posto in Mesopotamia, l’Eden, facciamo rilevare all’acuto lettore, che nella città dell’avo Adrano, edificata alle falde dell’Etna in tempi incommensurabilmente remoti, esposta nel museo archeologico locale vi è una ceramica

Adrano
Adrano

decorata, datata a partire dal settimo millennio a.C.
Tra le numerose decorazioni apposte alla ceramica adranita, spiccano la croce, la croce potenziata, il reticolo, l’occhio onniscente.

Assoro-Assur.

Assoro è il nome di una città siciliana la cui fondazione risale all’epoca sicana e che potrebbe avere relazione con la capitale assira Assur, ma su ciò le nostre indagini si arrestano al momento. Molte acropoli delle città sicane, a testimonianza dei movimenti tellurici, delle catastrofi incorse nei millenni, sono caratterizzata dalla presenza di rocce formatesi dal deposito di sedimenti marini, e per successivo sollevamento della crosta terrestre dovuto allo scontro delle placche tettoniche; infatti, nell’arenaria sono visibili fossili di conchiglie e molluschi marini in grande quantità.
Tra le catastrofi che interessarono il pianeta prende corpo l’ipotesi di un diluvio universale di cui si ha traccia nei testi sacri, nelle fonti orali e letterarie di tutte le civiltà. Secondo l’ipotesi di Ryan-Pitman, il Mar Nero, avrebbe subito una inondazione repentina da parte delle acque provenienti dal Mar Mediterraneo intorno all’ottomila a.C. Per dovere di completezza vanno segnalate anche le tesi di segno opposto affermate da altrettanti autorevoli studiosi, secondo i quali sarebbero state le acque provenienti dal Mar Nero a riempire la depressione dell’area mediterranea. Per quanto noi non possediamo i numeri per inserirci nell’accademico diverbio, osiamo tuttavia esporre l’esistenza di una terza possibilità: man mano che i ghiacciai che coprivano la calotta terrestre dal polo nord fino a Milano si scioglievano, le acque dolci alimentavano, da un lato il Danubio che si riversava nel Mar Nero, dall’altro l’oceano Atlantico che, attraverso lo stretto di Gibilterra, si riversava nel Mar Mediterraneo.
Ora, dal momento che la datazione dell’8500 a.C., proposta dal Pitman per il travaso dei mari, coincide con la fine dell’ultima era glaciale e del successivo scioglimento dei ghiacciai, ritenendo che lo scioglimento non possa essere avvenuto repentinamente come sostenuto dallo studioso, ma lentamente, durato secoli, noi riteniamo plausibile l’ipotesi secondo la quale, durante la lunga fase di innalzamento del livello delle acque del Mar Mediterraneo, che ineluttabilmente provocava l’immersione delle coste siciliane, man mano che le acque salivano, a spostarsi verso oriente non fossero soltanto queste, ma gli stessi Siciliani le cui città vedevano sparire sotto le acque salmastre.
Se l’ipotesi di una migrazione sicana verso est, dovuta alle inondazioni, fosse presa in considerazione, si spiegherebbe allora la grande quanto suggestiva affinità dei toponimi siciliani con quelli presenti nell’area mesopotamica: Assur-Assoro; Ebla-Hibla; Aenna-Enna; Akkad-Acate (per approfondimenti vedere l’articolo: Un dio tra il Simeto e l’Eufrate, miti3000.eu); si spiegherebbe ancora l’affinità tra la lingua sumera e quella sicana (ibidem), nonché una teogonia che vede al vertice del pantheon l’avo comune Ano, che in Sicilia veniva appellato il “furioso” odhr, in quanto si riteneva, forse, che il diluvio fosse stato la conseguenza della sua ira. Appare ancora plausibile la ricostruzione secondo la quale, i Siciliani, una volta giunti in Mesopotamia, venissero appellati Sumeri, dal sicano (lingua di derivazione protogermanica) zu-mer, cioè popolo che viene dal mare, il Mediterraneo. La genesi della migrazione sicana verso est, potrebbe essere stata successivamente raccontata dai Sumeri sulle famose tavolette d’argilla incisa, utilizzando l’alfabeto cuneiforme. Infatti, proprio dalle tavolette sumere si è ricavato il racconto di un diluvio e di una divinità che sarebbe giunta in Mesopotamia da occidente (probabilmente già prima del mitico diluvio) portando la civiltà. Il nome della divinità in questione era Enki, soprannominato Ea acqua.
La provenienza acquatica di Enki, a nostro avviso giustifica l’appellativo Ea conferito al dio. Sarà un caso che anche il dio civilizzatore babilonese Oannes, raffigurato come un uomo mezzo pesce, secondo il racconto del sacerdote Berosso, era giunto in Mesopotamia dal mare occidentale e che il prefisso O del nome Oannes ed il prefisso Ea di Enki abbiano assonanza con il francese eau acqua. Dalla decifrazione delle tavolette sumere, il cui merito va attribuito in gran parte allo studioso Zechariah Sitichin, emerge che il padre di Enki Anu, nome che facciamo risalire al protogermanico Ano con il significato di Avo, appellativo adottato già in Sicilia per il dio nazionale, è un suonatore di lira; così si legge infatti in un lacunoso frammento in cuneiformi ritrovato a Uruk: “In quel luogo luminoso …(lacuna)… la residenza di Innanna. Deposero la lira di Anu”. Continuando con le affinità tra la Sicilia e la Mesopotamia, non passa inosservato che il numero di riferimento del sumero Anu è l’otto, numero simbolico che si ritrova con frequenza nella città di Adrano e riferibile non ad altri se non all’Avo adranita. Per ciò che concerne poi le azioni ascrivibili alla nipote prediletta del mesopotamico Anu, Innanna, esse possono ritenersi, seppur con le ininfluenti varianti locali, una trasposizione del mito siciliano della dea ennese chiamata dai Greci Kore, e poi dai Romani Proserpina. Infatti, sia la divinità siciliana quanto quella mesopotamica, durante il viaggio intrapreso agli inferi, vengono costrette dalle divinità infere, a prendervi dimora eterna. Continuando con le affinità mitologiche, si noti che i Sumeri non facevano mistero della loro ignoranza dell’utilizzo dei cereali per fini alimentari, affermando che il grano venne fatto loro conoscere assai tardi, secondo la nostra ricostruzione che trova appiglio nel mito di Demetra, molto tempo dopo che in Sicilia veniva utilizzato. Infatti, ancora secondo il mito siciliano, e poi quello greco, emerge che è Demetra, la dea che ha la propria sede in Sicilia, ad Enna, a far dono del grano ai Greci (Diodoro Siculo) quando si reca nella loro terra alla ricerca della figlia rapita. Dunque, Demetra, stando al mito greco, e come prima aveva fatto Enki nel racconto sumero, percorreva la terra da ovest verso est, da occidente verso oriente, dalla Sicilia alla Mesopotamia, seguendo forse anch’essa le onde del Mediterraneo che innalzava sempre più il suo livello (?!), portatrice di civiltà.

L’Eden Siciliano.

Quanto sopra affermato porta ad azzardare l’ardita tesi che perfino il paradiso, il famoso Eden (Eid promessa, giuramento; En primo) sumero, possa essere stato per i compilatori delle tavolette, il ricordo del luogo d’origine degli emigranti dell’era post glaciale e pre sumerica. Dai testi Sumeri emerge, infatti, come sopra affermato, che il grano fu fatto conoscere al popolo dalle teste nere dagli dèi, che come si è visto, provenivano da ovest, da occidente, mentre dal mito greco emerge chiaramente che questi dèi provenivano dalla Sicilia, da Enna che ancora al tempo dei Romani veniva appellata granaio dell’impero. La presenza delle varietà botaniche presenti in Sicilia, sono in numero così enorme che non è pari a nessun altro luogo del pianeta. Con un po’ di fantasia si potrebbe immaginare l’isola dalla forma triangolare la cui geometria fa riferimento al divino, che la sua proverbiale fertilità e le idonee condizioni climatiche, si prestassero alla coltivazione di qualsiasi tipo di piantagione, compreso il famoso albero della vita, della conoscenza del bene e del male che cresceva nell’Eden; un vero e proprio laboratorio in cui si potesse praticare anche una qualche sperimentazione su tipi di innesto se, come emerge dallo studio di accreditati scienziati, bisogna dare credito alle loro affermazioni: il grano non è un prodotto spontaneo della natura, ma un prodotto derivato da sofisticate tecniche di manipolazione genetica. In Sicilia sono presenti ancor oggi, nonostante il considerevole cambiamento climatico sopraggiunto negli ultimi millenni che ha portato alla crescente desertificazione dell’isola, una varietà di piante che sono presenti in vaste aree geografiche del pianeta, dal frassino che si trova nel nord Europa e nelle altitudini etnee, all’Africa con le piante di banana. Delle specie animali si può dire altrettanto dal momento che si sono ritrovati fossili di elefante nano.

Conclusione.

Uno studio della preistoria nell’area mediterranea, in Sardegna, in Sicilia, a Malta, condotto laicamente, senza pregiudizi, porterebbe a sorprendenti rimodulazioni storiche ad oggi ancora non osate.

Ad maiora.

Odhr-Ano: la “Terribile” divinità del popolo Sicano

Odino e Adrano, quali affinità?
                                                  
Non è solo la prateria di Mora, presso Upsala, in Svezia, luogo in cui venivano acclamati i re a mettere in relazione la Sicilia con la Scandinavia (nella Vita di Timoleonte, redatta nel II sec. dallo storico greco Plutarco, emergono affinità tra l’ara degli dei Palici presso la città di Adrano, e la pietra di Mora, tra il Mendolito con la vicina Valle delle Muse e la prateria di Mora), né l’antico toponimo dell’isola mediterranea, la Sikania, identico alla regione scandinava S(i)kania, né lo è l’antroponimo Teuto, illuminato principe d’Innessa/Adrano, citato dallo storico Polieno (Stratagemmi), non lo è ancora il nome del siciliano Kapi, citato da Virgilio nell’Eneide, né la constatazione che questo nome era frequente fra i Vichinghi e lo si ritrova inciso in una pietra runica ritrovata nei pressi di Ulunda, pietra funeraria o celebrativa che rappresenta una antica consuetudine e che trova un precedente nella città di Innessa, nella stele del Mendolito; il trade d’union per eccellenza è rappresentato piuttosto dal nome del dio siciliano, ma sarebbe più esatto definirlo Avo comune: Odhr, il furioso, il primo druida, colui che, per primo, si confrontò con le forze ultrafisiche che lo ferirono sì, ma non lo spezzarono. Ci chiediamo se lo scandinavo Odhr-inn e il sikano Odhr-an siano da identificarsi con la medesima divinità e i mediterranei Sikani siano consanguinei dei polari S(i)kani. Certo è, che anche la iconografia antica lì rappresenta entrambi con il copricapo e la lancia, tanto che Odino veniva appellato Biflindi, cioè colui che scuote la lancia” (Plutarco, nella vita di Timoleonte, afferma che fu veduta la statua del dio Adrano scuotere la lancia) e Hjálmberi, cioè colui che porta l’elmo”.
Dunque, entrambi hanno gli attributi di un dio marziale. Ancora, Adamo di Brera, che scrisse nell’XI sec., descrivendo il tempio di Upsala afferma che lì venivano adorate tre divinità, cioè Odino, Thor e Freyr, ovvero la famiglia divina. La stessa cosa avveniva in Sicilia (Eschilo, Le Etnee), nel tempio presso la città di Adrano venivano grandemente onorati Adrano, la sua divina consorte Etna/Hybla e i loro figli gemelli Palici, appellati i Signori.

Odhr, il Furioso.
A giudicare dall’aggettivo “furioso”, odhr, utilizzato per delinearne il carattere, si direbbe che questa comune divinità comunicasse con gli eredi umani attraverso violente e non meglio definite manifestazioni. Ma ciò che a noi interessa evidenziare in questa sede è il constatare che la genesi del druidismo si verifica in Scandinavia e che, come si evince dalle pagine della Voluspa’, il primo druida porta l’aggettivo Odhr, aggettivo che lo lega alla Sicilia, alla S(i)kania. Il furore dello scandinavo Odhr-inn sarebbe diventato in Sicilia il furore dell’Avo o del Cielo, Odhr-An (Avo e Cielo sono in realtà dei sinonimi. Con il lessema AN si indicava indifferentemente l’uno o l’altro, tanto che i re — in Giappone vige ancora questa tradizione– si ritenevano eredi della divinità e si facevano appellare figli del Cielo).

I Druidi in Sicilia.

La presenza in Sicilia degli etnici Senone (Senone di Mene è un illustre cittadino della città di Mineo, citato da Cicerone nelle verrine) e Teuto, e ancora l’appellativo del condottiero siciliano Ducezio (Ducezio era nato a Mineo, il cui nome, in greco Mene, deriva dal nordico Min cioè ricordo, memoria. Per ulteriori informazioni su questo condottiero in odore di sacerdote druida, rimandiamo all’articolo: “Gli Dei Palici e le sacre sponde del Simeto. Ducezio principe e pontefice”, miti3000.eu), l’aggettivo Odhr, furioso, rinvenibile nel nome del dio Adrano e poi ancora l’uso in Sicilia del tipico linguaggio runico o metafisico utilizzato dai Druidi e rinvenibile nel toponimo Ass-Hor, città della provincia

Segni runici (?) nella ceramica adranita del III mill. a.C

di Enna, costituiscono traccia della comune etnia e, di conseguenza, della comune mitologia tra la Sicilia e l’Europa settentrionale, tenendo ovviamente conto degli inevitabili adattamenti locali. L’attribuzione alla mente (MN) di un potere creativo, che è un leit motiv druidico, è rinvenibile nel toponimo Mene (mente), corrispondente alla città di Mineo (ricordo, memoria), patria del Senone citato da Cicerone nelle verrine, nei pressi della quale sorgeva il tempio (in origine una grotta) oracolare degli dèi Palici, figli dell’Avo siciliano; nel suono runico ass che compone il toponimo Ass-ör e che significa il “pronunziatore”, “colui che crea attraverso la parola” e fa sì che il potere del pensiero diventi materia, si manifesta tutto il potere effuso dalla semantica religiosa germanica. Questo è quanto afferma lo studioso scandinavo Kenneth Meadows, nel linguaggio runico: “ass esprime la capacità dello spirito di essere contemporaneamente dentro e fuori le cose create” e “rappresenta il potere che viene ricevuto ed espresso attraverso la mente”. Ass, nell’alfabeto sacro scandinavo, è la runa che simboleggia il dio Odhr-inn.

Un ponte tra il Mediterraneo ed il Polo Nord.
Vaso con svastica esposto nel Museo di Caltanissetta

Le comuni origini tra il sud dell’Europa, la Sicilia, e l’estremo nord, la Scandinavia, a nostro avviso vengono ancora tradite dal medesimo simbolismo, la svastica o croce dei ghiacciai, la croce inscritta nel cerchio, la spirale, ma anche dalla presenza dei Senoni, in Sicilia come in Svezia; anzi, il nome della Svezia probabilmente deriva proprio da Svea rike, ovvero il regno dei Sviones.

Ruota del sole su capitello lavico in arte sicula

Il termine Suiones viene utilizzato da Tacito e, in seguito, con la variante Sueones, dallo storico germanico Adamo da Brera. Quando, poi, la coltre di ghiaccio provocata dai cambiamenti climatici intercorsi, le cui tracce sono rinvenibile nei testi sacri avestici, seppellì la Scandinavia in tempi immemorabili, i Suiones furono costretti a migrare verso il sud del mondo, dove il “dio sole” continuava a splendere senza veli.

Ad maiora.

Il misconosciuto ponte romano della Valle delle Muse e la dormiente sovrintendenza.

“La storia si fa con i documenti scritti,
certamente, quando esistono…
Forse che tutta una parte, e la più affascinante, del nostro
lavoro di storici non consiste proprio
nello sforzo continuo di fare
parlare le cose mute, di far dire loro
ciò che da sole non dicono
sugli uomini, sulle società
che le hanno prodotte”.
Lucien Febvre

 

Cascata presso il ponte romano.
A noi rimane la fantasia.
Immaginiamo l’erto ponte sfidare le cateratte del cantato Simeto dal romano poeta. Esso, il ponte, esisteva già, forse, al tempo in cui Virgilio riconosceva ai gemelli Palici, la cui pingue ara fumava poco più a valle dell’ardita opera di ingegneria della quale forse Vitruvio diresse i lavori, il primato religioso. Forse il poeta romano lo attraversò compiaciuto nel momento in cui carri vuoti lo ripercorrevano pieni di biondo grano, appena mietuto dagli ameni colli al di là della sponda destra, diretti all’Urbe alla quale il mondo intero si genufletteva, oppure, mentre fiero, di armate legioni osservava cadenzare il passo. Accanto, la rumorosa cascata, di cui i lacrimevoli rivoli rimasti testimoniano il pallido ricordo, si tuffava giù, ove ad accoglierla, il duro e compiacente basalto prendeva le forme che le schiumose sue acque le conferivano. Il tempio della vergine pagana – oggi chiesa di Santa Domenica– su di esso, l’orgoglioso ponte, con amore vegliava, affinché i suoi robusti archi non si stancassero di sorreggere il gradito peso, mentre sulla sponda opposta, il tempio del suo cruento amante, Marte – oggi rimane l’abside della diroccata chiesa bizantina- onde ricordare all’animo umano i travagli di natura sua, forza contraria e bilanciatrice effondeva.
Il parere negato.

L’archeologa implorata, accolto sì l’invito, osservato sì il rudere, non seppe però aprire l’occhio, il terzo dico,

Parte del selciato
Parte del selciato

il cui vedere non è dato a tutti, quello che porta alla conoscenza vera; non proferi perciò vibrazione ugolare; impacciata, balbettante promise una risposta ufficiale che ad un lustro dalla scoperta non è ancora arrivata. Pure la presa visione della pietra neolitica, lì di presso, silente come un bambino, caduto, col ginocchio sbucciato, seduto a terra con le mani sul mento, fintamente afflitto per attirare le coccole della disperata madre, non parlò al freddo cuore dell’arida burocrate, la quale proferi la stessa promessa disattesa.

Relazione tecnica dell’ingegnere Andrea Di Primo.

Ma alla insensibilità degli estranei, fa eco ancora una volta, l’ardore dei legittimi eredi che odono lo sdegno degliAvi e, a tal fine, raccolto il parere di prestigiosi professionisti: geologi, ingegneri, storici e ricercatori, che positivamente si pronunciarono, affidiamo a queste pagine il ricordo della nobile stirpe adranita che calco’ le polverose contrade, certi di aver adempiuto al compito assegnatoci per arcane vie dagli Avi che scrissero la storia nostra sulla incorruttibile pietra.

Il geologo F. Bonaccorsi ispeziona i ruderi del crollato ponte.
Ad maiora.