La pietra Neolitica della Valle delle Muse e l’ignavia degli Accademici


Non Ninfe, né Muse vidi oggi bagnarsi nel divino fiume, sebbene udii le prime ridere beffarde quando mi videro cadervi bagnandomi fino alle ginocchia, tradito dalla instabilità di un sasso al quale fiducioso affidai il piede veloce; e le seconde intonar carmi accompagnate dalla musica del frusciar dei folti canneti; ma Lui in persona mi guidò, Lui, il dio cornuto, il Signore della natura e della fertilità: Pan. Vidi uno delle sue due corna di capra sbucar da sopra l’aureo flysch numidico, alito della primordiale forza tellurica, certamente Lui, dietro di esso doveva esser nascosto, non amano, gli dèi, lasciarsi vedere alla luce del sole. Udii però, attraverso il suono scrosciante dei flutti le sue parole rassicuranti circa la pietra che mi accingevo a visitare, temevo infatti che il fiume, con le sue lusinghe, accarezzando dolcemente con le sue fluenti acque, giorno dopo giorno, ne cancellasse i silenti e pur loquaci solchi. “Non temere! O uomo” mi sussurrò, “non deluderemo chi crede ancora in noi, da due millenni, da quando ci dichiararono falsi numi, coloro che vengono qui hanno in spregio la natura: distruggono e sporcano, eppur non li puniamo poiché, in fondo, loro si infliggono da sé medesimi la giusta punizione, la natura restituisce infatti in misura doppia ciò che riceve, perciò tu stai ben certo che custodiremo la tua amata pietra, essa si trova ora in secco, al sicuro! Il fiume, ti garantisco, non cancellerà il messaggio che essa custodisce nei suoi solchi”. Continuando con tono di ammonimento disse:” bada però, se la siccità salva la tua pietra dalla violenza delle acque è pur vero che nuocera’ agli agricoltori, gli dèi non possono accontentare tutti! Perciò ad ognuno il suo. Se Adranoantica recrimina la sua pietra tuoni dunque contro gli ignavi che potrebbero salvarla dallo sfaldamento crudele, eserciti il controllo là dove è giusto che avvenga, posi il suo sguardo là dove nessuno osa guardare”. Così concluse il dio con le corna di capra mentre io giunto ormai sul luogo, ammiravo solitario dell’aura pietra i lebili solchi che una mano certa, guidata da un nume, millenni fa traccio’ perché qualcuno oggi capisse.
Ad maiora.

Valle dell’Orgale: un laboratorio alchemico del neolitico?

Preambolo.

Sebbene la nostra guida, Salvatore Verduci, presidente di Siciliantica di Castiglione di Sicilia, non avesse

Menhir valle dell’ Orgale

l’avvenenza della Beatrice dantesca, seppe egualmente introdurci in un mondo quasi irreale. Il mondo degli Avi si apriva ai nostri occhi e ci permetteva di entrare in empatia con esso senza sforzo alcuno. Le primordiali rocce e l’estesa valle, le grotte e gli antichi canali, li tutto appariva come sigillato, in attesa che il degno cavaliere, penetrato in quel mondo, ne raccogliesse l’eredità spirituale. Bisognava semplicemente saper leggere fra quelle pietre. Erano le vasche in esse scavate un Graal antico di molte migliaia di anni che avevano contenuto il sangue della terra? Scavate nella cima di alta roccia, difficilmente accessibili, ponevano le domande: perché ci troviamo qui? Non giungeva da parte nostra risposta alcuna, piuttosto eravamo noi a rilanciare prepotentemente l’arcano: rito o alchimia?

Le tecnologie nella preistoria.

Premesso che lo storico può solo ipotizzare circa i fatti accaduti in tempi cronologici così distanti dai nostri, è con pudore che ci accosteremo agli argomenti delle pagine seguenti, consapevoli di quanto sia facile scivolare, per noi neofiti, in quella terra di mezzo che sta tra il credibile e l’incredibile, tra il reale e l’irreale che viene comunemente definita con il termine fantasia. Facciamo pertanto appello ai lettori che fin qui ci hanno seguito manifestando la loro stima e consenso all’opera di ricerca e di divulgazione da noi condotta con scrupolo, perché abbiano venia, e considerino un gioco letterario le nuove frontiere che ci appropinquiamo a infrangere.
In tanti ci siamo accostati a Omero, pochi hanno realmente compreso il contenuto velato dei suoi due poemi, l’Iliade e l’Odissea. L’esoterista cieco ha sparso qua e là, in particolare nell’Odissea, nascosti dallo stile letterario della metafora, non pochi elementi di una millenaria conoscenza. Qualcuna delle numerose metafore contenute nei poemi, può oggi essere agevolmente decriptata grazie ai ritrovamenti archeologici di oggetti anacronistici rispetto all’epoca in cui vennero realizzati. Uno di questi incredibili rinvenimenti riguarda un oggetto di metallo, formato da ruote dentellate, pignoni e ingranaggi che si incastrano perfettamente tra loro come le rotelle di antichi orologi.

Meccanismo di Antichitera

Questo misterioso ammasso di metallo corroso venne ritrovato nei fondali del Mediterraneo, presso l’isola greca di Antichitera, vicino a statue di bianco travertino e altri oggetti di fattura greca. Ci chiediamo: lo strano meccanismo si trovava su una nave o era parte della nave? Magari inserito nel timone. Sebbene gli studiosi lo abbiano catalogato come uno strumento atto a studiare la volta del cielo con le sue stelle e i pianeti, forse influenzati dalla menzione che fa Cicerone di uno strumento di cui si è appropriato il console Marcello durante il sacco di Siracusa del 212 a.C., attribuito ad Archimede, e che serviva a prevedere il moto dei pianeti, rimane per noi, indagatori della storia, che non ci accontentiamo di raschiare la superficie di essa, l’inevitabile accostamento del meccanismo così sofisticato a quella parte del racconto dell’Odissea in cui l’aedo cieco parlava di navi guidate col pensiero, dai Feaci, esperti navigatori, popolo che la tradizione collocava in Sicilia (vedi l’articolo: “I Feaci e la fondazione di Sicher-usa” miti3000.eu). Le navi guidate dai Feaci si muovevano, a detta del poeta greco, nelle rotte del Mediterraneo a una velocità allora impossibile da raggiungere, ed erano alimentate da un propellente che il poeta attribuisce alla forza del pensiero (metafora che si riferiva ad una intelligenza tecnologica?). Attribuito dunque da alcuni studiosi al siciliano Archimede, si è molto discusso sull’utilizzo che si sarebbe potuto fare dell’oggetto dentellato e poco ci si è interrogati circa gli strumenti utilizzati per realizzarlo. Ebbene, il procedimento occorso per costruire la perfetta dentellatura delle ruote, merita una breve riflessione. La sua realizzazione presuppone l’esistenza di macchine moderne, strumenti idonei per produrre l’incastro perfetto tra le dentellature. Si dovrebbe presupporre perciò l’esistenza di una moderna industria meccanica nell’età ellenistica se è vero che il reperto lo si deve attribuire al genio di Archimede, vissuto nel III sec. a. C., un ossimoro che stonerebbe agli orecchi degli accademici che, nel tentativo di difendere acriticamente i propri confini scientifici, per dirla con l’archeologo israeliano Dan Bahat, perdono di vista invece i collegamenti che intercorrono tra i saperi attraverso i quali si accede ad una visione globale.
Se vogliamo raccontarla fino in fondo, dovremmo però interrogarci circa i viaggi intrapresi da Archimede ad Alessandria d’Egitto. Nella terra delle piramidi, infatti, lo scienziato vi si recava per incontrare i suoi colleghi egiziani ( avveniva forse nella città più prestigiosa del mondo un summit di scienziati provenienti da ogni latitudine?).

Cielo, Terra, Abissi: Nessun limite conoscitivo per gli Avi? 

L’Egitto è la terra in cui, nel tempio di Dendera, appaiono alcuni bassorilievi del tutto simili a lampade alimentate

Tempio di Dendera

da generatori elettrici, mentre altri bassorilievi nelle pareti del tempio a Luxor, sembrano riprodurre gli spermatozoi umani. Gli spermatozoi, si sa, sono visibili soltanto attraverso l’osservazione al microscopio. Inoltre, le incisioni dei geroglifici e delle figure accanto a quelle degli spermatozoi, hanno fatto supporre ad alcuni studiosi che osano infrangere i limiti del metodo ortodosso di ricerca, che si tratti della descrizione di procedimenti di laboratorio di ingegneria genetica.

Tempio di Luxor

Da parte nostra, non volendo correre il rischio di essere tacciati di eresia, eviteremo di fare cenni alla straordinaria gravidanza di Sara avvenuta alla incredibile età di ottant’anni e dopo che, assieme allo sposo Abramo, si era recata in Egitto. Eviteremo ancora di fare uno sgradevole accostamento tra ciò che potrebbe essere stato fatto dagli “angeli” incontrati da Abramo, all’incredula Sara, e la pratica dell’utero in affitto, così come eviteremo di parlare della clonazione, traguardi raggiunti entrambi negli ultimi decenni.

Tempio di Luxor

L’ipotesi avanzata da alcuni studiosi eterodossi riguardo le conoscenze possedute dagli Egizi, consiste, come si è sopra affermato, nella possibilità che costoro potrebbero essere stati in grado di intervenire nel genoma umano, come dimostrerebbero le raffigurazioni di Luxor, in quanto tali ipotesi non striderebbero col lume della ragione per chi conosce il contenuto dell’Enuma Elish, un testo sumerico del quarto millennio a.C.

Nel testo sumerico sono descritti i tentativi effettuati dagli “dèi” prima che questi giungessero a creare l’uomo nella sua struttura definitiva. Si tenga conto che l’Enuma Elish è stato composto circa duemila anni prima che a Luxor nel 1300 a.C., venissero incisi i geroglifici di cui si è detto sopra. Questa distanza temporale, supposto che abbiano ragione i sostenitori “dell’eresia” genetica, avrebbe permesso agli scienziati antichi, di perfezionare i loro studi/esperimenti/ricerche sul genoma umano.
Per quanto concerne il viaggio di Archimede in Egitto e l’ipotesi sopra formulata circa la possibile conoscenza dei fenomeni elettrici da parte dei sacerdoti Egizi, come sembrerebbe osservando i geroglifici di Dendera, potrebbe far pensare che lo scienziato siciliano si recasse in Egitto per completare o integrare i propri studi, le proprie conoscenze con i risultati a cui erano pervenuti gli scienziati alessandrini. Alessandria era allora il centro del sapere mondiale, possedeva la biblioteca più grande del mondo. Il confronto scientifico tra Archimede e gli alessandrini, riguardo ai fenomeni elettrici, potrebbe aver indotto il siciliano a dedicarsi al progetto di quei congegni, successivamente identificati col nome di specchi ustori, tanto da far porre la domanda se lo scienziato siciliano non avesse realizzato un prototipo dei moderni pannelli solari. Infatti, rimanendo nell’ambito di macchine che producevano impulsi non meglio identificabili, pre esistenti ad Archimede, ma che noi, semplificando definiamo generatori elettrici, constatiamo che gli Ebrei erano in possesso di una macchina, che loro chiamavano Arca, capace di fulminare chi vi si accostava privo delle adeguate protezioni. Davide, che a causa di questo congegno aveva perso l’amato nipote Ayo, caduto fulminato nel tentativo di sostenere l’arca per non farla cadere dal suo sostegno, ne temeva così tanto gli incontrollabili effetti, al punto che la volle lontano da sé, facendola trasportare nel paese vicino. Suo figlio Salomone, costretto dai sacerdoti (scienziati?) a farla rientrare a Gerusalemme, la fece deporre dentro un edificio schermato da grandi pietre (un sarcofago di protezione?), passato alla storia col nome di tempio di Salomone, affinché non nuocesse a chi si trovava all’esterno. Ma un’altra domanda sorge spontanea nel constatare i rapporti intercorsi tra gli scienziati antichi, uomini eccezionali quali furono Mosè, Pitagora, Solone, Gesù, Apollonio di Tiana, Erone di Alessandria etc. e i centri depositari di conoscenze di cui l’Egitto era soltanto uno dei tanti: vi è stata forse una ininterrotta comunicazione da individuo a individuo di conoscenze magari filtrate dalle caste sacerdotali locali fin tanto che esistettero, quali erano quelle dei Druidi, degli Egizi, Caldei e Magi? e se si, a partire da quando si iniziò la trasmissione di questa conoscenza? Si perse? È ancora agente? Certo appare sospetta l’affermazione di Esiodo – “Le Opere e i Giorni” vv.248, 273- contemporaneo di Omero, secondo cui Zeus avrebbe inviato sulla terra trentamila custodi per evitare agli uomini, a causa delle loro malefatte, di compromettere l’armonia del mondo. I cospirazionisti moderni troverebbero argomenti per vedervi un ordine mondiale degli illuminati ante litteram.

I Centri Iniziatici dell’antichità e le conoscenze scientifiche. 

Si potrebbe ipotizzare che la conoscenza delle leggi della fisica in cui riuscivano a destreggiarsi gli uomini di cui abbiamo sopra riportato i nomi più conosciuti, qualora non si trovasse un testimone degno a cui consegnarla, preoccupati per l’uso improprio che se ne sarebbe potuto fare, venisse riassorbita dalla casta sacerdotale e messa in stand by come diremmo oggi. Altrimenti non si spiegherebbe come sia stato possibile che il segreto delle proprie invenzioni, che apparentemente Archimede si portò (?) nella tomba, si disvelasse in tempi successivi. L’ipotesi di una vena carsica della comunicazione scientifica, potrebbe avere credibilità se si pensa alle ipotizzate invenzioni di Tesla e Majorana che non vennero mai attuate né trasmesse nella loro interezza ad alcun adepto, giudicate dai loro inventori troppo pericolose per il genere umano se queste fossero entrate nei laboratori di individui senza scrupoli. Da quello che viene tramandato da storici dell’epoca, considerati molto attendibili, Archimede era riuscito a costruire macchinari dalle capacità e dalle caratteristiche meccaniche tanto avanzate da essere in grado di sollevare pesi di centinaia di tonnellate; è il caso della tenaglia o mano di ferro, come la definisce lo storico Polibio cronologicamente vicino allo scienziato siciliano, capace di agganciare le navi e sollevarle. Una simile macchina sarà stata quasi certamente composta da ruote dentate e pignoni sul modello del meccanismo di Antichitera di cui si è già detto.

Menhir, Vasche, Ipogei: l’area 51 del neolitico?

Ora, ritornando circolarmente all’argomento richiamato dal titolo di questo breve excursus, al periodo del neolitico, ai megaliti e alle numerose vasche di Castiglione di Sicilia, possiamo immaginare, dal momento che i testi sacri di tutti i popoli tramandano il racconto di un diluvio, che lo scorrere delle copiose acque possa avere spazzato ogni antica vestigia “tecnologica” e che i superstiti del disastro, alcuni dei quali conservarono memoria delle conoscenze scientifiche acquisite, dovettero adattare queste conoscenze al nuovo e precario stato in cui si venne a trovare il pianeta. In tali condizioni è possibile formulare l’ipotesi che nell’immediato, venissero utilizzati gli elementi che la natura metteva loro a disposizione: le pietre, le acque, il vento, le vibrazioni che provenivano dal sottosuolo etc. Ma ci chiediamo: non sopravvisse al disastro del diluvio proprio nessun tipo di congegno tecnologico realizzato antecedentemente al disastro climatico? Ancora una volta è il mito che giunge in nostro soccorso fornendo possibili risposte. Viene infatti tramandato, che le enormi pietre utilizzate per costruire le mura di cinta della città di Tebe, risalenti all’età del bronzo, vennero sollevate dal fondatore Anfione, attraverso il semplice suono emesso dalla sua lira, mentre quelle di Gerico, al contrario, vennero abbattute dalle truppe di Giosuè col semplice squillo delle trombe. Fuor di metafora, si potrebbe ipotizzare che i testimoni oculari che assistettero al fenomeno del sollevamento e all’abbattimento delle grandi mura poligonali, udissero e descrivessero in realtà, utilizzando un lessico compatibile con la loro epoca, il sibilo emesso da chissà quali infernali macchinari.
Esperimenti recenti condotti presso il Max Plankt Institute di Stoccarda, in Germania, hanno dimostrato che è possibile spostare oggetti a distanza, senza neanche sfiorarli, utilizzando gli ultrasuoni. Questi sono delle onde sonore, che però l’orecchio umano non percepisce.
In India i testi sacri sono assai più espliciti rispetto a quelli occidentali nel descrivere macchine e armi sofisticate di cui gli dèi si servivano.
Se alla fantasiosa ricostruzione dei fatti qui riportata, in seguito ai quali si iniziò la ricostruzione di un nuovo mondo, si volesse dare anche una sola probabilità di concretezza, il Neolitico potrebbe allora leggersi come quell’epoca di adattamento e ricominciamento di una civiltà sulla base di conoscenze antidiluviane, conoscenze ben descritte, come si è detto, nei Veda e, sotto il nome di miracoli, anche nell’Antico Testamento.

I Superstiti. La Valle dell’Orgale.

Se dunque, i superstiti di una catastrofe che coinvolse l’intero pianeta terra all’inizio del neolitico o alla fine del paleolitico, portatori di conoscenze scientifiche, fossero stati costretti dalla necessità a utilizzare le proprie conoscenze in un contesto di precarietà, non sarebbe inopportuno immaginare che avessero potuto utilizzare in un primo stadio del nuovo ciclo storico, le pietre, come, fuor di metafora, viene affermato nel mito greco del diluvio. Nel mito, Deucalione, il Noè greco, al fine di ripopolare la terra, come gli viene suggerito dalla divinità che ha deciso della sua salvezza, getta alle sue spalle delle pietre che si trasformano in uomini. Il mito, a nostro avviso, dietro la metafora nasconde la relazione intercorsa tra l’uomo e l’elemento di cui ci stiamo occupando, la eterna pietra. Particolare importanza assumono le grotte naturali, magari trasformate dagli uomini in ipogei in cui era possibile utilizzare le vibrazioni provenienti dal sottosuolo, energia questa a buon mercato e immediatamente fruibile. Come utilizzassero le onde elettromagnetiche e le vibrazioni provenienti dal sottosuolo, allo stato attuale delle nostre ricerche non è possibile affermarlo con certezza, ma, utilizzando a nostro vantaggio gli studi condotti dal professor Debertolis sul tema dell’archeoacustica, si potrebbe ipotizzare che gli ipogei in cui queste vibrazioni giungevano, magari amplificate, potessero fungere da cliniche, paragonabili ai nostri odierni ospedali in cui è possibile curare alcune particolari patologie e in cui si fa uso di macchinari che emettono artificialmente le desiderate benefiche radiazioni. Infatti, l’esimio professore, attraverso strumenti tecnologici di ultima generazione e avvalendosi della collaborazione di una prestigiosa equipe di studiosi, ha potuto rilevare i fenomeni che si verificano nei siti templari preistorici. Lo studioso ha potuto constatare che gli ipogei neolitici in cui veniva praticato il culto, sono stati realizzati nei luoghi in cui vengono emesse, ancora oggi, vibrazioni che, interagendo con la corteccia cerebrale dell’individuo, producono stati di benessere. Dal nostro punto di vista, meno scientifico e più intuitivo, non possiamo non condividere quanto studiato dal prof. Debertolis grazie alla semplice constatazione della frequentazione da parte di esseri umani (non come abitazioni) di grotte ed ipogei, a partire dal Paleolitico. Dalle pitture rupestri della grotta di Fumana nel Veneto, a quella dell’antro di Ulisse ad Itaca e alla recente grotta di Lourdes, i fenomeni manifestati al loro interno hanno una uguale conseguenza: inducono gli uomini che le frequentano a creare un rapporto con una dimensione altra la quale, ponendosi oltre il limite della questione che ci siamo imposto in questo breve saggio, non tratteremo oltre.

Two Stone di Roccella Valdemone

Per quanto riguarda l’ipotesi dell’utilizzo dei menhir e dei two stone, rimandiamo il lettore alle intuizioni che abbiamo esternato negli articoli precedenti; in questa sede invece, constatando la abnorme presenza di vasche a Castiglione di Sicilia, la maggior parte delle quali si trovano nella parte orientale del costone dell’Orgale e orientate verso il menhir che ha la forma dell’organo riproduttivo dell’uomo, confermando e continuando coerentemente l’ipotesi formulata nell’articolo: “Tuistone: il dio della risonanza magnetica” si potrebbe aggiungere l’ipotesi maturata durante l’ultima escursione, che più giù esporremo, la quale ha anche lo scopo di tentare un censimento del gran numero di vasche che i proprietari dei terreni, sensibili alle nostre ricerche, sempre in numero crescente, ci segnalano.

Le Vasche.

Le vasche comunicanti, scavate nella roccia, molte in luoghi impervi difficilmente raggiungibili, nelle quali ci siamo imbattuti ieri mattina, sono per lo più in numero di due e comunicano attraverso un foro praticato alla base della prima vasca che si trova più in alto della seconda, con un dislivello che di solito non supera i trenta centimetri. Raramente le vasche sono tre, in questo caso, quella che sta nel mezzo è indipendente e separa le altre due che stanno all’estremità, talvolta la vasca e soltanto una.

La valle dell’Orgale a Castiglione di Sicilia, costeggiata dal fiume Alcantara e da un lungo metanodotto che a nostro avviso potrebbe aver influenzato l’antropizzazione del sito in età neolitica per i motivi già esposti negli studi del prof. Debertolis, è caratterizzata dalla presenza di numerosi two stone, come è stato detto nel nostro precedente articolo, posti nel punto più alto di essa come antenne o accumulatori di energie. I diversi Menhir presenti, gli ipogei, le vasche, i two stone le gallerie scavate per captare le sorgenti d’acqua atte ad alimentare i canali d’irrigazione che sono stati catalogati come Qanat, ma che potevano pre esistere al breve periodo dell’insediamento arabo dal momento che la ceramica castellucciana rinvenuta in zona ne testimonia l’antica antropizzazione, la presenza di metano, del corso del fiume, dovevano essere probabilmente elementi funzionali di un grande impianto unitario. È ipotizzabile perciò, che questo luogo fungesse da laboratorio in cui venivano sfruttate, utilizzate e trasformate le forze della

Vasche per l’elettrolisi

natura: acque piovane e carsiche, la furia delle correnti fluviali, l’elettromagnetismo terrestre, le vibrazioni provenienti dal sottosuolo e in ultimo i fulmini, ammesso che questi, descritti come tali dagli antichi osservatori, non fossero scariche elettriche provocate artificialmente – il lettore ricorderà, infatti, della pioggia provocata artificialmente da Elia, di cui ci siamo occupati negli articoli precedenti attingendo dall’Antico Testamento-.
I miti di molte culture, riguardo ai fulmini, ci informano altresì che questi, come avviene oggi per l’utilizzo di macchinari ospedalieri che emettono radiazioni nocive alla salute, potevano essere utilizzati soltanto dalle divinità (specialisti?) maggiori, Zeus per i Greci, Thor per gli Scandinavi, Krsna per gli Indù. Se si fosse trattato di normali fulmini prodotti durante i temporali, di cui gli uomini erano indifferenti osservatori, in quanto associati ad altri fenomeni quali tuoni, grandine etc. avrebbero occupato un così ampio e suggestivo scenario nella mitologia di tanti popoli?

Ad maiora.

Vasche Rupestri: Rito o Scienza?

Valle delle Muse, Adrano. Ara degli Dei Palici

La presenza in Sicilia di un elevato numero di vasche scavate nella roccia calcarea, in luoghi difficilmente accessibili, ha incuriosito da sempre gli studiosi. La domanda per quale uso fossero state realizzate, nacque spontanea. Se alcune di esse furono riadattate a palmenti rupestri in un momento di recessione economica dell’isola subito dopo la Grande Guerra, non toglie nulla alla domanda posta dagli studiosi che rimane ancora senza risposta. Noi, come di abitudine, desideriamo condividere con gli affezionati lettori dall’ampia prospettiva, studi, ricerche e intuizioni maturate attraverso l’osservazione del vasto fenomeno rupestre.

Il Rito.

Se dovessimo scegliere di sostenere l’ipotesi che maggiormente viene condivisa dagli studiosi, la realizzazione delle vasche dovrebbe avere avuto come fine lo svolgimento di riti ancestrali. In questo caso non dovrebbe passare inosservato il contenuto di un passo dei Veda, il testo sacro degli Indiani, in cui, inneggiando alla madre terra, si fa riferimento ai sacrifici di vario genere. In uno degli inni – AV, XII,I- viene detto: “Su di lei (la terra) sono eretti la piattaforma e i ripari per l’oblazione; su di lei è innalzato il palo sacrificale”.
Alla luce di quanto affermato nel citato inno vedico, per comparazione, dovremmo spingerci ad ipotizzare che i buchi osservati nella roccia, in numero di tre, ai margini delle vasche rupestri, numerosissime nella Sicilia orientale, di cui siamo venuti a conoscenza diretta, potrebbero essere serviti per introdurvi il palo a cui legare la vittima sacrificale. In questo caso, dunque, l’utilizzo delle vasche, profonde circa trenta centimetri, delle quali la seconda ha un dislivello di una cinquantina di centimetri rispetto alla prima e comunicanti tramite un foro, avrebbero dovuto avere il ruolo di altari, di are sacrificali.
Tradizionalmente, proprio con il nome di Ara degli dèi Palici, viene indicata, presso la città di Adrano, la roccia che

Valle delle Muse, Adrano. Ara degli Dei Palici

la natura ha posto sul letto del fiume Simeto, in cui sono state ricavate due vasche. Una domanda che ci si pone, nel caso in cui si volesse costruire una ipotesi alternativa a quella di ruolo di ara delle vasche, è quella se queste, generalmente sempre in numero di due e sempre orientate verso il polo magnetico, raramente in numero di tre o di una, avessero lo scopo di contenere acqua?

Particolari delle due vasche

Ebbene, nel caso in cui volessimo dare una risposta affermativa alla legittima domanda, per avere delucidazioni sul tipo di acque utilizzate, dovremmo ricorrere alle informazioni fornite dallo storico Erodoto e al geografo Strabone. Quest’ultimo, nel suo trattato, Geografia, nel libro III,1,4, descrivendo una località presso Gibilterra, in Spagna, una sorta di Stonehenge iberico, fra le righe di quanto afferma, ci aiuta a comprendere che non tutte le acque potevano andar bene per il rito che si voleva svolgere.
Ciò ci porta a comprendere, sulla scorta di quanto sarà detto più avanti, il motivo della presenza di un modesto canale profondo qualche centimetro, scavato nella roccia in cui venivano ricavate le due vasche, a monte e ai margini della vasca superiore. La presenza di un canale scavato attorno ad un altare è attestata nell’Antico Testamento in Re 18, ove si apprende che è il profeta Elia a realizzarlo. Seppure nel testo biblico non emerge lo scopo per cui il canale viene realizzato, nel caso delle vasche siciliane, il suo scopo appare invece chiaro, come si evidenziera’ più giù. Ma torniamo a Strabone. Il geografo afferma che, chi desiderava visitare il luogo da lui descritto nel suo trattato o andarvi per compiere sacrifici, mancando in quel luogo l’acqua, doveva portarla con sé. Questo passo, letto da chi è privo di una predisposizione all’indagine, potrebbe far credere che la necessità di portare l’acqua con sé derivasse dalla desertificazione del luogo. Ma, avendo verificato in diverse occasioni quanto il geografo fosse insensibile e disattento ai fenomeni che esulavano dai propri interessi di geografo, e, mettendo insieme il passo di Strabone con quello di Erodoto – Storia, I,188-, si comprende che le cose non erano poste in questi termini.

Conoscenze scientifiche dei magi della Persia.

Erodoto, vissuto nel V sec. a.C., nel suo trattato, in riferimento al re persiano Ciro, afferma che il Gran Re, durante le lunghe campagne belliche, era solito portare con sé e per proprio uso, su moltissimi carri tirati da muli, contenuta in vasi d’argento, l’acqua del fiume Coaspe bollita. Ritenendo impossibile che il Gran Re potesse bere quelle enormi quantità d’acqua e ritenendo un inutile spreco ed ingombro che essa fosse contenuta in vasi d’argento piuttosto che in otri di pelle; soffermandosi sui particolari che indica Erodoto riguardo al tipo di metallo dei vasi in cui era contenuta l’acqua, appunto l’argento, e che questa fosse preventivamente o successivamente bollita, induce piuttosto a pensare che quell’acqua fosse funzionale ad esercitare pratiche che stavano al confine tra l’esercizio del sacro e quello della chimica. Infatti, è noto che i Magi persiani, sempre al seguito del Gran Re, erano esperti in molte discipline, tra queste anche quella dell’astronomia. Non si può escludere, dunque, che i Nostri avessero nozioni anche di chimica e di fisica.
L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà, infatti, dell’ipotesi avanzata in articoli precedenti, sulla funzione dei numerosi menhir presenti nell’isola, per formulare la quale ci siamo avvalsi degli approfonditi studi di archeoacustica del prof. Debertolis. Il noto fisico, oltre che insegnare discipline scientifiche nella Università di Trieste, guida una prestigiosa equipe di scienziati con la quale ha raccolto dati in moltissimi templi preistorici sparsi per il mondo, mettendo in evidenza che in quei templi venivano applicate insospettate conoscenze di acustica. Lo studioso, a conclusione delle sue osservazioni scientifiche, si convinse che i costruttori dei templi avevano utilizzato le vibrazioni e le onde elettromagnetiche sprigionate dal sottosuolo per ottenere determinati effetti sulla corteccia cerebrale dei frequentatori dei templi. Ebbene, per comprendere il possibile utilizzo delle nostre vasche, abbiamo invece scomodato Ohm e le sue leggi sull’elettricita’, che però risparmiamo di esporre ai nostri lettori.
Tornando ai magi al seguito di Ciro e all’utilizzo dell’argento nell’ambito delle reazioni chimiche in generale, va notato che la medicina moderna è oggi in grado di utilizzare il proteinato d’argento per trattare la gonorrea. A motivo della sua proprietà battericida viene inoltre utilizzato principalmente come antisettico lo ione di argento, Ag+. Ma non è tutto! Siamo a conoscenza che gli scienziati, da oltre quarant’anni, utilizzano lo ioduro d’argento, sparso nelle nubi con aerei Antonov An-26 per provocare la caduta sulla terra della pioggia.
Chi potrebbe dunque, affermare con assoluta certezza, che i Magi al seguito di Ciro, non conoscessero gli effetti chimici dell’argento e di altri composti? È dunque possibile che l’acqua trasportata in grande quantità in vasi d’argento, lo fosse non per motivi di sterile pomposita’, ma affinché essa assumesse migliore conducibilità elettrica. A questo punto dell’indagine non appare infondato il sospetto che il canale scavato lungo il margine delle vasche rupestri siciliane, avesse lo scopo di impedire all’acqua contenuta dentro le vasche rupestri, trattata con una soluzione a base di sali minerali, di venire diluita dall’eventuale pioggia che, scorrendo lungo la parete rocciosa che si trovava a monte delle vasche, precipitasse al loro interno. Infatti, si sa che l’acqua piovana, priva di sali minerali, è un pessimo conduttore di elettricità.
Che gli antichi avessero nozioni di chimica applicata, è deducibile dalla consultazione delle antiche fonti letterarie. Grazie allo storico greco Polibio, per esempio, si sa che i Cartaginesi, durante il passaggio delle Alpi erano in grado di liberare la via ostruita da rocce calcaree, sfaldandole. Ottenevano questo effetto riscaldando con il fuoco la roccia per poi gettare sopra del semplice aceto.

Vasche comunicanti rupestri. La chimica nella preistoria.

L’elettrolisi dell’acqua è un processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell’acqua in ossigeno ed idrogeno gassoso.

Vasche di Castiglione di Sicilia, valle dell’ Orgale.

La corrente esce dall’alimentatore (un menhir nelle vicinanze o la stessa roccia su cui è ricavata la vasca rupestre? ) e riesce a fluire nei due cilindri (vasche?) grazie alla soluzione elettrolitica. Ci chiediamo: nel caso delle vasche rupestri, ammesso che sia credibile l’ipotesi dell’utilizzo chimico o elettromagnetico delle stesse, quale potrebbe essere stato il fine della loro realizzazione? Gli studiosi delle sacre scritture, analizzando le vasche rupestri siciliane, potrebbero trovare analogie con l’impiego che fa Elia dell’altare di cui si è detto e meglio esporremo oltre? Non lo sapremo mai con certezza.

Vasche di Castiglione di Sicilia, valle dell’ Orgale.

Ma siamo convinti, e gli esempi che porteremo saranno loquaci, che gli antichi conoscevano le reazioni chimiche provocate dagli elementi, se opportunamente combinati. Apprendendo dall’Antico Testamento che il profeta Elia riuscì ad accendere un fuoco, gettando sopra a della legna posta su un altare eretto con “pietre” (biossido di manganese?), una certa quantità di “acqua” – I Re, 18-33-, come non concepire la possibilità che il fenomeno dell’accensione del fuoco causata dallo “scienziato” Elia, non potesse essere stata causata da una soluzione chimica a base di biossido di manganese? Ed ancora, ci chiediamo: la pioggia provocata da Elia, come descritto nell’A. T., aveva a che fare con lo ioduro d’argento che i nostri scienziati utilizzano per raggiungere lo stesso scopo ancora dopo tre millenni? Era forse riuscito Elia dove i nostri scienziati hanno fallito?
Tralasciando di soffermarci sui geroglifici di Dendera su cui i pareri degli studiosi sono controversi, i quali sembra che riproducono lampade e rispettivi alimentatori, non possiamo omettere di segnalare ai nostri lettori l’esistenza della pila di Bagdad sul cui utilizzo gli studiosi sono invece concordi. Questa pila, stando agli esperti che l’hanno esaminata, venne realizzata con metodi rudimentali nei primi secoli della nostra era, utilizzando un grezzo contenitore di argilla cotta, rame e ferro e funzionava per elettrolisi. Continuando con gli esempi afferenti alla tesi che gli antichi potessero essere in possesso di conoscenze nel campo della chimica, citiamo ancora la colonna di Indra. Questa colonna realizzata in ferro si trova in India, a Delhi, è antica di mille e seicento anni ed è stata ottenuta da un tipo di ferro che non arrugginisce. Ed ancora, non si trova risposta alla domanda su come sia stato ottenuto il misterioso dicroismo della coppa di vetro di Licurgo. Di epoca romana, questa coppa di vetro è stata ottenuta fondendo microparticelle di oro e argento così piccole da essere visibili soltanto al microscopio. Nel curioso indagatore, osservando i mezzi rudimentali di cui l’autore dei manufatti si è servito per ottenere intricati procedimenti fisici, come per esempio la pila di Bagdad di cui si è detto o le vasche rupestri di cui ci stiamo occupando, concesso che allo scopo rituale di queste vi si possa aggiungere anche quello chimico o elettromagnetico, si fa strada la banale riflessione: forse che ad ottenere simili manufatti siano stati una minoranza di individui, portatori di conoscenze di cui si sono serviti in condizioni di precarietà? magari utilizzando mezzi di fortuna di cui disponevano in un territorio a loro sconosciuto.
Concludiamo la nostra digressione sulle vasche rupestri senza aver trovato una soluzione riguardo al loro certo utilizzo. Ci auguriamo, tuttavia, di essere riusciti a stimolare chi, per autorevolezza e competenza, potrà cimentarsi allo studio del fenomeno, fornendo le risposte a noi precluse.

Ad maiora.

Si ringrazia il presidente di Siciliantica di Castiglione, Salvatore Verduci, per averci fatto da guida tra le sacre vie dell’Orgale e il sindaco di Roccella Giuseppe Sparta’ per l’impegno profuso in seguito alla scoperta della “collina della fertilità”.

Tuistone: il Dio della risonanza magnetica

Il megalitismo in Sicilia.

“(…) In antichi carmi,
la sola forma di tradizione
storica che essi (i Germani)
abbiano, celebrano il
dio Tuistone, nato dalla terra”.

Tacito, La Germania, lib. I, 2.

Il fenomeno del megalitismo attraversa tutte le coordinate geografiche del mondo. Da oriente a occidente, da nord a sud con una maggiore densità in Europa, si osserva la presenza di enormi pietre, inequivocabilmente considerate opera dell’uomo, di cui non se ne comprende l’utilizzo. Come far passare, dunque, sotto silenzio la presenza dei tremila menhir (monolite conficcato nel terreno) allineati l’uno accanto all’altro, nella città francese di Carnac, che impressionano l’incredulo osservatore? i cromlech che si osservano in Inghilterra, in Portogallo, e i numerosi dolmen e menhir, dell’Irlanda e della Sicilia?
Tacito, lo storico romano del I secolo, osservando e commentando i costumi e la religione dei popoli germanici sottomessi dal suocero, Publio Agricola, cita il nome di una divinità germanica che, ad oggi, non è stata compresa né si è riusciti a compararla con divinità del pantheon greco o latino. Si tratta di Tuistone, il dio nato dalla terra. Tacito nel riportare il nome della divinità, nel suo trattato redatto in lingua latina, lo trascrive certamente secondo la fonetica che egli ode dai parlanti germanici. Pertanto, il nome della “divinità”, che risultava formato dai lessemi two e stone, due e pietra, viene trascritto dallo storico latino con un’unica parola, in base alla pronuncia germanica o britannica, Tuistone. Non sarebbe peregrina l’ipotesi che lo storico romano potesse aver raccolto le superficiali informazioni su questa divinità, dal suocero, Publio Agricola, che aveva sottomesso gran parte dell’Inghilterra fino all’altopiano della Scozia, dal momento che egli stesso, in un passo del suo trattato riferisce: “Spesso gli sentivo dire che con una sola legione si potrebbe mantenere l’Ibernia (Irlanda)”. Nella lingua inglese two, che si pronuncia tu, significa due. Sebbene Tacito non si soffermi nella descrizione del culto professato nei confronti di questa divinità, né tanto meno descriva la struttura architettonica del tempio, noi possiamo arrivare a dare all’una e all’altro una connotazione il più verosimile possibile grazie al resoconto dello storico greco Erodoto – Storia, lib. II,155/6-. Erodoto, dopo aver visitato e descritto l’Egitto e i suoi mirabili monumenti, le piramidi in particolare, affermava che fra tutti i templi, quello che lo aveva particolarmente affascinato e stupito, era il tempio dedicato a Latona (la madre mortale del dio Apollo). “C’è in questo tempio consacrato a Latona un tempio costruito con una sola pietra” affermava lo storico, “Come copertura del tempio c’è posta sopra un’altra pietra” continuava. La pietra che fungeva da tetto o cappello, stando alle misure fornite da Erodoto, era circa un terzo di quella sottostante. Poi, descrivendo il tempio di Apollo edificato in una isola artificiale, lo storico sembra riferirsi a quelli che potrebbero essere stati dei dolmen. Infatti Erodoto afferma: “In essa (l’isola) sorge un tempio di Apollo e tre specie di altari”. Erodoto, a nostro avviso, stava descrivendo il tempio e il culto che Tacito in Germania, cinque secoli più tardi, avrebbe identificato con quello dedicato a Two Stone o Tuistone, le due pietre. La constatazione della presenza di un culto dedicato al dio Apollo in Egitto, divinità occidentale di origine iperborea, (I Romani identificavano la terra Iperborea con l’Irlanda che chiamavano Ibernia), è compatibile con l’affermazione di Diodoro Siculo, lo storico di Agira, il quale sosteneva che i Cimbri, popolo germanico, nei tempi antichi, avevano reso tributaria tutta l’Asia. Noi siamo dell’avviso che quei Germani non si erano limitati a “riscuotere le tasse” in Asia, ma si spingessero a plasmare il Medioriente e l’Oriente della propria weltanshauung ispirando la stesura di testi quali furono i Veda e l’Avesta, testi in cui, tra le righe, è possibile leggere l’epopea di un popolo nostalgico della patria, Vaejo, abbandonata in seguito a cataclismi climatici.
L’Europa, si può dire, rappresenta la patria del megalitismo per numero e spettacolarità delle strutture di pietre, complesse nel caso di Stonehenge, semplici nel caso dei menhir. La quantità di monoliti, triliti o dolmen e cromlech presenti nel vecchio mondo, non hanno pari in altri luoghi della terra. Strabone ne descriveva un gran numero presso lo stretto di Gibilterra. Il geografo romano, vissuto nel I sec.a.C., andando alla ricerca del tempio o colonne, dedicato ad Ercole, nel suo trattato, Geografia, nel libro III, 1,4, afferma che in quel luogo era constatabile soltanto la presenza di pietre disposte a tre o quattro. Il nostro dio Tuistone o megalite di due pietre, two stone, ad

Two Stone di Roccella Valdemone

oggi non è oggetto di nessuna particolare attenzione di studio rispetto alle altre tipologie di megaliti. Ciò sarà dovuto alla sua equivoca caratteristica di roccia naturale in cui, l’opera umana non è particolarmente evidente, apparendo come opera modellata dalla natura, risultato dell’erosione dovuta alle intemperie. Alla luce della visione più laica della storia arcaica, tesa a rivalutare le conoscenze dei nostri prischi antenati, grazie alle nuove tecnologie di indagine, alle discipline scientifiche come lo studio della religione comparata, a noi, che facciamo uso dell’intuizione, i megaliti formati da due pietre sovrapposte, two stone, appaiono sempre meno opera della natura e più frutto della conoscenza dell’uomo, e, dunque, degni di indagini più approfondite.

Two Stone: Il megalite catalizzatore.

Non potremo comprendere la funzione di queste grandiose strutture di pietra senza il notevole contributo fornito da una giovane scienza qual è l’archeoacustica. Il “sacerdote”, che più e meglio, a nostro parere, la rappresenta, è il prof. Paolo Debertolis docente all’università di Trieste, al quale rimandiamo chi volesse approfondire le proprie conoscenze sulla fisica, a noi basti, in questa sede, riassumere per sommi capi, quanto da lui osservato e rilevato con l’ausilio di una strumentazione tecnologica di ultima generazione e una equipe di lavoro di fisici i cui nomi, per le loro eccezionali competenze, fanno tremare le vene ai polsi. Agli studi ed ai risultati del sommo professore, vorremmo noi, con l’umiltà dell’ allievo che si accosta al dotto, integrare intuizioni che sono invece le nostre, e per l’azzardo delle quali chiediamo venia ai nostri lettori.
Secondo lo studioso, i templi preistorici, senza eccezione alcuna, venivano edificati dagli Avi nostri, con cognizione di causa, in luoghi ove vi era emissione di vibrazioni provenienti dal sottosuolo. Le vibrazioni provocate da fenomeni aventi la loro origine nel sottosuolo, si sarebbero trasmesse al tempio, cioè, nel nostro caso, alle due pietre che lo costituivano. A loro volta le risonanze acustiche trasmesse alla roccia, misurate in hz, avrebbero interagito, influenzando la corteccia cerebrale di chi si trovava sul luogo, stimolandola e provocando in essa una maggior attività creativa. Il nostro dio Tuistone, stando alle poche nozioni apprese dal Nostro, altro non era, dunque, che un ” punto energetico” in cui si convogliavano le onde elettromagnetiche e le vibrazioni positive provenienti dal sottosuolo, che ispiravano, con il loro benefico effetto, chiunque vi si avvicinava. Come recitava il mito germanico tramandato da Tacito, Tuistone era un dio metaforicamente nato dalla terra, esattamente come appare la roccia emergente dalla crosta terrestre. Con la terra, la roccia emergente, continua perciò a mantenere, come un figlio con la madre attraverso il cordone ombelicale, un rapporto di continuità. Grazie al rapporto di consustanzialita’ tra la terra e la roccia, si può facilmente intuire il perché di un così consistente numero di questi templi.

Two Stone di Castiglione di Sicilia

Come affermato, i megaliti o templi di pietra, potevano essere formati da un’unica pietra a cui si dà il nome di menhir o monolite, da più pietre singole e vicine o opportunamente sovrapposte le une alle altre, chiamate cromlech e dolmen. Il nostro Two Stone, a motivo della combinazione delle due pietre sovrapposte, quella sovrastante sempre in un rapporto di grandezza non casuale rispetto a quella sottostante, come faceva notare Erodoto, funzionale allo scopo di cui gli Avi nostri erano consapevoli, ci ha fatto sospettare che avesse potuto avere la capacità di fungere da antenna a dipolo (in sintesi, il dipolo è una sorgente costituita da un conduttore elettrico collegato a due sfere che fungono da serbatoio. La caratteristica fondamentale del dipolo è la forte “omnidirezionalità” di irradiazione/ricezione delle ondeelettromagnetiche).

Two Stone di Gagliano Castelferrato

Abbiamo potuto inoltre osservare che, nei pressi dei Two Stone in cui ci siamo imbattuti, vi è sempre la presenza di un metanodotto realizzato in tempi recenti, ma in passato il gas era celato nel sottosuolo e scorreva come fiumi carsici o si trovava stagnante in sacche di contenimento. I megaliti che si trovano in situ, avrebbero potuto, dunque, captare le vibrazioni prodotte dal gas, ma anche dalle acque carsiche sottostanti o dal movimento di faglie in frizione tra loro, e riverberarle in superficie, nell’etere, provocando gli stati di benessere psicofisico, di cui si è detto sopra, negli individui che vi stavano vicini, come rilevato dagli studi condotti dal prof. Debertolis.

Ad maiora.

L’ impollinazione mistica: Castiglione di Sicilia

La valle dell’ Orgale.

Abbiamo voluto riservare le nostre attenzioni alla contrada denominata Orgale, nel comune di Castiglione di Sicilia, poiché, a nostro avviso, nel toponimo e nei monumenti preistorici in essa insistenti, nonché nella simbologia ritrovata incisa nei sepolcreti, si nasconde la visione del mondo degli Avi nostri a cui poca attenzione fino ad oggi e stata dedicata. I lettori sono a conoscenza dei nostri studi sulla decriptazione della lingua sicana e conoscono l’importanza che attribuiamo ai toponimi, in quanto nel significato di essi è spesso racchiusa la storia del luogo. Conoscono ancora, i lettori, la tesi da noi proposta secondo la quale i Sicani che abitarono la nostra isola fin dall’epoca paleolitica, appartenevano alla grande famiglia del popolo indoeuropeo e che, fra i popoli che la costituivano, con i Germani avevano maggiore affinità tanto è vero che anche la lingua, come si evince dalle epigrafi sicane giunte fino a noi, mostra molte somiglianze. Proprio dalla toponomastica, dunque, inizieremo per proporre l’ipotesi di studio riguardante la cultura che si stabilì nella valle dell’Orgale presso il suggestivo borgo di Castiglione di Sicilia.
Il toponimo Orgale deriverebbe dal lessema hörgr con il quale, nella lingua nordica antica, si indicava un altare costruito con pietre sovrapposte a secco. Sull’altare posto davanti al santuario, che di solito era parte della natura stessa, un luogo particolarmente suggestivo e carico di forze come una grotta, un fiume, un bosco, veniva poi eretto un pilastro. La modalità appena descritta con la quale i popoli germanici esprimevano l’edilizia sacra, viene ricostruita anche grazie alla lettura del canto di Hyndla contenuto nell’Edda poetica. In un brano del su citato canto viene infatti affermato: “Egli ha eretto in mio onore un hörgr di pietre ammonticchiate. Egli l’ha di fresco arrossato di sangue di giovenca”. Il fatto che si preferisse sacrificare una giovenca piuttosto che un toro, ci induce a pensare che il sacrificio descritto nel canto riportato, venisse praticato a conclusione di un rito della fertilità. Il pilastro eretto sull’altare, a cui l’animale veniva legato, potrebbe infatti rappresentare il simbolo della virilità. Il padre Cielo (con il sostantivo Ano, nell’antico alto tedesco, si indicava l’avo, il nonno, l’antenato. Il sostantivo Ano, Avo, era sinonimo di Cielo, in quanto era il luogo di residenza del padre della stirpe sicana il cui appellativo era Adrano), sapientemente evocato e grazie al rito, funzionale ad ottenere il suo consenso, attraverso le piogge che avrebbe profuso avrebbe inseminato la terra da cui traggono la loro vita tutte le creature che la abitano. Il mito greco, e il mito è l’espressione del sacro, suggerisce che, attraverso l’evirazione di Urano (Ur-Ano=Cielo primordiale, firmamento), il cui membro sarebbe caduto nel mare in cui si formò la vita, si sarebbe praticato un rito sacrificale cruento della fertilità con spargimento di sangue (con il termine hörgr si indicava anche tramite il suono della parola, l’altare su cui si praticava tale rito). Il rito della sacra evirazione, mal interpretato in Medioriente, si sarebbe ancora riprodotto in epoca storica. Annalisti romani la descrivevano con orrore, affermando che durante la processione svolta in onore della dea Cibele, i sacerdoti, in preda ad una frenetica esaltazione prodotta dal suono di cembali e tamburi, si eviravano pubblicamente. Ora, nella valle dell’Orgale, un menhir modellato secondo le fattezze dell’organo maschile di riproduzione, si erge accanto a due grandi rocce. Queste gli stanno di fronte in modo da formare una insenatura (vulva?). Se queste rocce siano state modellate dalla natura o dalle sapienti mani istruite dalla devozione religiosa degli Avi nostri, sarà il lettore a decidere, attingendo a quanto affermeremo e a quanto il suo intuito gli suggerirà, non esistendo strumenti scientifici adeguati a stabilire la verità.

La vulva della terra e il fallo del cielo.

Menhir

Quale eterno santuario di pietra, come sopra descritto, si erge un menhir di fronte a due vicine rocce.
Non essendo noi degli astrofisici non ci spingeremo oltre l’intuito, non entreremo nei meandri della antica scienza e ci limiteremo ad affermare che non ci stupiremmo se si osservasse, durante il periodo dell’equinozio, il sole proiettare l’ombra del menhir fra le due pietre. Del resto, il concetto della sacra unione tra il Cielo e la Terra fu talmente metabolizzato dalle antiche civiltà di tutto il mondo, da essere utilizzato fino ai tempi odierni, anche se spesso in forma di poesia.
Nei Veda, il testo sacro degli antichi indiani, in cui tremila anni fa furono vergate le intuizioni dei Rsi, sono riportate le frasi che il marito pronunciava durante l’unione con la propria moglie. Attraverso le parole pronunciate si evince che la coppia, paragonandosi al Cielo e alla Terra, era conscia dell’analogia che esisteva tra questi. Ma anche se volessimo attribuire agli Avi nostri non un comportamento religioso, ma semplicemente superstizioso o magico, tale atteggiamento ci porterebbe comunque ad accettare una conoscenza esperienziale dei fenomeni naturali, agricoli nel caso specifico, da loro posseduta. In questa esperienza si manifesta la consapevolezza che la natura femminile, sia pure nel mondo vegetale, necessita della presenza dell’elemento maschile per essere fecondata. I nostri contadini, infatti, sanno che in una piantagione di pistacchio per esempio, bisogna introdurre una pianta di maschio (così come per la palma da dattero e il kiwi). Soltanto così può avvenire l’impollinazione della pianta femmina. L’elemento analogico che si manifestava in ogni elemento, fu presto intuito dagli Avi sicani. Si comprese che i meccanismi che determinano la nascita, la vita e la morte, sono i medesimi per ogni essere vivente, mondo vegetale incluso; l’universo stesso con le sue stelle e i pianeti si conduce con le medesime regole.

Il ciclo della natura nella valle dell’ Orgale.

La valle dell’Orgale rappresenta un libro di pietra su cui è scritto l’eterno ciclo di nascita, crescita e morte. Il menhir e la vulva che abbiamo immaginato essere formata dalle due vicine rocce, simboli della riproduzione, le vasche rituali ricavate nella eterna roccia in cui veniva raccolta l’acqua, simbolo di vita e di purezza, e infine le tombe, in cui si concludeva il ciclo della vita umana;

Nicchie funerarie

tutto ciò coesiste nella valle dell’Orgale quale monito per l’uomo, affinché non dimentichi il proprio ruolo nel creato, quello di essere garante dell’equilibrio cosmico. Un simbolismo, presente nel pavimento di una nicchia sepolcrale, sembra attestare che non ci siamo sbagliati circa l’universalita’ della veltanshauung posseduta dalle genti indoeuropee a cui i Sicani, nostri Avi, aderivano. Si tratta del simbolo del sole, della luce, della rinascita, consistente in otto raggi perciò detto anche sole raggiato.

Dettaglio del bassorilievo simbolico sul pavimento della nicchia

Questo simbolo si ritrova impresso con inusitata frequenza anche su molti pesetti da telaio che venivano deposti, come parte del corredo funebre, nelle tombe del periodo arcaico. Non stupisca la compresenza del simbolo della procreazione con la necropoli, poiché la morte, per i prischi Sicani, rappresentava soltanto il passaggio a nuova vita, ad una rinascita. L’esplicito simbolismo dell’atto sessuale rappresentato sul chiusino di una tomba di Castelluccio ne è l’ennesima evidenza. Sul simbolismo della spirale, del numero otto, del sole raggiato con otto aculei, abbiamo dissertato sufficientemente nei nostri precedenti articoli per ripeterci in questa sede. Spenderemo invece qualche parola in più sulle vasche rituali, ritrovate numerosissime non solo in Sicilia, ma anche in tutta Europa, e che soltanto nella nostra isola sono state catalogate incredibilmente come palmenti rupestri. Che alcune di queste vasche possano essere state riutilizzate in anni recenti, durante cioè la depressione dell’ultimo dopoguerra, come palmenti è plausibile, ma non fu quella la prima destinazione d’uso.

Le vasche rituali.

Che le vasche ricavate nelle rocce abbiano avuto uno scopo rituale, si intuisce dal luogo difficilmente accessibile in cui esse vennero ricavate: sulla cima di alte rocce, come nel caso di Adrano, dell’Argimusco, di Cerami etc., in luoghi di difficile accesso come nel caso di quella rinvenuta nella valle dell’Orgale.

Vasche rituali

In questa valle abbiamo trovato le più grandi e spettacolari vasche. Non sapremo mai per quali riti si utilizzavano le vasche, ma conosciamo il grande valore simbolico che i nostri maggiori attribuivano all’acqua. Facendo riferimento alla disciplina delle religioni comparate, possiamo utilizzare al nostro scopo un passo dei Veda, – PGS I,16,19,22-, in cui viene descritto il momento del parto. Ebbene, si può in esso notare che il padre ponendo ritualmente una bacinella d’acqua vicino alla testa della madre, si rivolgeva alle acque definendole custodi, assieme agli dèi, della madre, e come custodi ne invoca quindi la protezione. Ancora un collegamento tra le acque e la donna, entrambe donatrici di vita, si presenta nel passo X, 85,24 del Rig Veda, allorché, lo sposo, rivolgendosi al cielo, invocando un matrimonio stabile, afferma di liberare la sposa dalle catene protettrici di Varuna che era la divinità delle acque. Nel sostenere che le catene del dio delle acque proteggevano la donna avvinghiandola, si afferma implicitamente che l’elemento acqua è consustanziale al genere femminile. A tale proposito, ricordiamo che il feto si sviluppa nel liquido amniotico e che il momento del parto è definito rottura delle acque. Alla luce di quanto osservato fin qui, non stupirebbe l’idea che la valle dell’Orgale rappresentasse per gli avi Sicani il luogo sacro in cui si celebravano in primavera i matrimoni tra le giovani coppie, in armonia con il matrimonio tra il Cielo e la Terra. Le coppie avrebbero dovuto percorrere un tragitto che, a nostro avviso, iniziava dal menhir, simbolo di fecondazione, e terminava nelle vasche, simbolo di nascita, crescita e purificazione.

Ad maiora.

La collina della fertilità: Roccella come Eleusi

Roccella Valdemone.

Il piccolo villaggio di Roccella Valdemone rappresenta il luogo ideale per chi volesse celebrare la Natura nella sua magnificenza, la Mater Matuta latina, l’anatolica Cibele o la siciliana Demetra, dea delle messi e della fertilità. Il fiume che scorre nei pressi del borgo tra le insenature dei Peloritani, quasi secco d’estate, inganna l’avventuriero che trova più giù fragorose cascate, alimentate da vitali e inestinguibili vene sotterranee. Non poteva essere celebrato che in questo luogo l’ancestrale culto della fertilità; qui più che altrove la terra venne intesa quale nutrice del genere umano. Qui, secondo l’interpretazione fornita dagli archeologi da noi consultati, in una collina a mille e duecento metri, gli Avi Sicani, incisero nelle rocce di arenaria, decine e decine di rappresentazioni della sessualità femminile, evidente allegoria del seme nascosto sotto la nera terra, pronto a dar frutto. Qui, nella fertile isola di Sicania, si anticipo’, rispetto alle culture mediterranee coeve, a nostro avviso, e spiegheremo i motivi più sotto, un culto che successivamente, nella arida e pietrosa Grecia, sarebbe diventato misterico e conosciuto dalla storia con il nome di Misteri Eleusini.

Misteri Eleusini.

Secondo una prima datazione effettuata dalla dott.ssa Tatiana Melaragni sulla base delle foto che le abbiamo inviate, le rocce intagliate nella collina di Roccella, che palesemente introducono ad un culto della fertilità, sarebbero collocabili cronologicamente intorno al quattromila a.C. Ora, attingendo a piene mani dal notevole lavoro svolto da Angelo Guidi (I Misteri di Eleusi, Genova 1979) , il Nostro rileva dai marmi di Paros, che i Misteri Eleusini furono introdotti in Grecia nel 1511 a.C. Sotto il regno di Eretteo nel 1397 a. C., sconfitti gli Eleusini, il re atenise ne avrebbe importato il culto nell’Attica e riconosciuto a Eumolpo, sacerdote di Demetra in Eleusi, il diritto di gestire i riti misterici riservati alla dea. Se ora uniamo a questa affermazione quanto asserisce Diodoro siculo sulla dea delle messi Demetra, che andando alla ricerca della figlia rapita, si spinse in Grecia ove fece dono del grano agli abitanti che l’avevano aiutata nella ricerca, introducendo così la coltivazione di questo cereale anche nell’Ellade, si evince che la semina del grano sia stata introdotta in Grecia dopo che in Sicilia, isola in cui Demetra aveva la propria sede. Il mito greco continua affermando che i Greci, riconoscenti del dono ricevuto, resero onore alla donatrice dedicandole le cerimonie che furono dette Misteri Eleusini. Tuttavia, come spiegheremo oltre, crediamo che anche queste cerimonie siano state mutuate dai Greci da quelle già esistenti da tempo immemorabile in Sicilia. Infatti, così come i Greci resero onore alla dea per il dono ricevuto, non avrebbero potuto fare altrimenti i Siciliani, sudditi diretti della dea, dalla quale ricevettero per primi la conoscenza del prezioso cereale. Demetra, infatti, come fu universalmente riconosciuto attraverso il mito greco (la variante sicana, più antica, è stata da noi ricostruita in un articolo pubblicato su miti3000.eu), aveva ad Enna la propria sede. Che un culto nei confronti della dea venisse praticato in Sicilia e dall’isola fosse passato in Grecia, magari con i dovuti adattamenti locali, si evince ancora dalla presenza ad Eleusi di un sacerdote addetto alla purificazione del neofita il cui nome, chiaramente di origine barbarica, era Hidrano.

Hidrano il grande jerofante.

Lo Hidrano aveva il compito di purificare il neofita che veniva iniziato ai piccoli Misteri Eleusini, probabilmente attraverso abluzioni in vasche rituali che in Sicilia si trovano in gran numero ricavate nella roccia. A questa conclusione si arriva, oltre che grazie ad annalisti del tempo quali Clemente Alessandrino, dal significato dell’appellativo Hidrano. Pertanto, attingendo dal filologo ed esperto in lingua indoeuropea nonché specializzato in idronimia Hans Krahe, che fa derivare da una base comune antico-europea convenzionalmente chiamata protogermanico il termine “drowos” a cui attribuisce il significato di corso di un fiume, risulta che il nome del sacerdote addetto alle abluzioni è composto dall’unione dei lessemi drowos acqua e Ano, avo, antenato. Si fa qui notare di passata, che il nome della maggiore divinità sicana della Sicilia pre greca era Adrano, che è collegabile al “furore’ o impeto delle acque fluviali (vedi glossario etimologico miti3000.eu). Ora, come affermato sopra, l’Hidrano aveva il ruolo di purificare il neofita e a tal fine significativo è che in Grecia, presso il villaggio di Agra, vi era un piccolo tempio sulle sponde del fiume Ilisso dove l’Hidrano compiva il suo ufficio. Così come abbiamo proceduto fin qui emerge, dunque, che Il termine Hidrano con cui si indica quel tipo di sacerdozio è palesemente barbarico, non greco, sicano e ciò concorre alla tesi qui formulata secondo la quale sarebbe siciliana l’origine del culto di Demetra e posteriori alle cerimonie siciliane dedicate alla dea i Misteri eleusini.

Il ruole delle donne.

Come si apprende dagli annalisti antichi, molti dei quali iniziati ai Misteri, come Firmico Materno che si convertirono al cristianesimo, per cui non essendo più tenuti alla segretezza rivelarono il contenuto dei riti, ai misteri Eleusini venivano iniziate anche le donne. Queste, secondo le indiscrezioni fornite da Esichio, interamente nude venivano condotte al cospetto della sacerdotessa. Apuleio, a sua volta, afferma che l’organo sessuale femminile, che egli chiama mundum muliebre, fu posto come oggetto sacro nelle ceste mistiche di Cerere. Le affermazioni dei nostri due letterati ci portano indietro ai primordi, in Sicilia omphalos del Mediterraneo, e al primigenio culto della fertilità nel quale si espone l’organo femminile della riproduzione, a Roccella Valdemone inciso su decine di rocce. A motivo della presenza di una Tholos che esiste ancora proprio sulla collina, anche se parzialmente diroccata, si desume che il luogo di culto dovrebbe essere stato frequentato senza aver subito modificazioni sostanziali, dal periodo eneolitico fino all’età del bronzo, periodo in cui si colloca appunto la Thòlos. Presumiamo che il rito dovette conservare immutate le sue caratteristiche primordiali fino all’età del bronzo. Auspichiamo che la sovrintendenza di Messina, alla quale abbiamo segnalato il ritrovamento, inizi subito un sopralluogo, specialmente nella collina della fertilità in cui ci aspettiamo di trovare, oltre che numerosi artefatti sullo stile di quelli già osservati, un ipogeo, un’ara, vasca rituale etc.

Ad maiora

La collina della fertilità: Roccella Valdemone

Il Matriarcato.

Sugli studi e le opinioni fornite da illustri sociologi e antropologi, circa la visione del mondo che ha interessato alcune civiltà arcaiche, denominata con l’alto sonante appellativo di matriarcato, ben poco abbiamo da aggiungere rispetto a quello che è stato autorevolmente affermato dallo studioso svizzero J. J. Bachofen (Das Mutterrecht, Stoccarda 1861) a cui rimandiamo quanti volessero approfondire l’argomento. A motivo degli interessi più circoscritti che questo breve excursus si pone, ricordiamo soltanto ai nostri lettori che il mito greco afferma come la Sicilia sia stata donata da Zeus a Proserpina quale dono per il suo matrimonio con il dio del sottosuolo Ade. Demetra, a sua volta, fu grandemente onorata per il dono dei cereali che i Siciliani da lei ricevettero per primi. Gli isolani, per ricompensare la dea del dono ricevuto, le tributarono un culto nel territorio di Enna che raggiunse fama in tutto il mondo e fu mutuato successivamente in Grecia e conosciuto con il nome di misteri eleusini. Ad Erice, era famoso il tempio dedicato alla madre dell’eroe Troiano Enea, Afrodite. Nelle recondite sale del tempio della dea dell’amore si praticava la prostituzione sacra, un istituto importato in Sicilia dall’Oriente. In fine, ma non ultimo, ricordiamo la presenza di Cretesi, giunti al seguito di Minosse intorno al XIII sec. a.C. e rimasti nell’isola dopo la morte del loro re. Essi introdussero nelle contrade che abitarono, come afferma Diodoro Siculo, il culto delle madri, erigendo in loro onore splendidi templi. Tuttavia, nonostante le numerose testimonianze mitiche e storiche, alcune delle quali sopra riportate, riteniamo che possa considerarsi patriarcale il culto largamente diffuso nell’isola di Sicilia e minoritario il culto tributato alle divinità femminili, se teniamo in conto il fatto che l’isola derivava il proprio nome dall’Avo Adrano (vedi glossario etimologico della lingua Sicana miti3000.eu), tanto da essere appellata in suo onore come afferma lo storico greco Tucidide, Sicania, ovvero la terra dell’Avo. Ma nello stesso tempo non si può negare che, come sopra affermato, in Sicilia si celebrassero riti di natura agricola propiziatori della fertilità e della riproduzione. Noi siamo fermamente convinti che la collina nei pressi di Roccella Valdemone rappresenti, facendo nostra l’intuizione avuta dalla dott.ssa Tatiana Melaragni, uno dei luoghi più arcaici in cui venivano svolti riti della fertilità legati al culto della dea madre. Il luogo in questione, a motivo della recente scoperta, non è stato ancora studiato dalle autorità competenti a cui lo abbiamo segnalato – si tratta di un’intera collina cosparsa di manufatti simbolici- noi ci siamo limitati ad una ispezione sommaria di parte di essa e tuttavia sufficiente per renderci conto dell’importanza cultuale che il sito ricopre.

Incisioni ( simboli della fertilità?)

Un giudizio sommario sui reperti è stato fornito da archeologi di provata esperienza, sulla base delle foto che abbiamo sottoposte; essi attribuiscono i reperti al periodo eneolitico e le incisioni praticate nelle numerosissime rocce di arenaria, fanno riferimento senza ombra di dubbio all’organo femminile della riproduzione. La scelta della roccia da parte degli artisti nostri progenitori, quale materiale su cui rappresentare l’organo femminile della riproduzione, riconduce al mito greco di Deucalione, presente anche nella mitologia nordica, secondo cui gli uomini sarebbero stati creati dalla trasformazione di pietre, cioè creati direttamente dalla madre terra. In effetti, osservando la posizione del presunto organo femminile della riproduzione inciso nelle suddette pietre, rispetto al terreno sembra che le pietre stiano per partorire e la terra sia lì pronta a ricevere il frutto del loro parto.

Il segno dei tempi.

Il rinvenimento dei manufatti sulla collina che abbiamo battezzata della fertilità,

Incisioni ( simboli della fertilità?)
Incisioni ( simboli della fertilità?)

                                                                                                                                                                       coincide a nostro avviso con un momento in cui l’elemento femminile ha preso il sopravvento nella nostra tanto discussa società. In essa la donna. mascolinizzata, al centro di malinteso emancipazione e indipendenza irrompe nei settori un tempo esclusivo campo d’azione degli uomini, in quanto ritenuti a lei inopportuni se non sconvenienti perché abbrutenti per loro natura, come quello della politica e degli affari. L’aver involontariamente destato il “genius loci” della collina di Roccella, vorrebbe essere da noi interpretato come un auspicio, affinché il ruolo della donna nella nostra società torni ad essere quello che la natura le ha assegnato, consapevoli che ogni forzatura coincida con una distorsione e provochi una rottura dell’armonia universale.

Il Patriarcato.

Come affermato sopra, il culto dedicato all’Avo divinizzato, in età antichissima si esprimeva anche attraverso il simbolo solare del menhir. Questo simbolo di pietra poteva essere naturale, nel caso in cui nel luogo che irradiava forze solari percepite dagli Avi, vi fosse stata la presenza di una roccia che aveva caratteristiche adeguate, o poteva venire modellato parzialmente o totalmente dalla mano umana. Come si può facilmente constatare, in molte zone del nord Europa, attorno ad un luogo di culto, che, come sopra affermato poteva essere un semplice menhir, si poteva erigere un recinto sacro. Lo scopo del recinto era quello di “contenere” le influenze emanate dal luogo affinché queste non nuocessero chi non era in grado di controllarle.

Mannara Gesuitto: Roccella Valdemone.

Da fonti letterarie, si apprende che un grandioso menhir si trovava nel luogo dove oggi vi è un ovile dismesso, presso Roccella Valdemone.

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

I muri del recinto adibito ad ovile, sono stati realizzati con ciclopiche pietre. Alla sommità del muro sono poste trasversalmente lastre di calcare del peso di alcune tonnellate – una inspiegabile anomalia per il modesto uso dell’opera, considerando le risorse economiche e fisiche occorse per realizzarla-. L’imponente recinto che per modalità di costruzione richiama i famosi menhir di Carnac,

Dolmen di Carnac in Francia

a quanto affermano gli eredi, fu realizzata intorno agli anni trenta del novecento da don Giuseppe, loro Avo. Non saremo mai in grado di contestare né di confermare quanto asserito dagli eredi, a motivo dei rimaneggiamenti continui che il sito ha subito, non ultimi gli scavi per l’installazione di un metanodotto un po’ più a monte dell’ovile, e l’ inspiegabile atteggiamento ostile dei suddetti eredi nei confronti di chi avrebbe soltanto voluto studiare il sito e ripulirlo dai rovi. Certo è, ed è quello che a noi preme qui stabilire, che il terreno su cui insiste anche l’ovile, venne antropizzato fin da epoca neolitica. Quanto da noi constatato per via autonoma e qui esposto, è stato precedentemente intuito e poi messo per iscritto nel suo libro, dallo studioso astronomo dott. Pantano.

Conclusioni: La collina della fertilità.

Riteniamo, in base alle tracce ritrovate, di cui abbiamo resi edotti i nostri lettori, che l’ampia area archeologica da noi indagata, insistente nell’attuale comune di Roccella Valdemone, sia stata interessata dallo svolgimento di una devozione cultuale e rituale del popolo indigeno dei Sicani. Il culto ivi praticato, verteva sul concetto di complementarità che spesso ritorna nella visione del mondo sicana e di cui abbiamo ampiamente trattato nei nostri molti articoli. È pertanto probabile che il principio virile e solare espresso dal simbolismo del menhir, di cui riferisce il dott. Pantano nel suo studio, trovasse nella contrada Portella Zilla la sua migliore collocazione, mentre più in là sulla collina da noi battezzata della fertilità, a meno di un chilometro dal punto in cui esisteva il menhir, trovava espressione invece il culto dedicato alla dea madre. Se volessimo tentare una interpretazione di carattere metafisico del rito che si svolgeva, potremmo presumere che idealmente, secondo una concezione magico evocativa a cui gli Avi nostri facevano riferimento, si svolgesse una unione sacra tra il divino maschile e quello femminile. Per analogia, la sacra unione tra il dio e la dea, tra il principio virile e quello femminile, ripetuta idealmente tra Cielo e Terra, faceva sì che venisse garantita la fertilità di ogni cosa vivente sulla terra. Una traccia del culto agrario primordiale, è ancora ravvisabile durante il periodo romano nel rito della primavera sacra. In primavera il dio sole feconda la terra, questa, subito dopo, dona agli uomini il frutto della divina unione. Sono moltissimi i santuari

Pietra Perciata di Nicosia

sparsi per l’isola in cui simbolicamente si consumava l’atto divino, e in essi troviamo le “pietre perciate”, consistenti in rocce nella quali veniva scientemente praticato un foro in modo tale che nel equinozio di primavera, questi fori venissero attraversati da un raggio di sole il quale, colpendo la terra, penetrando in essa, la fecondasse e la rendesse fruttifera.

Ad maiora.

I Peloritani e le civiltà sepolte

La scoperta.

Se abbiamo ben interpretato il significato etimologico del nome dei monti Peloritani (vedi. “Glossario etimologico della lingua Sicana”, miti3000.eu e Adranoantica.it gratuitamente fruibili) che si ergono quali cattedrali, a memoria e gloria degli Avi nostri nella provincia di Messina, siamo certi che in questi monti si troveranno numerosi siti archeologici, ormai resi invisibili dalla natura che avanza laddove l’uomo arretra, come quello da noi recentemente scoperto tra i boschi di pini che con le loro cime toccano il cielo e di cui forniremo ulteriori resoconti.

Comparazioni.

Lo studio delle religioni comparate ci induce a fare un parallelismo tra le credenze religiose e le abitudini di vita intercorse tra gli Avi Sicani e il popolo indoeuropeo dei Daci. Gli uni e gli altri appartenevano al ceppo indoeuropeo. Il sito archeologico siciliano, a una spanna dal piccolo centro di Roccella Valdemone, al momento senza nome, in cui ci siamo imbattuti, arroccato su un promontorio di arenaria ormai totalmente ricoperto da un fitto bosco, è caratterizzato dalla presenza di mura ciclopiche.

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

A motivo delle caratteristiche morfologiche del paesaggio su cui venne edificato l’insediamento, questo potrebbe essere paragonato alla capitale religiosa, politica e militare dei Daci, Sarmizegetusa. Quest’ultima, oggi in Romania, era stata edificata su un colle alto 1200 metri S.l.m. ed era della grandezza di appena 9 ettari. Le caratteristiche anzidette coincidono con il sito siciliano nei pressi di Roccella Valdemone che abbiamo scoperto e preso in esame. Si tenga ben conto che nella concezione religiosa di quel lontano mondo, – Sarmizegetusa viene sottomessa dalle legioni romane nel 98 della nostra era-, non era ancora avvenuta la cesura tra mondo divino e mondo terreno che caratterizza il nostro secolo. Le città edificate sugli alti colli, dalla Palestina alla Sicania, stabilivano, secondo la concezione religiosa degli Avi, un “ponte” tra il Cielo e la Terra. Per questo motivo, a nostro avviso, furono fondati un numero considerevole di villaggi sui monti Peloritani che col cielo sembrano compenetrarsi, fermo restando che alla prerogativa religiosa si aggiungeva allora, la facilità con cui questi villaggi si prestavano ad essere difesi in caso di attacco nemico. Questa ultima considerazione viene confermata da Tucidide (Guerra del Peloponneso, Lib. VI, 88,4) allorché afferma che i Siculi, alleati degli Ateniesi, grazie al controllo che avevano dei passi montuosi, inflissero gravi perdite ai nemici siracusani durante la guerra del Peloponneso per quell’arco di tempo che si protrasse in Sicilia. Dunque, a nostro avviso ben si giustifica l’antico nome dei monti messinesi Bal+hör+eitan ovvero Peloritani (vedi glossario), appellativo che tradotto liberamente significa “Il luogo dove si ascolta la voce del divino”.

Ad maiora.

Le antiche civiltà dei monti Peloritani e dei monti Nebrodi

Premessa

Non si può affrontare una ricostruzione dei fatti pre-storici senza tener conto della weltanshauung dei popoli che li determinarono. Non si può, di conseguenza, affrontare la storia delle origini prescindendo dal giusto punto di vista di partenza. Questo sarà per tanto il primo nostro atteggiamento nei confronti del lavoro di cui ci stiamo per sobbarcare.

Poiché nulla ci è pervenuto di prima mano di quel lontano periodo, dobbiamo poterci districare attraverso il linguaggio primordiale del simbolismo che in Sicilia abbondantemente è presente, scolpito nell’eterna pietra. Figure antropomorfe e zoomorfe, vasche rituali, menhir, dolmen, templi rupestri ci comunicano, attraverso un linguaggio primordiale, non una storia di guerre e conquiste territoriali, frutto della degenerazione di un uomo che avrebbe successivamente abbandonato il rapporto con il Padre Cielo, ma un rapporto spirituale intrattenuto con il mondo delle origini e rappresentato sulle pietre. Alla luce di quanto qui espresso e a motivo della originalità dei metodi interpretativi da noi proposti, temiamo che il nostro lavoro, proprio per la metodologia di cui si avvale, sia condannato alla congiura del silenzio. Noi siamo rassegnati a scrivere per molti, ma non per tutti, certi che non sempre il numero sia sinonimo di potenza e verità.

Roccella, l’ Argimusco e le nuove scoperte.

L’atteggiamento mentale in cui ci si deve porre accostandoci ad un sito qual’e’ quello dell’Argimusco e dintorni, non può essere quello dello storico alla ricerca di fatti da collocare in tempi cronologici. Qui ci si trova di fronte ad un mondo atemporale che immortalo’ sulla pietra i fatti dello spirito. Qui non saranno le pergamene a parlare, ma il mito e il simbolo. In ausilio della ricerca che condurremo, concorreranno le diverse discipline scientifiche, per prima la toponomastica.

Toponomastica: Arke-Muse

L’enigmatico sito dell’Argimusco si trova nei pressi della città chiamata Elicona. Ora, poiché il Monte Elicona per i Greci era il luogo dove abitavano le nove Muse, divinità protrettici delle arti e delle scienze, l’Argimusco, a nostro modo di vedere, può avere nelle Muse un preciso riferimento. Le Muse erano figlie di Mnemosine, la memoria, il ricordo, appare dunque plausibile che il sito dell’Argimusco sia stato realizzato dagli Avi col chiaro intento di consegnare una memoria ai posteri.

La fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

Un muro ciclopico forma un recinto in Contrada Mannara Gesuitto, nel territorio di Roccella Valdemone. Questo

Fortificazione megalitica di Mannara Gesuitto.

muro realizzato in opus quadrato con pietre del peso di tonnellate, è stato riutilizzato come recinto di mandrie e mai è stato preso in considerazione il motivo per il quale vennero impiegate enormi risorse ed energie per realizzarlo. Grazie all’utilizzo di droni abbiamo altresì potuto constatare che a monte del recinto esistono ben altri quattro muri ciclopici. All’interno di quello che ormai ci appariva un sito archeologico, risalente forse all’età del bronzo, nascosto da un fitto bosco di pini, si può soltanto osservare l’insistenza di rocce che, per la particolare caratteristica e forma, apparivano come volutamente lasciate in situ.

Il culto della Dea Madre.

Poco più in là del ciclopico recinto, presso il bivio Zilla, a meno di un chilometro di distanza, all’interno di un fitto bosco notammo ancora la presenza di rocce stranamente intagliate. La dottoressa Tatiana Melaragni, archeologa di lunga esperienza, osservando le foto che le inviammo, non ebbe dubbi a collocare nell’ eneolitico i manufatti e, a motivo delle fessure realizzate nelle rocce di morbida arenaria, ad attribuirli ad un culto celebrato in onore della grande dea madre. Se così fosse, a nostro parere, i tre vicinissimi siti dell’Argimusco, di Contrada Mannara Gisuitto e quest’ultimo, sarebbero in qualche modo collegati. Una antropizzazione senza soluzione di continuità culturale, dovette protrarsi dall’eneolitico fino ad epoca greca per poi sparire assieme all’abitato in epoca romana, quando, grazie alla globalizzazione che viaggiava sulle gambe dei legionari, villaggi fortificati a mille e duecentometri sul livello del mare, un tempo nerbo militare dei Siculi fino ad allora invitti, come quello qui documentato, risultarono anacronistici ed economicamente improduttivi rispetto agli agevoli mercati della pianura.

Non perderemo di vista questo squarcio di mondo in cui vissero gli Avi nostri in perfetta armonia con il paradisiaco paesaggio che li circondava: le suggestive cascate di Palazzolo, i boschi dei Peloritani, le rocce dalle forme scolpite dal dito di Dio. Li, lungo la via delle tholoy, come sentinelle sempre in allerta, sembrano ammonirci perché il nostro sguardo si volga di tanto in tanto al passato.

Ad maiora.

Veio: il paradiso perduto degli Ari

Il canone.

È opinione universalmente condivisa che tra i numerosi popoli stanziali nell’Italia centrale, quello degli Etruschi sia stato il più versato nell’arte della divinazione.

Le remore.

Ebbene, pur volendo sorvolare sul fatto che Romolo, da qualunque tribù provenisse tra quelle insediatesi nel Lazio, si presenti agli occhi di Plutarco (vita di Romolo) e T. Livio (Ab Urbe condita) come un Druida a cui è sacro l’albero della quercia (Livio 1,10), che divide il cielo in quattro parti col suo lituo, che interpreta egli stesso gli auspici, che traccia il solco o cerchio magico per impedire alle potenze negative di penetrare all’interno, appare infondata l’opinione ricordata nell’introduzione se consideriamo le scelte del re Tarquinio Prisco, le quali smentiscono la fama degli Etruschi in quel campo. Il quarto re della cosmopolita Urbe affida il ruolo di aruspice, carica paragonabile a quella del papa per il mondo cristiano, non a un Etrusco, bensì a un Sabino. L’aruspice sabino Attio o Atto Navo, come riferisce T. Livio nella sua Ab Urbe condita, viene messo alle strette dal re etrusco affinché dia prova della sua abilità. Attio riesce nell’impossibile impresa di tagliare un sasso col rasoio. L’impresa di Attio o Atto, condotta a buon fine, fa sensibilmente lievitare il prestigio dell’intera casta sacerdotale degli aruspici a cui il Nostro appartiene, al punto che da quel momento innanzi, è sempre lo storico latino a riportarlo, non verrà intrapresa guerra o altra operazione importante per lo Stato, senza aver prima consultato gli auguri e gli aruspici. Il gesto eclatante, pone, a nostro avviso, Atto al limite tra il ruolo svolto dallo sciamano, dall’aruspice e dal sacerdote; è altresì verosimile che in un tempo più antico tali confini non esistessero affatto per l’operatore del sacro. È plausibile che Attio, o Atto, sia stato semplicemente l’esponente di spicco di una categoria di specialisti del sacro. Questi specialisti, in tempi anteriori rispetto a quelli in cui si trova ad essere protagonista il Nostro, cioè il VI sec. a.C, se abbiamo ben tradotto l’appellativo, venivano detti Sabini. Se abbiamo visto giusto, infatti, l’attributo apposto a questa categoria di operatori del sacro, che per estensione venne successivamente allargato all’intero popolo cui appartenevano e che Livio dice essere stato secondo per potenza delle armi e numero di gente soltanto a quello etrusco, significa coloro che traggono da dentro (le viscere?) le loro conoscenze. L’appellativo Sabino risulta composto dall’unione dei lessemi sa, che dal germanico sehen significa visto, ma nella accezione di conoscere, sapere, dalla preposizione ab, da, che indica provenienza da un luogo, sottrazione, e inna con il significato di dentro, interiore. Anche il nome dell’aruspice, Atto, ha una derivazione germanica. Akt significa azione, atto spesso afferente all’ambito del sacro con il significato di sacrificio. Zarathustra, il riformatore dell’antica religione persiana, nell’Avesta fa il nome di un mago, un certo Akt, suo acerrimo e temuto rivale.

I testi sacri dell’antichità.

Nell’Avesta, il testo sacro degli antichi Persiani, si può agevolmente scorgere una moltitudine di lessemi riconducibili alla lingua germanica, lingua di cui, è bene ricordarlo, si servi lo studioso ceco Hronzny per tradurre le tavolette ittite.
La presenza di lessemi germanici nell’Avesta non deve stupire, dal momento che lo storico greco Erodoto nella compilazione della sua Storia, sosteneva che fra le tribù stanziate in Persia e sottomesse da Ciro, vi era quella dei Germani. Il termine mago, utilizzato per designare una categoria di persone “speciali” presenti in Persia, deriva tra l’altro dal tedesco Mögen potere, compenetrare, attrarre. Il verbo, utilizzato nei confronti di una persona significa desiderarla, volerla fondere a sé, possederla, voler divenire un tutt’uno con essa. Ora, la regione per eccellenza che ospitava questa genia di individui che si diceva espertissima anche in astronomia, era la Persia.
A testimonianza che la casta sacerdotale degli antichi popoli germanici avesse dimestichezza con il cielo e gli astri, forse non è un caso che nella cittadina tedesca di Nebra sia stato ritrovato un disco di bronzo fatto risalire alla media età del bronzo, su cui, sono riprodotti con l’oro e incastonati, il sole, la luna e la costellazione delle Pleiadi. L’analisi della lega con cui era stato realizzato il disco di bronzo, eseguita da specialisti che si sono avvalsi di tecniche moderne, porta alle miniere della Scozia. Il nome dell’antica Scozia era Alba, come quello dato alla città laziale Alba Longa (vedi voce). La Scozia era anche la terra in cui Cesare poté osservare la presenza di quei curiosi quanto potenti sacerdoti chiamati druidi, i cui tratti ci sembrano caratterizzare i comportamenti del primo re di Roma il cui nome o appellativo, come si evince da quanto affermato da T. Livio, era, oltre a quello di Romolo, Ramnes. Come esposto in precedenti articoli, nell’Avesta, il nome con cui gli Ariani designavano la terra di provenienza, era VAEJO. Il toponimo airayanem-vaejo è stato tradotto con il paradiso degli Ariani. Noi, pur cambiando di poco la traduzione che porta comunque al medesimo significato, vorremmo tuttavia fornire la nostra traduzione, spiegando la modalità di cui ci siamo avvalsi per giungere al risultato. Il lemma risulterebbe composto dall’unione dei lessemi Ve sacro e jah veloce, repentino. L’aggettivo jah è dunque funzionale a descrivere la modalità con cui il sacro si manifesta agli uomini. Il nome Jah+Ve, con cui i Giudei esprimono la presenza del sacro, si presta alla medesima interpretazione semantica, trattandosi di una semplice inversione dei lessemi Ve e jah. L’affinità linguistica che intercorre tra il teonimo giudeo e il toponimo ariano, va spiegata e giustificata alla luce di una presenza ittita che sarebbe passata sia in Persia che a Gerusalemme. Infatti, nel testo sacro degli Israeliti si legge che Uria, l’ittita, era uno degli eroi che assieme a Davide avevano contribuito a conquistare la città filistea di Gebush successivamente rinominata Gerusalemme. Come affermato precedentemente, gli Ittiti parlavano una lingua protogermanica tradotta da Hronzny con l’ausilio dell’antico alto tedesco. L’Anatolia rappresentava il primo luogo di insediamento in medioriente per i popoli del nord Europa che, a piedi e con l’ausilio di carri trainati da buoi, che gli valse l’appellativo di mandriani o siculi, passando per il Caucaso o con canoe attraverso il Danubio, giungevano nel Mar Nero.

Conclusione.

Tornando circolarmente al tema inizialmente proposto, da quello che fin qui è stato affermato, emerge che, se è vero che nel toponimo Vejo, la città più importante degli Etruschi e forse la loro prima fondazione nell’Italia centrale, e nel nome Atto si nascondono origini linguistiche e culturali nord europee, sarebbe lecito dedurre che le affinità tra i popoli che abitavano il centro Italia, Rutuli, Sabini, Sicani (Sequani?), Equi (Edui?), Latini, Boi, Etruschi, etc. siano state preponderanti rispetto alle differenze, anzi potremmo spingerci ad affermare che ci si trovi di fronte ad un unico popolo composto da tribù che venivano rispettivamente appellate i Rossi, i Veggenti, gli Eredi dell’Avo, i Cavalieri etc. Questo popolo, abbandonato il rigido clima artico ove le condizioni di vita erano diventate impossibili a causa del mutato clima, giunto nelle amene terre dell’Italia centrale, definì Vejo, cioè paradiso, la nuova località in memoria della patria abbandonata, quando essa, prima che il dio della distruzione Angra Mainyu la congelasse, era un paradiso. Giunti nell’Italia centrale, chiamarono età dell’oro la nuova era che per loro iniziava, l’era di Saturno ovvero sat che nella lingua germanica significa sazio, pieno, soddisfatto, abbondante e Ur antico, primordiale a ricordo del periodo trascorso nell’antica patria. È probabile che il popolo degli Etruschi, sul finire dell’età del bronzo, in seguito a interazioni avvenute con popoli orientali (secondo una tradizione tramandata per via orale, il fondatore di Troia, Dardano, proveniva dalla Tirrenia), si fosse gradualmente allontanato dalla tradizione indoeuropea assumendo nel VII sec. a.C., epoca a cui si riferiscono i ritrovamenti archeologici etruschi più antichi, tratti culturali irriconoscibili rispetto a quelli maturati nell’antica patria. La società etrusca aveva abbandonato il patriarcato dei popoli indoeuropei per assumere quello del matriarcato rinvenibile nell’età dei Tarquini, i quali devono a Tanaquilla, la nobildonna di Vetulonia sposa del futuro re, la loro ascesa politica e sociale. La trasformazione sociale e culturale per la quale si passa dal patriarcato dei popoli del centro Italia al matriarcato della cultura orientale, è già rinvenibile nell’Eneide. L’autore del poema, di origini galliche, infatti non riesce a nascondere questo passaggio e le antipatie per l’eroe troiano nonostante che il racconto gli fosse stato commissionato per celebrare l’arrivo degli esuli troiani nel Lazio. Durante lo scontro in armi tra Turno ed Enea, il Mantovano lasciandosi andare definisce femmineo l’eroe levantino, mal celando le proibite e inconfessabili sue simpatie per il rutulo principe Turno.

Ad maiora.