Studi sulla lingua dei Sicani.

GLOSSARIO ETIMOLOGICO DELLE LINGUE ANTICHE.

PREFAZIONE

Nel saggio “Dalla Scania alla S(i)cania”, pubblicato nel 2011, si avanzava l’ipotesi che la lingua parlata dai nostri Avi Sicani, avesse affinità con quella parlata dalle popolazioni del nord Europa, con quella protogermanica nello specifico. Questa convinzione è maturata grazie alla constatazione che tutto ciò che ruotava attorno all’arcaico centro religioso di Adrano, – luogo in cui sorse il tempio dedicato all’omonimo capo della stirpe sicana– dalla mitologia alla toponomastica, dalla idronomia alla simbologia, afferiva alla lingua parlata nei paesi del nord Europa. Utilizzando, dunque, la lingua germanica, che trova nell’attuale lingua tedesca una maggiore corrispondenza, traducemmo facilmente, non essendo la lingua germanica sostanzialmente mutata nel corso dei millenni, le celeberrime epigrafi ritrovate nel territorio adranita tra cui la tanto celebrata “Stele del Mendolito” e alcune di quelle dette anelleniche. Nel corso delle ricerche linguistiche, che durano tuttora, consultando i numerosi testi antichi facilmente reperibili: la Bibbia, i Veda, l’Avesta, l’Iliade etc. ci siamo accorti che in essi, non solo era evidente che le azioni compiute dagli uomini erano intersecate da riferimenti religiosi, metafisici, ma in essi si conservavano evidenti tracce di una lingua primordiale comune, lingua riconducibile al protogermanico, sebbene il protogermanico sia una lingua ricostruita scientificamente, può considerarsi con verosimiglianza, la lingua parlata originariamente dai popoli germanici. Sulla base di quanto sinteticamente qui affermato, fummo in grado di compilare un glossario etimologico in cui davamo a un certo numero di nomi, un significato che fino a quel momento era sfuggito ai linguisti, pur essendo i nomi in questione nati dalla apposizione di palesi attributi al fine di evidenziare le peculiari caratteristiche dei luoghi o personaggi descritti. Il glossario etimologico, dato alle stampe nel 2016, lasciava fuori, tuttavia, per l’impossibilità di contenerli al suo interno, un elevato numero di significativi nomi dei personaggi e dei luoghi citati nella storiografia mondiale. Il significato dei nomi, alla nuova luce con cui sono da noi stati decriptati e proposti ai lettori, assurge altresì a veicolo di storia portatrice di conoscenze su vari livelli. Si tratta, spesso, di un sapere raccontato con l’ausilio di metafore ad una stirpe che, parlando un linguaggio comune, meglio comprendeva il senso del racconto a noi oggi oscuro. Volendo rimediare al vuoto rimasto nel glossario pubblicato nel 2016 e fruibile gratuitamente attraverso questo link, avvalendoci questa volta di studiosi, che, incuriositi della nuova proposta interpretativa si sono a noi accostati, intendiamo colmarlo proponendo, di volta in volta, con la seguente modalità, il significato di alcuni attributi apposti ai personaggi e ai luoghi mitologici , con lo scopo, non secondario, di stimolare una più ampia gamma di ricercatori, linguisti, etimologi a verificare quanto da noi proposto e colmare le eventuali lacune linguistiche da noi, non specialisti del settore, inevitabilmente procurate.

PREMESSA.

Per una maggiore comprensione del metodo interpretativo da noi applicato che, come affermato, si richiama alla lingua proto germanica, risulta doveroso fare alcune premesse. Due poeti dell’ VIII sec a.C., Omero ed Esiodo, fanno cenno alle caratteristiche somatiche dei personaggi oggetto della loro disquisizione. Le caratteristiche somatiche da loro descritte riferendosi a eroi e divinità greche, fanno inequivocabilmente riferimento a quelle medesime che si riscontrano tra gli abitanti del nord Europa. Quelle caratteristiche, oggi meno evidenti a motivo dei matrimoni misti praticati per millenni, erano ancora molto evidenti ai tempi dello storico romano Tacito e, nonostante il tempo trascorso, ancora oggi rinvenibili fra Scandinavi ed Irlandesi. Ciò viene segnalato al fine di mettere ulteriormente in evidenza la compatibilità della tesi da noi elaborata circa le origini di una lingua che migrò, sulle gambe degli antichi popoli nordici al sopraggiungere di condizioni climatiche invivibili in quell’area geografica; migrazioni che si verificarono unilateralmente da nord verso sud. Gli spostamenti di centinaia di migliaia di uomini provenienti dal nord Europa, si verificavano ancora in tempi storici, scanditi da intervalli di tempo relativamente brevi. Basti ricordare la migrazione gallica del 390 a.C., che procurò a Roma gravi problemi essendo stata sottoposta a rapina e messa a ferro e fuoco da Brenno, il cui appellativo significa l’incendiario, dal verbo tedesco brennen, bruciare; seguì quella di Cimbri e Teutoni alla fine del secondo secolo a.C., poi ancora quella dei Goti nel V della nostra era ed ancora durante il Medioevo. Omero, in particolare, conscio della presenza di una popolazione pre greca nella penisola, che l’aveva informata della propria cultura, ancora avvertita ai suoi tempi, si limita a far cenno della presenza di vocaboli il cui significato è imperscrutabile e tuttavia percepito come inviolabile e inalienabile, tanto da lasciare convivere il vocabolo greco con quello barbaro che, anzi, viene inteso come appartenente ad una lingua parlata da dèi (Odissea lib. X, 305; Iliade, XIV, 290).

Il poeta Esiodo nella sua opera: “Lo scudo di Eracle”, si lascia andare ad una descrizione particolareggiata della bellezza di Alcmena, la madre mortale di Ercole alla quale neanche il Cronide seppe resistere. Ebbene, gli occhi di Alcmena erano di un azzurro cupo ed Esiodo, paragonandola “all’aurea” Afrodite intende indicare i suoi biondi capelli. Nei passi successivi il poeta di Ascra, descrivendo il bellicoso atteggiamento del semidio, che attende l’adirato fratellastro Ares a cui uccise il figlio Cicno, lo paragona ad un leone con “Una terribile luce negli occhi cerulei”.

Abbiamo ancora notato che il significato dell’appellativo si trova di solito già tra le righe del mito raccontato, secondo una tecnica escogitata dagli stessi poeti, della quale abbiamo già parlato altrove e metteremo ancora in evidenza in questa sede. Infatti, di questo metodo o tecnica adottata dai poeti dell’epoca, particolarmente evidente nell’Avesta, è stata fornita la chiave di accesso nel saggio “La lunga notte. L’Occidente i Veda e la trilogia delle razze umane” pubblicato nel 2013 e gratuitamente consultabile da questo link

CONCLUSIONI.

Il nostro lavoro sulla lingua nasce da un inarrestabile moto interiore atto a ristabilire una comunione tra l’uomo antico e l’uomo moderno. Nell’evidente antitesi tra i due modi d’essere, “l’evoluzione” della lingua parlata ha giocato un ruolo non certo secondario, al punto da rendere incomprensibile il significato di parole che, pronunciate nella sua corretta forma originaria, rappresentavano un atto di creazione. Affermava Erodoto, che gli dèi vennero in qualche modo soggiogati dopo che gli uomini diedero a ciascuno di loro un nome. La parola, dunque, cattura, imbriglia, conferisce una forma, crea l’oggetto a cui essa si riferisce. È come se l’oggetto prima invisibile, libero venisse d’un tratto scoperto e si arrestasse nel suo moto disinvolto. Così fu possibile, secondo la versione della genesi, creare l’increato, attraverso la pronuncia del “Verbo”. L’uomo, nel racconto biblico diede nome agli oggetti e agli animali, e divenne padrone di essi.

A
  1. ABANO. Abano Terme è una città italiana molto rinomata per la presenza di acque termali. Il toponimo risulta formato dal prefisso ab da, che indica provenienza, e Ano avo, antenato, cielo. Traducendo verbum pro verbo il toponimo, si ha la seguente trascrizione: dal-cielo o dagli-antenati. Il riferimento potrebbe avere come oggetto il dono delle acque curative, di cui già i Romani facevano largo uso.
  2. ADORARE. È possibile individuare nel verbo ad-or-ar il lessema hör che significa ascolto, ma, come più volte affermato, in una accezione metafisica. Il verbo italiano dunque, sarebbe derivato, dal momento che in greco non esisteva il concetto di ad-orare, da un lessico germanico: ab hör, da-ascolto. L’orante, nel domandarsi la provenienza (da = ab) delle percezioni extrasensoriali di cui egli era oggetto, si poneva in pari tempo, nei confronti dell’entità percepita, con un atteggiamento di reverenziale timore e ascolto.
  3. ADRANO-A. Il nome Adrano indica contemporaneamente un teonimo, un toponimo e un idronimo. Infatti esso si riferisce alla divinità sicula Adrano, alla cittadina siciliana in cui era stato edificato il tempio in suo onore, a quella spagnola, al fiume germanico citato dallo storico Tacito e quello attuale che scorre in Spagna nei pressi della città omonima. Riferito ai fiumi, l’idronimo ne indicherebbe la “furia” con cui essi scorrono nei loro alvei. Riferito alla divinità invece, né indicherebbe l’aspetto terribile con cui avverrebbe la sua manifestazione (Omero, Iliade: “Terribili son gli dèi se si manifestano alla luce del giorno”). Infatti il nome è formato dall’aggettivo odhr furioso e Ano avo, antenato, nonno. Odino, divinità scandinava equiparabile a quella sicana di Adrano, veniva appellato Odhr, Furioso.
  4. AIRYANEM-VAEJO. È il nome dell’ antica patria degli Irani. Viene descritta nell’Avesta, il testo sacro dei Persiani, come un luogo ameno, un paradiso terrestre che il dio malvagio Angra Mainyu seppellì sotto una coltre di ghiaccio, costringendo così i progenitori dei Persiani ad emigrare. Va notato che lo storico greco Erodoto, fra le tribù che Ciro sottomette nei pressi del territorio persiano, nomina quella dei Germani. L’area geografica mediorientale, che vede nel VI sec. a.C. la Persia come epicentro politico e militare, sembra essere stata l’incubatrice di una cultura e una lingua nord europee che sono state in parte indagate nel saggio “Il paganesimo di Gesù”, gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu. Il nome Veio, apposto all’antica città fondata nel centro italia in un periodo, forse, in cui il popolo che lo abitava non era piu da identificarsi con quegli Etruschi del VI sec. a.C., da noi conosciuti grazie al contributo delle diverse discipline scientifiche e letterarie, potrebbe essere riconducibile alla volontà, da parte del popolo emigrante, di eternizzare una memoria collettiva in cui trovava posto il ricordo di una migrazione polare. Se fosse così, si spiegherebbe l’affinità linguistica, toponomastica e onomastica che intercorre tra gli Etruschi e i popoli del medio oriente, Persiani, Medi, Mitanni, rami dello stesso popolo migrante. Nell’ambito dell’onomastica, nel nome o titolo di Mastarna, successivamente conosciuto col nome di Servio Tullio, si nota una forte assonanza con il nome del re Ittita Labarna e col re mitanno Barattarna.
  5. AKILLE. (Ad ampliamento di quanto affermato sul glossario pubblicato nel 2016 per le Ed. Simple consultabile gratuitamente). Da quanto riportato da Omero nel libro XVI, 220,245 dell’Iliade, emerge che Akille, assumendo un ruolo sacerdotale, compie un rito in onore di Zeus dodoneo durante il quale formula un voto a favore del fraterno amico Patroclo. Tutti i passaggi che l’eroe effettua durante il rito, esclusivo uso della coppa in cui egli liba a Zeus, la purificazione della stessa attraverso complicate modalità nonostante che si trovasse in una tenda da campo, la posizione assunta durante il rito, riconducono a quanto qui ipotizzato; non ultimo né di poco conto, afferisce alla certezza della sua iniziazione al dio dodoneo, il significato del suo nome. Esso risulta composto dal prefisso sacerdotale Aki* ed Hell*.
    Per le parole contrassegnate da * vi rimandiamo al nostro glossario.
  6. AKRAI. È il nome di una città della Sicilia pre greca, sicana, corrispondente secondo l’opinione degli accademici, all’attuale cittadina di Palazzolo Acreide, nella provincia siracusana. Non passa inosservato il possibile accostamento al teonimo Aker, divinità egiziana, personificazione dell’orizzonte, raffigurata attraverso il sole nascente affiancato da due leoni. L’assonanza con il lessema Aker con cui nella lingua tedesca si indica il campo, un terreno fertile, arabile e coltivabile è altrettanto sconcertante e pertinente. In India, con il termine Acharja, ci si riferisce al maestro spirituale, ovvero a colui che ara il campo (lo spirito del discepolo). Metaforicamente il discepolo rappresenta il terreno fertile sul quale il maestro ara, semina i germi della conoscenza per farvi crescere la perfezione.
  7. ALBA. Non siamo in grado di fornire una etimologia del lessema, ci limiteremo a farlo rientrare in un lessico che accomuna i Celti ai Sicani (vedi articolo “Celti irlandesi e Sicani” ), ricordando ai lettori che Alba è l’antico nome della Scozia; Alba Longa era il nome della città laziale governata da Amulio, nonno materno di Romolo. Quest’ultimo fonderà Roma servendosi di un rito il quale, secondo la descrizione che ne fa Plutarco nella vita di Romolo, ha molto di celtico. Durante la pratica del rito, lo stesso Romolo assume le sembianze di un sacerdote druidico. Albula era altresì il primo nome del fiume Tevere che scorre dentro la città di Roma. Albula è ancora il nome di un fiume che si trova in Svizzera. L’Appennino lucano è formato dai monti Alburni, sul maggiore di essi, il monte Alburno,si recavano i Lucani per pregare la loro divinità. I Romani, nello stesso luogo edificarono il tempio al dio Alburnus. L’alba è il momento in cui il sole sorge, pertanto l’etimo riconduce all’immagine della bionda sabbia del fiume e al colore delle prime luci proiettate dal sole che nasce.
  8. ALBA LONGA. Nome della città latina il cui re Amulio era il nonno del fondatore di Roma, Romolo. Il toponimo Alba è il medesimo che indicava la Scozia, luogo in cui le albe sono più “lunghe” di quelle mediterranee. Pertanto, è plausibile che il toponimo laziale, sia stato apposto a ricordo della patria d’origine.
  9. AMBRONI. Plutarco li cita nella vita di Mario come componenti di una tribù tra quelle che formavano il popolo dei Teutoni, sconfitti dal generale romano nel 102 a.C. presso ” aquae sextiae”, nei pressi di Marsiglia. Plinio il vecchio, sostenendo l’antichità degli Ambroni, i quali abitavano il territorio dell’attuale Umbria (vedi voce), afferma che il nome gli venne dato dai Greci in quanto ritenuti sopravvissuti al diluvio. Per quanto altri possano riferire che il nome di questo antidiluviana popolo derivi dal commercio dell’ambra, cosa che non esclude la convivenza con l’ipotesi qui formulata, si opta per il collegamento dell’appellativo alle acque del diluvio, come riferito da Plinio. L’appellativo verrebbe giustificato dal prestigio che ne deriva dalla antichità del popolo. Seguendo l’autorevolezza delle affermazioni di Plutarco circa le radici germaniche di questa tribù, si trova, tra l’altro, una coerenza etimologia nell’attributo apposto alla tribù. Infatti, nella lingua germanica, con il termine brunnen si indicano le acque pure, di fonte o piovane; acque non contaminate. Il grido di guerra urlato da questo popolo che scendeva in battaglia contro i Romani, consistente nel pronunciare il proprio nome, Ambroni, stando al racconto plutarcheo, voleva essere, a nostro avviso, un monito lanciato alle legioni, le quali stavano per scontrarsi con un popolo che non era stato sconfitto neppure dalle acque del diluvio. Il nome della tribù risulta dunque formato dall’accostamento dei lessemi Am sopra e Brunnen sorgente, fonte, pozzo, fontana, acque. Il lessema am, sopra, ha lo scopo di distinguere le acque terrestri da quelle celesti, dalle cateratte del cielo che originano la pioggia.
  10. AMMON.Rappresentava la divinità suprema nel numeroso pantheon egiziano, paragonabile ad Adrano per i Sicani o Giove per i Romani. Questa divinità veniva appellata dai suoi adoratori, come riferisce Plutarco, il misterioso e infatti, il suo nome, formato dai lessemi am sopra, e mon mente, lascia intendere che la sua comprensione andava al di là, al di sopra della capacità di comprensione umana. La sua sposa era Amonet, cioè colei in cui alberga il puro pensiero, da am sopra, mon mente e net pulito, netto, puro. Amon durante l’XI dinastia (2160 a.C. – 1944 a.C.), come affermato, ascese la gerarchia degli dèi, sostituendo il dio Montu che, probabilmente, stando al significato del suo nome, divenne inaffidabile. Infatti, il nome Montu è formato dai lessemi Mon mente e two (pronuncia tu) due, con riferimento alla doppiezza; Montu rappresentava il dio dalla lingua biforcuta, dalla mente bivalente, inaffidabile.
  11. AMONET. Vedi la voce Amon.
  12. AMORE. L’amore è un sentimento così forte che va al di là di qualsiasi umana comprensione, e che a mala pena può essere spiegato dal significato dell’etimo il quale, tradotto verbo pro verbum am-hor equivale a sopra-udito, cioè un sentire non con l’ausilio di umani organi. Il significato qui fornito ha un equivalente nel termine ikhor che era il nome dato al liquido che circolava nelle vene del dio Marte e che fuoriuscì quando venne ferito da Diomede durante una battaglia (Iliade V, 340). Ikhor, ik hör, significa io sento, percepisco ed equivale a quella particolare percezione che hanno le madri quando i propri figli si trovano in uno stato di pericolo, come si evince dalla preoccupazione di Dione nel vedere la propria figlia Afrodite, ferita nella mano da cui scorre l’ikhor.
    Letto da destra verso sinistra amor si legge Roma. La scrittura latina, come si evince dalla fibula prenestina, come tutte le altre anelleniche, aveva senso antiorario.
  13. ANAURO. Fiume della tessaglia, attraversando il quale, Giasone avrebbe perso un sandalo. Questo episodio sarebbe stato predetto dall’oracolo a Pelia re di Jolco, che così avrebbe riconosciuto il nipote quando si sarebbe presentato a lui per recriminare il regno sottratto al padre con raggiri. Molti sono i fiumi dell’antichità il cui nome contiene il prefisso an: Aniene nel Lazio; Anapo ancora in Sicilia…
    Il nome Anauro è formato da An cielo o avo, antenato, progenitore e ur antico, primordiale.
  14.  ANCONA. È il nome di una città italiana sulla costa adriatica. Secondo il canone venne fondata da un gruppo di cittadini Siracusani che fuggivano dal tiranno Dionigi il vecchio nel 387 a.C. In vero, alla luce di una nuova e più attenta ricostruzione dei fatti, si trattava sì di gente proveniente da Siracusa, ma facente parte dei primevi abitanti della città sicana prima che un gruppo di Greci al seguito del fuggiasco Archia, accolto come supplice dai Siracusani, accedesse alle cariche più alte della politica e permettesse al loro duce, nel 734 a.C., di diventare tiranno, istituzione fino ad allora sconosciuta ai prischi siculi. Gli antichi abitanti, appellati dai Greci Kiliroi e Gamoroi (vedi voce), relegati ad una posizione politica di secondo piano, divennero l’opposizione politica e, in seguito a un tentativo andato a vuoto, di cacciare il tiranno da Siracusa nel 405 a.C., molti, fuggendo dalla rappresaglia del tiranno, ripararono nelle città sicule dell’isola; alcuni andarono mercenari in Asia al seguito del capitano siculo Soside, come si evince dalla lettura dell’Anabasi di Senofonte, altri ripararono presso le città amiche dell’Italia. Una delle città, etnicamente imparentata con i prischi abitatori della Sicilia, I Sicani, fu Ancona. Il nome della città ha, infatti, una evidente derivazione sicana, come il prefisso An lascia intendere. Il nome della cittadina adriatica risulta dunque composto dall’unione dei lessemi An che significa Avo, antenato e kuh o kun che significano mucca e mandriano o re nella accezione di mandriano di popoli. Pertanto, Liberamente tradotto, il nome della città evocherebbe L’Avo imperante, il corrispettivo dell’Avo furioso dei sicani siciliani, Adrano (vedi voce).
    Il fatto che la città di Ancona dedicasse, fin dal primo momento della sua fondazione, le migliori energie alla navigazione e alle attività portuali, rende plausibile un collegamento tra gli abitanti di Ancona e i Kiliroi di Siracusa i quali erano appunto dei portuali e che derivavano il loro appellativo dalla chiglia della nave, Kiel nella lingua germanica, lingua parlata anche dai Sicani. Ma un popolo affine ai Sicani di Sicilia, appellati Kiliroi a Siracusa, Cilliri nella lingua siciliana, erano gli (k)Illiri. Costoro erano stanziati nella costa prospiciente alla città di Ancona, nella penisola balcanica. Questo popolo praticava la pirateria, e nel 231 a.C. era governato dalla regina Teuta, nome affine a quello del re siciliano che governava nella città stato di Innessa, Teuto. Essendo Teuto un nome di chiara derivazione germanica, ne deriva che molti sono gli indizi che conducono alle radici germaniche dei Sicani, degli Illiri e, dunque, dei fondatori della città di Ancona.
  15. ANFIZIONIA. Per anfizionia si intende una confederazione di città accomunate da un culto esercitato nel santuario edificato in una di esse. La città ospitante il santuario disponeva di fondi comuni da impiegare per lo svolgimento delle cerimonie religiose. In un secondo momento l’anfizionia riguardò, oltre le istanze religiose, quelle politiche e militari. L’anfizionia delfica, per esempio, era composta da dodici popoli, ed aveva il santuario di Apollo come luogo in cui si tenevano le riunioni due volte all’anno. Tutti i membri erano tenuti a partecipare alla difesa e all’amministrazione del santuario. Molto numerosa fu l’anfizionia di Delo voluta dagli Ateniesi nel 478 a.C. a cui parteciparono oltre 150 città. Interpretando Plutarco, nell’opera, che narra la vita di Timoleonte, emerge che una anfizionia doveva sussistere nella città di Adrano, ove sorgeva il tempio della divinità omonima. Il nome della divinità siciliana, Adrano, riconduce altresì al significato dell’etimo qui preso in considerazione, essendo palese un suo riferimento alla protezione del culto esercitato dai prischi Sicani da eventuali contaminazioni straniere. Avo, antenato, nonno nell’antico alto tedesco si traduce con il lessema Ano. Pertanto l’etimo anfizionia risulta formato dall’unione del lessema Ano con quello di ve (pronuncia fe), sacro, che tradotto verbo pro verbum forma l’ “Avo-sacro”.
  16. ANKH. È un simbolo egiziano interpretato come simbolo della vita. Alcuni studiosi ritengono che sia equiparabile al simbolo della croce, simbolo quest’ultimo antichissimo, ritrovato impresso anche su un pithos del terzo millennio a.C., oggi esposto nel museo della città di Adrano in Sicilia. La cultura antica egiziana, come quella etrusca, era ossessivamente incentrata sul cielo e sulla eternità. Partendo dunque dalla religiosità egizia, risulta plausibile fornire una alternativa interpretativa del simbolismo dell’Ankh, la cui forma richiama la chiave che apre una porta, metaforicamente via d’accesso ad una dimensione altra, il cielo. Il nome che compone l’antichissimo archetipo della chiave che apre la porta d’accesso alla vita eterna, risulta infatti composto dai lessemi An cielo e ki terra. Tuttavia, tenendo conto che il suffisso ki si trova a comporre i nomi dei sacerdoti che operavano alla corte di Davide e successivamente in quella di Salomone: Akitofel (uno dei trenta che componevano la guardia di Davide); Akitob; Achinadab; Achimaas ecc. riconducedo il lessema ki ad una semantica del sacro, si può ritenere che derivi dal lessema acht azione, atto, sacrificio, con riferimento all’azione rituale esplicata dai sacerdoti del culto israeliti. L’atto, l’azione rituale, il sacrificio attuato dal sacerdote col fine di stabilire un contatto con la divinità – questa veniva attratta dall’odore del fumo emesso dal grasso collante sulla pira- veniva assimilato alla chiave che forniva l’accesso alla via del cielo e dell’eternità.
  17. ANNA PERENNA. È la mitica divinità romana che viene anche identificata con il cibo dell’immortalità, l’equivalente dell’ambrosia dei Greci e della manna degli Ebrei. In realtà il nome si riferisce all’Ava romana per antonomasia, Ana in antico alto tedesco. Con il termine di Tawananna si indicava fra gli Ittiti la regina madre (nel dialetto siciliano nonna si dice nanna). Soltanto lei poteva, presso quell’antico popolo, svolgere funzioni in vece del re suo figlio. Nella lingua tedesca taumeln significa vacillare. Fra gli Ittiti, dunque, con l’aggettivo taumeln si intendeva indicare l’Ava vacillante? Ricordiamo, che l’assiriologo Bedřich Hrozný, aveva intuito che la lingua ittita era affine al greco e al latino, e utilizzò l’antico alto tedesco per tradurre delle tavolette ittite incise con caratteri cuneiformi. I Romani al nome di Anna associarono anche il concetto di cibo, è ciò perché intendevano veicolare un metaforico riferimento al nutrimento dello spirito, evocando attraverso il nome della divinità la memoria degli Avi. Si sa, infatti, l’importanza che i Romani davano al culto degli antenati.
  18. ANUBI. È una divinità egiziana di solito indicata come colui che sovrintende al mondo dei morti, dunque, al mondo di sotto, secondo la visione greca del culto dei morti, corrispondente all’Ade. Stando, però, all’etimologia dell’appellativo con cui viene indicato, il dio sovraintenderebbe al mondo di sopra o, meglio ancora, egli sarebbe un guardiano della porta, la porta che permette di passare dal mondo di qua a quello di là o, ancor più chiaramente interpretando alla lettera il significato del suo nome, dal mondo di sotto a quello di sopra; dalla terra al cielo. Infatti il suo nome risulta formato dall’accostamento del lessema An, cielo e oben (uban in a.t.a) che significa sopra, superiore. Il fatto, poi, che egli pronunci, attraverso la pesatura del cuore del defunto, il giudizio sulle azioni compiute da chi si presenta alla soglia, come racconta il mito, stabilendo chi sia nelle condizioni adeguate per attraversare la porta, fa di lui un dio preposto alla iniziazione.
  19. ARA. La radice AR che si ritrova nei nomi, ara, aratro, arena etc. è di difficile interpretazione. Tuttavia è possibile rintracciarvi un riferimento di primordialità collegato alla terra. I Romani solevano sacrificare agli dei a terra. A secondo se il sacrificio era destinato agli dèi del cielo, della terra o degli inferi, formavano nella terra rispettivamente un altaria, sopraelevato, un’ara, alla medesima altezza del suolo, o una fossa.
  20. ASSUR. È il nome del dio della guerra assiro, nonché il nome della capitale dell’Assiria prima che venisse fondata Ninive. Il nome risulta formato dal lessema Hass che ha un doppio significato: nella lingua tedesca significa odio, ma nel linguaggio delle rune, la runa Hass ha valore di creatività, riferendosi al dio che crea con la parola. La poesia Scaldica amava giocare con le metafore e a uno stesso vocabolo venivano dati significati opposti. Platone, accennando nel Minosse ai due miti contrapposti che volevano il re cretese giudice saggio da un lato e dall’altro odioso ai Greci, conferma il doppio significato del lessema hass che forma il nome Minosse. Il re, venendo appellato Mn+hass rimandava al concetto di dualismo: la mente odiosa e distruttiva opposta alla mente che ama e creatrice. Assur il dio più antico (Ur), potrebbe dunque riferirsi al dio primordiale (Ur) della creazione (hass).
  21. ATTO. Il termine è traducibile nella lingua tedesca attraverso il lessema Akt. Il termine germanico si è conservato nella lingua latina (acta pilati, acta senatus etc. ), e contiene in nuce un significato afferente alla semantica del sacro: l’atto creativo del mondo da parte di una divinità, che, per gli Ebrei è Jawe’, per gli Indiani Parajati, per i Germani Ymir etc. Nel mito della creazione, che riguarda le religioni sopra citate, l’atto è assimilabile al concetto di sacrificio. Infatti, nel Veda, Parajati smembra se stesso e dai suoi pezzi viene a formarsi l’universo; il gigante Ymir, nel mito scandinavo, viene smembrato dai fratelli divini Vili, Ve e Odino e dai suoi pezzi verrà a formarsi il creato, nei vangeli Yawe’ sacrifica’ il proprio figlio per la salvezza del mondo. Il termine akt, atto, subirà la trasformazione in quello di patto, sinonimo di contratto. Il termine derivato non ha più, perciò, il valore di sacralità, ma mantiene l’impegno a rispettare la parola data, a cui viene demandato il concetto di onore. La inadempienza da parte di uno dei contraenti, comporta una sanzione. I Romani, gli Ittiti, gli Ebrei stipulavano patti sia con le proprie divinità che con quelle che proteggevano i popoli a loro ostili. Un caso emblematico di patto effettuato tra uomini e dèi è quello stretto nel 396 a.C. tra il generale romano Camillo e la dea Giunone, protettrice della città di Veio, che il generale romano assediava invano da decenni (T. Livio, Ab Urbe condita, lib. V,21). Il contratto prevedeva che la dea cessasse di fornire la propria protezione alla città di Veio, dietro un lauto compenso da parte romana. Questa si impegnava di fornire alla dea la decima del bottino e a edificare in suo onore un tempio sull’Aventino. Va notato che il termine pactum subisce ancora una trasformazione diventando pax: infatti, un buon patto tra le parti conduce inevitabilmente ad una duratura pace.
  22. ATTO CLAUSO. È il nome sabino di Appio Claudio prima che questi si trasferisse nel 504 a. C. dalla città sabina di Irregillo a Roma e diventasse un senatore dell’Urbe. Il nome del nostro Sabino fornisce un indizio per poter affermare che i popoli italici (Rutuli, Sicani, Boi Sabini, Latini), parlassero una lingua simile a quella germanica. È ipotizzabile che l’attributo Akt Glau fosse stato apposto al Nostro per indicare il suo modo di esporre in modo chiaro, senza mezzi termini, la sua posizione politica. Nella lingua tedesca Glau significa infatti limpido, chiaro, perspicace e akt, atto, azione nella accezione di comportamento, modo di agire. È singolarmente curioso che l’augure Atto Navio (vedi voce), definito famoso da T. Livio (Ab Urbe condita lib. I, 36) sia presente a Roma durante il regno di Tarquinio Prisco, perciò contemporaneo e forse parente del Nostro. Infatti, Atto Clauso, non dovette essere meno illustre di Navio se cinque anni dopo la cacciata di Tarquinio il superbo, fu seguito a Roma da cinquemila concittadini, ai quali fece immediatamente riconoscere la tanto ambita cittadinanza romana ed egli stesso venne eletto senatore e, qualche anno dopo, perfino console. Appaiono altrettanto sospette le circostanze del suo passaggio a Roma, quando cioè i Sabini erano spaccati circa la decisione da prendere, se appoggiare i Tarquini che intendevano riprendere il trono di Roma dopo la loro cacciata o dare man forte all’Urbe. È possibile che l’ostilità di Atto Navio manifestata nei confronti del re etrusco, come trapela dalla storia raccontata da T. Livio, venga continuata dal “congiunto” Atto Clauso.
  23. ATTO NAVO. Era un augure appartenente al popolo dei sabini. Chi ne volesse conoscere le opere, che tanta impressione fecero al superbo re Tarquinio, può consultare T. Livio, Ab Urbe condita, lib. I,36. A noi, in questa sede, preme focalizzare l’attenzione sulla provenienza nord europea dei popoli che abitarono il centro Italia nel momento in cui Roma veniva fondata. Il termine sabino, risulta composto dall’unione dei lessemi sa, dal verbo sehen conoscere, vedere, e ab, da, provenienza, sottrazione. Pertanto, con il nome sabino veniva indicata la persona dalla quale proveniva la conoscenza (veggente, augure). Riteniamo pertanto, che il popolo dei Sabini, fornisse Auguri per interpretare il volere degli dèi a chi ne facesse richiesta, e che l’aruspicina, cioè l’arte divinatoria che consisteva nell’interpretazione del volere divino attraverso il volo degli uccelli, non avesse avuto origini etrusche. Non va altresì trascurato, onde si comprendano le affinità tra i popoli italici e quelli germanici dei primordi, che, secondo il mito scandinavo, Odino si serviva di due corvi per conoscere ciò che accadeva nel mondo. Da quanto emerge dalle affermazioni di T. Livio, Atto Navo si trovava in qualità di aruspice, al servizio di Tarquinio il superbo. Se le opere di Atto Navo confermerebbero da un lato quanto qui esposto, dall’altro anche l’attributo Akt, da cui deriva il nome Atto, indicava in origine il ruolo di sacerdote.
    Si aggiunga che un sacerdote, o mago, come venivano definiti in Persia coloro che operavano in quella grigia via di mezzo posta tra il fisico e il metafisico, oppositore delle “azioni” di Zarathustra, chiamato Akt, viene citato nel testo sacro degli Irani, l’Avesta. Il nome Navo ricondurrebbe, se abbiamo colto nel segno facendolo derivare da nau, nave, barca, al simbolismo della nave. Questo simbolismo è stato mutuato, quale attributo apposto al papa, dal cattolicesimo, nell’accezione di nocchiero, il quale dovrebbe guidare la Chiesa Cristiana fra le fragorose onde del grande mare del materialismo. Stando a Plotino secondo cui “Ogni essere è in atto ed è atto – (Enneadi)”, il sacerdote, Akt, avrebbe avuto dunque il compito di traghettare gli uomini dal mondo umano a quello divino grazie ad una serie di “atti” positivi da lui compiuti. Nelle Upanisad il termine atto ricorre con inusitata frequenza per intendere il sacrificio religioso. L’atto per eccellenza, in tutte le religioni, consiste nella creazione del mondo, della vita, dell’uomo da parte di Dio. Il fatto che Navio, sfidato da Tarquinio, riesca a tagliare una pietra con un rasoio, come raccontato da T. Livio, lo pone tuttavia in una posizione che ha più a che fare con i maghi e gli sciamani che con i sacerdoti, per quanto in tempi antichissimi questo confine fosse difficile da stabilire o addirittura inesistente.
  24. AUGURI/E. Con il vocabolo augurium si intendeva esprimere nella lingua latina un presagio favorevole inviato dagli dèi. Il termine risulta composto dal lessema augh, con il quale nella lingua germanica si designava il favore divino, e Ur con il significato di antico, primordiale. Con il termine Augh+ur dovette dunque sottindentersi il primo patto suggellato tra umano e divino. Da allora innanzi, l’augure dovette rappresentare colui che era stato incaricato di verificare che il patto non venisse violato e che gli uomini potessero ancora godere del favore divino.
B
  1. BATTISTA. Attributo apposto al precursore di Gesù che è diventato in seguito un nome di persona. Deriva da Bad bagno, baden bagnare. Il Battista (bad ist da) era colui che bagnava, che immergeva qualcuno nell’acqua.
  2. BOLSENA.Volsena era il nome di una città etrusca. Presso questa città veniva esercitato un culto dedicato al dio Fanum. I cittadini delle città etrusche che intendevano partecipare alle assemblee collettive pubbliche, si riunivano presso l’attuale città di Bolsena. Questa prassi democratica, ricorda quella praticata dai Galli, descritta da Cesare nel suo trattato La Guerra Gallica. I Galli, come riferisce il comandante romano, si riunivano presso la città dei Neti, che nella lingua germanica significa i puri, da net. In Irlanda, i Celti si riunivano presso la collina di Tara per eleggere il loro re, e, a tal proposito, si mette in evidenza l’affinità del toponimo irlandese Tara, con il toponimo con cui venne nominata una delle più antiche città etrusche, Tarquinia, Tara-Quelle (tarn nascosto, quelle fonte). Alla luce di quanto affermato, si fa derivare il toponimo Volsena dall’unione del lessema volk popolo con sinn sentimento, senso, conoscenza; oppure dall’unione di Bal Signore e Sinn conoscenza, sentimento. Accettando quest’ultima ipotesi si spiegherebbe il motivo per cui gli Etruschi ritenevano il tempio di Fasnom (Fanum) edificato presso Bolsena, il centro del mondo, l’ombelico di Bal, il signore (?).
  3. BOLSKAN. È il nome di un paesino della Spagna. I rapporti di affinità etnica tra la Spagna e la Sicilia furono messi già in evidenza da Tucidide nella sua opera La Guerra del Peloponneso. Poiché i Sicani erano stanziali anche nel Lazio, le origini del toponimo spagnolo potrebbero essere comparabili con il toponimo che si trova nell’Italia centrale: Bolsena. Il toponimo spagnolo potrebbe pertanto essere così suddiviso: volk-skan, il popolo degli S(i)Kani. La Skania è il nome di una regione a sud della Svezia da cui, secondo ipotesi alternative fornite da studiosi indipendenti, sarebbero emigrati i Sicani.
  4. BRAMASTRA. È il nome di un’arma particolarmente letale, capace di scagliare raggi infuocati, come emerge dalla descrizione contenuta nei Veda, di cui si servono gli dèi in guerra tra loro. Il vocabolo risulta formato dal verbo tedesco brennen, che significa bruciare, e strahl, che significa raggio: il nome indica pertanto un’arma letale, capace di lanciare raggi infuocati equiparabili ai raggi laser.
  5. BRANCO. Nome di persona ancora attuale in alcuni paesi slavi. Era il nome di un figlio del dio Apollo. Branco, divenuto sacerdote del culto paterno, diede origine alla potente casta sacerdotale dei Branchidi che esercitò il culto a Mileto, durante il VI sec. a.C. A Mileto venne edificato ad Apollo un tempio ad di inusitata imponenza e furono erette enormi statue, ancora visitabili, alla illustre famiglia di stirpe divina. Il nome Branco deriva dal verbo brennen incendiare, ardere da cui proviene anche quello del gallo Brenno, l’incendiario che nel 390 a.C. mise a ferro e fuoco Roma. La derivazione nordica del nome del dio della luminosità, viene avvalorata dal mito. Esso, infatti, fa riferimento alla migrazione di Apollo dalla lontana terra degli Iperborei fino alla Grecia. Il dio trascorrerebbe sei mesi in Grecia e sei mesi nella sua patria originaria. Nel mito è evidente l’analogia con l’anno boreale: sei mesi di luce e sei mesi di buio.
  6. BRENDANO. È il nome di un Monaco irlandese vissuto a cavallo tra il quinto e il sesto secolo.
    Il suo nome risulta formato dall’unione dei lessemi brend, che nelle lingue di derivazione germanica significa bruciare, ardere e Ano che in antico alto tedesco significa avo, antenato. Dunque, il nome del Monaco, liberamente tradotto, significa il fuoco degli Avi, colui in cui si manifesta l’ardore che promana dagli antenati.
C
  1. CAINO. È un personaggio citato nell’Antico Testamento che, secondo la narrazione testamentaria, sarebbe stato il primo fondatore di città. Da Caino, secondo il libro della Genesi, sarebbe venuta l’arte di battere il ferro, ritenuta un’arte sacra. La metallurgia venne ritenuta una pratica iniziatica in quanto si credeva che facesse sprigionare delle forze magiche (il potere della trasformazione?). Il nome Caino deriverebbe pertanto dal germanico Kan potere, nella accezione di creare, e inna dentro (le viscere della terra da cui si estrae il metallo?). In Genesi 4,22, ritroviamo Tubal Cain, progenie di Caino, a capo dei fabbri cainiti, rivestito di grande autorità e appellato “Padre (o signore, da Bal) di quanti lavorano il rame e il ferro”.
  2. CARMELO. Il monte Carmelo si trova in Galilea dove oggi si esercita un importante culto nei confronti dell’arcangelo Michele . È ritenuto da sempre un monte sacro. Fu visitato anche da Pitagora, mentre Elia sulle sue pendici partecipò ad una disputa con i profeti di Balaam. L’oronimo risulta formato dall’accostamento del nesso consonantico kr, con il significato di forza violenta, che spezza, da cui deriva il vocabolo krptr in a.t.a., che significa appunto rompere, spezzare, al lessema hell cielo, sebbene sarebbe più appropriato tradurlo con spazio. Traducendo dunque verbum pro verbo il nome del monte kr-am-hell si avrebbe: potenza-sopra-cielo. Liberamente tradotto, l’oronimo potrebbe indicare il luogo in cui la potenza prorompe dallo spazio. Il nesso consonantico kr che indica una forza applicata ad un oggetto fino al limite della rottura, forma il lessema Carrè che, oltre ad essere il nome di una cittadina del Veneto, regione notoriamente abitata dai Galli, indica la fortezza, il quadrato, forma dell’accampamento romano.
  3. CALATINO. Con il toponimo Calatino, si designa ancor oggi un ampio territorio, del quale fanno parte oltre che alla città di Caltagirone quelle di Mineo e Palagonia. Nel 260 a. C., venne apposto come soprannome al console Aulo Atilio durante la prima guerra punica, per onorarlo della vittoria conseguita sui Siculi. Noi siamo propensi ad attribuirne il conio ai Sicani che, come affermato altrove, parlavano una lingua agglutinante, proprio come nel tedesco attuale, riconducibile al proto germanico. Riteniamo pertanto che il toponimo sia formato dall’unione dei lessemi Kalla, acht, inna, che tradotto verbum pro verbo significa chiamare, azione, dentro. La libera traduzione da noi effettuata lascerebbe intendere che il luogo fosse stato scelto come il più idoneo per una chiamata a raccolta del prisco popolo siculo per condurre una azione bellica rivolta contro lo straniero invasore. Si noti che in greco antico καλέω significa chiamare, fare venire, invitare, invocare.
  4. CALDEI. Nome dei componenti della casta sacerdotale persiana, espertissimi in molte scienze tra le quali la fisiognomica, Plutarco racconta che assieme ad un ambasciatore del gran re di Persia Arsace, inviato a Roma, c’era un Caldeo che, dopo aver scrutato attentamente Silla, che in quel momento rappresentava il Senato Romano, si disse meravigliato che quell’uomo, destinato a diventare grandissimo, sopportasse di non essere già il primo fra gli uomini. Il nome deriva dal verbo Kalla, chiamare, evocare, cantare; indica l’atto del recitare carmi o formule. I Caldei erano dunque gli evocatori, coloro che chiamavano la divinità.
  5. CAMASTRA (MOTTA).È il nome di un piccolo villaggio della Sicilia orientale. Nel 2020, un gruppo di studiosi vi si è recato per osservare e studiare il fenomeno del solstizio d’inverno che, si presuppone, gli antenati sicani festeggiavano rendendo il culto. L’ipotesi è che il nome del villaggio possa prendere spunto dal ben noto evento che nella cultura indoeuropea ebbe un profondo significato metafisico, mutuato da altre religioni sorte posteriormente, oltre che astronomico collegato alla pratica dell’agricoltura. Infatti il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi cam giungere, venire e strahl raggio, strale. Liberamente tradotto il nome indicherebbe il luogo ove il primo raggio di sole giunge, viene creato, risorge. Per ciò che riguarda l’etimo Motta, che forma il doppio nome del paesino e che venne aggiunto in un secondo tempo al nome originario, esso potrebbe derivare dalla deformazione del verbo Machen fare, nell’accezione di creare. Macht, infatti, nella lingua tedesca significa potenza, forza (creatrice), autorevolezza. Pertanto, il nome completo del paesino siciliano potrebbe riferirsi ad un luogo in cui si origina, si crea il nuovo raggio di luce ovvero la vita o la resurrezione.
  6. CARRARA. Città italiana famosa per l’estrazione dei pregiati marmi. E da questa caratteristica la città deriva il proprio nome. Infatti, carré significa, pietra, quadrato, fortezza. Nel nome Carrè, è contenuto il nesso consonantico kr, suono onomatopeico che riconduce all’immagine di un oggetto che si spezza. Il nesso consonantico è appunto presente nei lessemi crepa, crack, nel tedesco kraft, nell’antico alto tedesco Kraptr, termini che riconducono al concetto di qualcosa di estremamente duro che si lesiona o si spezza.
  7. CASA.(Vedi la voce Orus).
  8. CILLIRI. In greco Kiliroi. Il nome indica la popolazione pre greca che abitava la città di Siracusa ancora al tempo dei Greci. Poiché gli storici facevano cenno anche ai gamoroi, che assieme ai cilliri partecipavano agli scontri politici in corso nella polis siciliana (vedi l’articolo “I cilliri del Simeto” ) durante L’VIII sec. a.C, riteniamo che quello di cilliri sia un attributo apposto ad una consorteria di lavoratori portuali, che furono costretti a intraprendere una serie di lotte sociali. Infatti i Kiliroi erano I costruttori della chiglia, ovvero, per metonimia, delle navi. Si noti che Kiev (chiglia) è il nome di una città portuale dell’Ucraina che è stata edificata sulla riva dell’antico fiume Varustana (vedi voce Dnepr) oggi Dnepr; e ancora, il nome del dio mesopotamico Enki, soprannominato Ea, acqua, fa senza dubbio riferimento a Kiel, cioè alla chiglia; egli sarebbe dunque il primo (EN in lingua norrena) sull’acqua, l’ammiraglio. I cilliri vennero identificati, a motivo delle lotte politiche proletarie a cui prendevano parte in modo animoso, come gli estremisti. Di contro, i gamoroi rappresentavano la parte politica moderata, come si evince dal verbo tedesco gemes misurato.
  9. COLTIVARE. Il rapporto tra l’uomo e la terra è riscontrabile presso tutte le culture di origine indoeuropea. In India il maestro è chiamato akaria, dal germanico akara, terreno fertile, arabile. Infatti, come l’aratro nel suolo affonda il vomere perché il seme vi penetri e germogli, così, nel concetto espresso dagli indiani con il vocabolo akaria, si rende implicito l’atto della semina del proprio insegnamento nello spirito del discepolo, che il maestro compie affinché si preservi la rigogliosa pianta della tradizione. Talmente stretto è il legame tra l’uomo e il terreno fertile, che per incolto si intende sia il terreno non coltivato che l’uomo poco istruito. Non riusciremmo a cogliere il profondo significato dell’etimo se non lo accostassimo al latino humus, humor cioè umore e umido. Infatti, soltanto il terreno umido, a differenza di quello secco, arso e arido, si presta ad essere coltivato e a dar frutto. Da qui potremmo collegare l’etimo al tedesco kühl fresco e Wara umido, acqua. Per rimanere in ambito metaforico e sfatare la credenza del pragmatismo romano alieno da ogni interiore riflessione, citiamo Varrone (De lingua latina V, 59) che paragona il cielo e la terra all’anima e al corpo. L’anima corrisponde al seme “interrato” nel corpo. Seguendo ancora Varrone, si noterà che egli fa riferimento alla separazione dell’anima dal corpo come il seme dalla terra quando germogliando fuoriusce da essa. Il simbolismo del seme, inteso come continuità, trasmissione della conoscenza, che germoglia, venne preso a prestito da tutte le religioni e i gruppi iniziatici ed esoterici.
D
  1. DAFNE. È il nome della Ninfa di cui si innamorò il dio Apollo. La Ninfa però, non corrispondeva l’amore del dio, perciò, nel momento in cui il dio la stava per rapire, ella rivolse una preghiera al padre,il fiume Ladon, perché potesse sottrarsi a quella violenza. Il padre, allora, mentre Apollo la teneva ancora stretta tra le braccia, la mutò in un albero. Così la Ninfa si fece beffa del dio. Proprio questo è il significato del suo attributo, potendo tradursi il verbo affen con: prendersi beffa, raggirare. Il prefisso da significa qui nella accezione di immanenza. Dunque, la libera traduzione del nome della, ninfa potrebbe essere qui venne raggirato, da+affen.
  2. DAGALA. È il nome con cui si designano alcune contrade siciliane. Poiché abbiamo osservato che queste contrade hanno una esposizione a mezzogiorno, dunque sono sempre illuminate dalla luce e colpite dai raggi solari, riteniamo possibile l’accostamento del toponimo alle divinità della luce del mondo celtico, in particolare al dio Dagda. Questa divinità celtica era altresì il compagno della dea Dana (da+Ana) protettrice della terra, della fertilità e dell’abbondanza. In una statuetta, Dagda è rappresentato con in mano un cerchio in cui è inscritta una croce: la croce celtica o carro solare. Egli era dunque innegabilmente un dio della luce. Dagon era una divinità onorata dai Filistei dei quali molto è stato detto nel saggio “Il paganesimo di Gesù” . Il toponimo risulta formato dal lessema da, che in tedesco significa qui, in questo luogo, nella accezione di persistenza e immanenza, dag giorno e alla tutto, ovunque. La libera traduzione di Dagala sarebbe quella di qui è sempre luce.
  3. DNEPR. È un fiume che attraversando la Bielorussia e l’Ucraina si riversa nel Mar Nero. Quello attuale è un nome recente, ma viene citato dallo storico Erodoto con il primitivo nome di varustana che significa la via che conduce alla dimora degli antenati. Infatti l’etimo risulta formato dal lessema Vara fiume, nella accezione di via di trasporto fluviale, usa dimora e ane Avi. Il fiume navigabile mette in comunicazione il Mar Baltico, luogo di provenienza di coloro che coniarono il nome del fiume, con il Mar Nero. Ancora in epoca vichinga, i vareghi, il cui nome significa coloro che vanno sui fiumi, da Vara fiume e gehen andare, si recavano in Russia e a Costantinopoli seguendo la medesima via fluviale. La stessa Russia, stando alle cronache di Nestore messe per iscritto nel XII secolo, secondo cui le popolazioni della futura Russia avrebbero chiesto ai Vareghi di fornire dei re, avrebbe preso il nome dal colore rosso dei capelli di quei Vichinghi svedesi. Molti fiumi europei sono composti dal sostantivo Ana avo: Adrana (attuale Eder) citato da Tacito; Adrano in Spagna e anticamente anche in Sicilia presso la città omonima; Anapo presso Siracusa; Amenano presso Catania; Aniene nel Lazio. I fiumi, presso i Germani e i Greci, venivano associati alla divinità e presso le loro rive venivano svolti riti votivi, come nel caso dello Spercheo che scorreva nella città dei Mirmidoni di cui parla Omero nell’Iliade.
  4. DRUIDI. Con questo nome ci si riferisce ad una classe di sacerdoti che esercitavano il culto presso le popolazioni galliche e celtiche. Di loro parla Cesare nel De Bello Gallico e attraverso la descrizione che ne fa, emergono caratteristiche assai interessanti. Cesare afferma che erano in grado di manipolare forze extrafisiche. Forse anche Zarathustra, nell’Avesta, parlando del potere di alcuni maghi a lui ostili e della capacità che essi avevano di manipolare forze non meglio definite che il sacerdote persiano chiama dhruj, intende riferirsi a ciò che poté osservare il generale romano. Il nome druidi potrebbe essere composto dal lessema dhr che significa forza (nel greco antico quercia si diceva δρῦς, drus), potere ed eit chiamare, evocare. Il Druida era dunque colui che sapeva evocare le potenze.
  5. DUAT. Gli antichi Egiziani indicavano con questo termine l’aldilà. Il nome Duat risulta composto dai lessemi two (pronuncia tu) e akt atto, azione. Pertanto il Duat cui fa riferimento il mito egiziano, indicava le due – two- vie che il defunto avrebbe trovato nell’aldilà e delle quali avrebbe dovuto scegliere di percorrerne una. A scelta sopraggiunta, il defunto, cioè la sua anima, doveva attraversare un fiume utilizzando una imbarcazione trovata appositamente nel luogo e posta sul dorso del serpente Apopi. Il defunti doveva dunque essere in grado di destreggiarsi sulle onde e domare la resistenza apposta dal serpente. Il concetto della dicotomia era diffuso in tutte le civiltà: in Sicilia presso i fiumi in cui questi si biforcavano, veniva praticato il culto ai gemelli Palici figli del dio sicano Adrano (Virgilio, Eneide, lib IX); in Grecia uguale concetto si esprime attraverso il mito, quando il defunto si recava presso i fiumi lete e mnemosine, rispettivamente della dimenticanza e del ricordo.
E
  1. EDEN. Nel libro della Genesi viene affermato che il primo uomo, Adamo, venne posto in un giardino appellato Eden. Il nome di questo giardino risulta composto dai lessemi Eid, con il significato di giuramento, promessa, patto e En che nella lingua norrena significa uno, primo (ein nella lingua tedesca). Non siamo in grado di comprendere il motivo per cui questo giardino venisse appellato così. La spiegazione che ci diamo deriva dalla lettura del passo biblico laddove si parla di questo giardino. Infatti viene affermato che nell’Eden cresceva il metaforico albero della vita e della conoscenza. Ad Adamo era stato dunque imposto il “primo giuramento” o patto, ovvero l’ Eid+En, che consisteva nell’astenersi del cibarsi del frutto dell’albero della vita e della conoscenza.
  2. ELFI. Nella tradizione germanica erano piccoli esseri che abitavano i boschi e si rendevano utili agli uomini, con i quali entravano spesso in empatia. Il loro nome significa gli aiutanti, dal verbo helfen aiutare.
  3. ELLE o Helle. Era la nipote del dio dei venti Eolo. Sua madre era la dea delle nubi Nefele. L’etimologia del nome non è chiara, ma i Germani, prima che l’operazione di sincretismo messa in atto dai missionari cristiani giunti in nord Europa stravolgesse le tradizioni dei popoli che vi abitavano, indicavano con questo nome lo spazio interposto tra cielo e terra. In questo spazio, essi credevano che oltre a prodursi le forze naturali, venti, fulmini e tempeste, albergassero le anime degli antenati in attesa di reincarnarsi, i “gehende” ovvero gli andanti. Di questa credenza era traccia anche presso le tradizioni romane, dal momento che Cicerone vi fa riferimento nel “De Divinatione”.
  4. ENJALIO. Un dio della guerra nominato nell’Iliade, forse più antico di Ares, Marte per i latini. Il nome risulta composto da EN, uno, primo, jah veloce, sensitivo, percettivo, Hell con cui si indicava lo spazio fra terra e cielo in cui albergavano le forze extrafisiche.
  5. ENNOSIGEO. Uno dei tanti appellativi del dio dalla capigliatura azzurra, era quello di Ennosigeo (Odissea lib. IX, 320). L’appellativo viene pronunciato dai Ciclopi, figli di Poseidone (vedi voce), nell’Odissea; a Ulisse che chiede magnanimità in nome di Zeus protettore degli ospiti, il ciclope Polifemo ricorda allo straniero che è figlio dell’ennosigeo Poseidone, lasciando intendere che l’attributo Ennosigeo conferisca al dio del mare una posizione di superiorità rispetto a quella in cui si trova il dio dell’Olimpo Zeus. Che la posizione di Poseidone nel pantheon greco sia assai prestigiosa, tanto da lasciar intendere che in un determinato momento fosse stato il dio del mare al vertice del pantheon, si avverte nelle stesse parole adulatorie di Zeus rivolte in un passo dell’Odissea (XIII, 140,145) a Poseidone appellandolo l’antico, come a dire il primo, il più anziano. Ed infatti, nell’attributo Ennosigeo è possibile enucleare il lessema EN il cui significato nella lingua norrena, ma anche in quella greca, è quello di uno, primo. Il secondo lessema che compone l’attributo è quello di SIG con il significato di vittorioso, dal verbo tedesco siegen vincere. Poseidone, per i Ciclopi suoi figli, che così lo appellano, era dunque il vittorioso. I Ciclopi, probabilmente, appellando il padre con l’aggettivo vittorioso, facevano riferimento al mito secondo il quale, nella guerra intercorsa tra le divinità dell’Olimpo per la scalata al trono divino, il dio del mare aveva, in una prima fase, avuta la meglio sul fratello Zeus, relegando questi nel Tartaro.
  6. ENOTRIA. È il nome arcaico dell’Italia prima che questa venisse chiamata Saturnia e, in ultimo, Italia secondo quanto affermato da Virgilio nell’Eneide. Il toponimo risulta formato dall’accostamento del lessema En, che in antico nordico significa uno, primo e odhr che, stando a quanto afferma Adamo da Brera, significa furioso. L’aggettivo furioso potrebbe riferirsi agli abitatori, gli Enotri appunto, popolo notoriamente combattivo. Gli Enotri, stando al significato dell’appellativo, sarebbero stati definiti i primi o i più furiosi tra gli abitatori della penisola, l’Enotria, che da loro mutuo’ il nome.
  7. EOLO. Era il dio dei venti. Il suo regno era tradizionalmente collocato nell’isola di Lipari. Tra i tanti figliuoli vi era Nefele dea delle nubi. L’etimologia del nome non è chiara, tuttavia, si potrebbe azzardare che in esso sia racchiuso un riferimento alle acque di mezzo, cioè quelle che stanno tra cielo e terra. Infatti, il suo nome potrebbe essersi formato per unione dei lessemi Ea (Ea era l’appellativo del dio mesopotamico Enki – vedi voce -) acqua ed Elle spazio. A questa conclusione ci fa approdare la constatazione che i nomi apposti ai suoi discendenti si riferiscono alle forze che si producono nell’etere: nuvole (governate dalla figlia Nefele); lo spazio, dalla nipote Elle; I venti e le acque di mezzo, ovvero le acque primordiali, da Eolo in persona. Il riferimento alle acque primordiali che avevano la propria sede nel “firmamento” si trova anche in Genesi 1, 6-10 dove si legge che Dio separò le acque, che in origine si trovavano soltanto nel firmamento, chiamando cielo quelle superiori e mari quelle inferiori. Potremmo azzardare pure l’ipotesi secondo la quale, in chiave metaforica, il precipitare di Elle dal cielo, dove vola sul dorso dell’Ariete del vello d’oro, nel mare che da lei prende il nome, l’Ellesponto, stia a significare la separazione tra le acque di sopra e le acque di sotto di cui si dice nella Genesi. In questo caso ci si ricollegherebbe alla tesi a cui aderiscono molti studiosi, dell’esistenza di un mito originario comune a tutti i popoli.
  8. ERCOLE. Il nome Ercole, Ercules in Latino e probabilmente Herkohle in protogermanico, (Kohler significa carbonaio nella lingua tedesca) risulta formato dall’unione dei lessemi Her con il significato di signore e kohle con il significato di carbone nella accezione di nero (nero come il carbone).
    Nel poema ‘Lo scudo di Eracle’, Esiodo fa cenno a un particolare che a noi non è sfuggito. Il poeta afferma che il semidio viene generato da Alcmena al Cronio della “nuvola nera”. Noi siamo certi che l’appellativo apposto a Zeus per l’occasione, non sia stato casuale, ma esso serviva al poeta, al fine di veicolare una eredità caratteriale appartenuta al padre e passata nel figlio. A indurre i poeti a coniare l’appellativo apposto al figlio di Zeus, comprensibilmente sempre di umore “nero”, non escludiamo che potesse concorrere il suo destino, quello di essere sempre in lite con qualcuno ed, infine, essere sottoposto alle famose dodici fatiche, per poi compiersi il suo ‘nero” destino. Infatti, l’ eroe, secondo la versione del mito più accreditata tra, sarebbe morto per un equivoco indotto dall’eccesso d’amore profuso dalla propria moglie. L’appellativo nero, non era comunque esclusivo della cultura greca, lo ritroviamo apposto a due re norvegesi omonimi vissuti durante il periodo vichingo, gli Halfdanr norreni che erano nonno e nipote. Anche nella mitologia induista il dio Krsna viene appellato il nero, essendo nato da un “capello nero” del dio Shiva.
  9. ETNA/EITHNE. Per l’importanza che attribuiamo al significato dell’etimo, si intende riprendere in questa sede, ampliandolo, quanto affermato a Pag. 77 del glossario pubblicato nel 2016 e gratuitamente fruibile.
    Nella mitologia irlandese, la dea Eithne era la madre di Cian e la moglie del dio della luce Lugh. I nomi qui riportati sono familiari in particolar modo ai Siciliani, essendo Ciane il nome del fiume che scorre presso Siracusa. Il nome Etna indica invece il vulcano omonimo ed era il nome della città di cui parla Cicerone nel processo a Verre. Era ancora il nome della Ninfa sposa del dio Adrano e madre dei rinomati gemelli divini, gli dèi Palici. Anche il nome del padre di Eithne, Balor è familiare. Baal significa infatti signore e hör ascolto, era il dio dell’ascolto, che accoglieva di buon grado le preghiere dei sudditi. L’aggettivo Baal va a formare il nome del fiume Belice e quello dei Palici (per la legge di Grimm sulla mutazione consonantica, la B si sarebbe trasformata in P) e ancora quello dei monti Peloritani (vedi voce Baal+hör+eithan a pag. 137 del glossario). Il nome della dea irlandese ricorda il verbo gotico Heitan chiamare, invocare, declamare, come pure riteniamo che lo stesso significato debba attribuirsi alla Etna siciliana, ad Atena e al re mesopotamico Etan, il quale, come si evince dalle tavolette cuneiformi tradotte dagli studiosi, non potendo aver figli, invocava gli dèi perché non interrompessero la sua genealogia .
  10. ETRUSCHI.Popolo che, secondo l’opinione corrente, si era insediato nell’Italia centrale intorno all’età del bronzo. Dagli indizi sparsi nelle leggende di diversi popoli, si evince, tuttavia, che un loro insediamento in Italia fosse già avvenuto fin dalla fine dell’ultima glaciazione, circa ottomila anni avanti l’era volgare. Il nome della loro capitale, Vejo, è infatti straordinariamente affine al paradiso perduto dei Persiani, Vaejo. I Persiani, come viene raccontato nell’Avesta, il libro sacro degli Irani, dovettero abbandonare la capitale in seguito all’opera di distruzione provocata dal dio malefico Angra Mainju. Questi avrebbe provocato una glaciazione rendendo inospitale l’intero paese. L’attributo di Etruschi, apposto a questo popolo da chissà quali osservatori esterni, potrebbe essere la conseguenza dei rituali magico religiosi praticati da questo popolo. Infatti, il nome o attributo risulta composto dall’unione dei lessemi trü e scee. Con il primo lessema, nella lingua tedesca, si indica l’inganno, l’illusione, l’essere fosco, intelligibile; attraverso il lessema scee, si fa riferimento ad un comportamento sinistro, irregolare. Dunque, i Tru-scee o Tusci, altro nome con cui veniva indicato il popolo degli Etruschi, erano coloro dai quali bisognava diffidare, guardarsi.
    Volendo offrire una ricostruzione alternativa, fermo restando il significato di sinistro attribuito al lessema scee, si potrebbe ipotizzare che il lessema Tu provenga dal germanico tun. Il verbo tedesco tun indica un modo di agire. Pertanto, traducendo liberamente il nome Tusci, potremmo definire questo popolo come quello che opera, agisce secondo un modo sinistro, sospetto, non consueto. Non si esclude la possibilità che anche il nome del popolo degli Osci si origini dal medesimo attributo. È infatti plausibile che una parte della popolazione etrusca, abbandonato il gruppo, si fosse stabilita nella sponda sinistra (scee) del fiume (Tevere). In questo caso si giustificherebbe anche il prefisso O che potrebbe significare acqua. Infatti, nella lingua francese acqua si scrive eau ma si pronuncia o. Anche il nome del mitico portatore della civiltà al popolo sumero, ha come prefisso O, Oanes. Questo personaggio mitico viveva in acqua e aveva il corpo di pesce dalla vita in giù.
F
  1. FATO. Era superiore agli stessi dei. Infatti neppure loro potevano modificarlo. Il significato è ciò che è stabilito, ciò che è stato detto, consacrato dal rito, essendo il nome formato dall’unione del lessema Ve (pronuncia fe) sacro, e del lessema akt che significa atto, azione, rito.
  2. FAUSTO. Faustus in latino. Il nome è formato dall’accostamento del lessema Ve (pronuncia fe) sacro, a quello di usa casa. Il significato è quello di un luogo in cui alberga il consenso divino.
  3. FAVARA. È il nome di una città siciliana e di molte sorgenti che scorrono in vari luoghi della Sicilia, caratterizzate da particolari condizioni di cui diremo. Il termine è composto dall’unione dei lessemi Ve (che in tedesco si pronuncia fe) e Wara che significa acqua. Per ciò che concerne il termine acqua, va detto che gli antichi utilizzavano termini diversi per indicare l’acqua a secondo che essa fosse stagnante o fluente. Nel primo caso si utilizzava il lessema generico EA, ancora rinvenibile nella lingua francese, Eau (pronuncia o). Il soprannome Ea era stato dato al dio sumero Enki, figlio di Ano, per indicare la sua capacità di navigatore. Con il termine Wara, rinvenibile nel tedesco antico wadar e in quello moderno di wasser, si indicava l’acqua che scorreva, dunque un’acqua che portava dentro di sé caratteristiche di purezza. Con il termine wara si indicavano dunque le acque in movimento dei fiumi, delle fonti e quelle che cadevano dal cielo, le piogge; il dio delle acque presso gli indù era Waruna e uno dei due affluenti del Gange in India si chiama Varanà. Erodoto cita il nome del fiume Warusana (fiume-casa-antenati), l’attuale Depnr, che significa la via che conduce alla casa degli avi. I vichinghi svedesi venivano appellati vareghi cioè, coloro che vanno (gehen) per i fiumi (Wara). Non è, ancora, per una semplice casualità che in Italia vi siano molti fiumi che hanno il nome di Vara, come in Liguria. Nel sud Italia vi sono invece molte fonti che si chiamano favara. È stato notato che le acque denominate Favare, in genere fonti, hanno caratteristiche simili ovunque, e sono acque che nel loro percorso scorrono in parte del loro tragitto nel sottosuolo, per poi venire in superficie e continuare la loro corsa verso i fiumi. Da questa principale caratteristica si può dedurre il motivo per cui davanti al termine Wara è stato introdotto il prefisso sacro Ve. Infatti la caratteristica di cui si è detto, riconduce metaforicamente al concetto religioso del dualismo. Nella città di Adrano, in Sicilia, per esempio, le acque delle Favare scorrono presso l’ara degli dèi Palici, i gemelli figli del nume Adrano. Queste fonti hanno la caratteristica di essere state indicate, come asserisce lo storico locale Salvatore Petronio Russo, in illo tempore, con i nomi di acqua chiara e acqua scura. In altri luoghi la caratteristica delle due fonti, era quella di essere calde e fredde (è il caso dei due laghetti presso il tempio dei Palici a Palagonia).
  4. FAVIGNANA. A molti nomi o attributi, ai quali si voleva fornire un’aura di sacralità, veniva premesso l’aggettivo Ve che nella lingua tedesca viene pronunciato fe. VE era il nome di uno dei tre fratelli divini della mitologia scandinava. Polibio, nella sua opera Storie, nel lib. III, 60, facendo riferimento all’attuale isola di Favignana afferma: “Annone sbarcato all’isola chiamata sacra, faceva…”. Il nome risulterebbe infatti formato dall’accostamento dei lessemi fe-ignis-ana, ovvero sacro-fuoco-ava, il sacro fuoco degli avi.
  5.  FEBO. È il nome di una divinità greca, identificata successivamente con Apollo. In effetti potrebbe trattarsi di una divinità pre greca, come suggerirebbe il nome barbarico che lo contraddistingueava infatti, il nome è formato dall’accostamento del prefisso sacro Ve, pronunciato nella lingua germanica Fe, con il termine germanico bö con il quale si indica una folata di vento impetuoso. La libera traduzione del nome Febo è quella di vento sacro, che potrebbe riferirsi sia a un individuo in carne e ossa che agiva in modo impetuoso, o alla manifestazione di un fenomeno inintelligibile per l’osservatore. Si potrebbe ancora ipotizzare che il dio dei venti della tradizione ittita, la cui lingua è stata decriptata dallo studioso Höronzi grazie all’apporto dell’antico alto tedesco, possa aver tratto la propria origine dal primo caso sopra citato. Apollo (v. voce) veniva assimilato a Febo, tanto che i Greci nell’evocarlo utilizzavano contemporaneamente i due epiteti. La reinterpretazione avanzata da studiosi di ultima generazione, vorrebbe che l’evocazione della divinità, utilizzando contemporaneamente gli epiteti Febo-Apollo ovvero ve+bo+ab+hel, avrebbe dovuto provocare l’intervento del vento (Bö) sacro (ve), proveniente dallo (ab) spazio (Hel).
  6. FELICITÀ. Felicitàs in latino, indica uno stato di armonia, di equilibrio interiore in cui versa un individuo. L’aggettivo è composto dal lessema fe sacro e probabilmente da lug luminoso. Nel latino, l’aggettivo luminoso potrebbe aver lasciato il posto a loci, il luogo in cui risiede il sacro e dunque l’armonia mundi. Infatti era inteso, presso i Latini che il possessore della Virtus, meritasse il favore degli dèi (Felix, favorito degli dèi), cioè la bona fortuna o felicità. Ancora per i Latini, valeva la credenza che la buona fortuna, formasse un’aura attorno al suo possessore e che essa si irradiasse a chi gli stesse vicino. Quanto affermato potrebbe quindi giustificare la presenza del vocabolo germanico lug, lux per i Latini.
  7. FEZIALE. Il Feziale nell’antica Roma, era colui che aveva il compito di recarsi presso la città del nemico a cui dichiarare guerra. Dopo aver gettato l’insegna romana oltre il confine e recitato la formula di rito, il feziale doveva tenere il conto del numero dei giorni trascorsi dal momento in cui era stata dichiarata la guerra. Trascorsi senza risultato i giorni che sarebbero dovuti servire al nemico per riflettere e desistere dal prendere le armi, accettando le proposte romane, il feziale dichiarava la guerra “santa” (Ve). L’etimo risulta formato dall’accostamento del prefisso sacro ve che si pronuncia fe, a zahlen contare, numerare.
  8. FUOCO. Feur in tedesco, risulta formato dall’accostamento del lessema Ve (pronuncia fe) con il riferimento al sacro e Ur che significa antico, primordiale. Infatti, secondo il mito di Prometeo, il titano avrebbe rubato una scintilla del sacro fuoco dall’Olimpo, per farne dono agli uomini.
G
  1. GALLI/GALATI. ( Integrazione al glossario pag 86). Eliano, a proposito dei Galati (Sulla natura degli animali XVII-XIX), racconta che “Recitano certe preghiere e compiono certe cerimonie sacre che, talora, hanno il dono di attirare gli uccelli”. I Galli, quando scendevano in battaglia contro il nemico, declamavano enfaticamente il loro peana. Il nome del popolo è dunque un attributo che deriva da tale comportamento. Quello dei Galli era il popolo per antonomasia che elevava i canti di guerra, i Kalla. Il testo in cui vengono raccolti gli inni finnici, si chiama kalevala. La Galizia, regione turca che deve il suo nome all’insediamento dei Galli nel III sec. a. C., mantenne il galato quale lingua germanica fino al IV sec. della nostra era. Lo studioso ceco Hronzny, nel 1915, imbattutosi in alcune tavolette ittite scritte in cuneiformi, fu in grado di tradurle avvalendosi dell’antico alto tedesco (ata).
  2. GENE. Il lessema gene è riconducibile al verbo gehend, andante. infatti il gene “va”, si trasmette cioè dall’avo all’erede, facendo rivivere in qualche modo l’Avo attraverso il discendente, non solo relativamente alla trasmissione degliaspetti somatici ma anche tramite il passaggio di quelli spirituali, conferendo in tal modo l’immortalità agli antenati. Il legame tra gli Avi e gli eredi trapela dal concetto, espresso da Plutarco nella Vita di Camillo, di moto generazionale contenuto nel vocabolo gentes.
  3. GENIO. In latino ingenium. Con il termine latino si indicava il possesso di una qualità innata. Tuttavia, si può ritenere che la qualità a cui i Latini si riferiscono, poteva migrare da una generazione all’altra: dall’avo all’erede. La conseguenza che ne deriva, è che il termine latino risulta composto dall’unione dei lessemi germanici inna dentro, e gehen andare. La qualità o talento di un antenato passava, “andava” all’erede attraverso il gene. La gente o stirpe, era pertanto concepita come gli andanti, gehende in tedesco. Il gene o il gehende era il trasmettitore dei caratteri che passavano da padre in figlio.
  4. GIACIGLIO. Non siamo in grado di fornire una etimologia del vocabolo, tuttavia ci preme soffermarci sul suo significato nella lingua italiana, poiché ci permette di fare un collegamento tra le lingue indoeuropee e quella convenzionalmente definita Ursprache, la lingua primordiale. Sulle origini germaniche della lingua parlata da Gesù, l’aramaico, è stato detto nel saggio “Il paganesimo di Gesù”, gratuitamente fruibile. In questa sede ci preme soffermarci sul nome aramaico apposto all’improvvisato giaciglio su cui si adagio’ il patriarca Giacobbe, “bethel”. Ora, nella lingua tedesca Bett significa letto, mentre con il termine Hell veniva indicato lo spazio che sta tra cielo e terra in cui si muovono, secondo l’antica credenza germanica e latina (Cicerone: De divinazione), forze extrafisiche che potevano essere evocate. Giacobbe ritiene, secondo quanto viene affermato in Genesi, 28,1-22, che quel luogo, prima chiamato Luz e dal patriarca rinominato Bethel, sia un luogo abitato dal divino. Ed infatti Luz dovrebbe corrispondere al vocabolo tedesco Lug, luce (Lug, il dio della luce, nella mitologia irlandese era lo sposo di Eithne).
  5. GILGAMESH. Nel mito babilonese era il re di Uruk. Il lemma games, nella lingua tedesca significa misurato, moderato. Poiché nel mito mesopotamico si fa riferimento ad un suo compagno d’avventura di nome Enkidu, dalle caratteristiche animalsche, da intendersi, fuor di metafora incolto, selvatico, è probabile che quello del re fosse un appellativo apposto al fine di distinguere il civilizzatore Gilgamesh, dal civilizzato Enkidu. La radice Gi, da cui proviene Gea, o la variante Ki contenuta nei nomi dei due eroi babilonesi qui presi in considerazione, riconduce ad un legame che entrambi avrebbero con la terra. Infatti, nella lingua sumera, terra si diceva appunto ki. Il messaggio criptato nei nomi dei due eroi sumeri, vorrebbe, l’uno affrancarsi e signoreggiarla, l’altro adattarvisi e subirla. A fare propendere per questa interpretazione è la considerazione che presso i Sumeri, i re, e fra i due lo è soltanto Gilgamesh, erano considerati i figli del Cielo. Di conseguenza i lemmi Giebel sommità, cima, e games misurato, che compongono il nome di Gilgamesh, si presterebbero ad essere interpretati secondo il ruolo che Gilgamesh svolge nel mito raccontato: il re figlio del cielo domina sulla terra e ammaestra le creature che abitano in essa.
  6.  GIZA.La piana di Giza deve la sua importanza alla presenza delle piramidi e al fatto di essere stata scelta dagli antichi Egiziani, almeno secondo l’opinione corrente, come luogo ove inumare gli illustri defunti, sebbene non sia stata trovata nessuna mummia all’interno di esse. Infatti, le prestigiose mummie dei faraoni e i loro ricchissimi corredi funebri, sono state trovate all’interno delle tombe per loro edificate nella Valle dei Re.
    Il nome della famosa pianura, risulterebbe piuttosto collegato al dio sumero Gishzidda, conosciuto in Egitto con l’epiteto di Thoth, divinità che, tra le altre mansioni svolte, era noto perché deputato ad accogliere nell’aldilà le anime dei defunti. Gishzidda ovvero Thot, era figlio del dio sumero Enki e fratello del temuto dio Marduk, quest’ultimo conosciuto in Egitto come Ra.
    Alla luce di inedite interpretazioni del contenuto mitologico riguardo al dio Thoth, si ritiene che la famosa pianura di Giza porti il nome sumero di Thoth in quanto questa, con le dimensioni di un chilometro per due che si conciliano con quelle di un qualsiasi laboratorio realizzato all’aria aperta, potrebbe essere stata scelta dalla divinità sumero egiziana come luogo per l’attività che intendeva svolgere. La funzione di quel luogo, rimasta secretata per millenni, potrebbe essere ora desecretata interpretando il significato etimologico del toponimo medesimo. In questo procedimento di rilettura dei dati a nostra disposizione, risulterà utile ricorrere all’antico alto tedesco, in quanto in quella lingua la s veniva fonetizzata come z (Essen = ezzan). Pertanto, si ritiene plausibile accostare il toponimo Giza al vocabolo tedesco Gießen che significa versare, mescere, infondere. L’accostamento del toponimo egiziano al corrispettivo tedesco – esiste in Germania una città chiamata Gießen-è giustificato altresì dall’appartenenza della lingua germanica alla famiglia indoeuropea. Il nome del dio Thoth, infatti, che è uno degli appellativi del dio sumero Gishzidda, potrebbe derivare dal vocabolo tedesco tote, che significa morto, defunto. Stando al mito sia egiziano che sumero, Thoth o Gishzidda, era in grado di risuscitare i morti. Il dio, dunque, secondo il mito, aveva a che fare con l’anima dell’individuo o con quello che veniva definito il soffio vitale preposto a tener in vita un corpo. Il dio egizio Thot, o Gishzidda in lingua sumera, era in grado di agire perciò sugli elementi vitali ed era in grado di far rientrare in un corpo inerte l’anima che lo aveva “da poco” abbandonato, o interrompere le aritmie del cuore inviando impulsi elettrici, né più né meno di come farebbe un medico dei nostri giorni su un infartuato che giungesse al pronto soccorso. Illuminante è a tal proposito il mito sumerico della discesa di Inanna agli Inferi; in questo caso a riportare in vita la dea, rimasta in coma profondo nei meandri del sottosuolo, sarebbe stato il padre e maestro di Gishzidda, Enki. Supponendo ora che la pianura di Giza con i suoi indecifrabili monumenti dei quali non si può escludere la funzione di accumulatori elettromagnetici, avanzata da studiosi di frontiera, poteva essere il luogo di frequentazione del dio sumero nella fase in cui regnò in Egitto (Gishzidda, per volontà degli dèi riuniti a consiglio, aveva sostituito Marduk nel regno d’Egitto, quando era stato condannato in esilio per unanime giudizio dell’assemblea), sarebbe pertanto plausibile immaginare che il significato del toponimo Giza, possa essere collegabile a quello del vocabolo tedesco Gießen, che, come sopra affermato, significa versare, mescere, infondere, specialmente se si prende in considerazione l’interpretazione fornita dal noto sumerologo Z. Sitchin, secondo cui l’appellativo apposto al primo uomo creato in laboratorio da Enki, il lulu, era quello di colui che era stato mischiato. Pertanto Gishzidda significherebbe colui che mesce, attributo pertinente se apposto ad un frequentatore di alambicchi quale era stato Gizidda, formatosi alla scuola del padre Enki.
H
  1. HIDRANO. È l’appellativo con il quale si indicava uno dei sacerdoti addetti ai piccoli Misteri Eleusini. Lo Hidrano aveva il compito di purificare il neofita, probabilmente attraverso abluzioni in vasche rituali. Infatti, il termine risulta formato dal lessema Hidros acqua e Ano, avo, antenato. Si fa notare che il nome della divinità sicana della Sicilia pre greca era Adrano. L’etimo Hidrano è palesemente barbarico, non greco.
I
  1. ISIDE. Divinità egiziana, moglie e sorella di Osiride. Identificata con l’assira Isthar, la nascosta o velata (vedi voce). Nella rappresentazione che ne fa Apuleio, la dea si accompagna a due serpi attorcigliate attorno ad un globo, presubilmente un uovo. Orbene, nella lingua tedesca lucertola si dice Eidechse. Il nome di Iside nella forma coptica è HCE, – Ēse- (Eidechse?) e Ἰσις in quella greca. Il nome Iside risulta composto dall’unione dei lessemi Is che indica la terza persona singolare del pronome personale lei, lui equivalente di es in tedesco, ed Eid che nella lingua tedesca ha il significato di giuramento, vincolo, legame. Nella stessa lingua, ma ormai entrato in disuso, il vocabolo Eidam significa genero, e, come sopra affermato, Eidechse lucertola. Statuine rinvenute in Mesopotamia, che rappresentano la dea madre, hanno una curiosa forma serpentiforme. I Greci la rappresentavano nei loro templi talvolta avvolta o comunque accompagnata da una serpe. I faraoni e le loro consorti sono rappresentate con la testa allungata nella sua parte alta e un copricapo la nasconde. Il copricapo è sormontato dalla testa di una serpe, il cobra. Molti teschi appartenuti a faraoni, maschi e femmine, presentano un cranio allungato (artificialmente o naturalmente è oggetto di discussione da parte di studiosi) di forma serpentiforme. Il nome di Iside in caratteri geroglifici, è caratterizzato della presenza del simbolo della serpe. L’equivalente sumerico di Iside è la dea Innanna, e quello siciliano è Proserpina, anche se il mito di quest’ultima appartiene ad una elaborazione greca di un mito molto più antico di provenienza sicana, di cui però non si riesce a risalire, ma la sua identificazione con la dea sicana Hybla appare assai probabile.
K
  1. KANAAN. Citata nell’antico Testamento – Numeri, 13,2- come una terra che i transfughi Ebrei, provenienti dall’Egitto, avrebbero dovuto conquistare, era una città appartenente al popolo dei Filistei e si trovava in Palestina. Il nome indicava anche la regione. Il toponimo, tradotto con l’ausilio della lingua nordica, si riferisce ad un luogo abitato da gente potente. Infatti il verbo kann è il presente indicativo del verbo tedesco können, che significa, potere, essere capaci di realizzare qualcosa. Pertanto i Cananei erano indicati come i potenti, coloro che “possono”. Quanto qui affermato, viene avvalorato dalle parole utilizzate dagli esploratori inviati da Mosè nel paese di Canaan, i quali, ritornati riferirono: “Il popolo che abita quel paese è potente”, Numeri 13,28; continuando il resoconto, gli esploratori aggiungono il particolare di aver incontrato “i giganti, i figli di Anak”.
  2. KARMA. Termine utilizzato nella filosofia indù per indicare il destino, o, per meglio dire, una determinata predisposizione dello spirito. Essendo la lingua sanscrita strettamente imparentata con la lingua germanica, non è difficile scorgere nell’etimo induista l’unione dei lessemi kr e am. Con il nesso consonantico kr si intende esprimere l’atto di potenza prodotto dall’Io – rinvenibile anche nel suono onomatopeico che si produce pronunciandolo – e che si spinge quasi fino al limite di rottura dell’oggetto su cui viene applicato, mentre con la preposizione am, sopra, si esprime l’oggettività, l’indipendenza della forza applicata e tuttavia la volontà da parte dello spirito di voler dominare e indirizzare la libera forza manifestata. Nei nomi – che andrebbero intesi come attributi- apposti a personaggi storici o mitologici le cui gesta si svolsero in aree geografiche distanti tra loro, è possibile rintracciare quanto qui affermato: Kr+eso, Kr+isto, Kr+eusa, ecc. rappresentano alcuni personaggi sopraffatti dagli eventi terreni e, dunque, dalla potenza espressa dal nesso consonantico kr, finendo la loro vita in modo cruento o comunque da vittime. Così non è per Kr+sna, la divinità dei Veda, che “sovrasta” gli eventi umani ai quali partecipa, diversamente degli altri personaggi succitati.
  3. KHUFU. Kufu o Cheope, è il nome del faraone che sarebbe stato sepolto nella piramide che da lui prende il nome. In realtà, la mummia del faraone non è stata trovata mai all’interno della piramide. Nella lingua tedesca, con il lessema kufe, si indica un tino, una botte, nel dialetto adranita esistono ‘u cufenu un cesto di grandi dimensioni,’a cufena, più grande,’ ‘a cuffa, ancora più grande, e ‘a cufinidda, un piccolo cesto, mentre sull’ albero maestro delle navi a vela c’ era la coffa, quasi un mezzo tino, nella quale stava la vedetta. Se si prendessero in considerazione le tesi di ricercatori indipendenti, tra i quali spicca Robert Bauval, tesi secondo le quali si esclude che le tre piramidi siano state costruite per accogliere le mummie dei faraoni, la possibilità che il nome Khufu apposto alla più grande delle tre piramidi della piana di Giza, indichi un contenitore paragonabile ad una botte o a un tino, sarebbe elevata.
  4. KLIO. Era per i Greci la musa che sovrintendeva alla poesia epica. Letteralmente l’aggettivo avrebbe il significato di piccola, dal tedesco kline. La metafora a cui il nome fa riferimento, riconduce al granello di senape di evangelica memoria: da ciò che è piccolo proviene il grande; nel caso della Musa l’immortalità dell’eroe, ottenuta tramite la poesia epica.
  5. KREPA-KRAK. Il nesso consonantico kr contenuto in crepa, ma anche in molti nomi o soprannomi di individui, rappresenta un elemento interpretativo della concezione indoeuropea del mondo, troppo importante per essere da noi passata sotto silenzio. Come si può notare in modo molto evidente nei vocaboli crack e crepa, il suono onomatopeico che si ottiene pronunciando, riconduce all’immagine di qualche cosa che si spezza. Osservando i dettagli della vita dei personaggi nei nomi dei quali è inserito il nesso consonantico Kr, si noterà, in primo luogo che non si tratta di individui comuni ma di re, profeti e divinità ; in secondo luogo che la loro vita venne vissuta fuori dagli schemi comuni, al punto da provocare una ‘rottura’ con le convenzioni in uso nella società del loro tempo. La presenza del nesso consonantico kr in un nome, indica che in colui che lo porta si applica, o è egli ad esternarla, una forza che viene condotta su un oggetto fino al limite di sopportazione, quasi a crearne una lesione ma non la completa soluzione di continuità. La crepa, infatti, indebolisce la parete su cui si crea, e tuttavia, lascia ancora la possibilità di un intervento riparatore. Il re Creso distrusse il proprio regno a causa della propria ingordigia, ma, reso prigioniero dal re di Persia Ciro, divenne il più saggio suo consigliere; Cristo finì sì sulla croce, ma, secondo il credo cristiano riscattò il mondo dal peccato.
L
  1. LEVANA. Presso i Latini era il nome dell’antica dea preposta ad assistere le partorienti. Il nome riconduce al concetto di portare in vita o alla luce ciò che è celato.
    Nel nome di Levana, infatti, si può rintracciare la radice AN. Ana significa ava, antenata, nonna. L’aggettivo leu-lug-luk, con il significato di luce, conferisce dunque all’Ava la doppia veste di custode della vita fisica e di quella metafisica, tanto che il suo nome venne utilizzato da una delle sei logge massoniche che nel corso del XIX secolo erano presenti in Adrano, la città in cui sorgeva il tempio dell’Avo della stirpe dei Sicani. Secondo le indicazioni esoteriche della loggia massonica adranita, la dea Levana era dunque preposta all’iniziazione del neofita che, tramite suo, rinasceva a nuova vita.
  2. LITTORE. Il littore, presso i Romani, era colui che portava il fascio di verghe con l’ascia, simbolo del potere regale. I littori al seguito del re erano dodici. Se si considera che questo numero ritorna con frequenza inusitata nella mitologia dei popoli indoeuropei, non si fatica a credere che per essi fosse di buon auspicio (dodici erano le tavole della legge dei Romani, dodici erano i segni dello zodiaco, dodici le fatiche sostenute da Ercole, dodici i principi Feaci etc.). Riteniamo che il vocabolo sia formato dall’accostamento del lessema licht luce, con quello di tor porta. Il licht+tor era dunque colui che annunciava la luce della quale il re romano era portatore, in tempi in cui si credeva ancora che il re fosse il costruttore del ponte – pontifex- che collegava la terra al cielo. Il littore, se teniamo conto del lessema tor che compone il suo nome, era il custode della porta. Sarà ulteriormente chiarificatore del concetto che gli antichi avevano della porta, e a quali pericoli si veniva esposti non vigilando su di essa, il passo biblico (A.T. Giosuè 20,1) in cui si afferma che colui che si era macchiato di omicidio e chiedeva rifugio in una città, doveva arrestarsi alla porta d’ingresso ed esporre agli anziani quanto era accaduto.
  3. LUCUMONE. Era il nome etrusco del quinto re di Roma che assunse successivamente il nome di Tarquinio Prisco. Quella del Lucumone, in Etruria, terra di provenienza del re, rappresentava una magistratura attribuita ai maggiorenti. Il termine sarebbe formato da luc o lug luce, e mn mente, liberamente traducibile con colui che ha la mente illuminata, cioè, la conoscenza e la saggezza. Pertanto è plausibile che la carica fosse esercitata in ambito religioso e che non coincidesse con quella di re, altrimenti non si comprenderebbe il passaggio di Tarquinio, che in Etruria doveva essere re, a Roma dove divenne re.
M
  1. MAGIA. Il termine magia lo si fa derivare dalla parola persiana “mag” da cui magi, nome degli appartenenti alla casta sacerdotale della religione persiana, poi riformata da Zarathustra. I Magi erano esperti in tutte le scienze, tra le quali un ruolo particolarmente importante aveva lo studio dell’astrologia. Infatti, attraverso la consultazione degli astri, secondo il vangelo di Matteo, i Magi avrebbero saputo che si sarebbe verificata la nascita di un re straordinario, successivamente identificato con la persona di Gesù. Al termine mago si è dato sbrigativamente il significato di prete, forse condizionati dal fatto che i Magi fossero l’espressione massima della casta sacerdotale, mentre in realtà, essi dominavano tutte le discipline scientifiche e naturali. Lo storico greco Erodoto, vissuto nel V sec. a.C., nel suo trattato, Storie, fa esplicitamente cenno alla presenza di Germani fra le tribù che costituivano il popolo persiano. Molti dei nomi delle tribù che costituiscono il popolo persiano, sono appellativi derivanti dalla lingua germanica. L’influenza culturale germanica in Persia è ravvisabile dallo studio non solo della mitologia persiana, ma anche dal simbolismo adottato dai Persiani e dalla onomastica, una tra tutte, quella che fa riferimento a Ciro (vedi voce). Dal sostantivo mago, dunque, deriva l’etimo magia. Utilizzando il lessema magia, si intende fare riferimento a una pratica atta a far accadere cose che, allo stato “normale” dei processi naturali, non potrebbero accadere; motivo per cui, in altre culture tali accadimenti vengono definiti miracoli. In realtà, i Magi, da cui sarebbero successivamente derivati gli alchimisti, erano coloro i quali, avendo osservato e studiato le forze nascoste della natura, sarebbero riusciti a controllarle, a dominarle. Pertanto, pur essendo necessario possedere requisiti specifici, l’arte della magia è qualcosa che si apprende. Comunque sia, col termine magia si intendeva indicare allora come oggi, lo svolgimento di opere straordinarie. Il termine proviene dal verbo germanico “mögen desiderare, possedere, entrare a far parte di qualcosa divenendo un tutt’uno con la cosa che si vuole ottenere o su cui si intende agire, un fondersi con essa in modo da diventare qualcosa di nuovo e indistinguibile. Il nome Maddalena cioè Magda, dovette derivare il proprio significato proprio dal verbo mögen o perché si volesse con esso indicare una persona che proveniva dalla cittadina di Magda, in Palestina, o perché fosse la desiderata per la sua avvenenza o, ancora, per l’aura di magia che essa sprigionava. È infatti emblematico che la Maddalena dei vangeli, secondo il racconto dell’evangelista Matteo, fosse considerata posseduta da sette demoni. Dando il significato greco al concetto di demone, la donna dei vangeli, cara a Gesù, corrisponderebbe a quella dei testi apocrifi che la descrivevano sapiente ancor più che i discepoli maschi del Messia.
  2. MEDIA. È la terra ove era stanziato il popolo dei Medi. Il nome di questa terra è affine al Midgard scandinavo con il quale si designava il centro primordiale, la terra di mezzo. In Irlanda vi è una regione chiamata Med. Il significato del lemma è quello di mezzo, metà, centro, spesso inteso nella accezione religiosa di centro spirituale, di polo o asse equilibratrice.
  3. MEDITERRANEO . Il nome del mitico mare è formato dall’unione dei lessemi germanici med, che significa medio, a metà fra due estremità, nel mezzo di qualcosa, e tarn che significa nascosto, celato. La traduzione del significato del nome del mare quale mondo di mezzo che cela qualche segreto, qui azzardata, risulta corroborata dal contenuto delle tavolette mesopotamiche. In una delle migliaia di tavolette ritrovate in Mesopotamia, intitolata dagli studiosi La visita di Enki a Nippur. tradotta dal sumerologo S. N. Kramer, si legge che il dio Enki, il creatore del genere umano, avrebbe edificato il proprio magnifico palazzo nell’Abzu. Ci sono motivazioni, emergenti da studi condotti, che l’Abzu si trovasse nel Mar Mediterraneo. Nella tavoletta sumerica di cui si è detto, viene riferito che, mentre le divinità si trovavano a banchettare, il fratello di Enki, Enlil, lodando l’edificio, affermava che nella reggia, si “celavano” molti segreti e che si “nascondeva” un sapere indicibile. Anche nel mito egiziano che riguarda la morte di Osiride, viene affermato che il dio Set, per liberarsi del fratello che regnava sull’Egitto, onde impadronirsi del regno fece deporre il cadavere del faraone in una cassa di legno nascondendola nel Mar Mediterraneo. Per una “strana” coincidenza, anche la maga Circe, proveniente dalla lontana Colchide per sfuggire alle ire del fratello e re, Eta, si recò nel Mediterraneo ove, nel Lazio, presso il monte che da lei prese il nome, edificò il proprio palazzo. Nel Circeo, la maga o genetista, come Enki nell’Abzu, nascondeva i propri segreti. Il Mediterraneo ha rappresentato l’incontro di diverse civiltà, alcune delle quali, come quella egiziana, che in Sicilia portò il culto di Iside, praticato in epoca romana e fino all’avvento della religione cristiana, con la quale si ebbe un abile sincretismo fino a identificare la madre di Horus con la madre di Gesù, nasconde dunque affascinanti misteri hanno posto domande a cui non si è saputo fornire risposte soddisfacenti.
  4. MENTE. Il lemma deriva dalla radice MN. La declinazione del nesso consonantico mn dà vita ad una serie di lessemi collegati all’attività del cervello: pensare, ricordare, tenere a memoria.
  5. MESSNER. É un nome di persona. Il suo significato, il misuratore, si dispiega sul piano fisico e quello metafisico. Ahura Mazda (mass), che per i Persiani rappresentava la divinità creatrice del mondo, viene spesso indicato come colui che misura, che valuta l’operato dell’uomo.
  6. MIN. Erodoto, storico greco del V sec. a.C., riferisce – Storie II, 4- che il primo re umano d’Egitto, – prima di lui evidentemente governavano gli dèi – fu Min. Secondo la cronologia fornita allo storico dai sacerdoti egiziani, emerge che i governanti divini arrivarono in Egitto intorno al dodicimila a. C., – si fa notare di volata, che questa datazione coincide con quella a cui si fa risalire l’inabissamento del mitico continente di Atlantide secondo la versione raccontata da Platone nel Timeo e nel Crizia– I Re divini, secondo quanto riferito dai sacerdoti ad Erodoto, prima di abbandonare l’Egitto per ritornare nelle loro sedi celesti, vivevano insieme agli uomini. L’ultima divinità che avrebbe governato in Egitto sarebbe stata Oro, figlio di Osiride. Le informazioni ottenute da Erodoto riguardo agli dèi che regnarono in Egitto, trovano un parallelismo con le informazioni fornite dai monaci buddisti a due commercianti tedeschi F. Mayer Schroder e O. Maman riguardo alla natura divina degli imperatori celesti o figli del cielo che avrebbero governato in Cina, e di cui si parla in alcuni documenti del 1500 a. C. Tornando in Egitto, Min, grazie alla sua spiccata dote mentale, dovrebbe essere stato scelto dalle divinità celesti per governare il paese in loro vece. Che il lessema min esprima il possesso di una dote mentale notevole, lo si evince ancora dall’attributo apposto alla divinità latina Minerva, corrispettivo della greca Atena, nata dalla testa (mente) di Giove-Zeus.
  7. MINOSSE. Riprendiamo in questa sede quanto detto a proposito del re di Creta su miti3000.eu, arricchendo l’etimo di nuovi significati. Apollodoro – Biblioteca–afferma che Minosse trovò una forte opposizione a Cnosso quando volle succedere al defunto re Asterio. L’unione di Pasifae con un toro, rappresenta la metafora della trasformazione, a Creta, di un regno in una tirannide. Infatti, nella lingua tedesca toro si dice Stier da cui proviene tiranno, mentre con khu mucca, si indicava il re che regnava con il consenso del popolo, da cui deriva lo svedese konung e il tedesco König (vedi l’articolo, I Siculi e la pietra runica di Adrano, miti3000.eu). Il fatto che il nome Minosse sia composto dai lessemi MN mente e Hass odioso, liberamente traducibile con dalla mente perfida o odiosa, avvalora tale tesi. Poiché esiste una tradizione che dipingeva come odioso il re di Creta, di cui fa menzione Platone nel Minosse, crediamo di aver colto nel segno. Tuttavia bisogna credere che il dispotismo a Cnosso fosse di casa se anche il nome del re Asterio vi fa riferimento, come noi crediamo, essendo il nome composto da Hass odio e Stier toro.
  8. MISTERO/MISTICISMO. I Greci chiamavano mistes l’iniziato. Il vocabolo si inserisce in una semantica del sacro sia nella lingua tedesca che in quella italiana. In quest’ultima, con il termine messa si indica l’ufficio divino esercitato da un Sacerdote. Nella lingua tedesca, con il verbo transitivo messen, si indica l’azione del misurare, per cui Messer è il misuratore. Nell’ Avesta, il testo sacro dei Persiani, il dio Ahura Mazda veniva appellato anche il misuratore. Il vocabolo Maß nella lingua tedesca significa dunque misura, da cui deriva mäßig misurato, qualità che il Mistes intendeva acquisire attraverso la iniziazione ricevuta da una guida spirituale. I Druidi, nel mondo celtico, come si apprende da Cesare nel suo trattato La guerra gallica, istruivano per un periodo di venti anni i neofiti che si recavano da loro per apprendere le arti e le discipline scientifiche.
  9. MITANNI. Antico popolo che si trovava tra il regno degli Ittiti e quello degli Assiri. È probabile che l’appellativo di Mitanni come quello di Hurriti, che significa gli antichi, da Ur, antico, primordiale, fosse stato loro apposto dagli Ittiti con i quali condividevano le radici culturali. Infatti, il nome di Mitanni significa coloro con cui si hanno in comune gli antenati, da mit che significa con, assieme, in compagnia di, e ahne antenati, Avi. Tushratta era altresì il nome del primo re mitanno, il quale può essere tradotto con l’ausilio della lingua germanica ed avrebbe il significato di colui in cui risiede il buon consiglio. Infatti il nome è formato dall’accostamento del lessema usa casa, dimora e ratt consiglio (in Germania il ratthaus è il comune o palazzo del consiglio). Poiché lo studioso ceco Hronzny tradusse la lingua ittita con l’ausilio dell’antico alto tedesco, se i Mitanni, come noi crediamo erano consanguinei degli Ittiti, dovevano parlare se non la loro stessa lingua, una lingua affine. Erodoto, secoli dopo l’epoca del regno dei Mitanni, nella vicina area geografica denominata Persia, nel VI sec. a.C., segnalerà la presenza di una tribù di Germani sottomessa da Ciro il grande.
  10. MONTE DI DIO.Il monte sul quale Mosè udì la parola di Dio si chiamava Oreb e, probabilmente, soltanto dopo l’evento che capitò a Mosè, venne appellato Monte di Dio, in quanto la voce che Mosè udì presentò se stessa come la voce del dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Verosimilmente, quel monte, già prima che vi si recasse Mosè, era definito il luogo dell’ascolto. Questo è ciò che lascia supporre il prefisso or che compone il nome oreb. Infatti ör, nelle lingue germaniche significa orecchio, udito, mentre ab significa tratto e indica luogo di provenienza. Il monte Oreb era dunque indicato come il luogo da cui provenivano le voci (del divino).
  11. MONTU. Vedi voce Amon.
  12. MUSA. Le Muse, in numero di nove, erano le figlie di Mnemosine, la memoria. Il nome significa la dimora dell’intelletto, da mn mente e usa dimora.
N
  1. NEBRODI.È il nome di una catena montuosa che si estende dalle falde dell’Etna fino alle coste tirreniche della Sicilia. Agli studiosi della lingua sicana, sostenitori di una medesima derivazione tra questa e il protogermanico, non poteva passare inosservata l’esistenza in Germania dell’antichissimo villaggio di Nebra. Il villaggio si è reso famoso per il rinvenimento in esso, di manufatti risalenti alla fine del paleolitico e soprattutto per il ritrovamento del famoso disco in metallo dell’età del bronzo antico. Nel disco di bronzo, si rileva la presenza di elementi astronomici in oro, sistemati in modo tale da rappresentare una porzione della mappa stellare. Alcuni studiosi, utilizzando argomenti convincenti, frutto di una ricerca condotta su base interdisciplinare, ipotizzano l’esistenza nel pianeta, di una civiltà preistorica globale che utilizzava una lingua comune. Facendo risalire – questa è l’opinione più accreditata da parte di studiosi di ultima generazione– il conio della toponomastica siciliana a tempi immediatamente successivi alla grande inondazione del 10.500 a.C., periodo questo in cui la diaspora linguistica non era ancora avvenuta tra i popoli, si ritiene che toponimi quali sono quello di Nebra e Nebrodi, pur trovandosi in aree geografiche distanti tra loro – in Germania la prima, in Sicilia la seconda. – siano stati apposti a luoghi che manifestavano caratteristiche simili. Utilizzando la lingua germanica come lingua di riferimento per interpretare i toponimi, lingua questa ritenuta affine alla lingua sicana e che trova in quella tedesca una maggiore aderenza, si ipotizza che il toponimo Nebrodi sia formato dall’unione dei lessemi neben, con il significato di vicino, prossimo e Brücke ponte, nella accezione di passaggio, superamento. Si ritiene altresì plausibile, in virtù delle molte relazioni mitologiche, toponomastica e e linguistiche osservate tra la Mesopotamia e la Sicania, che il concetto di passaggio o superamento, possa riferirsi al pianeta di Nibiru citato nel testo sumerico Enuma Elish; questo testo tratta infatti di cosmogonia e pone questo pianeta al centro della trattazione. Il misterioso pianeta di Nibiru veniva appellato dai Sumeri pianeta dell’incrocio, e per questo motivo veniva rappresentato con una croce simile a quella utilizzata dai Templari come loro emblema. Questo tipo di croce è stata rinvenuta presso la città di Adrano, dipinta su corredi rituali di ceramica datati al IV mill. a. C. Per quanto riguarda il famoso disco metallico dell’età del bronzo, detto disco di Nebra dal luogo del ritrovamento, che raffigura elementi astronomici, va osservato che il luogo del suo rinvenimento si trova sulla cima del Mittelber, una collinetta di 252 metri di altezza che gli studiosi hanno interpretata come un osservatorio astronomico del periodo neolitico. A sua volta, la cittadina di Nebra si trova nelle vicinanze dell’osservatorio solare di Goseck, risalente al V millennio a.C.
    I Monti Nebrodi vengono anche appellati Monti Caronie. Nella costa tirrenica, presso l’estremità occidentale di questa catena montuosa, si trova il villaggio di Caronia, la famosa Kale Akte fondata nel V sec. a.C. dal condottiero siculo Ducezio. Presso il villaggio di Caronia e dentro di esso, si registrano inspiegabili fenomeni tuttora posti sotto l’osservazione di eminenti studiosi. Non si esclude che tra le cause di questi fenomeni, tra i quali si registrano incendi spontanei di abitazioni e di oggetti vari, possa rientrare il movimento della placca tettonica africana. Questa, presso Caronia, spingendo contro la placca euroasiatica, provocherebbe il punto di “rottura” (broken nella lingua tedesca). Alla luce di questa ultima ipotesi è maturata la possibilità di fare derivare il toponimo siciliano dall’unione del lessema neben, che nella lingua tedesca significa vicino, prossimo, con il lessema broken che significa rompere, spezzare. In questo caso, dunque, il significato del toponimo siciliano apparirebbe pertinente rispetto al fenomeno geologico registrato e alla teoria delle placche tettoniche. Infatti, sebbene non siano ancora molto chiari i meccanismi di questa teoria, in Sicilia, – l’isola fa parte della placca tettonica africana- sarebbero state individuate delle faglie, causate dalla spinta che la placca tettonica africana esercita su quella euroasiatica, creando di conseguenza un punto di rottura. Quanto qui esposto circa l’etimologia del toponimo Nebrodi, accostato allo studio dei movimenti delle placche tettoniche, che porterebbe alla libera interpretazione di vicino o prossimo alla rottura, induce ad ipotizzare che la antichissima civiltà sicana, ritenuta autoctona dallo storico greco del V sec. a.C. Tucidide, fosse così avanzata da possedere conoscenze scientifiche insospettabili, ed essere in grado di coniare, sulla base di queste conoscenze, anche dei toponimi che le richiamino. In questa direzione si sono spinte le indagini di alcuni studiosi di frontiera, i quali hanno trovato incontestabile relazioni tra la cultura sumera e quella sicana.
  2. NEFERTITE. Regina dell’Egitto, moglie del faraone Akenaton. La radice nef va a formare i nomi di molti faraoni egiziani: Neferule, figlia della regina Acesut, Neferote etc. Il fatto che la genealogia della regina Nefertite sia incerta, ha reso possibile ipotizzare che il nome derivi dal vocabolo neffe, che nella lingua tedesca significa nipote, e che venisse applicato al faraone salito al trono quando questi non fosse il figlio/a, ma quello/a del fratello del faraone in carica. La sorella della dea Iside si chiamava Nefti. Iside viene raffigurata spesso assieme a Nefti. Ora, poiché Iside aveva sposato il fratello Osiride, Nefti le era nello stesso tempo sorella, cognata e nipote. Non si può quindi escludere l’ipotesi che, essendo Nefti giovanissima, l’attributo con cui veniva appellata fosse quello di nipote (di Iside). Ancora, se in effetti la cultura dominante fosse stata quella di derivazione germanica, si potrebbe spiegare l’importanza del ruolo del nipote nella cultura egizia. Infatti, presso i popoli germanici I nipoti erano tenuti in così alta considerazione da essere richiesti come ostaggi dai vincitori in luogo dei figli dei maggiori enti. Virgilio, pertanto, da ottimo conoscitore della cultura dei popoli germanici che popolavano il Lazio nel II millennio a.C., Boi, Sicani, Rutuli, Latini etc., nel suo poema l’Eneide, coerentemente con tale cultura, descrive il dolore e la disperazione della moglie del re Latino, Amata, al punto che essa ricorre al suicidio dopo aver appreso la morte del nipote Turno.
  3. NINFA. Il nome indica delle divinità minori del pantheon greco. In Italia vi è una città nella provincia di Latina con questo nome, dovuto alla presenza di un tempietto romano ad esse dedicato. Il nome potrebbe essere stato formato dall’accostamento del lessema nun che significa ora, adesso (nun nel greco antico) , nella accezione di una presenza non immanente ma eccezionale, casuale, fortuita, occasionale, e Ve che è un prefisso sacro e viene pronunciato Fe in tedesco.
  4. NINNA NANNA. Con questa cantilena si invitava il neonato ad “entrare” nel mondo “dei nonni”, dal quale proveniva. Inna Ana è infatti traducibile in a.a.t. letteralmente con “dentro” – così da indicare una fase di compenetrazione del neonato nel mondo ultra fisico – e “Antenato”. Non è un caso se tra i Sumeri ritroviamo la dea Innanna, garante tra l’altro della fecondità e considerata, come il suo nome stesso indica, la custode dei valori ancestrali degli Avi, come la latina Vesta, detentrice del sacro fuoco che alimenta la stirpe, la “gens”, gli Avi. La ninna nanna, nel greco antico νάνι νάνι (nani nani), e nel rumeno Nani Nani, aveva dunque alle origini lo scopo di indirizzare e condurre a buon fine il viaggio onirico del neonato, di farlo entrare in contatto con quel mondo, evocando l’Ano.
  5. NONNO. NONNO, AVO, ANTENATO. Il lessema nonno viene reso nella lingua alto antico tedesca attraverso il sostantivo Ano. Nella lingua siciliana il lessema corrispondente è quello di nannu. Tale sostantivo potrebbe essere formato dall’unione dell’avverbio nah, che nella lingua tedesca significa vicino, accanto, con il sostantivo ano, nonno. Si ritiene pertanto che, nella lingua sicana, col nome composto nannu, si intendesse fare riferimento alla protezione che l’antenato, il nonno, fornisse all’erede, al nipote, con lo stargli accanto, vigilando affinché nulla di male accadesse. La lettura del significato etimologico fornito, verrebbe corroborata dalla constatazione che nella cultura indoeuropea veniva attribuito un rapporto preferenziale tra il nonno e il nipote. Il nah+anu, il nonno, nannu nella “lingua” siciliana, rappresenta, dunque, nella concezione attuale come in quella tradizionale, il protettore, il vigilante, l’angelo custode che sta accanto al nipote, pronto a intervenire in suo aiuto durante i momenti critici.
  6. NOTO. È il nome di una antichissima città siciliana. Diodoro siculo afferma che la patria del grande condottiero siculo Ducezio era Noa, che è stata identificata con Noto, seppur il condottiero mostrasse uno strettissimo legame con la città dell’attuale Palagonia nei cui pressi sorgeva il celebre tempio degli dèi Palici figli di Adrano ed Etna, di cui Ducezio era, con molta probabilità, sacerdote (vedi “Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto). Nella mitologia nordica viene indicata la città di Noatun, collocata in Svezia, dove abitano alcune divinità. Nei nostri studi, è stata rilevata una notevole affinità linguistica, mitologica e simbolica tra la Svezia e la Sicilia. Il toponimo scandinavo Noatun significa città delle navi e riteniamo che lo stesso significato abbia quello siciliano Noto/Noa. La città di Noto si trova infatti sulla costa.
  7. NUMEN. Il numen, per i Romani, rappresentava una generica e indefinibile forza che spingeva l’individuo all’azione. Pertanto, ogni passione, per esempio quella dell’amore piuttosto che dell’odio, veniva gestita dal numen, che poteva essere evocato o manifestarsi autonomamente. Il vocabolo sembra formato dal lessema germanico nun che significa ora, adesso, nella accezione di un apparire, e men mente. Il significato intrinseco al vocabolo è quello di poter spiegare quel corto circuito che si provocava nella mente la quale, contemporaneamente, coltivando la passione, creava dentro di sé una forza e una debolezza. Il contrasto tra queste componenti, era il risultato di qualcosa che si attribuiva ad un agente esterno.
O
  1. OCEANO. Il lettore avrà certamente riscontrato come spesso nell’onomastica si faccia esplicitamente riferimento, con orgoglio, alle proprie radici etniche. Ebbene, il nome Oceano non fa certo eccezione. Nel mito greco, Oceano era figlio di Urano.
    Ora, al ricercatore non sarà passato inosservato che entrambe i nomi sono formati con la radice An. Il sostantivo Ano, nella lingua antico alto germanico significa avo, antenato, nonno, ma anche cielo, sede degli antenati. Pertanto, se si scompone il nome della divinità marina secondo la lingua agglutinante tedesca, utilizzando la grammatica avremo la sequenza: ö-cened-ano. Chi ci ha seguito nelle ricerche dei significati etimologici attribuiti all’onomastica, ricorderà che Oannes era l’appellativo apposto dai Babilonesi agli uomini pesce, esseri questi, secondo il resoconto del sacerdote babilonese Berosso vissuto nel III sec. a. C., civilizzatori venuti dal mare occidentale. Gli Oannes venivano raffigurati nei bassorilievi mesopotamici come esseri per metà pesce e per l’altra metà del corpo uomini. Nella lingua sumera e babilonese acqua si scriveva ea; ignoriamo la fonetizzazione della sillaba, se non che si constata che nell’attuale lingua francese acqua si scrive eau e si pronuncia O. Non appare pertanto peregrina la tesi secondo la quale il prefisso O del nome Oannes indichi proprio l’elemento acqua. Per quanto riguarda il concetto di stirpe veicolato dal nome Oceano, si riscontra che in antico irlandese, il termine cenedl indica un gruppo umano accomunato da vincoli parentali. Del significato di ano si è già detto e dunque non ci ripeteremo. A questo punto si può azzardare una libera interpretazione del nome Oceano: scomposto in o-cenedl-ano, potremmo dedurre che esso fosse un appellativo per indicare una “stirpe di esseri acquatici” che, padroni dell’elemento acqua, si muovevano con grande padronanza in esso. Questa stirpe – cenedl- si riconosceva forse nel comune antenato – ano- il quale potrebbe corrispondere alla figura del dio mesopotamico Enki appellato Ea, cioè acqua. A corroborare questa intuizione afferisce la presenza di alcuni bassorilievi sumerici di tre o quattromila anni fa, in cui vengono rappresentati uomini che con l’ausilio di respiratori dalla forma di otri, esplorano i fondali marini. Ritorna utile alla nostra ricerca, constatare che filosofi dello spessore di Platone si siano interessati al mito del continente Atlantideo, sprofondato nell’Oceano.
  2. OANES. Era considerato dai Babilonesi uno dei sette saggi. Secondo il mito raccontato dal sacerdote Berosso nel suo “Storia di Babilonia”, Oanes sarebbe stato colui che avrebbe portato la civiltà ai Babilonesi. La sua forma era mezza umana e mezza di pesce, a significare forse la sua capacità di dominare i mari. Oane (Oanes sarebbe la forma plurale) for di metafora, sarebbe stato un navigatore, al pari di Jano per i Romani, di Aztacoalt per gli Atzechi, tutti portatori di civiltà. Il nome, infatti, né indicherebbe tali caratteristiche essendo formato dall’unione del lessema Eau o Ea ( forse pronunciato O, come nella lingua francese) che in sumerico significava acqua (il dio sumerico Enki era infatti appellato Ea, acqua, e ach’egli era giunto dal mare), e Anes plurale di Ano avo, antenato. La leggenda babilonese segnala la presenza di più uomini pesce, Oanes. A Lepenski Vir, un antico villaggio del neolitico sul Danubio, in Serbia, sono state ritrovate molte statuine che rappresentano uomini pesce.
  3. ORACOLO. Il nome è formato dall’unione dei lessemi hör, ascolto e Kalla chiamare, evocare, calare nella accezione di fare discendere il divino. Con il termine oracolo dunque, si intendeva la capacità da parte del sacerdote, di saper ascoltare la voce del divino.
  4. ORAZIO. Quello di Orazio era un nome frequente nella società latina ed esso appare fin dal primo momento della fondazione di Roma, anzi è strettamente collegato ad essa al punto da far nascere un collegamento tra il nome della famiglia vittoriosa cui appartenne e la stessa sopravvivenza di Roma minacciata dagli Etruschi. Il nome risulta composto dall’unione del lessema hör con il significato di ascolto, ma si tratterebbe di un ascolto non dovuto a percezione sensoriale il cui organo recettore è l’orecchio materiale (or in tedesco), bensì di un ascolto del cuore o orecchio interiore, che si rifà a forme extrasensoriali di percezione, con il lessema akt che significa atto, azione. Dunque Orazio è colui che viene chiamato a compiere un atto sacro, sia pure nella forma di una apparente semplice orazione. Diciamo apparente poiché in chiave magico religiosa la parola rappresenta un atto di creazione. Non per nulla il vangelo di Giovanni inizia affermando che in origine vi era il “Verbo”.
  5. ORFEO. È il nome di un personaggio mitologico greco. Il nome risulta composto dal lessema hör con il significato di ascolto e dall’aggettivo Ve che in tedesco si pronuncia fe e significa sacro. Infatti Orfeo era un abile suonatore di lira con cui riusciva a incantate uomini e dei. In una rilettura laica del mito, Orfeo avrebbe il ruolo di uno sciamano capace di intraprendere viaggi estatici oltre la dimensione umana. Nel mito avrebbe compiuto un viaggio nell’aldilà per recuperare la defunta e tanto amata moglie Euridice. Orfeo significherebbe dunque, dal sacro ascolto.
  6. ORGIA.  Si fa derivare la voce orgia dal greco orghe’ che significa impeto, forse perché durante i riti dedicati a Bacco, il dio dell’ebrezza, si manifestava nei baccanti un incontrollato furore. A noi pare che il termine sia composto dal lessema hör che significa ascolto, nella sua accezione metafisica, e gehen andare, nel senso di abbandono, di un lasciarsi andare. Con il termine orgia dunque, dovette intendersi quell’atteggiamento sciamanico di una sacra frenesia, grazie alla quale ci si lasciava andare privi di controllo razionale; ci si lasciava rapire da forze primordiali per ritornare al caos indistinto, in cui tutto era confuso o, per meglio dire, fuso, unito, promiscuo.
  7. OSCI. Vedi la voce Etruschi.
  8. (h)ORUS. È il nome di una divinità egiziana. Formato dai lessemi hör udito e usa casa, che liberamente tradotto significa la casa dell’ascolto. È il caso di intrattenersi sul termine usa, casa, che designa il luogo stabile di una qualche percezione umana, ma anche sovrumana. In una commedia Plauto fa pronunciare una frase al padrone di casa, molto inerente al concetto che intendiamo chiarire. Rivolto al servo, Simone dice: “Fa in modo, Pseudolo, che la casa delle tue orecchie sia vuota e ascolta bene ciò che ti dico.
  9. ORVIETO. Il nome dell’antica città etrusca, sembra formato dall’unione dei lessemi Ör ascolto, con il prefisso sacro Ve. Pertanto il nome si riferiva ad un luogo in cui la voce del divino veniva udita da uomini dediti alla ricerca del sacro.
P
  1. PELASGO. I Pelasgi erano un antichissimo popolo. Vengono collocati dagli storici antichi in ogni luogo del Mediterraneo. Secondo Tucidide furono gli antichi abitatori di Atene. Alcune isole del Mar Mediterraneo appartenenti alla Sicilia portano il loro nome. Riteniamo che il nome sia formato dall’unione dei lessemi Bel signori, hass il nome della runa che indica la potenza della parola creatrice e gonne che significa protezione. Pertanto il Pelasgi era il Signore capace di proteggere con la forza della parola.
  2. PELORO. Con il nome di Capo Peloro si indica la punta estrema nord orientale della Sicilia, nel territorio di Messina. Qui si trova anche la catena montuosa dei Peloritani. Dione Cassio – Storia Romana, lib. XXXVII, 2- cita con questo nome un fiume che scorreva nei pressi del Bosforo. Nella legge di Grimm, in cui si fa riferimento alla legge della mutazione consonantica, si evince che la B sarebbe mutata in P. Dalla legge di Grim si ricava che la radice bel fa riferimento al Signore, (Bal) e alla possibilità che in questi alti monti della Sicilia orientale, l’ascolto (Ör) cioè la comunicazione tra l’orante e il Signore, sia facilitata dalle condizioni ambientali (vedi voce Peloritani). In Irlanda aveva particolare rinomanza la figura mitologica del re Balor (il Signore che sapeva ascoltare), padre della principessa Eithne. Si noti che i nomi di Balor, corrispondente in Sicilia al nome di Palici, Peloro, Belice etc. ed Etna o Eithne, sono presenti nell’isola con una frequenza inusitata, al punto che è stata avanzata l’ipotesi di una stretta parentela intercorsa tra Sicani e Celti, ipotesi che si basa anche sulla comunanza della lingua, della simbologia e della mitologia.
  3. PIRAMIDE. Il nome che indica queste imponenti strutture di pietra, contiene il lessema pyr che significa fuoco nella lingua greca, lingua di cui si servì lo storico greco Erodoto, vissuto nel V sec. a. C., per descrivere gli usi e i costumi della terra dei faraoni, terra che in parte egli visitò personalmente. Le tre piramidi contigue della pianura di Giza: Cheope, Kefren e Micerino, erano rivestite di una pietra detta di Tura la quale, colpita dal sole, ne riflettava la luce e il calore, effetto questo, che le consentiva di essere visibile da grandi distanze, forse anche dalla luna. Di conseguenza, la piramide così rivestita, doveva apparire all’osservatore come un grande, indistinto punto di luce, di calore e di fuoco. È plausibile che proprio da questo effetto ottico e termici essa derivasse il proprio nome. L’origine germanica del termine piramide e dunque quello di fuoco, è a nostro avviso deducibile, sintetizzando, dalla parola tedesca feur, fuoco. Poiche il lessema Ve si pronuncia in tedesco fe, e rappresenta un prefisso sacro anteposto al nome, il termine fuoco , feur, era composto dall’accostamento dei lessemi Ve e Ur. Il triangolo, cioè la piramide, segno di UR, del fuoco iniziatico, è entrato altresì a fare successivamente parte del simbolismo alchemico. Per gli individui che si muovevano tra gli alambicchi riscaldati dal perenne fuoco dei loro laboratori segreti, che si vantavano di aver appreso all’ombra dei papiri la loro segreta scienza, direttamente da Ermete Trismegisto, il triangolo isoscele con la punta rivolta in alto indicava il fuoco, mentre quello equilatero indicava la terra. Anche l’iconografia cristiana utilizzò tale simbolismo, basti fare riferimento al cuore di Gesù rappresentato nei dipinti, sormontato da una fiamma e da un triangolo con al vertice la croce. Il termine germanico feur, fuoco, tradotto verbum pro verbo, fornisce la seguente sequenza: sacro e primevo. Come sopra affermato il lessema ve, in tedesco si pronuncia fe da cui deriva il francese feu, fuoco. Nella lingua latina il nesso consonantico PH si pronuncia F. Per ciò che concerne la derivazione germanica della lingua latina, si è detto sufficientemente in molte altre occasioni per ripetersi in questa. Il lessema germanico feur, viene dunque trascritto pheur dai Latini e da loro pronunciato feur. Tuttavia, come si sia giunti al passaggio del lessema pheur di origine germanica alla trascrizione del vocabolo latino ignis per indicare il fuoco, sarebbe interessante indagare, ma non in questa sede. Infatti, in questo caso l’argomento dovrebbe scorrere carsicamente le perigliose vie dello spirito, nelle quali il movimento del feur germanico che brucia e dissolve, giunge ad essere fissato nell’ignis che, invece, immobile, nella profonda sede del cuore, riscalda e tempera (lo spirito). Un passaggio fonetico simile a quello che abbiamo indicato nella lingua latina dovette realizzarsi fra gli indoeuropei Micenei e i propri discendenti, i Greci, per giungere al lessema pyr. Tuttavia, siamo convinti che l’accorto lettore avrà certamente preso coscienza di una inevitabile forzatura che si sosterrebbe facendo derivare il vocabolo germanico veur/feur in quello greco di pyr e, dunque della improbabile trasformazione della F in P, sebbene la legge di Grimm potrebbe essere estesa, ma se si tiene conto del lunghissimo periodo trascorso tra la costruzione delle piramidi, il duemila e cinquecento a.C. per gli accademici ortodossi, il dodicimila a.C. per gli “eretici”, si può comprendere che nessun serio linguista al mondo potrebbe arrogarsi la certezza di aver potuto seguire le modalità della trasmutazione sillabica con cui una lingua inevitabilmente si modifica nel tempo. Sarebbe tedioso elencare i disaccordi in cui incorrono i linguisti, presi da diatribe interne, circa la pronuncia e il significato di alcuni vocaboli. Utile ci sembra invece, ricordare al lettore, che le lingue scritte, definite barbariche dai Greci, non possedevano le vocali e che in origine venivano omesse anche nella scrittura greca. Pertanto pyr veniva trascritto attraverso il nesso consonantico PR.
    Dal nostro punto di vista crediamo possibile di poter correggere le falle in cui si può incorrere utilizzando una singola disciplina scientifica, avvalendoci della multidisciplinarietà.
    Se, dunque, il primo conio del nome della struttura di pietra deve attribuirsi agli indoeuropei provenienti dal nord Europa in terra d’Egitto, che fuggivano il rigido clima polare, il termine piramide si sarebbe formato da una derivazione germanica della parola fuoco nell’accezione di energia, in quanto il calore è generato dal movimento. Pertanto la modificazione di veur/feur in pheur – pyr, porterebbe alla sequenza dei lessemi germanici; pyr-am-eid, ovvero fuoco (energia) -sopra-legame. Si deve dunque ritenere plausibile che la piramide, in qualche modo, fosse stata concepita per mantenere un legame tra il Cielo, sede degli dèi e Terra, sede degli uomini, in una accezione di vincolo sacro (Ve) tra due dimensioni diverse eppur contigue. Il faraone, a propria volta, assumeva il ruolo di trait d’union (Tutankamon, vedi voce) tra queste due dimensioni.
  4. PLUTONE. Era il re che sovrintendeva al regno dei morti. Nella città di Jerapolis, in Anatolia, gli veniva tributato un culto ctonio, probabilmente presso una grotta che sarebbe stata identificata dagli studiosi. Il nome del dio sarebbe formato dall’unione dei lessemi Blut sangue e one, privo, mancanza, assenza. Richiamando la legge di Grimm e della mutazione consonantica per cui la P è intercambiabile con la B, Blutone governerebbe su quelli che sono privi di sangue, i morti.
  5. POSEIDONE. Poseidone è il nome greco della divinità che presiede al controllo del mare. Il dio ha molti soprannomi: lo scuotitore della terra; il dio dalla capigliatura azzurra, ennosigeo (vedi voce) ed altri ancora. Nel destino del dio, che teneva moltissimo alla sacralità della parola data e ai giuramenti, vi era quello di incontrare puntualmente individui che, all’opposto, consideravano la parola data una semplice emissione d’aria attraverso la faringe. Uno dei celebri mancatori di parola nei confronti di Poseidone fu il re Laomedonte. Questi non mantenne la promessa di corrispondere al dio il giusto compenso per la realizzazione delle invalicabili mura di Troia. Un altro illustre spergiuro fu il semidio Minosse, suo nipote, figlio di Zeus e della regina Europa. Il re di Creta, dopo aver ricevuto uno splendido toro dal dio del mare col fine di sacrificarlo allo stesso al momento opportuno, venne meno al giuramento tenendo per sé il magnifico toro. Le esagerate reazioni del dio nei confronti del re di Troia e di Creta, dovettero rimanere fortemente impresse nell’immaginario collettivo dei posteri tanto da appellare il dio come colui che era “adirato per il giuramento non mantenuto” dalla controparte. Infatti l’appellativo Poseidone risulta formato dall’unione dei lessemi böse+eid+one (per la legge di Grimm sarebbe avvenuta la mutazione consonantica della b in p), che traducendo verbo pro verbum ci fornirebbe la sequenza dei lessemi, adirato+promessa+assenza o privazione. La libera interpretazione proposta è quella di arrabbiato per la promessa o il giuramento non mantenuto. Che il giuramento fosse vissuto dagli antichi come qualcosa che legava indissolubilmente due persone che venivano a patti, si evince nel lib. V, 180, dell’Odissea: “Ed è questo per gli dèi beati il gran giuramento e terribile”. Alla luce del passo citato, il vocabolo böse, cattivo, arrabbiato, può essere tradotto come terribile.
R
  1. RAFFAELE L’ARCANGELO.Il nome, composto dai lessemi Ref ed Hell, è un appellativo apposto all’arcangelo deputato ad accogliere le invocazioni dei malati. Il suo potere consiste nel guarire dai mali di cui chi lo evoca, soffre. Nella religione greca questo ufficio spettava al dio Apollo. Si sarà notato che entrambi i nomi di queste due entità, la cristiana da un lato, la pagana dall’altro, contengono il suffisso Hell. L’hell, nella mitologia norrena, prima che il cristianesimo operasse un sincretismo nei confronti del paganesimo nordico, al punto di travisare gli antichi significati del mito e dei luoghi, era il luogo compreso fra il Cielo e la Terra, lo spazio in cui circolavano libere energie extrafisiche, che uomini addestrati (sciamani, sacerdoti, maghi etc.) potevano captare e indirizzare in modo benefico. Con il termine Reff nella Lingua tedesca si indica la vela; questa ha la funzione di captare i venti, sfruttando dunque l’energia libera presente nello spazio (Hell).
  2. RASENNA. È il nome che gli Etruschi avevano dato a sé stessi. L’etimo potrebbe derivare dall’unione del termine germanico rahe antenna, pennone, con quello di ahne avi, antenati. Va infatti ricordato che una delle tre centurie di cavalieri istituite da Romolo dopo la fondazione dell’Urbe, che prendeva il suo nome, come afferma T. Livio, si chiamava Ramnense. Questo risulta formato da rahe e mn mente, intelligenza, memoria, ricordo. Dunque, con l’appellativo adottato da un categoria di etruschi che, probabilmente avevano un particolare ruolo sociale, i Rasenna, Rahe-es Ahne, si potrebbe aver fatto riferimento ad una categoria di individui che avrebbero posseduto la capacità di captare (rahe) i segni inviati dagli Avi (Ahne) attraverso la scienza dell’aruspicina
  3. RE. Vedasi voce ricco.
  4. RG-VEDA. Vedasi voce ricco.
  5. RICCO. Il significato italiano del lessema rich, di origine germanica, non diverge molto da quello rinvenibile nella lingua tedesca. Nella antica lingua germanica esso prevedeva una notevole gamma di sfumature, che andarono perdute nel periodo successivo a motivo del sopraggiungere di una sempre più accentuata divaricazione tra la dimensione del sacro e quella del profano. Rik o Rig, nella lingua parlata dai popoli del nord Europa, significava cerchio, anello, circolo. Il nome di persona Erik , En+rich o Her+Rik aveva il significato di il Signore del cerchio, il primo, il numero uno (EN), cioè colui che conduce, indirizza, dirige le forze racchiuse nel cerchio. Durante le adunanze si disponevano in cerchio i capi dei villaggi, che, in una prima fase delle antiche tradizioni indoeuropee, coincidevano con i più anziani, i saggi. I capi disposti in cerchio, evocavano gli dèi affinché questi partecipassero al consesso, o comunque ispirassero con la loro presenza i partecipanti perché prendessero le giuste decisioni per il bene della comunità. Il cerchio, di conseguenza, si caricava di potenti energie che risultavano pericolose per chi rimaneva fuori dal cerchio e protettrici per chi era all’interno di esso. Le costruzioni architettoniche che dovevano essere utilizzate per l’evocazione del sacro, o per ospitarlo, avevano dunque forma circolare in quanto ogni elemento del circolo doveva trovarsi equidistante dal centro in cui risiedeva la forza manifestata. Anche le prime città indoeuropee, come si evince dagli scavi archeologici che hanno fatto emergere la cerchia delle mura della città di Ebla in Siria, e la forma circolare del mundus a Roma, dovettero essere costruite all’interno di un muro circolare.L’Her+Rik, il signore del cerchio, il primus Inter pares tra i partecipanti al rito magico, divenne comunque designato come colui che aveva il compito di comunicare col divino a nome di tutti i partecipanti se non del popolo tutto, e il suo appellativo divenne sinonimo di pienezza e per metonimia di ricchezza poiché in lui confluivano i benefici elargiti dagli dèi. Successivamente il termine divenne sinonimo di re: Rex in latino, rajan in sanscrito, reiks in gotico. Dunque con il termine rix o Rig, si soleva indicare il sovrano consacrato, colui nel quale confluivano il potere politico e quello religioso, mentre con l’appellativo ancora in uso nella lingua tedesca per indicare il regnante, König (Konung nella lingua norrena), derivante da kuhn vacca, si indicava il capo politico, letteralmente il mandriano, con metaforico riferimento al capo popolo. Circa la sacralità attribuita al cerchio, essa è rinvenibile ancora nel rito del matrimonio, nel momento in cui l’unione tra gli sposi viene sancita attraverso l’inserimento nel dito anulare della fede o anello nuziale. L’anello unisce gli sposi nelle due dimensioni di sacro e profano. Per molto tempo, infatti, la famiglia, in cui marito e moglie erano equiparabili al sacerdote e alla sacerdotessa, venne considerata come un mondo invalicabile nel quale nessuno poteva interferire, neanche il re; fu soltanto durante il principato di Augusto che a Roma vennero introdotte leggi invasive nella vita familiare con grande indignazione dei Patres. Un altro esempio di associazione del cerchio al sacro, si ritrova nel titolo dato ad uno dei quattro libri Veda, il Rig-Veda, formato dai lessemi rig cerchio, Ve sacro e da con il significato di qui (in questo libro) nella accezione di immanenza.
  6.  ROMA. È il nome della capitale d’Italia, fondata secondo la vulgata, il 21 Aprile del 753 a.C. Era convinzione di alcuni intellettuali dell’epoca augustea, quali Plinio per i Latini, Aristide e Plutarco per i Greci e molti altri, che la fondazione della città avesse origine divina e che fosse stata creata per essere da guida ai popoli della terra. Su questa base si è poggiata l’ipotesi di studio secondo la quale il nome celato di Roma possa essere quello di Amor, cioè il nome di Roma letto da destra verso sinistra, che era la direzione della scrittura dei popoli prima che i Greci ne invertissero la direzione, cioè in senso orario, adottata ancora oggi.
    La pratica magica, praticata in alcuni ambienti della società di tanti popoli antichi, fra cui i Latini e successivamente i Romani, si basava sulla convinzione che tenere nascosto il primo nome di un uomo o della città patria, salvaguardasse dai danni di eventuali pratiche magiche ostili, tanto da condannare a morte chi avesse osato rivelarlo.
    Tale cruenta precauzione, risulta plausibile con l’ipotesi avanzata da studiosi di esoterismo, secondo la quale in epoche remote, il rito, lo sciamanesimo, il sacerdozio, il simbolismo, l’alchimia, in una parola quella metafisica che tutte queste pratiche contempla, fosse alla base della cultura antica e della operatività di quelle antiche genti. La tesi verrebbe corroborata dalla ritualità con la quale si presiedeva alla fondazione di una città. Da questa emerge come l’uomo tradizionale credesse all’innesto del divino con l’umano attraverso la pratica dell’Evocatio. Se così viene dunque concepito quel mondo tradizionale, non meraviglierebbe se ogni atto creativo di quella cultura portasse seco un programma e un fine. Stando alla interpretazione metafisica della fondazione dell’Urbe, l’obiettivo che la nascita di Roma/Amor si poneva, consisteva nel cambio di paradigma fino ad allora presente in una società entrata in distonia con gli intenti del suo o suoi creatori. Per raggiungere il fine, bisognava creare un homo novus, portatore di frequenze armoniche, in sintonia con il “battito del cuore” dell’universo, frequenze che verrebbero create attraverso il sentimento dell’ Amor. Va notato che la fondazione di Roma descritta da Plutarco nella Vita di Romolo, mette in evidenza non solo la complessa parte rituale che accompagna la fondazione, ma il ruolo sacerdotale del fondatore che, con il suo carisma imprime una svolta alla società che sarebbe sorta entro il sacro perimetro della nuova città. La posizione altamente carismatica e, se vogliamo dirla in termini alchemici, l’opera in bianco che sta alla base della fondazione di Roma, viene completata dal secondo re, Numa, al quale si è concordi nell’attribuire caratteristiche sacerdotali; egli avrebbe fornito agli eredi che si sarebbero succeduti nella doppia veste di re e sacerdote, diciamo così, “l’alambicco”, l’ atanor, la pietra filosofale affinché l’opera al bianco potesse continuare nel tempo e che avrebbe agito a prescindere dalle reali capacità dell’alchimista; insomma, Numa avrebbe creato un meccanismo capace di riprodursi da sé, cioè autopoietico.
    Che a Roma venisse praticata collateralmente alla religione ufficiale la tradizione magica, grazie a operatori “non ufficiali”, lo dimostrerebbe la discussa presenza di personaggi come Virgilio e Apuleio, additati dai loro contemporanei come non estranei ad ambienti in cui le antiche credenze non erano andate in disuso. Gli studiosi di esoterismo che sostengono la tesi secondo cui a Roma vi sarebbero stati fin dalla prima ora “alchimisti” o maghi che chiamar si vogliano, verrebbe tessuta sulla base etimologica ricavata dal nome della prima, per importanza, città latina di cui Roma/Amor sarebbe una costola: Alba Longa. Nel significato del nome alba, gli studiosi di esoterismo hanno visto la consapevolezza da parte degli ecisti, di quello che sarebbe stato un inizio sotto l’insegna e gli auspici della luce, rendendo l’idea di quella opera positiva che dai futuri alchimisti verrà indicata come al bianco, in contrapposizione alla magia nera o opera al nero attuata da individui guidati da forze disgregatrici. Continuando con le interpretazioni fornite in ambito esoterico, il passaggio del testimone da Alba Longa a Roma viene paragonato dagli esoteristi al passaggio delle consegne che Giovanni il Battista avrebbe attuato nei confronti di Gesù, facendo seguire le parole: “È bene che io diminuisca perché Lui cresca”.
    Continuando in una lettura su base alchemica, gli esoteristi suppongono che, come un alchimista utilizzerebbe il simbolismo dei metalli per intraprendere l’opera, gli operatori del sacro o della magia, secondo il punto di vista o il lessico preferito dall’osservatore, a Roma abbiano coniato un lessico che non trova la medesima profondità semantica nel corrispettivo italiano quale cumpassio (compassione), justitia, aequitas, providentia, perché potesse risuonare una frequenza empatica con il suono emesso dal cuore dell’universo.
S
  1. SACERDOTE. Il Sacerdote è colui che attualizza il sacro. Il termine sacro entra dunque di diritto a far parte dell’etimo e i linguisti lo derivano da sacer. Poiché noi riteniamo essere germaniche le radici romane e della lingua latina, come abbiamo affermato in più occasioni (il rito druidico della fondazione di Roma, così come raccontato da Plutarco, la grammatica della lingua latina etc.) riteniamo che l’etimo sacerdote sia formato dall’accostamento del verbo sa’, conosciuto e Kern, nocciolo, centro, nucleo. Il termine indicherebbe l’individuo che possiede la conoscenza, conoscenza delle cose sacre che gli consente di poter mediare con il divino.
  2. SAGA. Dal verbo tedesco sagen dire, raccontare. Utilizzando questo sostantivo si vuole dare l’idea di trattare la storia romanzata di un popolo o di un personaggio. Le saghe hanno una origine nordica e il sostantivo deriva dal verbo tedesco sagen con il significato di dire, raccontare. Nelle corti medioevali gli Skaldi, equivalenti dell’ Aedo greco, erano incaricati di tramandare le saghe.
  3. SATURNO. Mitica divinità del Lazio (Virgilio Aen. IV, 6-6,41-XI,252). Il nome risulta formato dall’accostamento del lessema sat con il significato di sazio, abbondante, pieno e Ur che significa antico, primordiale. All’epoca di Saturno si faceva risalire la prima delle quattro età, quella aurea della pienezza e dell’abbondanza (Satya-yuga in sanscrito). Sarebbero seguite l’era dell’argento, del bronzo e del ferro. Varrone fa derivare il nome della divinità da ab Satus con cui si indica l’azione del seminare. Da un abbondante raccolto deriverebbe perciò, uno stato di certezza, di prosperità e felicità. L’Italia, come riporta Virgilio, prese il nome della divinità chiamandosi Saturnia Tellus. Dionigi di Alicarnasso conferma quanto asserito da Virgilio sostenendo che tutta l’Italia era sacra a questo nume. Gli storici antichi facevano derivare il toponimo Lazio, regione in cui Saturno era stato accolto dal dio Giano, dal verbo nascondere, mettersi da parte, latere appunto. Infatti nel Lazio si era nascosto Saturno che fuggiva da Giove. Si dovrebbe dare credito a quanto sostenuto dagli storici circa il significato del toponimo poiché anche Leto, la giovane madre mortale del dio Apollo, che fece perdere la testa all’incontinente Zeus, dovette nascondersi a Delo per sfuggire alle ire della gelosa Era. Leto, o Latona significherebbe dunque, la nascosta. Ancora, Lete era la fonte alla quale le anime che intendevano reincarnarsi bevevano per dimenticare; chi si nasconde lo fa nel tentativo di far perdere memoria di sé.
  4. SCELLERATO. Fu detta via scellerata quella in cui il re Servio Tullio fu gettato dal genero e sul cui corpo, la figlia Tullia, fece passare la propria biga in corsa. Il nome risulta formato da scee – sinistro, hell, spazio nell’accezione di sovrumano essendo l’hell nella mitologia germanica lo spazio tra cielo e terra dove albergano forze extrafisiche, e rat, consiglio. Lo scellerato è, dunque, come si evince dalla storia di Servio Tullio, colui che è attratto da un irrefrenabile istinto a seguire un impulso (rat) che proviene da entità superiori alle quali non si è in grado di resistere.
  5. SCETTICO. Lo scettico è colui che non ritiene possibile il verificarsi di azioni che per il suo metro di valutazione hanno del paradossale. Il vocabolo risulta formato dall’unione del lessema scee sinistro e akt atto, azione.
  6. SCEVOLA. È il soprannome apposto a Caio Mutio Cordio, un valoroso soldato romano, dopo che questi, avendo mancato di uccidere il re etrusco Porsenna scambiato con un servo, brucio sul braciere la propria destra rimanendo mancino. Scevola significa dunque mancino e scea veniva detta la porta della città di Arpinio, nei pressi di Roma, trovandosi posta alla sinistra delle mura.
  7. SELLI. È il nome dei sacerdoti di Zeus del santuario di Dodona (Iliade XVI, 235: “Profeti dai piedi sporchi, che dormono in terra”). Il significato del loro nome è rinvenibile nel ruolo da essi svolto come interpreti della volontà del Dio, il quale parlava a loro attraverso il rumore delle foglie della quercia mosse dal vento. Pertanto l’etimo risulta formato dai lessemi sa sapere, conoscenza, vedere, dal verbo tedesco sehen, e Hell con il quale si indicava lo spazio che sta tra il cielo e la terra. È probabile che Akille, rivolgendosi a Zeus dodoneo nel formulare il suo voto dopo la morte di Patroclo, fosse stato iniziato, come si deduce dal suo nome, da questi sacerdoti ai misteri (vedi voce Akille). Per i romani gli equivalenti dei sacerdoti Selli, erano i Sali, introdotti da Numa Pompilio secondo re di Roma.
  8. SICULO. Il nome risulta formato dal pronome riflessivo sich, sé , se stesso, attraverso il quale si intendeva sottolineare la stretta unione che il mandriano aveva con l’animale (la mucca, kuh in tedesco), da lui accudito, fonte di benessere e prosperità (nell’Avesta, il libro sacro dei Parsi, Zarathustra augura al re di ottenere molte mandrie). La medesima stretta identificazione avveniva per gli Sciiti e gli Unni con i loro cavalli, che non abbandonavano per nessuna ragione. Nell’immaginario collettivo questi indomiti cavalieri esotici, mangiavano e dormivano in groppa ai loro cavalli. Dunque i Siculi erano definiti i mandriani. Infatti, tra i popoli del mare, di cui facevano parte, essi vengono raffigurati nel tempio di Karnak, in Egitto, con un carro trainato da buoi. In senso metaforico, i re germanici furono definiti mandriani, in quanto erano chiamati a guidare popoli, perciò il re prese il nome di Konung, il mandriano. Se volessimo tracciare un parallelismo con le tribù di Israele, potremmo affermare che la tribù dei Siculi stava a quella di Giuda come quella dei Sicani (vedi voce sul glossario di miti3000.eu Pag. 159) stava a quella dei Leviti. Dalla prima provenivano i re, dalla seconda i sacerdoti.
  9. SIMBOLO. Secondo la vulgata, il termine simbolo dovrebbe derivare dal greco e sarebbe formato dall’unione dei lessemi syn e belein. Volendo fornire una alternativa interpretativa del lessema, si afferma che il termine possa derivare dall’unione dei lessemi germanici Sinn senso, sentimento, conoscenza e Bal signore. Il simbolo, seguendo quest’ultima etimologia, rappresenterebbe il linguaggio del divino, la modalità attraverso la quale il divino comunica alla parte immateriale, dell’uomo. Questo silenzioso linguaggio, proferito attraverso la visione del simbolo,, si baserebbe sulla intuizione, non sulla vibrazione prodotta dalle corde vocali con produzione di suono, ma da un indefinibile moto interiore che rivelerebbe un determinato significato, una conoscenza attraverso la muta percezione e/o intuizione.

T

  1. TAGES. È il nome del fanciullo che, secondo il mito etrusco, era nato dalla terra. L’infante avrebbe insegnato agli Etruschi molte delle loro arti. Il nome del fanciullo, nella lingua tedesca, ma anche in quella latina secondo la “lectio restituita”, scuola che si occupa del tentativo di restituire la pronuncia classica del latino, verrebbe pronunciato taghes. L’etimo, nella lingua tedesca, significa giorno. Non si può nascondere il sospetto, che nel mito etrusco si celasse, attraverso l’utilizzo letterario della metafora, il racconto di un cambiamento culturale apportato da una civiltà superiore dalla quale, gli Etruschi, in tempi mitici, avrebbero appreso le arti.
  2. TANAQUILLA. Era la moglie del futuro re di Roma Tarquinio Prisco. Era una ricchissima aristocratica etrusca. Il suo nome riconduce all’attributo ittita di Tawananna (vedi voce Anna Perenna) per indicare la regina madre. Il radicale Ana contenuto nel nome suggerisce che quello di Tanaquilla sia un attributo che caratterizza un aspetto della donna. Qual, nella lingua tedesca significa tormento. Nel mito che la riguarda, la regina appare un tipo tutt’altro che tranquillo.
  3. TARPEIA. È il nome della donna romana che venne corrotta dai Sabini, affinché aprisse le porte dell’Urbe assediata. Il nome è formato dall’unione dei lessemi tarn e peur. Tarn significa celato, nascosto; peur che significa fuoco, viene pronunciato nella lingua tedesca feur. Ebbene, la donna era una vestale, cioè una delle sacerdotessa deputate a custodire il fuoco sacro che rimaneva sempre acceso nel tempio di Vesta. L’appellativo apposto alla donna indicherebbe perciò, il fatto che essa celasse un fuoco interiore, infausto e contrario a quello che avrebbe dovuto custodire per il bene della Patria e che si manifestò attraverso il tradimento.
  4. TEUTO. È un nome proprio di persona. Si è però notato che si trova spesso, con le dovute varianti della lingua locale, a indicare re e governanti; Teuta regina dell’Illiria; Teutomato, re dei galli allobrogi, etc. È probabile che il nome sia stato in origine un appellativo che indicava il capo del popolo (Teutone?) . Infatti in sanscrito Touto significa popolo. Con il nome di Tuata de Dana si indicava il popolo della dea irlandese Dana. Nella epigrafe anellenica incisa in una stele di calcare ritrovata nei pressi della città di Adrano, in Sicilia, si legge chiaramente il lessema Touto. Recenti studi di ricercatori, hanno attribuito il su detto nome al principe di Innessa di cui parla Polieno nel suo trattato Stratagemmi. La città di Innessa, che successivamente, stando a Diodoro siculo, cambiò nome in Etna, è stata identificata dai ricercatori, con l’odierna città di Adrano.
  5. THUTMOSE. Nome appartenuto a tre faraoni vissuti a metà del II millennio a.C. Il nome Thutmose, risulta formato dall’unione dei lessemi tut, agire e maß misura, nell’accezione di equilibrio, di giusta misura, di agire nel modo corretto. Tenendo dunque conto che nella scelta del nome vi era implicito un programma, o un progetto da perseguire, esattamente come avviene per i papi della chiesa cristiana (nella scelta del nome Francesco si nasconde la volontà o il programma, in colui che lo assume, di ricondurre l’istituto alla primitiva povertà). I faraoni che scelsero di adottare il nome di Thutmose, miravano perciò, attraverso le loro opere ed azioni, a ristabilire o mantenere l’armonia, l’equilibrio, quello stesso ordine che gli dèi, quando governavano l’Egitto, avevano stabilito per il popolo egiziano. Che al lessema maß si debba attribuire il significato di misura, equilibrio, lo si deduce dal corrispettivo persiano Haura Mazda (vedi voce), la divinità definita da Zarathustra dio della misura (Il paganesimo di Gesù miti3000.eu). Infatti, il faraone Thutmose I salì al regno in un momento in cui l’Egitto era scosso da una serie di sedizioni dei popoli annessi. Il primo atto del Nostro, fu proprio quello di riportare l’ordine nel regno, come si evince dall’elenco dei popoli soggiogati trascritto nella stele rinvenuta presso Tombos. Il figlio Thutmose II, appena salito al trono, dovette reprimere anch’egli le sedizioni riprese in Nubia. Thutmose III non fu meno impegnato dei suoi predecessori a reggere l’equilibrio minato da un nuovo popolo apparso nei suoi confini, i Mitanni, i Mit-Ahne, i parenti, letteralmente quelli che si accompagnano agli Avi (vedi voce).
  6. TUSCI. È il nome con cui venivano chiamati gli Etruschi (T. Livio Ab Urbe condita). Il suffisso scee significa sinistro, mancino appellativo dato a Marco Muzio dopo che questi pose, rendendolo inutilizzabile alle armi, il suo braccio destro sulla brace, in seguito al suo fallimento dell’assassinio del re etrusco Porsenna. Ad Arpino, città non distante dai confini etruschi come li conosciamo in età storica, probabilmente più vasti in età pre storica, vi è una porta scea nelle antiche mura di cinta, così come una ve ne era a Troia la città sullo stretto dei Dardanelli che si vorrebbe essere stata fondata da Dardano proveniente dall’Etruria. Il suffisso sce si trova anche nel nome del popolo dei Volsci che secondo la modalità interpretativa da noi messa in atto, significherebbe il popolo sinistro, da volk popolo e sce sinistro. Volsci e Tusci dovettero rappresentare due rami del medesimo tronco.
  7. TUTANKHAMON.È il nome con cui è conosciuto l’erede del faraone Akhenaton, nonostante il suo vero appellativo fosse quello di Tutankhaton. Ebbe breve vita (1341 a.C. circa –1323 a.C. circa), per questo viene soprannominato il faraone bambino. Il nome risulta composto dall’unione dei lessemi Tut -An-Kam o ton se il riferimento è il nome precedente. Traducendo i lessemi verbum pro verbo, si ottiene la seguente sequenza: agire-cielo/avo-viene. È possibile ravvisare nel nome del faraone l’auspicio che egli, ancora giovinetto, al contrario del padre Akhenaton, considerato eretico dalla casta sacerdotale, divenisse, secondo le intenzioni della medesima casta sacerdotale, il vero vicario dell’Avo divinizzato (Anu) e agisse (taten) per ordine del Cielo e in sintonia coi dettami dell’Avo ( Cielo è sinonimo di Avo, An). In effetti, la prima azione compiuta dal faraone, o dai suoi tutori, i sacerdoti, una volta asceso al trono, fu quella di ripristinare l’antica religione politeista ridotta dal padre in monoteismo.

U

  1. UMBRIA. È il nome di una regione italiana. Ombros in greco. Umbras è la parola latina con cui Virgilio conclude l’Eneide, intendendo riferirsi al regno delle ombre o dei morti. La parola ombra riconduce anche al concetto di mistero, di qualcosa che rimane celato o visibile soltanto se ricercato, scrutato con la necessaria attenzione.
  2. UNI. È il nome di una divinità etrusca, l’equivalente della latina Giunone. Nella lingua tedesca il lessema un indica privazione, mancanza, assenza ma anche eccesso. Nella lingua tedesca, con l’espressione Un’abänderlichkeit si intende indicare l’immutabilita’, l’invariabilita’. Con riferimento alla lingua tedesca con il nome Unhold si indica lo stregone, lo spirito maligno, un essere malvagio. L’ipotesi interpretativa che maggiormente si presta, è quella di ritenere che l’appellativo Un fosse stato apposto alla dea che esprimeva un concetto di immutabilita’, o ciclicità degli eventi.
  3. UPPSALA. È il nome di una città della Svezia. Anticamente era la capitale del culto pagano – ancora oggi rappresenta l’area scandinava in cui vi è il più alto concentramento di pietre runiche- e proprio in questo luogo si trovava il tempio dedicato alla triade divina Odino, Thor, Freja. I re eletti dal popolo vi si recavano per essere incoronati e acclamati. Il nome della città è composto dal lessema ab (secondo la legge della mutazione consonantica proposta da Grimm, la B sarebbe stata pronunciata P) che indica provenienza, sottrazione, da sa, voce del verbo sehen, vedere, e alla che significa sia tutto che sala, grande stanza, un luogo molto spazioso. Il nome del luogo sacro, liberamente tradotto, significherebbe dunque, il luogo dove è depositata ogni conoscenza. Infatti, essendovi a Upsala il santuario in cui si svolgeva il culto nazionale, quest’ultimo doveva anche ospitare la casta sacerdotale detentrice del sapere. Il significato del nome che lo indica come luogo di deliberazione è depositario di conoscenze, sembra essere ancora giustificato dal fatto che una volta l’anno, tutte le tribù scandinave, si riunivano nella prateria di More’ per deliberare una politica comune sotto la vigile mediazione di un sacerdote Druida, prassi resistita fino alla cristianizzazione della Svezia avvenuta intorno all’XI sec. In questa occasione si svolgeva una una cerimonia religiosa nota come Dísablót.
  4. URLO. La radice Ur che forma il lemma, nella lingua germanica significa antico, primordiale. Nel caso in questione, l’etimo riconduce all’idea di una emanazione, di una liberazione di forze interiori represse verso l’esterno grazie ad un atto di espulsione vocale. L’urlo, oltre che rappresentare un atto spontaneo, liberatorio di tensioni interne, viene consciamente e sapientemente utilizzato come arma atta a terrorizzare il nemico. Tacito racconta infatti che, i Germani, scendendo in massa sul campo di battaglia, emanavano urla con tale potenza, che atterrivano le legioni. Quanto affermato da Tacito induce ad ipotizzare che il lemma sia formato dall’accostamento del lessema Ur a quello di alla, che significa tutti immaginando, stando a Tacito, una marea di individui che si riversa sulle legioni come un’onda sullo scoglio. Nel mito greco, il dio della natura Pan, libera Zeus dalla prigionia della mostruosa Delfine, emettendo un urlo che spaventa Delfine la quale, terrorizzata, fugge abbandonando il ruolo di carceraria. L’urlo viene emesso anche per manifestare l’atto di dominio su qualcosa o da chi reclama la propria sovranità. L’urlo rappresenta dunque la volontà 1di dominio del più forte, e, più potente è l’urlo emesso, maggiori sono le possibilità di imporsi.
V
  1. VEGONIA. È il nome della profetessa che ha rivelato agli Etruschi come interpretare il volere degli dèi, manifestato attraverso le folgori. Il suo nome deriverebbe però dal suo insegnamento sul come dividere i campi e contrassegnare i limiti; questi avrebbero assunto una valenza sacrale. Del libro che conteneva le raccomandazioni della profetessa, consegnato secondo la tradizione al re etrusco Arunte di Chiusi, ci sono pervenuti soltanto pochi frammenti. In uno di questi si legge: “Sappi che il Cielo è stato separato dalla Terra”, il frammento continua sostenendo che Giove aveva costituito i confini per le proprietà e chi li avesse spostati ne avrebbe pagato le conseguenze. A noi pare che il linguaggio metaforico della Sibilla facesse riferimento ai confini che dividevano il Cielo dalla Terra, l’elemento fisico dal metafisico, e che i confini da non intaccare cui ci si riferiva, erano quelli della tradizione atavica. Non bisognava cioè spostare i confini tra sacro, il Cielo, e il profano, la Terra. Il nome della Sibilla dunque, si riferirebbe al ruolo di garante che essa svolgeva, e sarebbe composto da Ve sacro e gonnen protezione nell’accezione di confine, recinto sacro invalicabile.
  2. VEIO. È il nome di una città etrusca al confine con il Lazio. Naturalmente i confini delle regioni italiane non erano i medesimi di oggi in tempi che sfuggono alla storia. Tra l’altro sappiamo quanto composita fosse la popolazione dell’Italia centrale prima della fondazione di Roma e fino a quando l’Urbe non unificò la penisola. L’assonanza del nome della città etrusca, con l’antica patria dei Persiani, Vaeja, cui fa riferimento Zarathustra nell’Avesta, ci permette di collegare al nostro studio la presenza di Germani in Persia al tempo di Ciro, come riporta Erodoto nella sua storia. In quel periodo nell’Italia centrale erano stanziati Sicani, Boi, Rutuli etc. , popoli, questi, germanici. Il nome della città risulta formato dall’accostamento dei lessemi Ve, sacro e jah, intuitivo, veloce, repentino rimandando all’idea di un luogo dove la presenza del divino è percepita rapidamente. Questo è il medesimo senso che Zarathustra nell’Avesta dava alla Vaeja, descrivendola come un paradiso terrestre da cui furono costretti ad emigrare, poiché il dio malvagio Angra Mainyu l’aveva sepolta in una “coltre di ghiaccio”. L’aggettivo jah intuitivo, repentino, caratterizza l’avo (Ano) dei Sicani del Lazio jah-Ano (Giano). Ancora nell’Avesta, il defunto, sottoposto alle prove dell’aldilà, doveva dare prova di possedere forza e abilità (jah).
  3.  VERBO. Il termine verbo risulta formato dal prefisso sacro Ve (v. voce, miti3000.eu) e Bö. Con il termine Böen, nella lingua tedesca si indica una folata di vento improvviso e di breve durata, spesso accompagnato da grandine e/o pioggia. Con l’appellativo Böanerges (v. voce, miti3000.eu) venivano indicati gli apostoli Giacomo e Giovanni (v. voce). Il Vangelo di Giovanni dà ampia risonanza al termine tanto da identificare il Verbo con Dio. Pertanto si ritiene plausibile l’interpretazione del termine verbo, secondo la quale si indichi l’atto sacro del Pronunciamento, che determina la materializzazione e la comprensione di un pensiero astratto che altrimenti sarebbe rimasto inintelligibile.
  4. VERONA. È il nome di una città italiana che fa parte della regione Veneto. Il prefisso sacro Ve tradisce le origini galliche del toponimo. Verona potrebbe essere stata la città scelta come capitale religiosa o del sapere, dalla casta sacerdotale dei Druidi a cui spettava il compito di interpretare il significato delle sacre rune: Ve-runa.
    Una ipotesi interpretativa alternativa a quella formulata, del nome Verona, potrebbe collegarsi al fiume che l’attraversa, l’Adige. Infatti con il termine Vara veniva indicato il corso di un fiume o in genere, le acque fluenti, comprese le fonti. È del resto notorio che i vichinghi svedesi venivano appellati vareghi, ovvero coloro che ‘vanno’ (gehen) sulle acque (Vara). Varuna, molto affine a quello della nostra città, era il nome della divinità delle acque che faceva parte del pantheon vedico. I Veda sono dei libri complementari all’Avesta, ora, nell’Avesta – Fargard I-, il libro sacro degli Irani, non sfugge la presenza del toponimo Varenna. Questo è il nome di una delle sedici terre create da Ahura Mazda, il dio persiano di Zarathustra. Erodoto, al tempo di Ciro (VI sec. a.C), individua in Persia, tra le tribù sottoposte al re, la presenza di quella dei Germani. Questa tribù germanica, affermatasi in Persia, avrebbe ben potuto essere quella che avrebbe coniato molti dei nomi germanici ivi presenti. Ancora nell’Avesta, Zarathustra, che ne compilo’ una parte, afferma che Ahura Mazda ordino a Yma, l’uomo scampato alla glaciazione della patria ariana, di creare un recinto, un Vara (una terra circondata da acqua?), dove condurre i sopravvissuti alla glaciazione. La cittadella sacra di Ur, in Mesopotamia, era costituita da una serie di edifici Templari eretti all’interno delle mura ed era circondata da un canale di acqua che fungeva da recinto. La città di Ur venne fondata intorno al IV millennio a.C.                          Riassumendo quanto sin qui esposto, dunque, Verona potrebbe indicare un luogo naturalmente recintato dallo scorrere delle acque del fiume, sia un luogo frequentato dai Druidi deputati alla interpretazione delle sacre rune.
  5. VIRTÙ. Virtus in latino. L’aggettivo risulta formato dall’unione del lessema Ve, sacro e usa, casa (vedi la voce casa).
  6. VOLSCI. Vedi voce Tusci.
Z
  1. ZEUS.Mitica divinità greca, padre degli dèi. La sua dimora è l’Olimpo, un immaginario luogo collocato nel cielo di cui il Nostro è sovrano incontrastato. Nel mito biblico viene affermato che i figli degli dèi si unirono alle figlie degli uomini, abbandonando così la propria dimora, che era il cielo, per abitare sulla terra assieme alle donne, divenute le proprie compagne. Scegliendo di abbandonare il cielo per la terra, gli dèi, appellati nell’Antico Testamento – Salmi 82,1- Elohim cioè abitanti di Hell (vedi voce), persero l’immortalità.
    È perciò plausibile che i figli degli dèi, gli Elohim, nome ebraico corrispondente ai mesopotamici Annunaki, la cui patria d’origine, come detto, era il cielo, abitando sulla terra, con il termine Zeus intendessero indicare, non senza un pizzico di nostalgia, la patria d’origine abitata dai propri Avi, gli immortali dèi. Infatti, il nome della maggiore divinità del pantheon greco, Zeus, risulta formato dall’unione dei lessemi zu, che significa verso, in direzione di, e hus (svedese hus; tedesco haus; dialetto del cantone Grigione usa etc.) che significa casa, dimora, patria. Pertanto zu+hus, la via verso casa, personificata in seguito dai poeti nel padre degli dèi, dovette nostalgicamente esprime l’antico ricordo di una perduta via “verso casa”, di una dimora abbandonata a cui gli uomini, discendenti degli dèi, ambiscono pur sempre fare ritorno.

E Catania divenne una costola della vetusta città dell’Avo.

Il nostro lettore, abituato ormai alle ricerche border line che temerariamente esponiamo a chi ci segue da anni, non si stupirà di quanto verrà affermato nell’esposizione che segue. La città ove venne innalzata l’ara dedicata all’avo della stirpe sicula, Adrano, è la più antica della Sicilia e la città di Catania la ebbe quale modello e riferimento religioso, culturale e mitologico, tanto da mutare, in un particolare momento storico, il proprio nome in quello di Etna, già appartenuto alla città sede dell’Avo, come meglio esporremo più avanti.

Maggiore vetustà delle città dell’entroterra rispetto alle città costiere.

Come viene continuamente confermato dagli studiosi, dai ritrovamenti archeologici e da noi accennato nell’articolo “I Feaci”, il vulcano siciliano, intorno al IV millennio a. C., implose. In parte sprofondando a formare l’odierna Valle del Bove e in parte scivolando sul mare, provocò delle onde così alte da sommergere le coste e le città del Mediterraneo che erano state edificate in prossimità della costa. Atlit Yam, che ora giace sotto la sabbia in fondo al mare egiziano, è una di queste. Imparata la lezione, che non era stata l’unica né la prima inflitta agli abitatori della costa siciliana, i quali, durante i periodi di glaciazione e interglaciazione susseguitisi nei millenni, avevano osservato salire e poi ridiscendere il livello del mare, gli abitanti dell’isola, i Sicani, da quel momento costruirono le loro città all’interno dell’aurea isola di Sicania, sugli alti colli, come afferma Diodoro siculo e come confermano i reperti archeologici ivi rinvenuti. Il territorio adranita in particolare, ha restituito, nei circa dodici villaggi che lo ricoprivano, reperti archeologici datati a partire dal 7.000 a.C., come abbiamo argomentato nell’articolo “Adrano, il pagus e il territorio”. I su detti villaggi, a partire dalla media età del bronzo, vennero abbandonati dai loro allarmati abitanti. Questi ritennero più sicuro, a ragione, di trasferirsi nell’unico villaggio fortificato con poderose mura ciclopiche, centro cultuale della stirpe sicana. In questo villaggio, abitato esclusivamente da “adranitani” ovvero i sacerdoti di Ano, l’avo, veniva praticato il culto nei confronti dell’ avo divinizzato Adrano, il primo uomo, il capo della stirpe dei Sicani che riuscì, attraverso il superamento di prove al lui imposte dagli dèi, ad ascendere e a loro rendersi simile. Per comprendere il motivo per cui i sapienti sacerdoti “adranitani”, comparabili alla casta sacerdotale degli annunaki sumeri e ai druidi celti, scelsero il sito dell’attuale città di Adrano (nel tempo, la città dell’Avo avrebbe subito diverse rinominazioni) per edificare il tempio più importante della Sicilia, sede di pellegrinaggio da parte degli abitanti dell’isola, rimandiamo chi desiderasse saperne di più alle tesi esposte nell’articolo citato.

La nascita delle città portuali.

Quando i villaggi dell’interno dell’isola progredirono demograficamente e i commerci aumentarono notevolmente, negli anfratti costieri, dove prima vi era un semplice approdo per le barche che solcavano i navigabili fiumi dell’entroterra fino al mare aperto, come si evince ancora in epoca romana in cui Cicerone nelle verrine afferma che la nave dei Centuripini era la più veloce – Centuripe è una città dell’entroterra sotto la quale confluiscono i fiumi Salso e Simeto -, sorsero le città; Catania fu una di queste.

Le due Etna.

Dunque, sulla base dei reperti archeologici raccolti, delle fonti letterarie consultate, degli indizi colti e delle deduzioni tratte, è possibile affermare che, ancora prima di pensare ad una fondazione della città di Catania, i prischi Sicani avessero concepito, appena giunti nell’isola di Trinacria, ovvero l’isola delle “tre potenze”, di erigere il tempio dell’Avo nella città di Innessa, primo nome dato alla città di Adrano. Questa, come afferma Diodoro siculo nel capitolo dedicato al principe siciliano Ducezio, senza soffermarsi sul motivo del cambiamento, aveva mutato il proprio nome in Etna e dopo ancora in Adrano secondo le conclusioni a cui siamo pervenuti con le nostre ricerche, i risultati delle quali sono state sottoposte al vaglio di un attento uditorio in diversi incontri culturali pubblici e privati e pubblicate infine sui siti web miti3000.eu e Adranoantica.it. Ora, si dà il caso che nel 470 a. C., la città di Catania assumesse il nome di Etna prima appartenuto, come sopra affermato, alla futura Adrano, e poiché l’antico adagio recita che il meno viene tratto dal più, si intuisce che se Catania abbandonava – o gli veniva imposto di abbandonare–il proprio nome per assumere quello di Etna, certamente questo cambiamento avrebbe dovuto significare per i Catanesi o per l’ispiratore del cambiamento, un salto di qualità in termini di prestigio, in quanto la città di Etna, ex Innessa, avrà dovuto rappresentare nell’immaginario collettivo isolano, una città portatrice di carisma e prestigio, comunque superiore a quello della città portuale. Ciò appare plausibile se si considera che a Etna, oltre che essere presente il tempio dell’Avo, gli abitanti avevano portato, appena dieci anni prima, quando cioè a dirigere le operazioni militari vi era Gelone, il fratello di Jerone che avrebbe mutato il nome di Catania in Etna, un notevole contributo nella battaglia di Imera combattuta tra gli alleati siciliani e i Cartaginesi, anzi, nelle pagine di storia vergate da Diodoro, emerge che, grazie al contributo militare degli Etnei, le sorti incerte della battaglia mutarono a favore degli alleati. Non è tutto. Attraverso il racconto dello storico Polieno – Stratagemmi- si evince che la città di Innessa/Etna, era la più ricca fra quelle Etnee se non proprio della Sicilia tutta, tanto da indurre il tiranno di Agrigento Falaride a un tentativo di rapina nei suoi confronti. La presenza della enorme ricchezza nei forzieri della città stato di Innessa/Etna/Adrano non deve stupire, in quanto a motivo del tempio dedicato al culto nazionale e della inespugnabilità del sito di Adrano, anche le città limitrofe deponevano il proprio oro cittadino presso il tempio, così avveniva anche a Delfi nel tempio dedicato ad Apollo. Di conseguenza, si può ben essere certi, che ad Adrano come a Delfi, si fosse allora costituita una anfizionia a protezione del tempio, cioè era stata costituita una guardia formata da militari provenienti dalle città che partecipavano del culto. Il tiranno agrigentino, riconoscendo l’impossibilità di un successo militare se si fosse avventurano in una guerra aperta contro la città dell’Avo, fece ricorso ad uno stratagemma per appropriarsi degli ori del tempio, unico suo cruccio. Sorvolando sulla perfidia del tiranno greco che ognuno può verificare leggendo il testo di Polieno, a noi preme ricostruire in questa sede i fatti storici che videro protagoniste le città di cui ci stiamo occupando. Dal racconto di Polieno si può appurare che il re sicano Teuto aveva una figlia da maritare, e molti erano i pretendenti nell’isola. Secondo la nostra ricostruzione, esposta nell’articolo “Un matrimonio illustre nella Adrano del IV sec. a.C.” , risulta probabile che la principessa di Innessa si chiamasse Etna e che avesse sposato un illustre cittadino catanese, magari il figlio di Caronda, che visse nello stesso periodo dei Nostri. Riteniamo pertanto plausibile che, la città di Innessa facesse parte della dote che il re Teuto aveva messo a disposizione della figlia, con la promessa che essa sarebbe diventata regina di Innessa dopo la propria morte, essendosi interrotta la discendenza patrilineare per mancanza di figli maschi nella casa regnante. Le relazioni tra la città dell’Avo e Catania, prima che questa venisse completamente grecizzata nel periodo di cui ci stiamo occupando, dovettero essere assai buone e ciò si evince dal nome del mitico fiume Amenano che un tempo scorreva a Catania. Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a menzionarlo, epperò vi ritorneremo nel capitolo seguente.
Dando per buona la ricostruzione fin qui proposta, è ipotizzabile che i Catanesi non abbiano sollevato alcuna obiezione a Jerone che rinominava la città in Etna, riconoscendo nella principessa adranita la propria “Ava”. La prestigiosa posizione di Teuto e di Etna, regnanti, e, probabilmente, pontefice e sacerdotessa del culto nazionale, in una fase aurea della storia siciliana, dovette condizionare assai lo jerofante Jerone che, sebbene fosse un pessimo regnante, dovette certamente essere stato assai edotto in ambito religioso come si evince dal significato del suo nome. La conferma di una sua profonda conoscenza delle sacre cose, ci proviene dalla constatazione che nel programma del re catanese vi era quello di consolidare i rapporti tra la città di Etna e Catania, se non addirittura fondere politicamente l’una città all’altra, utilizzando la mitologia sicana opportunamente rielaborata in chiave greca, che, come vedremo, era alla base del prestigio della prima e di cui si sarebbe nutrita la seconda. Le due città consorelle, ricordiamolo, si trovavano in quel momento storico, – 470 a.C. -, sotto la giurisdizione politica e militare di Jerone; Diodoro afferma infatti che, per il re, l’aver ottenuto di installare sull’acropoli della libera città di Innessa/Etna, una semplice guarnigione militare, il successo divenne motivo di grandi festeggiamenti. Il tentativo di rielaborare la mitologia sicana, doveva avere, come sopra affermato, quale fine del programma esteso da Jerone, quello di unire in un abbraccio politico la sicana Innessa/Etna (futura Adrano) alla sede regia di Catania. Il compito di rielaborare il mito sicano viene affidato ad un esperto in ambito religioso, iniziato ai misteri di Eleusi e già sospetto ai sacerdoti di Delfi per il suo vezzo di svelare ciò che doveva rimanere velato, Eschilo. Questi compone per il re l’opera teatrale le “Etnee”, incentrata sul culto degli dèi Palici, figli dell’avo Adrano. Il culto a cui erano interessati il re catanese e il tragediografo, e che si prestava allo scopo, si svolgeva nella città di Etna (futura Adrano), come si evince dal suo contenuto. Infatti, in esso, si fa tra l’altro riferimento alle fonti dei gemelli Palici, che scorrono nella Valle delle Muse, sulla riva sinistra del fiume Simeto nei pressi di Adrano e di cui parlerà anche Virgilio nel libro IX dell’Eneide. Del contenuto del mito rielaborato da Eschilo in chiave filo greca, purtroppo, ci sono arrivati soltanto pochi frammenti provenienti da citazioni di autori posteriori, ma sufficienti per permetterci la qui tentata ricostruzione dei fatti.

Ad Eschilo parve bene intitolare la sua opera “ le Etnee” , giocando così sulla ambiguità di un nome che sarebbe appartenuto sia alla città dell’Avo che, successivamente, a Catania quello di Etna. In comune, le due città avevano avuto anche l’Ava, Etna (?) figlia di Teuto, grazie al matrimonio da Lei contratto con un Catanese (?). Ma un’altra Etna, che i Greci intendevano condividere con i prischi Sicani di Innessa/Etna/Adrano entrava in gioco nella rielaborazione eschilea; era, questa, la Ninfa di cui i Palici erano figli e Adrano era sposo, appunto la ninfa Etna. La ninfa Etna, nella mistificazione mitologica messa in scena da Eschilo, avrebbe fatto da trait d’union tra la cultura sicana e quella greca, tra la sicana città di Innessa/Etna e quella greca di Catania/Etna, concependo al greco Zeus i gemelli Palici che il sicano dio Adrano avrebbe preso in adozione. A noi, eredi dei prischi Sicani, piace credere che l’Avo abbia punito, per l’infame mistificazione mitologica messa in atto dai perfidi greci, il re Jerone condannandolo ad una meritata damnatio memoriae, e il tragediografo Eschilo, disperdendo l’indegna sua opera teatrale.

Amenano

Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume catanese, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a tentare una analisi etimologica dello stesso, esternando in pari tempo ai nostri lettori alcune intuizioni sul motivo che avrebbe portato i Sicani di Catania alla scelta dell’idronomo.
Il mitico nome del fiume catanese avrebbe implicazioni assai importanti con la cultura sicana, mettendo altresì in evidenza le origini pre elleniche del sito e della cultura catanese.
Infatti, il nome del divino fiume risulta formato dall’accostamento dei lessemi MN e ANO. Traducendo l’appellativo verbum pro verbo, esso può essere così formulato: mente/avo. Volendo invece esercitare la libera interpretazione del significato del nome, azzardiamo per esso il significato di “ La memoria dell’Avo” o “In memoria dell’Avo” . La apparente, leggera differenza della traduzione del nome ha implicazioni assai più profonde di quanto sembri. Infatti, recenti studi di prestigiosi ricercatori fanno cenno ad una memoria dell’acqua, e se, forzando ulteriormente il significato attribuito al nome del fiume, mettessimo questo significato in relazione alle affermazioni fatte dagli scienziati, potremmo ancora una volta ipotizzare che le conoscenze da noi attribuite alla casta sacerdotale degli “Adranitani”, non fossero per nulla inferiori alle conoscenze dei moderni scienziati e a quelle attribuite agli omologhi sumeri, egizi, celti, iraniani etc. Le conoscenze attribuite a questi, analizzate alla luce di recenti tecnologie e con una mente laica più di quanto lo sia stata in passato, stanno facendo riscrivere la storia.

Ma torniamo al nome del mitico fiume che un tempo scorreva nel villaggio catanese, l’Amenano. Grazie all’idronomo si può dunque immaginare che il conio fosse stato apposto al fiume in una epoca in cui l’isola era denominata Sicania, ovvero la terra dell’Avo o, comunque in una epoca in cui le tradizioni sicane erano ancora predominanti nell’isola. Infatti, il significato del sostantivo Ano, nell’alto antico tedesco, lingua che noi abbiamo ipotizzato essere la più aderente a quella parlata dai Sicani (vedi l’articolo: “Jam akaram, la lingua dei Sicani”) significava avo, antenato, nonno. Il sostantivo in questione, unito ad aggettivi, preposizioni, avverbi etc. va ancora a formare i nomi dei fiumi Ana-po, che scorre nei pressi di Siracusa e che traduciamo con: “procedente dall’avo” (Ana-ab) ; Adr-ano che un tempo scorreva nella omonima città; lo ritroviamo anche nel fiume Adrana (oggi Eder), in Germania, citato da Tacito); anche in Spagna, ancora oggi, scorre un fiume Adrano. La traduzione da noi proposta per il nome Adrano è quella di Avo furioso, significando l’aggettivo odhr appunto furioso.
Ma non è soltanto il sostantivo Avo che ritroviamo a formare il nome dell’antico fiume ad essere condiviso da Adrano con Catania. Pare che un più lungo cordone ombelicale che porta fino ai giorni nostri unisca le due città, anche se, successivamente, a ruoli invertiti.

Ansgerio vescovo di Catania e priore di Adernò.

Questo vescovo inglese, venuto in Sicilia al seguito del Gran Conte Ruggero, come era di abitudine nell’era di mezzo, venne insignito dal suo signore di una moltitudine di titoli tra i quali compariva quello di Priore di Adernò, nome quest’ultimo, di Adrano, storpiato dalla pronuncia francese della lingua parlata dai Normanni. Il titolo assunto dal vescovo conferma l’importanza politica, religiosa e militare, che Adrano conservò immutata nei millenni. Per ciò che concerne il ruolo militare di perno degli eventi isolani, della città dell’Avo negli eventi isolani, mai dismesso fin dalla battaglia di Imera del 480 a.C., a cui si è accennato sopra, e poi ancora del 344 a.C., combattuta da Timoleonte per la cacciata dei tiranni dalla Sicilia e vinta grazie alla anfizionia che era a guardia del tempio del dio Adrano, come si evince da Plutarco nel ‘Timoleonte’, non vi sono più dubbi. Approfittiamo dell’argomento qui trattato per esprimere la convinzione che il Gran Conte Ruggero avesse già trovata edificata la torre di guardia, convinzione suffragata da vari elementi, tra i quali la data del 1009 incisa nella pietra della porta del gran maniero adranita, ed egli si fosse limitato a riadattarla, ampliarla e modificarla secondo le nuove sopraggiunte necessità.

Ordini Cavallereschi.

Se da un lato la città di Catania diventava grande e ricca per i commerci che la mutata era metteva al primo posto nella nuova concezione del mondo, ad Adrano rimaneva il prestigio fornito da importanti famiglie, prelati, ordini cavallereschi che l’avevano abitata a partire da Adelicia, nipote del Gran Conte, che dalle sale della sua torre normanna, elargiva donazioni a chiese e altre ne edificava. Se affermiamo che il prestigio adranita rimaneva inalterato a partire dall’immediato insediamento sicano e dalla costruzione del tempio dedicato all’Avo, non è da considerarsi tale affermazione una iperbole o dettata da cieco amor patrio, altrimenti non si spiegherebbe come mai proprio ad Adrano, dopo quella fondata a Palermo pochissimi anni prima, si decidesse di fondare la più prestigiosa confraternita a carattere filantropico che portava il titolo di Confraternita dei Nobili Bianchi e alla quale potevano aderire, come si evince dal nome, per statuto, soltanto coloro che potevano certificare la propria nobile origine. Uno statuto così concepito risale agli ordini monastico cavallereschi che presero vita in terra Santa e, però, in Europa trovarono il vero campo d’azione. Ma di ciò è stato sufficientemente scritto altrove.
Ritornando alla nascita della prestigiosa Confraternita ad Adrano, ebbene, soltanto dopo seguì la formazione di quella di Catania. Non si spiega ancora come potesse essere stato possibile che nella “oscura” e modesta cittadina di Adrano si potesse costruire un teatro che, soltanto anni dopo, la grande metropoli catanese, prese a modello per costruirne uno uguale seppur in scala più grande. Parliamo del teatro Bellini. A proposito di teatro, segnaliamo in questa circostanza alla sovrintendenza, che la struttura muraria circolare, di cui emergono pochi metri nei pressi di via Catania e di cui la sovrintendenza è bene a conoscenza in quanto, in illo tempore, intervenne per bloccare i lavori di una costruzione abusiva a ridosso di questi ruderi, trattandosi a nostro avviso degli ipotetici gradoni di un anfiteatro, attendono di essere portati alla necessaria visibilità, affinché possano testimoniare, assieme ai notevoli resti di altre strutture, di quale prestigio poté vantarsi la patria della civiltà sicana, Adrano.
Ci preme riaffermare che le nostre non sono deliranti supposizioni di un febbrile amor patrio, ma tesi, frutto di studi e ricerche poste in essere attingendo alle discipline capaci di contribuire a disvelare la vetusta storia adranita e, per riflesso, quella dell’isola. Concludiamo ponendo ai lettori l’ultimo arcano: come è stato possibile che l’oscura cittadina di Adrano abbia espresso nel XIX secolo dell’era volgare un esagerato numero di sedi massoniche capaci di interloquire con forze d’opposizione politica sparse in Italia? Se non possedessimo la documentazione epistolare intercorsa tra alcuni dei nostri concittadini Adraniti con esponenti della Giovine Italia, anche queste potrebbero apparire illazioni. Tralasciando ogni giudizio in merito, in attesa che vengano fuori nuovi documenti, che magari dimostrino un forte contributo adranita alla politica isolana, a noi piace far notare ai nostri concittadini, che delle sei logge massoniche presenti ad Adrano, una di esse si chiamava “Levana”. Era questo il nome dell’antica dea preposta ad assistere le partorienti. Il nome, oltre che a ricondurre ad un concetto esoterico, in coerenza con le intenzioni della loggia, di portare in vita o alla luce ciò che è celato, riflette la necessità di utilizzare non solo i miti ma una lingua primordiale ancora non completamente in disuso, la lingua sicana, che meglio veicola gli inesprimibili concetti superiori. Infatti nel nome Levana si può rintracciare la radice AN. Ana significa ava, antenata, nonna. L’aggettivo leu-lug-luk, con il significato di luce, conferisce dunque all’Ava la doppia veste di custode della vita fisica e di quella metafisica. Essa è dunque preposta all’iniziazione del neofita che, tramite suo, rinasce a nuova vita. Essendo Levana la portatrice di luce, quei concittadini, evocandola, si riproponevano forse di diffondere la luce che si “levava” dal tempio dell’avo primordiale Adrano?

Ad majora.

Religione, politica e metafisica nell’evo di mezzo. Da S. Francesco ad Al’ Kamil: L’effetto delle Crociate

 

Premessa
Il lettore avrà ormai compreso che, nel tentativo di ricostruire alcuni momenti oscuri della storia vissuta dal genere umano, ci troviamo costretti, talvolta, in mancanza di fonti dirette che vi fanno esplicito riferimento, in presenza di semplici indizi sparsi qua e là, di fare leva sull’intuito, interpellare il buon senso, di entrare in empatia con gli attori principali di quel mondo e con lo spirito del tempo. Ed ancora, il tentativo di individuare i reconditi interessi che potevano avere i personaggi più influenti nell’epoca presa in esame, spesso ci mette in contatto con discipline empiriche per trarre interpretazioni che sono esclusivamente nostre, e che, pertanto, si prestano a correzione. Non avendo la pretesa di essere considerati degli storici, a noi, da ricercatori quali amiamo definirci, ci si perdonerà ogni défaillance scientifica, lasciando agli accademici con i loro ipse dixit le certezze che da essi si pretende ottenere.

Prefazione.
Coloro che scrissero la storia attraverso le loro gesta, non inseguivano soltanto, o non sempre, un appagamento dei propri bisogni, delle proprie ambizioni. Spesso, quegli uomini, erano motivati da forze indefinibili, forze incontrollabili provenienti dal di dentro che, come vedremo, li spingevano anzi a rinnegare la materia e le apparenze per dar spazio a passioni, vocazioni, emozioni. Nel corso delle loro esperienze, alcuni individui, naturalmente predisposti, come un accidente in cui incorsero involontariamente, vennero a contatto con conoscenze dalle quali vennero sconvolti e che mutarono non solo la loro singola vita, ma il corso stesso della storia.

La Terra Santa: Laboratorio alchemico dello Spirito.
Ogni epoca che si conclude, lascia alla successiva, a quella che comincia, una finestra aperta da cui è possibile guardare alla esperienza vissuta, alla storia trascorsa, affinché la seconda possa cogliere dalla precedente alcuni aspetti che ad essa torneranno indispensabili per ricominciare. A questo punto entra in gioco una minoranza di individui, non sempre manifesta e/o consapevole, che, insieme, o separatamente, raccolte le informazioni delle esperienze dell’epoca precedente degne di essere ricordate e tramandate, si propone, adottando un modus operandi comune, ma non concertato, il compito, non imposto da alcuno se non dal proprio rigore morale, di passare il testimone alle successive generazioni. Naturalmente, essendo ogni epoca portatrice di peculiarità uniche e irripetibili, colui che opera, di volta in volta, dovrà adattare il vecchio al nuovo, in modo che, in ciò che ai contemporanei appare come nuovo, il ricercatore, che saprà cogliere le analogie, troverà un continuum di conoscenze mai consegnate all’oblio.
Durante il lungo periodo del Medio Evo, in Terra Santa, alcuni di questi uomini, trovandovi l’humus ideale, coltivarono ciò che nell’ Europa inaridita non era più possibile coltivare, riportando però, in quest’ultima, i frutti lì maturati.

L’uomo quale Athanor del tempo.
Avendo fatto nostro l’antico aforisma che recita: “lo stesso fuoco che scioglie il burro rassoda l’uovo”, abbiamo potuto appurare, attraverso l’indagine, come sia stata possibile la trasformazione di alcuni individui, in seguito al loro passaggio attraverso quell’Athanor che fu la terra di Palestina. In realtà, essi, in quel laboratorio, amplificarono semplicemente le proprie innate attitudini. Ad ogni modo, in quel laboratorio dello spirito che fu la Terra Santa, tornando in patria, o rimanendo in Palestina, quegli alchimisti dello spirito uscirono dall’anonimato dal quale erano stati avvolti, per diventare re, matematici, santi. Alcuni di loro riuscirono a fondere armonicamente quel dicotomico dissidio interiore che aveva da sempre diviso l’uomo da sé stesso. Nacque, crediamo, da questo bisogno interiore di costruire l’armonia tra materia e spirito, la formazione degli ordini monastico cavallereschi. Il caso, concesso che esso esista, ha voluto che noi prestassimo l’attenzione al periodo che fu tutt’altro che buio, come alcuni storici lo definirono, il Medio Evo.

Gli uomini e la storia: lo spirito del tempo.
Come affermato, molti individui espressero il meglio di sé grazie all’esperienza maturata in Terra Santa, e, tutti, in qualche modo, come esporremo, consapevolmente o meno, direttamente o indirettamente, entrarono perfino in relazione tra loro, intrecciando spesso i loro destini. Alcuni di quei giganti che dominarono il palcoscenico della storia, di cui diremo, sono: Fibonacci, Federico II, Al’ Kamil, Michele Scoto, S. Francesco. Di moltissimi altri ancora, invece, per necessità di sintesi, taceremo per il momento.

Malik Al’ Kamil: l’arabo che stava simpatico all’occidente.
La figura di Al’ Kamil, forse in quanto arabo, è stata poco indagata dagli studiosi occidentali del Medioevo. Eppure egli ebbe, come vedremo, un ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente, capace di interloquire con saggezza politica con i governanti d’Europa; ebbe pure un intenso rapporto epistolare con Federico di Svevia; ospitò cordialmente S. Francesco col quale non sapremo mai nei particolari cosa si siano detti, deducendo che non si trattò soltanto di argomenti di natura teologica, argomenti sui quali il sultano era tutt’altro che sprovveduto, come si evince da una biografia del sultano redatta dal suo maestro spirituale, il quale aggiunge che l’esperienza vissuta col “saggio” cristiano fu entusiasmante. Ciò che non venne messo in evidenza dalle cronache del tempo, che è sfuggito agli studiosi contemporanei e che a noi piace sottoporre all’attenzione dei nostri lettori, consiste nel risultato politico a cui gli incontri e le relazioni trasversali tra gli Arabi e gli occidentali in Terra Santa condussero, e in particolare alla saggia e lungimirante proposta che Al’ Kamil aveva messo in essere già a partire dall’incontro con Giovanni di Brienne, futuro re di Gerusalemme: una pacifica spartizione del territorio palestinese tra Arabi ed Europei e una proficua convivenza tra Cristiani e Musulmani. La proposta di Al’ Kamil, se da una parte non fu compresa dal mite Giovanni, sarà subito dopo, premurosamente accolta, come vedremo, dal navigato politico che si rivelò il giovanissimo Federico.

Emblema dell’Ordine di S. Lazzaro – foto dal web.

S. Francesco, il crociato che porse la mano all’Islam.
il vero nome di Francesco era Giovanni, ma poiché Bernardone, suo padre, doveva la propria ricchezza al rapporto commerciale sapientemente intessuto con l’aristocrazia francese, al fine di manifestare a questa la propria riconoscenza e, come sarebbe lecito supporre, mettendo in atto una politica costosa per l’ inserimento del proprio figlio negli ambienti nobili francesi da cui proveniva la madre di Francesco, magari col segreto progetto di sposarlo ad una principessa, lo appellò con l’etnico che indicava questi nordici, Francesco appunto. Nel tentativo di raggiungere lo scopo da noi sospettato, Bernardone inviò Francesco alla crociata che Giovanni di Brienne, futuro re di Gerusalemme, stava apparecchiando. Potremo, a questo punto della formulazione di fondate supposizioni, immaginare Francesco nei panni del giovane baldanzoso cavaliere crociato, che per la sontuosità dell’abbigliamento indossato – Bernardone non avrà certamente badato a spese per finanziarlo-, si distingueva tra i compagni d’arme. Tuttavia, il ruolo svolto da Francesco nella spedizione, attingendo dalle discutibili biografie giunte fino a noi, rimane poco chiaro, anzi, secondo la vulgata, il Nostro non vi avrebbe neppure preso parte. Infatti, ricostruendo le vicende ad iniziare dalla partenza di Francesco da Assisi, pare che, raggiunto Giovanni di Brienne ancora accampato nel territorio italiano, ormai prossimo alla partenza per la Terra Santa, Francesco si fosse ammalato, e che, nel mentre il contingente prendeva la via per raggiungere il Santo Sepolcro, Francesco mal fermo in salute, facesse ritorno ad Assisi. Due anni dopo questo apparente infruttuoso episodio, però, Francesco fonda a Gubbio, un ordine monastico dedito alla cura dei lebbrosi.
Ora, si dà il caso che tra i partecipanti alla crociata del 1203 promossa da Giovanni di Brienne, vi fosse l’ordine monastico cavalleresco di S. Lazzaro.

Quest’Ordine era nato in Terra Santa con il fine di curare i lebbrosi di quei luoghi. Il prestigio di cui godeva l’ordine di S. Lazzaro, sia in ambito militare che politico, era pari a quello conquistato nel tempo dall’Ordine dei Templari, che eguagliava anche per le ricchezze possedute provenienti da libere donazioni. La croce che l’ordine di S. Lazzaro portava cucita al petto si differiva da quella utilizzata dall’Ordine degli Ospitalieri come proprio emblema, soltanto per il colore, essendo questa verde, mentre quella degli Ospedalieri, meglio conosciuti come Cavalieri di Malta, come è noto era rossa. Entrambe le croci, cucite sul mantello, avevano alla loro estremità, la forma bicuspide in modo da formare “otto” aculei. Volendoci soffermare sul contenuto del testamento di Francesco, nella parte in cui il santo fa riferimento ai lebbrosi, quella parte ove afferma: “Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo”, si evince che il poverello di Assisi, con il riferimento al periodo in cui era nel peccato, si riferisse alla militanza in qualità di crociato, tuffato ancora in quel mondo che Bernardone aveva prospettato per lui. Ma l’esperienza maturata a contatto dei lebbrosi, aprì una breccia nel suo cuore, trasformandolo nel profondo. Pertanto, è ipotizzabile che a un cambiamento così radicale della visione del mondo del nostro futuro santo, potessero aver contribuito insieme, sia il periodo dei due anni che egli trascorse in Terra Santa al seguito dell’Ordine di S. Lazzaro a curare i lebbrosi, sia i rapporti intrattenuti con esponenti dell’islam, come diremo oltre. È lecito dunque ipotizzare che, durante la militanza tra i ranghi dell’Ordine di S. Lazzaro, Francesco abbia acquisito, oltre che l’immunità al morbo, la trasformazione da Miles Christi armato di spada per la liberazione di un vuoto sepolcro, in Miles Christi armato di fede e passione per la liberazione dello spirito individuale dal sepolcro del corpo fisico. Grazie alle affermazioni del nostro santo, esposte nel testamento: “allontanatomi da essi” cioè dai lebbrosi, e “uscito dal mondo”, si comprende altresì il motivo per cui, dopo due anni di militanza, sia uscito dall’Ordine di S. Lazzaro e abbia affidato ad altri la cura degli ammalati di lebbra per dedicarsi a tempo pieno alle malattie, non meno trascurabili, che affliggevano lo spirito del mondo.
Perché si fosse recato successivamente, tredici anni dopo la prima esperienza, non in Palestina, ove vi era il S. Sepolcro, bensì in Siria e poi in Egitto per incontrare il sultano Al’ Kamil, è cosa che non sapremo mai con certezza, in quanto non si può dare gran peso a ciò che è stato riportato dai biografi di Francesco e dai cronisti dell’epoca: Tommaso da Celano, il vescovo Giacomo di Vitry, contemporaneo di Francesco e compositore di una storia dell’Ordine Gerosolimitano, e in fine frate Bonaventura il quale, nell’intento di mettere ordine ed eliminare le incongruenze, filtrò quanto i biografi del frate d’Assisi avevano precedentemente asserito. Alla luce delle successive azioni di Francesco, che portarono a risultati oggettivi, però, potremmo ipotizzare, con poche probabilità di errore, che il viaggio intrapreso da Francesco non avesse il fine di convertire al cristianesimo il sultano islamico, tra l’altro esperto teologo. La cronaca di parte araba afferma che il sultano preferì rimanere da solo a dialogare con i due frati – con Francesco c’era frate Illuminato-. Il fatto che il sultano preferisse rimanere da solo con Francesco, non soltanto avvalora l’ipotesi di una precedente conoscenza tra i due, e perciò che Al’ Kamil si fidasse di quello strano occidentale, ma non esclude neppure l’ipotesi che il sultano potesse appartenere alla società esoterica dei Sufi, così come non si può escludere che lo strano comportamento, spesso assunto da Francesco, in odor di magia, come afferma uno dei più preparati studiosi del Medio Evo, Franco Cardini (il camminare sulle braci, parlare agli animali, consultare i testi sacri aprendoli a caso e trarre auspici dal passo letto, e altri ancora), affondasse negli apprendimenti acquisiti dal crociato Francesco, in Terra Santa. Alla luce di quanto fin qui esposto, è ancora ipotizzabile che il dialogo intercorso tra il “Sufi” e il monaco, sia avvenuto tra persone che si intendevano benissimo sugli argomenti trattati. Non sarebbe fuor di luogo perciò, dedurre che il santo e il principe fossero entrati in contatto già tempo prima, probabilmente quando Francesco giunse in Palestina al seguito dell’ordine di S. Lazzaro e, pertanto, il santo, in Egitto, in realtà andava a trovare, se non proprio un amico, quanto meno un conoscente e un interlocutore interessato, Al’ Kamil. È infatti altresì risaputo, grazie alle cronache dell’epoca riportate da cronisti appartenuti ad entrambi gli schieramenti e alle differenti culture, che ci fossero stati da sempre, ottimi rapporti tra gli Ordini monastico cavallereschi, i Templari in particolare ( La storica Simonetta Cerini fa cenno ad un episodio che vede nel 1140 l’emiro Osama Ibn Munqidh, ospite di quelli che l’emiro definisce amici Templari. Durante la visita, Osama venne invitato dall’Ordine a pregare Allah nel tempio di Gerusalemme, sede dei Templari, ), e i Musulmani o alcune frange di questi, equiparabili agli ordini monastici occidentali, magari i Sufi, al punto da far nascere leggende sugli atteggiamenti amichevoli tra rivali, come quella in cui si vuole un Saladino conoscitore della medicina, che inviava dei farmaci all’illustre malato Riccardo Cuor di Leone suo rivale. Il re, grazie a questi farmaci, riusciva a guarire. Leggenda o no, l’episodio appena narrato non può non porre l’interrogativo sulla possibilità dell’esistenza di un vaccino di cui gli aderenti all’Ordine di S. Lazzaro potessero usufruire, dal momento che nessuno di loro, Francesco compreso, si ammalò di lebbra. Passeremo sotto silenzio in questa sede, avendovi fatto riferimento in altre occasioni, il fatto che Saladino fosse lo zio di Al’Kamil e che quest’ultimo, una volta ereditato dallo zio lo status politico, il carisma e le conoscenze, intrecciasse a sua volta, ottimi rapporti con Federico di Svevia che era diventato nipote del re Riccardo. Taceremo ancora sull’episodio che vide Giovanni, reggitore del regno d’Inghilterra per conto di Riccardo, suo fratello, partito per la Terra Santa, valutare seriamente la possibilità di convertirsi all’Islam, come affermato dal Monaco suo contemporaneo, Saint Albans, compositore di una cronaca nel 1213.
Abbiamo affermato di non conoscere i motivi che indussero Francesco nel 1219, sedici anni dopo la crociata a cui avrebbe dovuto partecipare, o forse a cui partecipò, al seguito di Giovanni di Brienne, a recarsi da Al’ Kamil, e pertanto non sapremo mai che cosa si siano detti, sappiamo però che ognuno di loro rimase delle proprie vedute politiche e religiose, e, perciò, non crediamo di incorrere in un errore palesando il sospetto che in Francesco vi fosse la semplice volontà di effettuare un pellegrinaggio o, di più, una ricerca, la ricerca dell’uomo avvolto nel lenzuolo di cui aveva sentito parlare negli ambienti monastico cavallereschi durante la sua militanza fra i cavalieri crociati. Per questo riteniamo possibile che il poverello di Assisi si recasse dall’unico uomo che avrebbe potuto fornire le risposte alle sue domande, ancor più che, dopo quell’incontro, e da quell’incontro fino ad oggi, a far da custodi al sepolcro di Gerusalemme, vi siano proprio i frati Francescani. Anche Federico II, venti anni dopo l’incontro del sultano con Francesco, avrebbe posto domande all’erudito amico, anzi, il Sultano avrebbe fatto di più per l’amico Imperatore: avrebbe concretizzata la proposta che pochi anni prima aveva esposta a Giovanni di Brienne senza risultato, e cioè, la pacifica suddivisione geografica della Palestina tra Cristiani e Musulmani.

La Sindone.
Da tempo, tra gli eserciti crociati, girava voce dell’esistenza di un lenzuolo in cui era impressa l’immagine di un uomo che portava i segni tipici delle ferite provocate dal flagello e dalla crocifissione che i Romani infliggevano ai condannati per specifici reati. Se Francesco abbia 9.00 potuto contemplare quell’immagine che sconvolge ancora oggi noi uomini dei lumi, non lo sapremo mai. Tuttavia, sospetta rimane la modalità con cui l’uomo di Assisi condusse la propria vita, fino alla morte, nei sei anni successivi del suo viaggio in oriente. Ogni suo fine sembrava ispirato ad una imitazione dell’uomo della sindone, lenzuolo che, non solo da lui, veniva identificato con il sudario che aveva avvolto il corpo del Gesù dei vangeli. Altresì, va notato che il santo aveva ricevuto le stimmate quattro o cinque anni dopo il colloquio avuto con Al’ Kamil, e che il sultano, a conclusione del privato colloquio avuto col poverello, aveva affidato ai Francescani la custodia del Santo Sepolcro che in quel momento era sotto controllo musulmano. Analizzando la vita del santo, dunque, essa appare come se il frate di Assisi avesse voluto assumere in sé l’esperienza traumatica vissuta dall’uomo avvolto nel lenzuolo, metabolizzata sempre più nei pochi anni successivi che gli rimanevano da vivere, grazie alla visione diretta dell’immagine stessa che gli venne mostrata (da Al’ Kamil? Dall’Ordine Templare?). Ma da tale argomento, a motivo della sua complessità, dei risvolti che nulla avrebbero in comune con la nostra ricostruzione storica, intendiamo uscire in punta di piedi come vi siamo entrati, lasciando agli esperti la disquisizione; a noi sia sufficiente, in questa sede, il tentativo di aver tracciato un parallelismo tra quegli uomini che in Terra Santa subirono una catarsi più o meno evidente, incidendo, col proprio operato, sulla storia.

Fibonacci
Era di una decina di anni più anziano di Francesco e una ventina di Federico – la sua data di nascita è incerta -. È debitore delle sue conoscenze alla divulgazione degli Arabi; frequentò infatti la Sicilia divenendo uno stretto collaboratore di Federico II. La sua notorietà si deve principalmente, alla sua intuizione in riferimento alla sezione aurea e alla progressione dei numeri che da lui prende il nome. Crediamo possibile che abbia contribuito, assieme all’astrologo Michele Scoto, al progetto per la costruzione di Castel del Monte commissionato da Federico II, ritenuto dagli studiosi un “Libro di pietra” proprio per il forte simbolismo di cui il castello è intriso. Ma essendo noti gli studi effettuati su di esso, sorvoleremo sull’argomento

Federico II di Svevia.

Dal Liber figurarum di Gioacchino da Fiore

Sull’Imperatore che forgiò la propria tempra nel crogiolo siciliano ancor più che in Terra Santa, in cui si recò a malincuore, poco diremo che non sia già stato detto. Più votato alla politica che alla metafisica e per nulla sensibile alla mistica, lascia tuttavia trasparire il carattere votato al desiderio di ricerca e di conoscenza in tutti i piani dello scibile umano. Non rimase insensibile neanche al rapporto che, intuitivamente, attribuiva al visibile con l’invisibile se si circondò di persone dello spessore dello studioso Michele Scoto e Fibonacci di cui erano noti gli studi sull’esoterismo. Scoto, astrologo, matematico e scienziato, attribuiva un potere ai numeri. Dovette essere stato lui a suggerire la scelta del motivo architettonico di Castel del Monte basato sul numero otto. Consigliere e amico personale di Federico era anche il gran maestro dell’Ordine Teutonico Ermanno di Salza. Con il sultano Al’ Kamil, l’imperatore divenne così amico da intraprendere un intenso scambio epistolare e dubitiamo che nei loro scritti, il sultano non facesse menzione al re di Francesco di Assisi, così come nutriamo dubbi che tra Francesco e l’imperatore non vi fosse stato alcuno rapporto, neanche per interposta persona, atteso che, frate Elia da Tortona, stretto collaboratore di Francesco, che aveva preparato l’incontro col sultano e che alla precoce morte del santo ereditò il compito di guidare l’ordine, entrato in contrasto con la chiesa si pose al servizio di Federico.

Non abbiamo potuto sorvolare sull’osservazione che la confraternita fondata dal santo poverello, aveva in comune con quello dei Templari più di un elemento: entrambi riconoscevano un ruolo alla donna nel rapporto col sacro, cosa non ovvia per l’epoca; né l’un ordine né l’altro, disdegnavano di ricevere donazioni, al punto che soltanto dopo qualche anno dalla sua fondazione l’ordine dei francescani aveva sedi in tutta Italia e nel 1229, due frati vennero inviati come ambasciatori in Germania e in Inghilterra; la totale fedeltà e obbedienza al papa. L’ordine francescano, dovette altresì talmente imborghesirsi appena qualche decennio dopo la sua fondazione, al punto che la scissione con i nostalgici della prima ora si rese inevitabile. Il nuovo ordine scismatico assunse il nome di Frati Cappuccini. L’appellativo scelto dal nuovo ordine intendeva porre una velata nota di polemica nei confronti dei Frati Francescani ai quali si intendeva così ricordare il voto di povertà, che, evidentemente, quelli avevano disatteso. Il cappuccio a punta, infatti, e il saio che in origine indossavano i francescani, venivano ricavati dai sacchi di juta. Adesso, però, i francescani indossavano il cappuccio arrotondato all’estremità secondo la moda del momento. La nascita del nuovo ordine francescano scismatico dei Cappuccini, venne probabilmente ispirata da un illustre contemporaneo di Francesco, sebbene più anziano di lui di quasi cinquant’anni, Gioacchino da Fiore (Gioacchino muore nel 1202). Anche questo monaco era stato profondamente trasformato dalla permanenza in Palestina, luogo in cui si recò intorno al 1167. Al ritorno della terra santa, il suo carisma si era talmente accresciuto da permettergli di incontrare Filippo re di Francia, Riccardo cuor di leone (e forse il Saladino), il papa.

Croce potenziata su pithos del II mill. a. C. – museo di Adrano

Egli venne a morire in romitaggio in un monastero greco alle falde dell’Etna, dopo aver acquisito doti profetiche ed essere entrato in contrasto con una Chiesa ormai troppo distante dai poveri e dai valori del cristianesimo.

Adrano: dall’Avo sicano al santo cristiano
Ma se in molti sentirono la necessità di dissetare la propria arsura di spiritualità nelle acque stagnanti del lago di Tiberiade, altri trovarono nell’aurea terra di Sicilia, sede primordiale del culto dell’Avo divinizzato Adrano, pari strumenti di conoscenza, dissetandosi alle fresche fonti che copiose alimentano le “ furiose” acque del Simeto, fiume sul cui letto il poeta mantovano collocava la “Pingue ara di Palico” – Virgilio, Eneide, lib. IX– e dove l’iniziato Eschilo, ispirato dalle vergini di Elicona, componeva per i posteri l’esoterico messaggio (Le Etnee). Nella città in cui pose la propria antica dimora l’avo dei Sicani Adrano, vi è una ininterrotta tradizione della presenza di uomini di dio che, agendo segretamente, poiché “Dio vede nel segreto”, operarono in uno stato di quasi anonimato, e tuttavia non sfuggirono all’attento cronista dell’epoca (La vita del Sacerdote Francesco Musco di Adernò, del Barone Vincenzo Spidaliero, Adernò 1735). La contessa Adelicia, nipote del conte Ruggero d’Altavilla, che dimorò presso le sale del castello edificato ad Adrano dal nonno suo, visse in odore di santità elargendo donazioni ai santi di dio, e costruendo per essi chiese in ogni dove – Gioacchino da Fiore trascorse gli ultimi anni di romitaggio presso un monastero greco non meglio identificato (Robore grosso?), alle falde dell’Etna. S. Nicolò Politi, vissuto dal 1117 al 1167, nacque in una dimora patrizia, a pochi passi da dove, secondo le nostre ricerche, i prischi Adraniti elevarono, in illo tempore, un altare all’Avo della stirpe sicana, Adrano. L’ ara costituita da semplici poligoni di pietra vulcanica, divenne, secoli dopo, un imponente tempio sostenuto da “dodici” colonne di nero ed eterno basalto, in cui i pellegrini provenienti da tutta l’isola, si recavano per rendere
onore alla divinità (Plutarco, vita di Timoleonte). Successivamente, in epoca cristiana, le medesime dodici colonne (Salvatore Petronio Russo – Storia di Adernò -) sostennero l’attuale Chiesa Madre. È ancora lo storico, nostro concittadino, ad affermare, citando a sua volta Giovan Battista Grassi, che, fra i vari titoli con cui il conte Ruggero aveva insignito il vescovo di Catania Ansgerio, figurava quello di Priore di Adernò a testimonianza che, per vie imperscrutabili, la sede dell’Avo, dalla preistoria ad oggi, mantenne un ruolo di centralità che non sfuggì né a santi né a cavalieri. Dunque, come appare evidente al lettore, i numerosi millenni trascorsi, nella sede del culto isolano, condussero ad un semplice passaggio del testimone delle forme del sacro: dal paganesimo al cristianesimo. Nella primordiale sede del culto isolano sopravvissuto fino ai primi due secoli dell’era volgare – dal momento che il tempio viene ancora citato dallo storico romano Eliano nel III secolo-, dedicato all’avo della stirpe, ritroviamo, non si scandalizzino i lettori, una antichissima simbologia che trova posto ancora oggi tra le più disparate culture del mondo: la croce dell’ordine di Malta, sì, ma che la precede di quattromila anni;

Croce sul fondo di un piatto del II mill. a. C. Museo di Adrano

vi ritroviamo prove che l’edilizia sacra basata sul simbolismo del numero otto, come quella a cui si rifà Federico di Svevia per la costruzione di Castel del Monte, veniva utilizzata ad Adrano nel primo millennio a. C., per la costruzione di templi solari, come dimostrerebbe la presenza delle colonne ottagonali e i capitelli con le spirali e le ruote del sole esposti nel museo archeologico di Adrano; la croce potenziata o croce latina, anche questa ritroviamo ad Adrano, sì, ma su un pythos di due mila anni antecedente alla sua prima apparizione nel simbolismo cristiano.

Incisioni su arenaria presso la Valle delle Muse. Fiume Simeto, Adrano.

Ci chiediamo infine perché Gioacchino da Fiore, colui che avrebbe voluto riformare la Chiesa latina ritenendo, ancor prima che lo affermasse Francesco, che essa dovesse essere più spirituale, recatosi in Terra Santa (1168) e prima vissuto presso la corte palermitana degli Altavilla (1160-1167), scegliesse di ricercare un rapporto col divino in un convento greco siciliano alle falde dell’Etna. Gioacchino era stato beneficiato dagli Altavilla di possedimenti in Calabria e nel 1200, ritornato a Palermo, incontrò Federico II che ai possedimenti donati dagli Avi suoi al santo, aggiunse ulteriori possedimenti nella Sila. La simbologia ripresa da Fiore e trascritta dallo stesso nel Liber figurarum, richiama così perfettamente quella preistorica da indurre lo studioso a chiedersi a quale realtà conduca il simbolo.

Conclusioni
Gerusalemme si trova nella propria città; il sepolcro è collocato nel proprio cuore; ad ognuno è stato dato di combattere la propria “grande” guerra santa.
Ad majora.

Percorso medievale

Castello della Solicchiata

Adranoantica, come di consuetudine, avrebbe dovuto, se il morbo che si è abbattuto sul pianeta non lo avesse impedito, partecipare quale attore organizzatore fra le otto città partecipanti, nell’ambito del progetto Alcantara-Etna valley, il 2 Agosto 2020, ad un evento in cui si sarebbe dovuto celebrare il periodo, poco esplorato, del Medioevo adranita, con lo scopo di condurre il cittadino che vi partecipava, ad una conoscenza di sé, per la quale, un tornare indietro all’insensibilità per lui non sarebbe stato più possibile. L’evento che vedeva impegnate otto città collaboranti, avrebbe dovuto avere inizio con la conferenza stampa che si sarebbe dovuta tenere a Randazzo il 26-04-2020, nella quale ogni città partecipante, rappresentata da associazioni culturali locali, avrebbe esposto il proprio programma. Il primo evento, ad apertura del progetto, avrebbe dovuto avere luogo a Calatabiano e l’ultimo, a chiusura, ad Adrano. Il programma adranita, proposto dal rappresentante di Adranoantica, un sito web, questo, che si occupa di ricerca e divulgazione della storia locale, prevedeva la visita e la spiegazione dei numerosi monumenti dell’epoca che ancora insistono sul territorio adranita. Il titolo dell’evento sarebbe stato: “Un ponte tra due ere”. L’evento si sarebbe svolto a cominciare dalla presentazione del castello della Solicchiata. Esso sorge imponente nella periferia adranita, al centro di ettari di vigneti che rappresentano l’orgoglio della plurimillenaria città di Adrano e della millenaria famiglia che li possiede e coltiva con passione, quella dei Baroni Spitaleri. Sebbene il castello della Solicchiata non sia stato edificato durante il lungo periodo che convenzionalmente è stato chiamato Evo di mezzo o Medioevo, bensì alla fine del XIX secolo dal lungimirante Barone Felice Spitaleri, per stile ed imponenza si richiama all’architettura medievale.

Torre di guardia chiesa S.Elia

Ma v’è di più: noi siamo certi che il Barone Felice Spitaleri, riproponendo l’architettura medievale per la realizzazione dell’ambizioso progetto edilizio da adibire a cantine vinicole, oltre che a dimora familiare, intendesse richiamare in pari tempo, un’epoca, uno spirito e un prestigio: l’epoca in cui la famiglia affonda le proprie radici e lo spirito di cui essa si ritiene ancora portatrice. La su esposta deduzione emerge dal contenuto del dialogo intercorso tra chi scrive e l’erede di Felice, Arnaldo Spitalieri, nella cui aura a noi parve veder risplendere quell’immaginato animus posseduto dall’Avo suo, che non può non essersi formato se non dalle iniziali esperienze della stirpe, acquisite in quei luoghi della Terra Santa ove si intersecavano coraggio e abnegazione. Proprio questo castello, edificato in epoca moderna, richiamandosi però ad un mondo antico, ha a noi ispirato il titolo dell’evento “Un ponte tra due ere”, immaginando che nell’intenzione del nostro illustre concittadino, vi fosse la deliberata volontà di veicolare un messaggio ben preciso: che il cordone ombelicale che collega la modernità agli antichi ed eterni valori, infondo non si è mai reciso. Quel castello, dunque, attraverso la propria imponente presenza, avrebbe dovuto rimarcare quel principio ad eterna memoria ed esempio per i posteri.

Castello normanno di Adrano

E per rendere plastico ai nostri ospiti il concetto di un metaforico collegamento tra il presente e il passato, subito dopo la visita al castello della Solicchiata, avremmo condotto I nostri visitatori al ponte dei Saraceni, opera ardua di ingegneria medievale che collega le due sponde del fiume Simeto là dove le acque sono più scroscianti e furiose. Da lì ci si sarebbe finalmente spostati al castello normanno di Adrano passando dalla Torre di S. Elia Profeta che, secondo le ultime ricerche di studiosi locali, potrebbe essere stata utilizzata come propria sede dall’ordine monastico cavalleresco dei Templari.

Ponte dei Saraceni

Il ponte dei Saraceni, realizzato utilizzando diversi stili architettonici, a motivo della sovrapposizione, in Sicilia più che altrove, di dominazioni e culture differenti: romana, araba, normanna, aragonese, simbolicamente, come sopra affermato, avrebbe fatto transitare gli ospiti dal castello della Solicchiata, edificato alla fine del 1800, al castello normanno edificato nell’antica acropoli adranita intorno all’anno mille, se dobbiamo dar credito, oltre che alla tradizione orale, pure alla data scolpita in una pietra laterale della porta principale di settentrione prima che la torre subisse ulteriori rimaneggiamenti nelle epoche successive.

Data incisa nella porta di settentrione – Castello normanno di Adrano

Un giro a piedi per le ampie piazze e i vicoli di Adrano, avrebbe mostrato agli ospiti ulteriori vestigia del periodo medievale: gli archi a sesto acuto in piazza S. Agostino che facevano parte della chiesa ormai inesistente di San Giovanni Evangelista e ancora altri archi a sesto acuto in piazza Giacomo Maggio (localmente detta piazza dell’Erba) che facevano parte di un edificio patrizio ormai inesistente; e infine la torre Minà. Un rinfresco di benvenuto e attori in costume d’epoca avrebbero fatto rivivere la magica atmosfera in cui nella prisca Adrano si aggiravano monaci, eremiti e cavalieri Templari che, pure nella città sede dell’Avo Sicano, presero dimora come testimoniano le ricerche di cui si è detto. Basti in questa sede quanto esposto, lasciando libera l’immaginazione di quanti hanno partecipato lo scorso anno all’evento che rievocò il mito dell’Avo primordiale Adrano, su ciò che il sito web di storia locale Adrano antica avrebbe saputo mettere in campo grazie al genio degli uomini che lo dirigono.

Piazza Giacomo Maggio

Ad majora.

Dalla Terra Santa ad Adrano. Ishtar, Salomone, i Templari: quali relazioni?

Dalla Terra Santa ad Adrano. Ishtar, Salomone, i Templari: quali relazioni?
Nel 1314, l’ultimo maestro templare, Jacques de Molay, in seguito alle accuse infamanti mosse da Filippo IV re di Francia soprannominato il bello, venne arso vivo e l’Ordine templare di cui egli era il gran maestro, dichiarato sciolto da papa Clemente V. Tutti i possedimenti appartenuti ai Templari vennero allora assegnati all’ordine Gerosolimitano, al quale quello dei Templari era affine e del quale probabilmente era stato la costola. In Sicilia, intanto, laboratorio da cui provenivano le innovazioni, non solo politiche, che furono adottate spesso in tutta Europa, Federico II anticipava il re di Francia di mezzo secolo. Infatti, dopo le ostilità mostrate dai due Ordini nei confronti di Federico in Terra Santa, in quanto appoggiavano la politica del papa, l’Ohenstaufen nel 1229 espropriava i due ordini di tutti i beni da loro posseduti nel territorio siciliano. Ma se un anno dopo l’imperatore, venuto a patti con il papa, restituiva i beni agli ordini caduti in disgrazia, il re di Francia, ottant’anni dopo, non avrebbe fatto altrettanto. Tuttavia, se Filippo il bello, nel 1307 riusciva nell’opera di spoliazione dei possedimenti templari, le ricchezze trasportabili quali erano gli ori che potevano essere contenuti nei robusti forzieri, le conoscenze scientifiche e metafisiche acquisite dall’Ordine in Terra Santa, quando si manifestarono i prodromi della persecuzione francese, presero il largo al seguito dei cavalieri con la croce cucita sul petto. Alcuni di questi cavalieri con i loro pesanti forzieri si recarono in Portogallo ove furono ben accolti e dove assunsero il nome di cavalieri dell’Ordine del Cristo. Altri Cavalieri, con navi stracolme di forzieri, passarono in Scozia ove una famiglia tra le più nobili della regione, i Sinclair, fornì loro la necessaria protezione politica. Mezzo secolo dopo l’arrivo dei Templari in Scozia, i Sinclair erano diventati così ricchi da essere in grado di finanziare spedizioni nel nord America, in un luogo che assumerà il nome di nuova Scozia, e ciò ancor prima che Colombo scoprisse ufficialmente le Americhe nel 1492. Dai documenti emerge che un Sinclair aveva partecipato alla prima crociata del 1096; conclusa questa tre anni dopo con la conquista della città di Gerusalemme e avendo i cavalieri eletto Goffredo di Buglione protettore suo protettore, veniva anche costituito l’Ordine del Tempio, così chiamato in quanto aveva la propria sede in una delle stanze del distrutto tempio di Salomone a Gerusalemme. Successivamente la figlia dello scozzese era andata in moglie a uno dei fondatori dell’Ordine, Ugo de Payns (forse da identificare con Ugo dei Pagani come affermato nel nostro articolo “I Templari in Adrano”). Si giustifica così, in seguito alla persecuzione di Filippo il bello, la scelta di alcuni Templari di recarsi in Scozia.
GLI (O) SPITALERI DI ADRANO.
Si potrebbe tracciare per la città di Adrano un parallelismo con le vicende dei Templari scozzesi?
Di certo è che la famiglia degli Spitaleri appare in Adrano fin da quando gli ordini monastico cavallereschi si insediarono nella città plurimillenaria che fu sede del tempio della divinità sicana eponima. Tuttavia il loro nome sembra essere collegato agli Ospitalieri e non ai Templari e i primi, a differenza dei secondi, non furono né sciolti da papa Clemente V, né spogliati dei loro beni dal re francese, anzi essi acquisirono i beni di cui i Templari verranno successivamente espropriati ed è possibile che proprio da questa espropriazione la famiglia adranita abbia accresciuto il proprio prestigio e le proprie ricchezze. Infatti, non è a noi passato inosservato che nella lista genealogica della famiglia appare un Barone Spitaleri di S. Elia. Era, quella di S. Elia, una ricca contrada appartenuta ai Templari, coltivata per la maggior parte a vigneti, come si evince da alcuni atti di compravendita fra privati, redatti rispettivamente negli anni 1135-60-90 in cui compaiono, come testi firmatari, certi ‘sospetti’ frati (articolo citato). Dagli atti sopra citati, si evince dunque, che ancora fin al 1190 il priorato di S. Elia di Adrano, rientrava fra i beni posseduti dall’Ordine; l’acquisizione da parte di un privato (Barone (O) Spitaleri?) pertanto, dovrebbe collocarsi dopo questa data e potrebbe dunque essere avvenuta nel 1230, quando cioè Federico II espropriò i Templari e gli Ospitalieri dei beni acquisiti in terra di Sicilia. E’ altresì possibile che lo stesso appellativo di Ospitalieri, che diventerà il cognome della famiglia, sia stato acquisito dal nuovo possessore (un cavaliere crociato che orbitava tra gli interessi degli Ospitalieri?) dei feudi nel momento del passaggio di proprietà. Infatti, sfogliando il poderoso libro -” Mille anni di storia dei migliori vini dell’Etna” -, generosamente a noi omaggiato dal suo autore rampollo della prestigiosa famiglia degli Spitaleri, Arnaldo, in cui si raccontano mille anni di storia dei vini prodotti dalla famiglia, e in cui indirettamente si traccia una genesi della famiglia medesima, non è a noi sfuggita l’affermazione qui riportata per esteso: “Ormai imparentati con le nobili famiglie siciliane scelgono già dal Trecento anche loro (gli Spitalieri) un simbolo, uno stemma, che li possa contraddistinguere”. Ebbene, la data in cui si effettua il su citato salto sociale con il quale la famiglia, da grande detentrice di fertili terreni agricoli accede alla nobiltà, ci riporta al periodo in cui si svolse la brevissima diatriba tra l’ordine degli Ospitalieri, quello templare, e Federico II. Quando l’Ohenstaufen sarà costretto a barattare la propria riabilitazione politica compromessa dalla scomunica papale e restituire i beni sottratti ai due ordini, gli (O) Spitaleri verosimilmente sarebbero entrati già a far parte, attraverso matrimoni trasversali, di quelle nobili famiglie ritenute ormai intoccabili, alcune imparentate con lo stesso Federico II, come quella dei Ventimiglia, conservando per sé i terreni appartenuti all’ordine e acquistati legittimamente.
Onde dar corpo alla ricostruzione degli eventi che interessano il territorio adranita e le nobili famiglie che lo abitarono, e fare intendere quali intrecci di interessi politici ed economici potessero essere stati intessuti allora come ora, fra i nobili da un lato e i nuovi arricchiti dall’altro, basti fare riferimento ad un atto notarile datato 1131 giunto integralmente fino a noi, attraverso il quale avvengono dei trasferimenti di terreni presso l’isola di Lipari. Ebbene, tra i testi firmatari del su detto atto, è presente il sacerdote Fulconis il cui cognome riconduce alla dinastia reale dei Plantageneti della quale successivamente Federico II avrebbe sposato una lontana erede, Isabella d’Inghilterra. Isabella, l’ultima moglie del re siciliano, era la figlia di Giovanni senza terra, fratello di Riccardo detto cuor di leone. Con questi, Federico, come diremo più avanti, intreccerà il suo destino in Terra Santa. .
SCOZIA E SICILIA: I RE IMPARENTATI.
Si evince, grazie alle ricerca documentaria, che i re al governo delle nazioni che costituiranno la futura Europa non solo erano imparentati tra loro, ma facevano convergere i propri interessi e le proprie ambizioni, non senza scontrarsi spesso, su obiettivi comuni. Uno di questi obiettivi era costituito dall’ambizione di ottenere il prestigioso regno della Terra Santa che, attraverso la prima crociata, era stabilmente detenuto dai Franchi. Le ambizioni di Federico II e Riccardo, re d’Inghilterra, ora si scontravano o forse semplicemente si incontravano, in Terra Santa. Con la morte di Riccardo e il matrimonio di Federico con la nipote del re, Isabella d’Inghilterra, veniva verosimilmente appianato ogni possibile disguido e stemperata ogni ambizione inglese nei riguardi della città santa. Non possiamo allargare le indagini in questa sede, per ovvi motivi di brevità, circa gli interessi incrociati che intercorsero tra Saladino e Riccardo re d’Inghilterra prima, e successivamente tra Federico II, nipote del re, e Al’Kamil nipote di Saladino, rapporti sospettosamente cordiali fra i quattro protagonisti, che portarono alla pacifica suddivisione del territorio palestinese tra Cristiani e Musulmani. .

Chiesa di S. Agostino, già Chiesa dell’Annunziata.

LA CHIESA DELLA MADONNA ANNUNZIATA DEI PADRI AGOSTINIANI DI ADRANO.
La chiesa cui facciamo cenno nel titolo del capitolo che segue, oggi intitolata a S. Agostino, fu la originaria cappella della Compagnia dei Nobili Bianchi – sorta ad Adrano nel 1568, subito dopo quella di Palermo e due anni prima di quella di Catania -; è quanto deduciamo dalla lettura della biografia del sacerdote adranita Francesco Musco, vissuto ad Adrano nel ‘500, compilata dal Barone Vincenzo Spitaleri, che la diede alle stampe nel 1735. Nell’opera apologetica del sacerdote, a Pag 35, il barone fa cenno alla chiesa dell’ Annunziata come il luogo scelto per la sepoltura dei poveri. Durante i lavori di ripavimentazione della sacrestia, come affermato dal parroco Rev. Padre Abate, si rinvenne nella attuale chiesa di S. Agostino ex Annunziata, un solaio a copertura di un ipogeo; non essendo interessati ad esplorarlo, motivati da umana pietas, non avendone tra l’altro individuato l’ingresso, ci si limitò, in quella circostanza, a eseguire la ripavimentazione del solaio, consegnando all’indagine documentaria le possibili prove di quanto in questa sede ricerchiamo. La genesi della Compagnia dei Nobili Bianchi, sorta ad Adrano nel 1568, subito dopo quella di Palermo e due anni prima quella di Catania, e che assurse in Sicilia ad un improvviso prestigio e potere economico, è stata dagli storici poco indagata: noi, in uno dei precedenti nostri articoli, avevamo avanzata l’ipotesi secondo la quale essa potesse essere stata una ricostituzione del disciolto Ordine dei Templari (vedi l’articolo ‘Rinominazione della città di Adernò in Adrano). Il nome di Chiesa dell’ Annunziata, si riscontra anche per una cappella appartenuta ai Nobili Bianchi a Castelfranco di sopra, nei pressi di Firenze, nel XIV sec. La stessa città di Firenze in cui i Nobili Bianchi si costituirono prima che altrove, presenta un simbolismo riconducibile alla Compagnia di cui diremo a suo luogo. Il fatto che il Palazzo dei Bianchi fosse appartenuto alla nobile e antica famiglia dei Ventimiglia, e questi l’avessero ceduta ai Bianchi di Adrano per farne la loro sede, avvalora ulteriormente la ricostruzione che esporremo di seguito. Si aggiunga che i Moncada consideravano Adrano la perla dei loro possedimenti. I componenti di questa famiglia, giunta in Sicilia alla fine del ‘400 divennero prima conti di Adrano e Caltanissetta e nel 1565 principi di Paterno’.

Castello di Threave in Scozia
Castello di Threave in Scozia

IL SIMBOLISMO TEMPLARE DALLA TERRA SANTA AD ADRANO.
I recenti lavori di restauro, tuttora in corso nella su nominata chiesa adranita, hanno portato alla luce un tripudio di affreschi decorativi nelle pareti e sulla volta che, a nostro avviso, contribuiscono a darci ragione sull’ intuizione a noi balenata in tempi non sospetti circa il ruolo esercitato ad Adrano e in Sicilia, dalla Compagnia dei Nobili Bianchi e che di seguito esporremo. I lavori di restauro hanno fatto emergere una stupefacente decorazione di natura floreale in cui sono raffigurati, attraverso il sapiente e armonico utilizzo di colori di un tenue azzurro e candido biancore, corone di gigli che corrono lungo le pareti e le alte volte della ora chiesa, e poi di rose, queste dipinte soltanto sul soffitto dell’abside della chiesa. Ora si dà il caso che il motivo floreale che appare nella chiesa adranita sia il medesimo di quello che adorna le due colonne e il tetto della cappella scozzese di Rosslyn di proprietà della nobile famiglia dei Sinclar. La famiglia scozzese, come si ricorderà anche per quella degli (O) Spitaleri di Adrano, aveva preso parte alla prima crociata per la riconquista del Santo Sepolcro. Dalla Terra Santa, come già detto, nei primi anni dell’anno mille e cento, aveva preso vita il nuovo Ordine dei Templari. I Templari, una volta costituitosi in ordine monastico cavalleresco, in Terra Santa avevano ricavato la loro sede in una stanza del distrutto Tempio di Salomone. Come si evince attraverso la lettura dell’Antico Testamento, Il giglio e la rosa si trovavano raffigurati nelle due colonne di Boaz e Iachin poste rispettivamente a sinistra e a destra dell’ingresso del tempio di Salomone a Gerusalemme. Il giglio domina, come elemento decorativo, ovunque all’interno del salomonico tempio così come domina all’interno della chiesa adranita. Ma ora, alcune associazioni che porremo all’attenzione del lettore, faranno comprendere quanto intricati fossero i rapporti tra civiltà così distanti tra loro e quanto intensa fosse la mobilità nel mondo antico.
La cappella di Rosslyn venne costruita in Scozia un secolo dopo il rogo del gran maestro templare Jacques de Molay avvenuto nel 1314; la costruzione della “possibile” cappella dei Nobili Bianchi oggi chiesa di S. Agostino in Adrano, dovrebbe porsi agli inizi del ‘500, ma la compagnia si era già costituita sul territorio italiano subito dopo lo scioglimento dell’ Ordine dei Templari. Infatti, a Firenze essa appare già nel 1375 e il simbolo di Firenze è il giglio. L’ addebito della costruzione adranita – o riadattamento della cappella-, alla confraternita dei filantropi Nobili Bianchi, si rende compatibile con le finalità che la stessa si era proposte : curare gli ammalati, dare una degna sepoltura agli indigenti, soccorrere i poveri ecc. Pertanto, a tal fine, la Compagnia si propose di edificare l’ospedale annesso alla su detta cappella, il quale, ancora oggi, oltre cinque secoli dopo, assolve al medesimo compito. In altra sede accenneremo ad altri riferimenti che uniscono la città di Adrano alla Scozia, come per esempio il castello di Threave.
Ma torniamo ai Templari e al Tempio di Salomone la cui costruzione ebbe inizio nel 961 a.C. grazie all’impegno e alle ingenti risorse economiche e di uomini, profuse dal terzo re di Gerusalemme, che con quella costruzione aveva voluto saldare il debito contratto dal padre Davide nei confronti della divinità. Infatti, Davide, non potendo ottemperare alla promessa di costruire il tempio che avrebbe dovuto ospitare l’arca dell’alleanza, sul letto di morte consegna al figlio Salomone il progetto del futuro tempio fornendogli le misure per la sua realizzazione, misure che egli aveva ricevuto direttamente dalla divinità (edilizia sacra?). Davide, l’ideatore del progetto, aveva origini ittite, come abbiamo ipotizzato nel saggio “Il paganesimo di Gesù”, e soleva sacrificare alle divinità pagane; il figlio Salomone ne aveva continuato la tradizione, come si evince in I Re, 11,4-8. Tra le divinità pagane a cui i re israeliti prestavano culto, Salomone sembrava essere stato particolarmente devoto a Ishtar o Astarte, la dea Inanna dei Sumeri.
Ora, si dà il caso che le rose che troviamo raffigurate sul soffitto dell’abside della cappella adranita, su quello scozzese, nelle colonne sia scozzesi che del tempio di Salomone a Gerusalemme (nel A. T. : I Re, 6,18 si fa cenno a ghirlande di fiori; e inoltre in 7,20 si afferma che ghirlande di gigli adornavano l’interno del tempio, non possono perciò passare inosservate le ghirlande di gigli dipinte sulle pareti della chiesa adranita), erano sacre a Ishtar. Ci chiediamo: i cavalieri dell’Ordine del Tempio avrebbero appreso (o recuperato) le loro conoscenze esoteriche presso il tempio di Salomone e ne avrebbero poi esportato il simbolismo? La risposta sembrerebbe affermativa se teniamo conto che le costruzioni che Federico II avrebbe successivamente fatto erigere, una fra le tante il castello del Monte, sono infatti opere definite dagli studiosi libri di pietra (il parallelismo con il tempio di Gerusalemme le cui misure erano state dettate a Davide dalla divinità, è pertanto dovuto. Particolarmente significativo è il riferimento al numero otto – I Re, 6, 38; 7,10).
La corrispondenza epistolare intercorsa tra l’imperatore tedesco e l’emiro Al’Kamil, basata spesso sulla disquisizione filosofica e metafisica, farebbe presupporre che, sia l’islamismo esoterico (il sufismo) che quello occidentale, siano debitori ai segreti celati in Terra Santa. Ma ritornando sulle possibili origini etniche del terzo re di Gerusalemme Salomone, che non era Ebreo, va notato che non lo erano Baldovino né i suoi eredi, né Al’Kamil, né il tedesco Federico II e molti altri. Avendo notato che l’investitura/iniziazione di Saul, primo re di Israele era stata possibile soltanto dopo che il re aveva superato le prove a cui era stato sottoposto dal sacerdote Samuele; ci chiediamo se ancora al tempo di Federico, in Terra Santa, esistesse una corrente sotterranea esoterica (seguendo le speculazioni dell’esoterista Rene’ Guenon sembrerebbe che essa esistesse ancora fino al suo tempo, anzi pare che egli stesso fosse stato iniziato) che imponeva ai re di Gerusalemme, per diventare tali, una iniziazione ai misteri. Se così fosse si spiegherebbe il motivo per cui i rapporti tra Al’Kamil e Federico, che sembrano riproporre quelli ottimi intercorsi due millenni prima tra il fenicio re di Tiro Hiram e Salomone, fossero più che cordiali, fraterni. È infatti possibile che tra i due re si fosse instaurato quel legame spirituale infuso attraverso l’iniziazione, che successivamente avrebbe fatto chiamare fratelli gli appartenenti alla massoneria (ufficialmente costituita nel 1717). Si noti che anche la massoneria affonda nel tempio di Gerusalemme e nel sigillo di Salomone, le proprie radici e Adrano fino al XIX secolo vantava ben 4 logge massoniche: Figli dell’Etna; Barone Guzzardi; Rinnovamento e Levana, come emerge dalle ricerche dello storico adranita A. Montalto, La costruzione del tempio di Salomone, così come descritta in Re, 6, sembra aver costituito l’esempio di un modello di edilizia sacra basata sulle proporzioni, sui numeri, sull’armonia, che fu di riferimento anche per Castel del Monte. Entrambi gli edifici sono ricchi di simboli numerici tra i quali appare il numero otto. Le conoscenze a cui facciamo cenno non cessarono mai di operare nel territorio adranita, sede di forze primordiali. A questo proposito è importante ricordare ai nostri affezionati lettori, le colonne ottagonali provenienti dalla città sicula del Mendolito presso Adrano, databili all’ VIII sec. a. C. e le quattro logge massoniche che, ultime, continuarono a trasmettere una tradizione plurimillenaria. Successivamente le pratiche esoteriche esercitate nella loggia massonica nata per prima in Inghilterra, patria di Isabella moglie di Federico II, sarebbero state definite “di rito scozzese”. Ma della Gerusalemme dei Re abbiamo sufficientemente disquisito nel citato saggio, in questa sede concluderemo il nostro excursus affermando che, il simbolismo templare di provenienza Palestinese, in realtà deriva da altre coordinate geografiche e da ere cronologicamente incommensurabili e che il Medioevo rappresentò soltanto un momento congiunturale in cui determinate forze esogene si ripresentarono prepotentemente.
Ad majora.

E il vate parlò: le mura dionigiane non sono dionigiane.

Mura ciclopiche

Da un decennio, a partire dalla pubblicazione del saggio “Adrano dimora di dèi nella storia del Mediterraneo greco”, apportando numerose prove circa l’impossibilità di una fondazione Dionigiana della vetusta città di Adrano che ospitava l’atavico tempio sicano dedicato all’Avo, sosteniamo che il tiranno non si sarebbe potuto trovare nelle condizioni ottimali per costruire le mura ciclopiche della città di Adrano, a lui indebitamente intitolate durante gli anni Settanta. Il perimetro delle poderose mura, avrebbe infatti inglobato al proprio interno un’area stimata di circa sessanta ettari. Per lavorare le pietre poligonali, alcune di diverse tonnellate di peso, con le quali è costruito il muro, sarebbe stato dunque necessario attingere da più cave e ciò necessitava di lunghi periodi di pace durante i quali scalpellini, ingegneri e manovalanza varia potessero dedicarsi alla costruzione. Ma su ciò sia sufficiente quanto abbiamo affermato nel citato saggio e in molteplici articoli apparsi sul web; in questa sede vogliamo invece riprendere brevemente l’argomento per segnalare ai nostri assidui lettori, come da un errato inizio segua una fine disastrosa. Pertanto è nostro obiettivo evitare che il rimedio offerto dagli accademici, che di seguito esporremo, sia peggiore del male che si intende curare.

LE INCONGRUENZE DELLE TESI ACCADEMICHE.
Nel corso del convegno tenuto il 13 febbraio 2020 nelle prestigiose sale del dongione normanno di Adrano, che ospita l’importante museo archeologico, la relatrice, dottoressa La Magna, che da quattro lustri si interessa alla vastissima area archeologica adranita, finalmente, sosteniamo noi pionieri della tesi, affermava che non poteva essere stato il tiranno siracusano Dionigi il vecchio ad aver eretto le mura poligonali di Adrano. Se tale affermazione ci faceva sperare in una revisione della tesi che attribuiva ai Greci la costruzione, certi che si sarebbe anticipata la data della messa in opera della ciclopica muraglia, la delusione non si fece attendere nel constatare che archeologi di tale prestigio si lasciassero andare a tesi prive di fondamento in cui non si teneva affatto conto del contributo offerto dalla multidisciplinarietà. Dimostreremo qui di seguito che, come gli accademici errarono la prima volta attribuendo a Dionigi la costruzione delle poderose mura, in un errore ancor più grave cadono adesso posticipando la costruzione di esse in epoca ellenistica.

DA DIONIGI A GERONE II.
in una visione grecocentrica della storia isolana di cui neanche gli accademici riescono a liberarsi, notando le evidenti incongruenze nella tesi che vedeva Dionigi quale ecista e costruttore della fortezza adranita, nella su citata conferenza si tentava di ripiegare su Gerone II pur di far rimanere in ambito greco il prestigio di una costruzione che, per dirla con il famoso visitatore del ‘700, J. Houel, “sono veramente mura meravigliose, unico genere in tutto il mondo. Né le basature del Pantheon, e del Colosseo, e della mole Adriana, né il foro romano, e gli anfiteatro del mondo antico, né i ruderi dei più vetusti templi di Segesta e di Selinunte in Sicilia, né le macerie di Ercolano e di Pompei prestano un simile spettacolo! Queste mura colossali par che emettano il grido: Noi siam fattura dei Giganti! Le generazioni umane non ci curarono, ma noi sfidiamo i lunghi secoli, eccoci restammo immobili! ” S. Petronio Russo, Storia di Adernò. Analizzando velocemente gli eventi storici che si sono susseguiti nell’area adranita a partire dal V sec. a.C., raccontati dagli storici del tempo tra i quali Diodoro, Plutarco, T. Livio, emerge che le ciclopiche mura erano pre esistenti all’epoca ellenistica e che Gerone II ancor meno di Dionigi il vecchio, sarebbe stato nelle condizioni di poterle erigere, preso com’era dagli eventi bellici che lo vedevano contrapposto prima ai Romani e, successivamente, dopo aver stretto alleanza con questi, ai Punici. Ma andiamo per ordine.
Escludendo che per i motivi da noi esposti da un decennio a questa parte, e dalla dottoressa La Magna il 13 Febbraio 2020, la costruzione delle mura possa essere attribuita a Dionigi o a suo figlio che cedette a Timoleonte nel 344 a.C. la signoria delle città sottoposte alla tirannide siracusana, si potrebbe immaginare che la loro costruzione fosse stata intrapresa durante il felice periodo timoleonteo. Infatti, questo breve periodo, come dedotto dagli studi del dottor Barresi (Dall’Etna al Simeto), vide la città di Adrano al centro di una ripresa economica dopo la riconquista della perduta democrazia da parte delle città siciliane sottoposte alla tirannide siracusana. Tuttavia, se un’opera così imponente fosse stata costruita durante il periodo in cui il condottiero greco cominciava da Adrano la sua ascesa militare e politica (qui si era infatti recato, presso il tempio dell’Avo divinizzato Adrano, per essere investito dalla casta sacerdotale adranita e nello stesso tempo per aver affidato un esercito formato dagli Anfizioni onde appoggiare la campagna anticartaginese – Diodoro, Biblioteca Historica lib. V, cap. XV-) , Plutarco, lo storico greco che ci lasciò la biografia del condottiero di Corinto, non avrebbe potuto evitare di fare riferimento ad un’opera titanica che avrebbe implicato l’apertura di cantieri e l’impiego di migliaia di operai necessari per la costruzione delle mura adranite così come, Diodoro siculo, non si lasciò sfuggire l’occasione di esaltare Dionigi per la costruzione delle mura siracusane. Alla morte di Timoleonte la città di Siracusa riprende il vezzo di generare tiranni, ma nemmeno Agatocle (317-304) avrebbe potuto aver il tempo né tanto meno la voglia di aprire un cantiere così impegnativo preso com’era a fare guerra ai Punici, trovandosi spesso in pericolo di morte anche a causa dei suoi oppositori politici. Dopo la morte del tiranno più crudele tra quelli apparsi a Siracusa, la Sicilia si trovava nel caos più totale tanto che si dovette ricorrere a Pirro (278-276) per mettere ordine. Durante il regno di Gerone II, a partire dal 262 a.C., le condizioni sarebbero state propizie. Infatti, dopo che il tiranno riuscì a firmare un’alleanza con i Romani, il regno diventò il più ricco e longevo tra quelli che lo avevano preceduto. Tuttavia un episodio ci spinge a credere che le mura fossero più antiche: l’assedio di Adrano del 263 a.C. ad opera di seimila legionari ben agguerriti e in possesso di moderne macchine belliche con le quali ‘presero d’assalto la città”. Infatti, una città si può assediare soltanto se questa è fortificata. Inoltre, I Romani, che dopo l’ occupazione del 263 a. C. controllavano politicamente la Sicilia e avevano concesso al tiranno siracusano, venuto a patti, di imporre il suo protettorato ad una esigua fetta del territorio della Sicilia orientale, nel quale vi era probabilmente incluso quello adranita, non gli avrebbero certamente concesso di fortificare una città rendendola inespugnabile dopo l’esperienza vissuta nel 263 a.C.

rovine ponte romano

LE MURA DI ADRANO, FORTIFICAZIONE O RECINTO SACRO?
La datazione delle mura in epoca ellenistica viene stabilita dagli archeologi, come la relatrice ha affermato la sera del 13 febbraio 2020, sulla base dei reperti, dediche votive, rinvenuti lungo il perimetro delle mura. Questi reperti sono stati datati alla metà del terzo secolo.
Per quanto ci è dato sapere, gli scavi sono stati realizzati a macchia di leopardo, non sono numerosi e tramite di essi, della città greca non si è potuta realizzare una mappatura scientificamente sostenibile. Tanto che perfino il sito del mirabile tempio dell’avo Adrano, oggetto di un importante pellegrinaggio da parte dei devoti che giungevano da tutta la Sicilia, come si evince in Plutarco (vita di Timoleonte), rimane per gli archeologi un mistero, eppure, tenendo conto di un approccio col passato utilizzando le diverse discipline scientifiche: l’ edilizia sacra secondo i canoni antichi, le fonti storiche, le tradizioni orali, basterebbe, a nostro avviso, scrutare con occhio scientifico le pareti, le colonne e l’ipogeo della Chiesa Madre sita sull’antica acropoli della vetusta città di Adrano, per trovarvi indizi sufficienti.
Analizzando la parte delle mura ciclopiche rimaste, circa seicento metri, è possibile dedurre, dalla diversa tecnica della lavorazione delle pietre che le costituiscono, che esse sono state realizzate in periodi di tempo diversi poiché differente è la tecnica di lavorazione dei colossali poligoni lavici così come diversa appare la consistenza e il taglio dei poligoni. Entrando ora in punta di piedi in un argomento che potrebbe apparire poco scientifico, non può essere tuttavia taciuto che in quelle arcaiche società il concetto del sacro permeava la vita quotidiana delle comunità al punto che ogni atto, sia esso pubblico che privato, non veniva intrapreso se non trovava il consenso divino dopo che la divinità era stata adeguatamente interrogata in proposito. Il dialogo avveniva nel luogo ove il sacro si era manifestato la prima volta. Lì si era eretto tutt’attorno un recinto di pietre. Come è testimoniato dalla edilizia sacra a cui ricorsero gli antichi, di solito le manifestazioni del divino avvenivano nei luoghi più elevati: Abramo, Mosè, Salomone si recavano sulle alture per incontrare il divino. L’altura diventava l’acropoli delle città che venivano costruite tutto attorno, in modo che le abitazioni fossero equidistanti dalla fonte divina; attorno all’acropoli veniva edificato un muro che divideva l’area sacra in cui risiedeva il divino da quella profana in cui risiedevano i cittadini.
Le fortezze o mura che in alcuni luoghi antichissimi ancora oggi si possono notare e che circoscrivono le acropoli, non sempre e non necessariamente furono dunque costruite per lo scopo di difendere la città da pericoli militari esterni. Spesso esse servivano a racchiudere uno spazio sacro dal quale si irradiavano, secondo la credenza degli antichi, potenti e indefinibile forze extrafisiche che, se non si era in grado di gestire, potevano perfino nuocere, come accadeva spesso quando incautamente si avvicinavano all’arca alcuni sacerdoti ebrei (A. T. Esodo 30,17/ Levitico 10,1.) . A conferma di quanto queste credenze facessero parte del tessuto culturale dell’epoca, citiamo lo storico romano T. Livio che racconta come nel 213/11 a. C., perfino un popolo pragmatico quale era quello romano, si facesse prendere da tale scrupolo religioso o superstizioso. Infatti, lo storico narra che i Romani, credendo che dal tempio del dio Adrano venissero emanate delle forze che sostenevano gli eserciti dei Siculi, alleati dei Punici, eressero tutto attorno un muro, al fine di contenere le forze all’interno del tempio.
Ora, noi riteniamo che lo spazio sacro dell’acropoli circoscritto dalle mura, venisse chiamato cittadella da Plutarco, (città abitata dalle divinita?) termine che, utilizzato dallo storico di Cheronea per la città di Adrano, ha creato confusione, come ha candidamente affermato la relatrice nel suo intervento del 13 febbraio. Infatti gli studiosi non si spiegavano come i sessanta ettari inclusi all’interno delle mura potessero essere definiti una piccola città dallo storico greco. Abbiamo buoni motivi per credere che Plutarco, vissuto nel I sec. dell’era volgare e che con il sacro aveva molta dimestichezza avendo ricoperto per venti anni il ruolo di jerofante nel santuario di Apollo a Delfi, chiamando cittadella Adrano, in realtà si riferisse alla sola acropoli di essa, luogo in cui sorgeva il tempio dell’Avo con l’enorme boschetto sacro intorno, perimetrato dalle mura poligonali. Riteniamo perciò probabile, che un’altra muro potesse circoscrivere la città vera e propria. Quanto qui dedotto circa il lessico utilizzato da Plutarco, prende corpo se si nota che lo stesso termine di cittadella viene utilizzato dallo storico di Cheronea per indicare Roma. In questo caso, parlando della città più grande e popolosa del mondo al tempo di Plutarco, appare evidente che lo storico si riferisca al solo colle del Palatino ove i senatori ogni giorno si riunivano per deliberare i loro precetti rivolti al popolo, prendendo gli auspici secondo il volere di Giove Ottimo Massimo che aveva in quel sacro monte il proprio tempio.
Concludendo il nostro excursus auspicando che i passi successivi che gli accademici possano intraprendere, stimolati dall’amministrazione adranita, siano quelli di rimuovere la segnaletica che indica come dionigiane le mura sviando così il turista e lo studioso, rinominandole con l’antico nome di ciclopiche o poligonali che meglio si addice alla tipologia di costruzione; di pronunciarsi sulle rovine che il rinvenitore presuppone appartenere ad un ponte romano eretto sul Simeto nei pressi della chiesetta dedicata a S. Domenica; della pietra arenaria

pietra con cerchi

sul fiume Simeto presso la valle delle Muse in cui vi sono incisi dei simboli che gli studiosi, consultati dal suo rinvenitore hanno attribuito a mani umane; le tre arcate, probabili resti delle terme romane riprese in

un acquarello dal pittore del ‘700 J. Houel; il sito in cui potrebbe celarsi un teatro greco, da noi individuato presso la rocca Giambruno. Noi Adraniti, ispirati dal divino furore, riscaldati dal sacro fuoco, mossi dallo spirito guerriero infuso dalla divinità eponima, non demorderemo: disseppelliremo il nostro vetusto e nobile passato, e se questa vita non ci fosse sufficiente, ebbene, ritorneremo!


Ad majora.

I cavalieri del Santo Sepolcro ad Adrano (?). Chiesa di S. Elia Profeta.

“Ego Adelitia neptis Regis domini
Rogerii et figlia comitis Rodulphi Machabei
de Monte Caveoso dono (…) ecclesiam
in honorem Beati Helie Prophete extra Adernionem (…) pro anima in liti
comitis Rogerii Avi Mei (…)”.

Anno Incarnazionis Dominice 1136

Foto S. Ronsisvalle.

Riguardo ai motivi che portarono alla nascita degli ordini monastico cavallereschi, alla loro veloce ascesa e repentina scomparsa, poco diremo in questo articolo, essendo stato l’argomento ampiamente trattato da autorevoli studiosi, fino ad abusarne talvolta. A noi interessa, da cittadini Adraniti, indagare se vi siano state connessioni tra la vetusta sede dell’avo primordiale Adrano e i monaci guerrieri d’oltremare, se fra i nostri antenati qualcuno abbia aderito ai loro programmi.

PERCHÉ ADRANO.
Poiché difficilmente potremo nascondere, fra le righe che seguono, il patrio ardore che ha mosso la nostra ricerca, lo esporremo chiaramente, invitando tuttavia il lettore a continuare la lettura, in quanto, a motivo dell’inevitabile intersecazione tra le vite vissute, degli ideali comuni che uomini affini perseguono, partendo da un microcosmo è possibile accedere alla comprensione del macrocosmo.

ADRANO.
La città dedicata all’Avo primordiale, ha sempre assunto, nella storia isolana, l’inevitabile ruolo di crocevia in cui si sono intersecati I destini dei leader che percorsero la Sicilia: Ducezio, Timoleonte, Dionigi di Siracusa e Adelicia contessa di Adernò (nome, quest’ultimo, di Adrano, mantenuto dal periodo arabo normanno fino al 1929). Costoro raccolsero il loro mandato, spesso militare, sempre religioso, in questa città che ancora ospita, sebbene nascosto agli occhi umani, il tempio della divinità eponima venerata in tutta la Sicilia fin dal tempo della preistoria (Diodoro, Biblioteca Historica; Plutarco, Vita di Timoleonte). Dando per certo che il lettore sia a conoscenza delle modalità con cui si sceglieva un luogo per edificarvi un tempio o fondare una città, non ci dilungheremo oltre sull’argomento. Ma riteniamo possibile che Adelicia, contessa di Adernò, traesse la sua ispirata generosità dalla avita dimora, il castello edificato da suo nonno e attiguo alla Chiesa Madre, edificio quest’ultimo, in cui noi sospettiamo che si celi il primordiale tempio di Adrano, sospetto suffragato da una numerosa presenza di indizi, oltre che dalla tradizione orale secondo la quale, le dodici colonne che sostengono la navata principale della chiesa, facevano parte dell’antico tempio. Corrobora ancora il sospetto che la suddetta chiesa occulti le rovine del tempio l’abitudine dei cristiani di costruire le loro chiese sulle spoglie dei templi pagani. Avvertì forse Adelicia, le forze mistiche che il luogo emanava, dal momento che la sua vita fu caratterizzata da un istinto religioso che non ha avuto eguali nei monarchi successivi: infatti, grandioso fu il numero di chiese da Lei fondate e/o dotate in tutto il mondo cristiano normanno di allora.

FONDAZIONI E DONAZIONI DELLA CONTESSA ADELICIA DI ADERNÒ (ADRANO) AL S. SEPOLCRO DI GERUSALEMME.

Quelle sotto elencate furono le donazioni della pia donna documentate attraverso le pergamene giunte fino a noi: S. Agata di Catania; S. Elia di Adernò; Ospedale di S. Giovanni a Gerusalemme; S. Lucia di Adernò ; S. Lucia di Siracusa; S. Salvatore di Cefalù ; S. Sepolcro di Gerusalemme; S. Stefano del Bosco; S. Maria di Robore Grosso; S. Maria de Manialibus a Siracusa; S. Maria di Pedali a Collesano; S. Nicola di Malvicino.

RUGGERO IL GRAN CONTE.
Ma se Adelicia per le sue donazioni fu animata da pietas religiosa, ben altre furono le intenzioni del nonno quando faceva dono all’abate britannico benedettino Ansgerio, della città di Catania nel 1091, dopo averla tolta agli Arabi , oltre che della chiesa di S. Agata enormi territori e poteri temporali. Il conte aveva scacciato dalla Sicilia i Musulmani ed intendeva ora latinizzare l’isola, si ma sotto la sua ala protettrice. Infatti, essendo cessato il dominio arabo nell’isola, egli aveva compreso che chi avrebbe potuto contendergli il potere temporale ed ostacolare il suo grandioso programma di unificazione, era adesso il papa; emulando Costantino (Concilio di Nicea del 325), comprese che per avere la meglio sul vescovo di Roma doveva combatterlo sullo stesso terreno utilizzando le sue stesse armi, doveva servirsi cioè, della stessa organizzazione della chiesa per capillarizzare il territorio di propri accoliti. Le ambizioni del conte non si arrestavano tuttavia ai possedimenti dell’Italia meridionale: Sicilia, Puglia e Calabria; Gerusalemme riempiva allora l’immaginario collettivo e di ogni monarca d’Europa ed era considerata ancora terra di nessuno: chi fosse riuscito a strappare la Palestina ai Musulmani per primo, si sarebbe ritagliato il proprio protettorato là dove le condizioni gli fossero apparse le migliori. Il fatto che Ruggero concedesse all’abbazia, ora diocesi, di S. Agata di Catania, prima grande costruzione latina, Aci, Paterno’, Adernò, S. Anastasia, Centuripe ed Enna significava che oltre ad essere certo della fedeltà dell’abate britannico Ansgerio, il Conte celava un progetto di ‘ristrutturazione’ della chiesa di Roma in Sicilia. Questo suo programma si paleserà nel momento in cui verrà eletto l’antipapa Anacleto, avendolo Ruggero preferito al legittimo Urbano II. Nella presa di posizione di Ruggero in ambito religioso, si legge la volontà di recuperare il prestigio della corona che a partire da Carlo Magno era stato indebolito a beneficio del potere religioso. Dopo lo scisma del 1054 tra chiesa d’Oriente e chiesa d’Occidente, il gran Conte intendeva approfittare dell’indebolimento del soglio pontificio per fare recuperare terreno alla corona cui egli aspirava e che il suo erede otterrà. La Terra Santa rappresentava dunque per gli Altavilla un terreno di scontro favorevole garantito’ loro il successo con l’elezione a re del pronipote Federico, sebbene questi fosse per metà di sangue germanico. Un ulteriore indizio sulla tipologia programmatica che il Conte intendeva perseguire, inerente la gestione del clero siciliano, si coglie nella gara che intrapresero gli aristocratici normanni di Sicilia, a partire dal 1092, nel concedere donazioni alla chiesa di S. Agata di Catania. Tancredi di Siracusa; ll vescovo Giovanni di Fiumefreddo; il vescovo Roberto di Messina; il conte Goffredo di Ragusa non badarono a spese. Ruggero II, figlio del gran conte, donerà nel 1124, lo stesso anno in cui Ansgerio morirà, la città di Mascali e successivamente proprie terre nel territorio di Lentini. Ma la prova che gli Altavilla avessero per la Sicilia grandi ambizioni programmatiche, che volessero farne il centro del culto cristiano, si evince con la eclatante mossa del vescovo Maurizio subentrato al fedelissimo di Ruggero Ansgerio. Maurizio stacca la diocesi catanese di S. Agata dalla dipendenza di Roma per darla a Messina (1134).

MESSINA, UN PONTE PER IL S. SEPOLCRO.

Non comprenderemmo l’assoggettamento della diocesi di S. Agata di Catania a Messina nel 1134 approvata dall’antipapa Anacleto II che aveva nei confronti degli Altavilla un debito d’onore per l’appoggio da questi fornito alla sua ascesa al soglio pontificio, se non lo collegassimo agli accadimenti avvenuti in Terra Santa e alle ambizioni sempre più crescenti degli Altavilla .

FONDAZIONE DELL’ORDINE DEL S. SEPOLCRO DI GERUSALEMME.

Nel 1129 veniva ufficializzato – in effetti esso era già operativo da almeno un decennio – l’ordine dei “Poveri Cavalieri di Cristo del Tempio di Salomone” che Ugo dei Pagani (de Payns per la storiografia ufficiale) aveva fondato in Terra Santa. Da parte nostra siamo convinti, per i motivi in parte su esposti e che continueremo ad esporre oltre, che gli Altavilla avessero avallato e forse contribuito alla nascita ufficiale di questo prestigiosissimo ordine religioso cavalleresco, nel tentativo di utilizzarlo per il proprio programma egemonico, cosa che invece riuscirà a S. Bernardo di Chiaravalle che ne scriverà la regola. Prima che l’ordine fosse ufficialmente costituito e organizzato, Goffredo di Buglione, strappata Gerusalemme ai Musulmani nel 1099, aveva fornito la protezione dei suoi crociati alla chiesa in cui alloggiavano i monaci dell’Ordine dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro. I monaci regolari di questa chiesa, dal momento che i crociati fecero di Gerusalemme un possedimento cristiano, cominciarono ad accogliere regolarmente i pellegrini provenienti dall’Europa, per cui si rese necessario creare una milizia. I componenti di essa si chiamarono in un primo momento Christi milite e poi definitivamente milites templi, con lo scopo di proteggere i pellegrini e i monaci che li ospitavano. Al fine di garantire l’agevolezza e la sicurezza del percorso che i pellegrini dovevano intraprendere, questo doveva essere ben organizzato fin dalla partenza dall’Europa. Si possiede la documentazione dalla quale si evince che nel 1171, nel porto di Messina, sorgeva una dependance del priorato dell’Ordine Gerosolimitano, che garantiva il trasporto via mare di merci e persone verso la Terra Santa.

I NORMANNI E LA TERRA SANTA.

Come sopra affermato, i Normanni, che parteciparono alla chiamata alle armi per la liberazione del S. Sepolcro indetta da Urbano II nel 1096, anche se con forze esigue rispetto ai cugini Franchi, giunti in Terra Santa, dovettero intessere rapporti a vari livelli con tutti gli interlocutori palestinesi che incontravano strada facendo. I Normanni di Sicilia e dell’Italia meridionale erano agli ordini di Boemondo figlio del Guiscardo quando partirono per la prima crociata. Il vantaggio dei Normanni siciliani rispetto ai cugini francesi, consisteva nel fatto che essi, ormai presenti in Sicilia da decenni – Palermo era stata presa nel 1072 – , avevano la possibilità di intrecciare rapporti privilegiati sia con gli Arabi del Medio Oriente che con i Bizantini, in quanto molti di questi, che avevano occupato la Sicilia prima dell’arrivo dei Normanni, erano stati assimilati ed in parte integrati nel regno degli Altavilla, tanto è vero quanto affermiamo che lo sposo di Adelicia, il Conte Roberto Maccabeo, tradisce attraverso il cognome la sua origine ebraica. Questa politica dei due forni adottata dagli Altavilla darà subito ottimi risultati. Infatti, Boemondo, grazie al ‘contributo’ di un arabo armeno, riuscirà a conquistare Antiochia della quale si auto elegge Signore. I duchi francesi, tranne Boemondo che non lascerà più Antiochia, si diressero verso Gerusalemme che presero, come già detto, nel 1099. I duchi elessero quindi Goffredo di Buglione come primus Inter pares il quale, nella sua ammirevole modestia, ritenendosi indegno del titolo di re di Gerusalemme, si fece designare come semplice protettore del Santo Sepolcro – il titolo regio verrà successivamente assunto dal fratello Baldovino dopo la sua morte-. Adelaide, terza moglie di Ruggero I, rimasta vedova, convolò a nozze con re Baldovino, facendo però rientro in Sicilia come ex regina dopo la morte di questi. Il regno normanno di Sicilia e quello di Gerusalemme tenuto dai ‘cugini’ Franchi, avevano avuto forse la necessità di collegarsi? La stirpe Franca doveva essere rafforzata attraverso legami di sangue con i potenti conti di Sicilia? Per questo motivo Costanza convolò a nozze col re di Gerusalemme? Certo che sì, la Sicilia rappresentava ormai un’appendice della Terra Santa, una testa di ponte indispensabile per gli approvvigionamenti e pertanto Ruggero II era destinato a succedere a Baldovino in quando legittimo erede di questi avendone sposato la madre Adelasia. Tuttavia qualcosa non andò per il verso giusto dal momento che il regno di Gerusalemme non passò nelle mani degli Altavilla per successione ereditaria; infatti alla morte di Baldovino la regina dovette fare rientro in Sicilia nel 1118 col titolo di ex regina di Gerusalemme, mentre il regno passava nelle mani del cugino del re, che assumeva il titolo di Baldovino II. Nello stesso tempo Ruggero II interrompeva i rapporti col vescovo di Roma appoggiando l’antipapa Anacleto.

IL REGNO DI GERUSALEMME NEI PROGRAMMI DINASTICI DEGLI ALTAVILLA.

Nel 1131, Folco, sposerà la figlia di Baldovino II e prenderà il nome di Baldovino III ereditando il regno di Gerusalemme. Nel frattempo in Terra Santa il dado era stato tratto e il nuovo Ordine monastico cavalleresco, due anni prima era stato riconosciuto dal Papa non senza la potente intercessione del monaco di Chiaravalle, Bernardo, che dettò la rigida regola ai cavalieri. Bernardo di Chiaravalle, braccio destro del papa legittimo, né diventava il campione scontrandosi duramente con l’eretico Ruggero II accusato di tirannide, a motivo dell’appoggio fornito all’antipapa Anacleto. I templari, che Bernardo percepiva, da loro ricambiato, come propria creatura, non potevano non stare che dalla parte del monaco di Chiaravalle, per lo meno ufficialmente.
Il motivo per cui sosteniamo che gli Altavilla dovettero avere una parte importante nella genesi dell’Ordine monastico cavalleresco, è maturato attraverso la constatazione che subito dopo la nascita dell’Ordine, le donazioni ad esso elargite da parte dei Normanni siciliani,
divennero numerose ed eccessivamente generose per non insospettire; una generosità che va spiegata, a nostro avviso, anche con la prospettiva di un lungimirante programma politico che gli Altavilla avevano saputo mettere in atto e che, come affermato, si concretizzerà nel momento in cui Federico II, nipote di Ruggero II, sebbene fosse un Hohenstaufen, sarebbe stato riconosciuto re di Gerusalemme. Ruggero non potrà raccogliere personalmente i frutti della sua grandiosa politica maturati in terra di Palestina.
Naturalmente non si può pretendere che i programmi procedano senza trovare ostacoli strada facendo; infatti gli antipapa appoggiati, segretamente da Ruggero I, e apertamente da suo figlio dopo, saranno delegittimati da Innocenzo II con il quale Ruggero II sarà costretto a scendere a patti nel 1139. Da questa data in poi Bernardo potrà riavvicinarsi al re siciliano, tanto che verranno inviati nel sud Italia monaci benedettini bianchi. Ruggero chiederà allo stesso Bernardo di scendere personalmente per inaugurare la fondazione di alcune abbazie (Lynn. T. White Jr. – Il monachesimo latino nella Sicilia normanna-.). Furono accantonate le discordie tra la corona di Sicilia e il seggio di Pietro e nel 1137, da una corrispondenza intercorsa tra S. Bernardo e Ugo, primo maestro dell’Ordine, fra la quale si inserisce Guigo priore della Certosa, si evince che vi fosse in corso una crisi all’interno dell’Ordine. Una ipotesi che avanziamo in corso d’indagine, consiste nella possibilità che la crisi possa essersi generata tra i partigiani del re e i sostenitori del papa; infatti non si spiegherebbe altrimenti la tempestiva bolla Omne datum optimum, emanata da Innocenzo III nel 1139 con la quale il papa impediva ai fratelli la possibilità di ritornare nel mondo e imponeva di mantenere la stabilità nell’Ordine. Ripresero nell’isola, a partire da questa data, le donazioni al già potente Ordine come è dimostrato dalle ricerche del Lynn (op.cit.) attraverso la riproduzione di numerosi atti di donazioni e vendite in cui compaiono i nomi di frati ‘milites’. Naturalmente si incrementarono anche le fondazioni in Sicilia al fine di snellire la logistica dell’Ordine: il normanno Matteo Ajello fondò la Santa Trinità di Palermo donata appunto, ai cistercensi. Intanto anche Adelicia, degna erede degli Altavilla che dal nonno aveva ereditato l’acume politico, iniziò una politica di captatio benevolentiae attraverso generose donazioni: nel 1160 fece dono alla diocesi di Catania delle chiese di S. Maria e S. Filippo in Adernò mentre, al S. Sepolcro di Gerusalemme, fece dono della chiesa di S. Elia fuori le mura (riteniamo che questa abbazia sia divenuta sede templare, ma che fosse esistente da molto tempo prima, come esporremo al momento opportuno). È una fortuna che gli atti di queste donazioni siano arrivati fino a noi poiché in essi vi è apposta, tra i testimoni firmatari dell’atto, la firma di un frate (templare?) il cui nome è David, nome che compare anche in un atto del 1135. In questo atto David viene indicato come abate della chiesa della Santa Trinità di Mileto e a condurre l’operazione di compensazione di terreni calabresi è direttamente il Re Ruggero. La figura di David appare intimamente collegata al re Ruggero e all’Ordine. La carriera di David da frate ad abate appare funzionale ai rapporti intercorsi tra la Sicilia e la Terra Santa, tra gli Altavilla e l’Ordine.

ORDINE DEI TEUTONI.
I Templari che avevano ottenuto grossi possedimenti in Sicilia grazie ai buoni rapporti intercorsi tra Bernardo di Chiaravalle e Ruggero II a partire dal 1139, con l’arrivo degli Hohenstaufen e l’incoronamento a Palermo di Enrico VI nel 1194, dovettero ridimensionare i propri possedimenti a vantaggio dell’ordine dei cavalieri Teutonici che erano i favoriti di Enrico VI. Ne era passata acqua sotto i ponti da quando gli Ordini si erano formati in terra Santa con l’unico intento religioso; al tempo dell’erede di Enrico VI, Federico II, essi si erano ormai inseriti nelle lotte di potere tra principi (un precedente si ha nel 1147, quando alla presenza del papa si decretò l’aiuto dei Templari nella II crociata, al re di Francia Luigi VII); così, quando Federico II riuscì a ottenere Gerusalemme grazie ad una trattativa diplomatica condotta con l’emiro Kamil ed ebbe degli scontri verbali col papa durante la sesta crociata (1228-29), fu accusato dal pontefice di fraternizzare col nemico e per questo scomunicato, i Templari e gli Ospedalieri gli negarono il loro appoggio; ma l’imperatore, come tutta risposta, entrato a Gerusalemme, pose da sé la corona sul proprio capo. Nello stesso tempo espulse i Templari dalla Sicilia. Che i Templari e gli Ospedalieri agissero in sintonia si evince anche dalla regola n. 429 dello statuto dell’Ordine Templare (J. V. Molle, I Templari, la regola e gli statuti dell’ordine, ed. ECIG). L’ intima unione fra i due ordini, che trapela tra le righe dello statuto templare, tanto da indurci a formulare l’ipotesi che uno fosse la costola dell’altro, si rende ancora più evidente nel momento in cui Filippo il bello, re di Francia, facendo sciogliere l’ordine dei Templari nel 1307, induce molti dei fratelli scampati alla persecuzione iniziata per le accuse infamanti che egli aveva architettato a confluire nell’ordine degli Ospedalieri.

UN PORTO SICILIANO PER LA TERRA SANTA.
Le crociate indette con lo scopo di liberare la Terra Santa dal dominio musulmano, si trascinarono a lungo, coinvolgendo dinastie di tutta Europa e per più generazioni. Il regno di Sicilia ospitava allora, attraverso filiali, tutti e tre i potenti ordini (gli ordini sorti erano molto numerosi; quello di S. Lazzaro, per esempio, che assisteva i Lebbrosi, riceveva molte donazioni e si distingueva dagli altri per la croce verde cucita sul saio): quello degli Ospitalieri successivamente meglio conosciuti come Ordine di Rodi prima e di Malta definitivamente, dei Templari e, con l’arrivo di Enrico VI quello dei Teutoni. Questi ordini ottennero, indirettamente, ingenti possedimenti sull’isola attraverso le donazioni che venivano fatte alle diocesi da loro controllate. I proventi derivanti dalle donazioni servivano, in un primo momento a finanziare la missione in Terra Santa; la terra Santa abbisognava infatti di continui rifornimenti sia alimentari che militari. Messina diventava così il porto da cui salpare. Le enormi ricchezze accumulate dall’ordine in tutta Europa vennero utilizzate successivamente come strumento economico per controllare interi regni attraverso l’indebitamento dei re, come nel caso del re di Francia Filippo il bello. Si evince dagli esoneri doganali concessi ai frati della Latina di Gerusalemme da Guglielmo II, che l’abbazia di Gerusalemme avesse a Messina una filiale che fungeva da armatrice delle navi in partenza per la Terra Santa. L’abbazia di S. Filippo di Agira, fondata dai basiliani prima dell’arrivo dei Musulmani in Sicilia, rappresentava a sua volta il punto in cui venivano tenuti e conservati i libri contabili degli enormi possedimenti siciliani. Se con gli Altavilla il regno normanno era diventato la prima potenza economica in Europa, crediamo che, in una certa misura, un ruolo si possa attribuire alla presenza in Sicilia degli ordini di cui ci stiamo occupando. La posizione egemonica degli Altavilla in campo economico spinse gli Hohenstaufen, prima ad imparentarsi tramite il matrimonio di Carlo VI con Costanza, figlia del re, e successivamente a scendere in arme gli uni contro gli altri. Ma se gli Altavilla dialogavano maggiormente con i Templari agli Hohenstaufen stavano a cuore i Teutoni.

L’ ORDINE DEI CAVALIERI DELL’ OSPEDALE DI S. GIOVANNI DI GERUSALEMME

Croce dell’Ordine dei Cavalieri di Malta presso la Chiesa di S. Francesco in Adrano.

La prima congregazione monastica esistente a Gerusalemme, quella della valle di Giosafat in cui si diceva esserci la tomba della Vergine Maria, nella quale venne edificata la prima chiesa, era stata sottoposta dopo la conquista di Goffredo di Buglione sotto la protezione dei Franchi.
L’ordine cavalleresco degli Ospitalieri era il più antico tra quelli sorti in Palestina.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire dagli studiosi della materia, intorno al 1070 alcuni amalfitani ricostruirono la chiesa di S. Maria dei Latini a Gerusalemme, che i Musulmani avevano distrutto nel 1010, e la dotarono di un ospizio per i pellegrini portandovi dei monaci benedettini.
Ora, noi abbiamo potuto constatare che i rapporti di collaborazione tra gli Amalfitani e i Siciliani risalivano agli inizi del IX secolo quando i primi, congiunte le forze con quelli di Gaeta, inviarono soccorsi ai Siciliani che soffrivano delle scorrerie saracene (Umberto Rizzuto – La Sicilia islamica-), ecco perché, constatando la ininterrotta presenza degli Amalfitani sia in Sicilia ( la firma di un “Ranellus Malfitano” è apposta in qualità di testimone, in un atto di donazione del 1160, riguardante un vigneto a favore della chiesa di S. Elia di Adrano) che in Palestina, abbiamo precedentemente avanzato l’ipotesi che l’ordine dei templari potesse essere stato fondato da un Ugo dei Pagani, Amalfitano o dei dintorni (la cittadina di Pagani si trova vicino ad Amalfi), piuttosto che da un Ugo de Payns come ricostruito dalle indagini degli studiosi. Per meglio comprendere il ruolo svolto dagli Amalfitani nel mondo in quel preciso momento storico, citiamo lo storico normanno Guglielmo di Puglia che descrive con quali argomenti i Normanni del mezzogiorno d’Italia invitavano i parenti della Normandia a raggiungerli : “Amalfi, città opulenta e popolosissima (…) molti marinai vi abitano, abili nell’aprire le vie del mare e del cielo. Vi giungono i più diversi prodotti da Alessandria e Antiochia. I suoi abitanti attraversano il mare. Essi conoscono gli Arabi, i Libici, i Siciliani, gli Africani e sono noti in quasi tutto il mondo”. La tesi di un Ugo non francese veniva sostenuta con argomenti molto validi da padre Sclafert. Quest’ultimo, facendo riferimento ad una epistola coeva al “De Laude” di S. Bernardo, affermava che la stessa fosse stata indirizzata al cistercense da un Ugo di S. Vittore. Si tenga conto che i Normanni venivano indicati spesso come Franchi e Galli; fra di essi il nome Ugo era comunissimo e poiché la loro lingua, e quella di molti storici che si occuparono delle imprese in Terra Santa, era il francese, il nome della città italiana potrebbe essere stato pronunciato Payns.
Aggiungiamo ancora quanto veniva affermato da Amato di Monteccassino. Secondo lo storico, nel 999 quaranta Normanni, al ritorno da un pellegrinaggio al Santo Sepolcro, si sarebbero fermati a Salerno. Da questo momento molti principi Longobardi avrebbero richiesto ai Normanni il loro sostegno durante le scaramucce intraprese nei confronti di Musulmani e Bizantini; di fatto, da quel momento inizierà una spontanea fusione fra l’elemento normanno e quello longobardo, tanto che, Ruggero II, divenuto re di Sicilia, avrebbe offerto loro, abbondanti terreni nell’isola. Come si può notare dalle poche notizie fornite fin qui, gli intrecci tra le etnie e gli interessi intervenuti in corso d’opera, sono stati così intricati da poter affermare che nell’Italia meridionale si è dato vita ad un nuovo universo in cui i contorni appaiono così sfumati da rendere difficile delineare i fatti accaduti senza tener conto di una genesi che, come un regista dietro le quinte, non si è mai completamente palesata.
Si fa dunque derivare l’ordine dell’Ospedale di S. Giovanni dal su citato monastero palestinese.
Il primo documento in nostro possesso in cui si riporta l’esistenza dell’Ordine degli Ospitalieri a firma di “Gerardo hospitalerus” risale al 1102.
In Sicilia, subito dopo la fondazione dell’Ordine, cominciarono a piovere, come affermato, le donazioni: l’abbazia di S. Filippo di Agira venne donata agli Ospitalieri della Terra Santa e, come si evince da una bolla papale di Pasquale II, a partire dal 1112 i possedimenti palestinesi in terra di Sicilia sarebbero dipesi da S. Filippo di Agira. Tuttavia una base in Sicilia di questa organizzazione monastico militare doveva esistere da molto prima della data ufficiale del suo riconoscimento. Infatti il Pirri (Lynn, op.cit.) riporta una bolla del Conte Ruggero I emanata nel 1091 in cui si fa già riferimento all’Ospedale di Messina e questa presenza rafforzerebbe, a nostro avviso, la tesi della fondazione di un ordine militare monastico in Palestina ad opera di un cavaliere amalfitano, appunto Ugo dei Pagani con la benedizione degli Altavilla. Stando alla nuova luce gettata dalle nostre ricerche, la presenza così precoce a Messina di una tale organizzazione avrebbe potuto prendere le mosse dall’iniziativa di un monaco assai sui generis di nome Elia. Questi appare nelle cronache siciliane alla fine del IX secolo, e del frate redige una breve cronaca lo storico Michele Amari dalla quale abbiamo attinto. Di questo frate diremo nel capitolo dedicato agli ordini cavallereschi presenti nella città di Adrano. Certo è che l’ordine dell’Ospedale dovette essere presente e potente nella città di Adrano se nel 1177 il Conte di Avellino Ruggero di Aquilia, nipote di Ruggero I e Adelasia, fece dono al priore dell’Ospedale di Messina Gebilino, in memoria degli avi suoi, della chiesa di S. Filippo e della chiesa di S. Giovanni (esiste ancora, scolpita in una pietra di riuso in basalto, in una parete adiacente alla chiesa oggi dedicata a S. Francesco, la croce distintiva dell’ordine Ospedaliero) costruita sulle sue terre di Adernò presso il casale canneto (Lynn op.cit.). Nello stesso tempo il conte confermava le precedenti donazioni fatte dall’avola sua.

S. FILIPPO D’AGIRA EPICENTRO DEL POTERE TEMPORALE DEI TEMPLARI.

Gli interessi degli Altavilla dovettero comunque essere trasversali in terra Santa dal momento che Roberto il Guiscardo, uno dei dodici figli di Tancredi di Altavilla, morto nel 1085, fece dono all’ Ordine di S. Giovanni di due sue chiese in Calabria. Non è improbabile, dunque, che nella stessa data venisse donata all’ordine anche la chiesa siciliana di Agira dal momento che il Conte Ruggero II nel 1126, conferma la donazione all’Ospedale di Gerusalemme di S. Filippo di Agira.

A S. Filippo di Agira il priore era un frate di nome Falco e durante la sua reggenza la chiesa siciliana deteneva in Palestina importanti possedimenti, come si evince dalla conferma del 1158 di questi possedimenti da parte di papa Adriano IV. Contemporaneo del priore Falco, in terra di Palestina vi è Folco (l’assonanza dei nomi ci è alquanto sospetta), che diventerà genero del re di Gerusalemme e gli succederà col nome di Baldovino III. Tornando a S. Filippo di Agira, facciamo nostra l’arguta analisi di Lynn T. White Jr. (op.cit.) il quale trae la conclusione che: “Il centro dell’attività amministrativa era a quell’epoca non in Palestina ma in Sicilia” a S. Filippo di Agira e il priore Falco ne era l’amministratore. Se il potente priore siciliano Falco e il futuro re Folco potessero essere identificati nella medesima persona, allo stato dell’indagine, non ci è dato sapere. Fatto è che, sparendo dalla cronaca siciliana il priore Falco, nel 1150 arriva a S. Filippo d’ Agira, guarda caso da Gerusalemme, Pietro, priore della casa madre di Gerusalemme, per prendere visione degli archivi di S. Filippo di Agira ove si conservavano i registri in cui erano elencati tutti i possedimenti siciliani dipendenti da Gerusalemme. Pietro, per prendere visione di tali registri rimase ben tre anni nella prioria, tanta era la mole dei registri da consultare. La prioria di S. Filippo di Agira, depositaria di enormi ricchezze provenienti da tutta la Sicilia, pronte per essere in parte trasportate a Gerusalemme, dovette assurgere ad una tale importanza che Facondo, priore di questa abbazia nel 1176, diventa abate della casa madre di Gerusalemme S. M. dei Latini (non può passare inosservato l’interscambio di uomini e proprietà tra la Sicilia e Gerusalemme). Se Facondo passò da S. Filippo di Agira a Gerusalemme, avrebbe dunque potuto farlo anche il suo predecessore Falco o Folco. Che Enrico VI nel 1194 appena eletto re confermi i possedimenti in Sicilia di S. Maria dei Latini di Gerusalemme dopo la conquista di questa da parte di Saladino, lascia presupporre che vi sia stato un trasferimento in Sicilia, a S. Filippo di Agira, della comunità di Gerusalemme guidata da Facondo e fuggita da Gerusalemme temendo la rappresaglia musulmana.

PRIORIA DI S. ELIA PROFETA DI ADERNÒ

Il nome della chiesa di S. Elia di Adrano induce a pensare che essa sia stata intitolata al noto profeta biblico, ma, analizzando gli eventi storici accaduti in Sicilia nell’ultimo scorcio del IX secolo, qualcosa non torna.
Lo storico siciliano M. Amari che scrisse una Storia dei Musulmani in Sicilia, nel suo trattato fa riferimento ad: “un valente frate, Elia di Castrogiovanni (Enna). Lasciata Gerusalemme, ove egli faceva stanza (…) venne in Palermo, vi rivide la madre; e a capo di pochi giorni, appunto quando si allestiva un armata nel porto della capitale, ei passò a Taormina, di là a Reggio, ove il popolo era tutto sbigottito; lo rassicurò vaticinando la sconfitta degli infedeli: e dopo i successi che siamo per narrare, Elia ricomparisce a Taormina per pochi dì ; passa in Grecia; ov’è preso per spia dai Musulmani; indi viene in Calabria di nuovo; va a Roma e di nuovo a Taormina. L’intendimento di questi viaggi è evidentissimo”. È evidentissimo sì, potremmo continuare noi, essendo chiaro che fra Elia rappresenta l’antesignano di quei monaci guerrieri che verranno riconosciuti un secolo più tardi, negli ordini monastico cavallereschi che sappiamo, ma che agivano da militi organizzati, come si evince dalle vicende riportate dall’Amari, già da oltre un secolo prima.

S. ELIA, PRIMO MONACO GUERRIERO.

Infatti, di loro così si esprime lo storico: “Incalzavan la briga i frati, solido strumento di governo nell’impero bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori di avvisi, anco esploratori”. L’animus guerriero, impossibile da reprimere in alcuni monaci, pur tenendo fede al canone VII del concilio di Calcedonia (451) che proibiva agli uomini di chiesa di prestare servizio militare, poteva esprimersi così attraverso il supporto fornito a quella che, evidentemente, veniva considerata da questa frangia monastica, una “guerra giusta”. Al punto del racconto delle vicende che vedono protagonista frate Elia, avendo egli vaticinato (facile profezia per chi era stato parte attiva della strategia militare messa in atto) con successo le vittorie militari sui Musulmani, potremmo avanzare l’ipotesi che la chiesa di S. Elia in Adernò non solo fosse stata edificata in onore del suddetto frate, ma non ci stupirebbe se essa fosse pure una base logistica identificabile da coloro che avevano abbracciato la causa della “guerra giusta”, grazie al nome del frate combattente, insomma un nome in codice per gli affiliati. Purtroppo non siamo nelle condizioni di poter consultare la biografia del frate, che l’Amari afferma di avere avuta tra le mani, ma quanto lo storico ha riportato nel suo trattato riteniamo sufficiente per poter affermare a nostra volta, che nella data in cui vengono narrati i fatti, l’ 879 e.v., in Sicilia esisteva una organizzazione monastica capace di gestire le emergenze militari, riuscendo a collegare tra loro le nazioni cristiane: Bizantini, Normanni del sud Italia, Longobardi (Napoli, Gaeta, Amalfi, Salerno dipendevano dal diritto longobardo) ed isolani come si evince dalle tappe effettuate da frate Elia. Infatti, dopo gli spostamenti del frate, accadde che le città cristiane libere della Sicilia riuscirono effettivamente a collegarsi tra loro e nel medesimo tempo arrivarono anche gli ingenti aiuti inviati da Basilio imperatore di Bisanzio. Fu in questa occasione, nell’882, che si svolse la famosa battaglia di Caltavuturo con i miracolosi risvolti di cui abbiamo detto nell’articolo: “Caltavuturo, una porta nel cielo” e che certo contribuirono ad accrescere la fama di profeta del nostro monaco, essendo stati i musulmani sonoramente battuti.
Non va dimenticato che il Nostro, prima di giungere in “missione” in Sicilia, era di stanza a Gerusalemme (sarà dovuto all’esistenza di un cordone ombelicale mai reciso tra la Sicilia e la Terra Santa che Adelicia contessa di Adernò, farà dono al S. Sepolcro di Gerusalemme nel 1136, proprio della Chiesa di S. Elia di Adernò?) pertanto è inevitabile pensare che il monaco facesse da trait d’union tra la Sicilia e la Terra Santa. Prendendo nota delle caratteristiche del monaco, descritte dall’Amari, non apparirebbe certo fuori luogo l’affermazione secondo la quale, la gestazione dei suddetti ordini sia avvenuta, oltre un secolo prima della loro apparizione ufficiale in terra siciliana e che S. Elia Profeta fosse l’antesignano di S. Bernardo di Chiaravalle. Del resto, la storia non ci insegna che la Sicilia, fin dal periodo greco-romano, fu un laboratorio politico il cui prodotto venne esportato in tutto il mondo?

Non si potrebbe comprendere l’apparente contraddizione dei nostri frati senza intendere il pensiero religioso dell’Occidente che adottò la via della mano sinistra per realizzarsi (su questo argomento vedasi l’articolo: “Mutazione consonantica o differenza di pronuncia?”,): l’ azione preferibile alla contemplazione. Un tale atteggiamento spingeva infatti S. Bernardo all’affermazione che “Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato” (De Laude, Bernardo di Chiaravalle). È evidente che Bernardo riprendeva l’antico concetto di “guerra giusta” di romana memoria, per la quale si poteva uccidere ed essere uccisi, e che la morte diventava, dunque, strumento catartico. Nella figura del Templare ritroviamo quella capacità di trasformare un dualismo nella complementarietà: due forze che sembrano respingenti, azione e contemplazione, vengono contemporaneamente applicate per raggiungere uno stesso fine. Ma abbandoniamo in questa sede il paludoso terreno della speculazione filosofica per continuare nel percorso che ci siamo imposti nell’affrontare il nostro tema.

Come affermato, la Chiesa di S. Elia di Adernò venne donata nel 1136 dalla Contessa Adelicia al S. Sepolcro di Gerusalemme. Ora, è noto che la contessa si era limitata a ingrandire, dotare, proteggere chiese già esistenti come quella di S. Maria, presso il fiume Simeto (oggi intitolata a S. Domenica) costruita dai Bizantini addirittura sulle rovine del tempio di Marte (S. Petronio Russo, Storia di Adernò), pertanto, la chiesa di S. Elia, oggi scomparsa, ma di cui rimane il campanile, potrebbe essere stata edificata in un tempo molto anteriore e, magari, sulle rovine di un tempio pagano. Ma al di là del fatto, di secondaria importanza, se la prioria fosse stata intitolata all’Elia biblico o meno, a noi interessa qui notare il particolare che essa, con relativi terreni limitrofi, viene donata, secondo quanto riportato dal Pirri, nel 1136 da Adelicia agli Agostiniani del S. Sepolcro, in un momento in cui all’interno dell’Ordine dei Templari erano sorti dei dissidi, come diremo oltre. Il fatto straordinario che avvalorerebbe la tesi di chi scrive, secondo la quale la città dell’avo primordiale Adrano, ha sempre avuto un ruolo non certo secondario nelle vicende dell’isola e delle nazioni che con essa si sono relazionate nel tempo, si evince dall’esistenza di un atto datato 1190, per mezzo del quale viene venduto alla prioria adranita, un terreno attiguo alla chiesa di S. Elia. Nell’atto, assieme al priore ‘Joannes’, figura un frate di nome David, costui lo ritroveremo successivamente in qualità di priore del S. Sepolcro di Gerusalemme; ancora una volta, dunque, priori siciliani saranno a guida di importanti chiese nell’isola per poi ritrovarli alla guida della prestigiosa prioria del S. Sepolcro di Gerusalemme, così come, non passa inosservato che priori del S. Sepolcro di Gerusalemme vengono spesso in “visita” alle abbazie siciliane.
Il succitato atto di vendita del 1190 lascia desumere altresì, a quale livello di ricchezza ed importanza sia assorta nel tempo la prioria adranita di S. Elia. L’atto in oggetto riporta, infatti, l’acquisto da parte della prioria, di un vigneto ad essa attiguo del valore di 534 tarì, che per il tempo rappresentava una cifra notevolissima. Ma poiché le persone venditrici vengono riportate nell’atto con i nomi di fra Guglielmo de Rinis e fra Ugo di Messina, il sospetto che i venditori non siano i “poveri” frati secolarizzati, ma, piuttosto, quegli strani frati che portavano la tonaca con la spada legata al cordone, i Templari, ci sembra legittimo. Se la data della donazione della prioria di S. Elia al S. Sepolcro di Gerusalemme del 1136, riportata dal Pirri fosse esatta, si evince da essa che quella di Adrano sia stata una delle prime donazioni siciliane fatte ai Templari. Infatti, dai documenti esaminati dal Lynn (op.cit.) si evince che il documento di donazione successivo al nostro, è quello del 1146 ad opera di Enrico di Bugli o Bubly, con il quale il Conte fa dono al Tempio di suoi terreni a Scordia. L’esoso acquisto ad opera della prioria di S. Elia di Adernò di terreni attorno alla chiesa, nel cui atto figurano i due sospetti frati, bisogna ricordarlo, ci induce a pensare che questi fossero stati delegati dalla casa madre di Gerusalemme a condurre una operazione che mirasse a rendere la chiesa di S. Elia di Adernò una base templare sempre più munificata. Nel formulare la azzardata ipotesi contribuisce altresì la tipologia del campanile (Simone Ronsisvalle, Un itinerario Etneo, pg. 60) sopravvissuto al crollo della chiesa, le cui caratteristiche riproducono piuttosto quelle di una torre di guardia.
Adernò dovette conservare il ruolo di avamposto templare fino allo scioglimento dell’ordine decretato nel 1307 e conclusosi nel 1314 con la condanna al rogo dell’ultimo maestro Jacques de Molay. In quella data, i possedimenti templari e i fratelli adornesi, transitarono nell’ordine degli Ospedalieri fintanto che i superstiti, agli inizi del ‘500, si riorganizzassero per riapparire sotto mentite spoglie in una delle tante organizzazioni dal nome evocativo di “Confraternita dei Nobili Bianchi” (Questa nostra supposizione è stata argomentata in altre occasioni). La congregazione avrà molti tratti in comune con il disciolto Ordine dei Templari: l’abito bianco, lo statuto che si prefiggeva fini di solidarietà umana: apertura di un ospedale, assistenza ai moribondi, assistenza delle ragazze madri, una vera piaga di Dio a quel tempo.; il santo patrono S. Giovanni; l’accesso alla confraternita riservato soltanto ai nobili, ed altro ancora. La sede adranita dei Bianchi fu la seconda ad essere fondata in Sicilia dopo quella di Palermo e in breve tempo acquisì una gran quantità di terreni ed edifici ancora oggi ad essi intitolati. Inoltre, l’apparizione di questa confraternita nella città dell’Avo, coincise con una impennata economica che si era arrestata dopo il disciolto Ordine. Principalmente sarà l’edilizia sacra ad essere privilegiata: viene ampliato il monastero di S. Lucia fino a raggiungere le imponenti dimensioni architettoniche attuali, viene edificato il monastero attiguo di S. Chiara e costruite moltissime altre chiese. (V. Spitaleri, La vita del sacerdote Francesco Musco di Adernò, note di civiltà adornese del ‘600).
Ad majora.

Caltabellotta ovvero la Fortezza Del Signore.

La nobile gens sicula a cui dedichiamo i nostri studi, ha forse smarrito il ricordo del proprio nobile retaggio e il ruolo centrale che ha avuto nella cultura mediterranea. Il compito che si è dato il sito internet www.adranoantica.it è quello di rispondere ad una chiamata (Kalla) interiore e di ‘urlare’, a propria volta, a chi è sordo ed ha corta la memoria, che la triangolare isola di Trinacria, terra di miti, di forze primordiali, scelta dall’avo Adrano quale sede in cui manifestarsi, non ha affatto dismesso il ruolo per il quale fu ‘chiamata’ in illo tempore. Il significato celato dal lessico utilizzato fin dai primordi, cristallizzato nel continuo suono emesso pronunciando alcuni toponimi con il fine di evocare le primordiali forze, oggi viene svelato perché si prenda coscienza che il momento della risposta alla chiamata è giunto; ai migliori di quest’isola divina, dunque, viene assegnato l’obbligo di rispondere; al primus Inter pares quello di fungere da guida.

Il preambolo di cui ci siamo serviti per esporre le nostre ricerche a chi vuole aggiungere stimoli al proprio desiderio di conoscenza, fornisce l’assist per spiegare il significato del radicale ‘cal’ che forma alcuni toponimi siciliani quali Calatino, Calacta, Caltavuturo, Calatabiano. Attraverso il significato dei nomi e gli stralci di storia a cui abbiamo potuto attingere, che vede partecipi le suddette cittadine, tenteremo di formulare alcune ipotesi afferenti al  ruolo da esse svolto nella storia isolana.

È la volta di Caltabellotta. Il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi  Kalla, chiamare, evocare e Bal Signore. Sul verbo ‘kalla’ nulla aggiungeremo in questa sede essendoci soffermati nelle sedi opportune e nel trattare dei  toponimi che abbiamo sopra elencato, in particolare trattando delle cittadine di Calatabiano e Caltavuturo. Il sostantivo Bel, plurale di Bal, offre l’occasione per soffermarci in questa sede  sull’influenza storica e religiosa esercitata dal sito conosciuto come valle del Belice, abitato fin da antichissima epoca, come testimoniano i numerosi reperti archeologici rupestri sparsi nella suddetta area  geografica. Il cospicuo numero dei toponimi contenenti il radicale  Bal: Belice, Gibellina, Gibilmanna ecc. contribuiranno a rendere plausibile la tesi che esporremo oltre.

Della cittadina di Caltabellotta non esistono molte fonti storiche a cui potere attingere: la si trova citata assieme ad altre fortezze in una cronaca dell’arabo Ibn Haldun; viene ancora citata dallo storico di corte Al Idrisi che, però, è interessato ad esaltare la personalità e le conquiste del re Ruggero II dal quale è stato invitato a corte per compilare su commissione la storia del suo operato.

Tuttavia, grazie al trattato di Al Idrisi, venendo a conoscere che la rocca oggi sovrastante il paesino di Caltabellotta veniva appellata in lingua araba Qal’at ‘at ballut,  che significa la rocca delle querce, potremo elaborare una tesi che supporti la ricostruzione storica del piccolo centro siculo, consapevoli che nei toponimi è spesso racchiusa in sintesi la storia del luogo.

 ROCCA DELLE QUERCE

Chi ha seguito le precedenti ricerche che conducevano ad una ricostruzione storica dei siti di Calatino, Calacta, Caltavuturo e Calatabiano pubblicati in questo sito web, avrà potuto verificare che, almeno i primi due su citati toponimi, erano presenti ancor prima  dell’arrivo degli Arabi in Sicilia, apposti in tempi non sempre certi, ma con la volontà ben precisa di veicolare un messaggio espresso attraverso il radicale “Cal”. Il vocabolo era riconducibile ad una semantica del sacro, a volte opportunamente transitato in ambito militare col fine di conferire all’azione militare un riconoscimento di santità, di guerra giusta. Il termine, in tempi antichissimi, venne utilizzato anche per caratterizzare una tribù germanica in quanto la loro abitudine consisteva nello scendere sul campo di battaglia cantando i peana o  inni sacri – kalla- in uno stato di esaltazione al punto da terrorizzare gli eserciti nemici, era questo popolo quello dei Galli, guidato dai sacerdoti druidi che tanto spazio hanno avuto nell’immaginario collettivo fin dal tempo di Cesare. Parlando di inni sacri non può passare inosservato in questa sede, che il testo in cui vengono raccolti gli inni finnici, ha il nome di ‘Kalevala’, né che esiste un documento di epoca normanna nel quale si evince che, a Tortorici, il cavaliere Eleazar, nel 1123 si impegnava, su richiesta della contessa Adelaide, a dotare la prioria di S. Anna di Galath, o Gala come trascriverà il Pirri successivamente (Il monachesimo latino nella Sicilia normanna – L. T. White Jr.). Dal documento si mettono in evidenza due fattori: che il termine cala o gala rientra nel lessico delle lingue nord europee e che il suo significato semantico è riconducibile alla sfera del sacro.

E poiché il verbo evocativo kalla caratterizzava  il ruolo degli antichi re che erano anche sacerdoti, non può non essere tirato in ballo il più prestigioso tra loro che regnò proprio nel territorio di cui Caltabellotta fa parte, il sicano Cocalo, “ khu Kalla” ovvero colui che recrimina il regno, quel regno che Minosse tentava di sottrargli con lo sbarco  e le sue pretese egemoniche sull’isola. Ma sulla  affascinante ricostruzione delle vicende del re sicano Cocalo, rinviamo i lettori interessati all’articolo: “kamico, spiritus loci del popolo sicano” . Ma tornando sull’argomento, siamo certi che dopo i tanti articoli pubblicati a sostegno, dando ormai per consolidata la tesi secondo la quale il significato attribuito al verbo Kalla è quello di chiamare, evocare, far ‘discendere’ il sacro, possiamo procedere ad esaminare l’ipotesi fondata sul ruolo che la cittadina di Caltabellotta, che Idrisi, ricordiamolo, chiama con l’appellativo di  ‘rocca delle querce’, avrebbe potuto avere prima che l’oblio della memoria ‘calasse’ su di esso.

RUOLO DELLA QUERCIA NEL MONDO ANTICO.

Essendo evidente che Idrisi con il toponimo Qal’at ‘at ballut indicasse un bosco formato da querce, abbiamo spostato, avvalendoci della ricerca comparata, l’attenzione sulla funzione che il bosco sacro esercitava presso le antiche popolazioni ed in particolare sull’albero della quercia. Abbiamo così compreso quanto simbolicamente importante fosse la presenza di questo albero nei  luoghi di culto  presso le popolazioni indoeuropee: ad Abramo appare il Signore presso il querceto di More’ nella terra dei Filistei e proprio in un terreno presso questo querceto, che i Filistei intendevano donargli, seppellisce la propria moglie (Genesi 12, 6- 18,1-23,19); Poco dopo la fondazione di Roma, viene consacrata sul Campidoglio la grande quercia che si riteneva essere la trasposizione in terra del re del cielo Giove; i Druidi, sacerdoti Celti, si riunivano durante i loro sacri consessi, presso il drunemeton ovvero il boschetto sacro di querce; I Sacerdoti di Dodona, i Selli, prendevano i loro responsi dal rumore delle foglie di una quercia equiparata a Zeus, mosse dal vento, e gli esempi potrebbero ancora continuare per molto.

Quello descritto dallo storico arabo ‘Al Idrisi nella storia di Ruggero II compilata intorno al 1150, appare, dunque, il luogo in cui sorgeva un boschetto sacro. Il boschetto doveva esistere ancora al tempo dello storico arabo ed avrà occupato la parte sommitale della cittadella. Ipotizzato che Idrisi facesse riferimento ad un bosco, in origine sacro e che al suo tempo non lo era più, rimane da chiedersi per quale divinità esso fosse stato tenuto in vita.

I PALICI, SIGNORI DEL BELICE

La ricorrenza con la quale sono presenti i toponimi che richiamano i gemelli divini, i Palici, nell’area geografica in cui si trova il sito di Caltabellotta, è tale da indurre a credere che questi gemelli trovassero un culto davvero speciale da quelle parti. Ma andiamo per ordine. Bal, nelle lingue indoeuropee, di cui fa parte la lingua sicana, significa Signore. I gemelli Palici, figli del dio (ma sarebbe più corretto appellarlo Avo, come suggerisce il significato del sostantivo Ano che in antico alto tedesco significa appunto Avo, antenato, capostipite) Adrano, erano onorati in tutta la Sicilia. Addirittura sembrerebbe che in un determinato momento storico il culto a  loro tributato superasse quello celebrato nei confronti del loro padre Adrano. Infatti, Diodoro, non sappiamo se in modo fazioso, essendo egli greco e i Greci erano impegnati a sovrapporre la mitologia greca a quella siciliana, o perché il culto dell’Avo Adrano fosse già in decadenza al suo tempo, mentre ignora completamente il culto e  i riti esercitati nei confronti del dio Adrano, si sofferma, nella sua ponderosa opera storica ‘Biblioteca Historica, con dovizia di particolari nella descrizione del  tempio e del rito svolto in onore dei Palici presso la cittadina oggi chiamata Palagonia che noi facciamo derivare dall’ accostamento dei lessemi Bal-gonner con il significato di i Signori protettori. Il culto tributato ai gemelli divini era, come sopra affermato, esercitato in tutta la Sicilia, seppur particolarmente importante dovette essere stato quello celebrato ad Adrano se stiamo a quanto affermato da Virgilio nel libro IX dell’Eneide, notevole era anche quello di Palagonia su cui Diodoro si sofferma, come detto, con dovizia di particolari e sicuramente, come più giù tenteremo di ricostruire, quello esercitato presso la valle del Belice.

LA RELIGIOSITÀ NEL BELICE NEOLITICO

Non siamo in possesso di fonti storiche che possano confermare quanto tenteremo di ricostruire circa la religiosità praticata dai vetusti Sicani nella valle del Belice, pertanto per la ricostruzione della weltanshauung sicana ci affideremo al buon senso, all’intuito e alla multidisciplinarietà.

Il toponimo appare nelle fonti storiche citato dall’arabo ‘Ibn Haldun, nato a Tunisi nel 1332, il quale compilò’ un “Libro dei resoconti storici” , kitab ‘al cibr in arabo. Il Nostro, riporta l’episodio della contemporanea espugnazione da parte degli Arabi  delle fortezze (in arabo il vocabolo qsar indica il castello, mentre con Qal’ at si indica una rocca naturalmente fortificata) di Caltavuturo e Caltabellotta nell’anno 938. Lo storico siciliano Michele Amari – Storia dei Musulmani in Sicilia– citando Caltabellotta conferma l’episodio  dell’espugnazione del sito nella stessa data, prima, però, né aveva annunciata la liberazione da parte degli isolani, testimonianza questa, di quanto effimere siano state molte conquiste arabe in quel breve e travagliato lasso di tempo in cui i Magrebini ‘soggiornarono’ nell’isola.

Non ci è dato sapere, consultando le fonti arabe, se il toponimo oggetto della nostra indagine fosse già esistente prima del loro insediamento nell’isola. Appare lecito supporlo se all’intuito aggiungiamo la constatazione della presenza, nell’enorme area geografica della valle del Belice  di una copiosa toponomastica contenente il radicale Bel (Balatanuh cioè Platani; Gibellina ecc.), toponomastica che non può essere  attribuita nella totalità a rinominazioni o fondazioni arabe, avendo i conquistatori dominato per un brevissimo periodo l’isola e non nella sua globalità. Uno dei motivi che ci inducono a ipotizzare una preesistenza all’arrivo degli Arabi,  dei toponimi presenti nel Belice, è dovuto alla tipologia del culto riservato nell’intera isola ai gemelli divini, culto caratterizzato dal concetto di dicotomia e/o complementarietà che essi metaforicamente rappresentarono. È da notare che Il culto a loro dedicato era imprescindibile dalla presenza in loco di acque, non solo, queste dovevano presentare  caratteristiche opposte e, come detto, di dualità. Pertanto, due erano i laghetti di Palagonia – uno di acqua calda l’altro di acqua fredda-; due le fonti presso l’ara dei Palici sul fiume Simeto a due passi da Adrano, una detta di acqua scura l’altra di acqua chiara e, finalmente, due erano gli affluenti del fiume Belice, Belice destro e Belice sinistro. Tutti i luoghi citati soddisfacevano dunque il requisito di complementarietà richiesto dal culto. Caltabellotta dista soltanto qualche chilometro dal fiume Belice. Nella sua rocca, immerso tra le querce, doveva ergersi con ogni probabilità, un luogo di culto in cui poter evocare, far ‘calare’ la ‘protezione dei Signori’. La presenza di un boschetto sacro era imprescindibile là dove veniva dedicato un santuario alla divinità evocata. Virgilio lo pone presso i Palici di Adrano dove viene cresciuto (iniziato al sacerdozio?)  da una Ninfa il principe Capi. Il racconto virgiliano sui Palici di Adrano presenta una straordinaria analogia con la iniziazione del principe irlandese Finn. Presso i Filistei il bosco sacro nel quale Abramo si recava senza remore, sembra possedere le medesime prerogative se perfino Salomone (I Re 3,2- 11,7) dopo la costruzione del famoso tempio, avvertì la necessità di recarsi sul monte (rocca?) Gabaon per evocare e sacrificare al generico Signore (Bal?).

LA LINGUA E LE GENTI DI SICILIA DURANTE IL PERIODO ARABO.

Della lingua parlata dai Sicani primi  abitanti dell’isola e dai Siculi loro affini, ci siamo occupati in altre circostanze (La lingua dei Sicani) per riprendere l’argomento in questa sede. In questa sede piuttosto, desideriamo appurare se i toponimi siciliani formati con il termine ‘Cala’ siano di derivazione araba o meno. Poiché abbiamo constatato che i nomi di Calatino e Calacta esistevano a partire dal V sec. a. C., appare evidente che, qualora i toponimi Calatabiano, Caltavuturo, Caltabellotta ecc. fossero stati apposti successivamente a quel periodo, la lingua utilizzata fosse comunque la medesima e lo stesso il significato attribuito al verbo kalla. Che il toponimo Calatafimi venisse apposto alla rocca in onore del comandante bizantino Eufemio, è infatti inconfutabile e l’argomento verrà ripreso più sotto.

Poiché abbiamo attribuito origini nord europee alla lingua siculo sicana, con affinità maggiori rispetto alle altre all’antico alto tedesco (ata), abbiamo accostato il vocabolo Cala al  verbo Kalla chiamare, in una accezione sacra, sia in ambito religioso che militare (il concetto romano di guerra giusta, per esempio, afferiva ad una semantica del sacro).

FUSIONE LINGUISTICA E CULTURALE TRA VANDALI E ARABI.

La Sicilia ha rappresentato un laboratorio alchemico da cui sono sprigionata forze inimmaginabili, che sono culminate nella creazione del primo parlamento europeo, come è noto. Nel periodo storico qui indagato, era avvenuta una operazione di sincretismo culturale e linguistico, come noi crediamo, tra i Vandali insediati nel Maghreb fin dal 429, e gli Arabi sopraggiunti nel 652, come abbiamo riferito nell’articolo dedicato a Caltavuturo.

Un sopraggiunto sincretismo linguistico e culturale viene altresì tradito, come diremo oltre, dalla copiosa toponomastica e onomastica araba arrivata fino a noi.

I Vandali provenienti dalla Scandinavia, parlanti una lingua germanica, si fusero con gli Arabi sopraggiunti nel Maghreb poco dopo che si erano indeboliti con la morte del loro astuto capo Genserico e si videro costretti ad una apertura nei confronti di Costantinopoli che militarizza il Maghreb nel 553. Dopo quella data l’esercito vandalo si polverizzò’ confluendo nelle file dei nuovi arrivati, i Bizantini prima e gli  Arabi subito dopo, ma, come accadde per i Greci nei confronti dei Romani conquistatori, i Vandali fornirono il proprio contributo agli Arabi in diversi settori: marinaro, militare, linguistico e, forse, perfino religioso dal momento che numerose appaiono le analogie tra l’idea del paradiso maturata dai Vandali, con quello immaginato dagli islamici come abbiamo messo in evidenza nell’articolo dedicato a Caltavuturo.

È lecito supporre che in ambito religioso alcuni Vandali si fossero convertiti all’Islam, altri al cristianesimo ortodosso, altri rimanessero ariani e altri ancora avessero indossato il saio. Non siamo in grado di poter stabilire l’influenza sociale che questi ‘barbari’ addomesticati esercitarono in Sicilia durante il loro primo sbarco avvenuto nel 440. Comunque sia, il contributo linguistico che i Vandali apportarono alla lingua araba appare evidente ed è rinvenibile nel nome Ab(u) Thur, dalla Porta, nome ancora attuale in Sicilia, riportato dallo storico M. Amari nella sua ‘Storia dei Musulmani in Sicilia’; è ancora evidente nel nome dello storico Ibn Haldun (Alduino?) nato a Tunisi, antica sede dei Vandali, anche se lo storico vi nasce nel 1332, questi è l’autore del libro storico ‘Kitab’ al cibr’ nel quale si ritrovano episodi dedicati a Caltabellotta e dal quale abbiamo copiosamente attinto notizie importanti. Nel resoconto di Ibn Haldun si trovano numerosi riferimenti che inducono a confermare la tesi qui esposta circa i contributi linguistici germanici confluiti nella lingua araba. Citiamo il riferimento dello storico alla casata dei ‘Banu’ at Tabari’ (che nella lingua araba significa potente casa, in cui il termine casa va inteso nell’accezione di  lega, unione, tribù, famiglia ecc), il termine band in lingua germanica significa lega, unione. La casata araba (?) sopra citata era  in conflitto  con un’altra casata araba: i Kutamah (i monaci o i religiosi? ), in tedesco kutte significa tonaca.

Attingendo ancora informazioni dalla cronaca di ‘Ibn’Al’Atir, che mette per iscritto  intorno al 1200, riflettendo sul frequente ribaltamento di alleanze, ci chiediamo se il Capitano bizantino di nome Eufemio, a cui viene intitolata la rocca che darà luogo al toponimo Calatafimi, ribellatosi a Bisanzio in quanto ambiva a costruire un regno di Sicilia tutto proprio, non avesse richiesto nel 827, aiuto militare agli Arabi del Maghreb, ma di  etnia vandala, per il semplice motivo che anche egli potesse esserlo (alcuni Vandali, ricordiamolo, nel 553 erano confluiti nell’esercito bizantino dopo che Costantinopoli era riuscita a militarizzare il Maghreb). Infatti ci è sospetto che uno tra i due più ragguardevoli consiglieri arabi che disputarono sull’opportunità di fornire aiuti al bizantino Eufemio, si chiamasse Al-Furat significando il suffisso rat, in lingua germanica, consiglio, riflessione, discussione, e, guarda caso, alla fine fu proprio il consiglio di fornire aiuti a Eufemio, proposto da Furat  ad essere quello seguito. È per noi oggetto di ulteriore riflessione il nome del generale al servizio di Eufemio, un certo Balatah che quasi subito abbandona Eufemio nel tentativo di creare a propria volta, un regno di Sicilia a proprio uso e consumo. Il nome di quest’ultimo ha tale assonanza con il toponimo Belice e dunque con Bal, al punto da immaginare che nello scacchiere politico e militare di quel secolo, caratterizzato da una presenza multietnica in lotta per imporre i propri interessi nell’isola, il cospiratore Eufemio avesse attinto, al fine di potenziare il proprio esercito, da chiunque fosse in grado di fornirgli i mezzi e gli uomini adeguati, tra questi il siciliano Balatah che  derivava il suo nome o appellativo, dal luogo di provenienza o, come era abitudine presso i Romani (cognomen ex virtute) da una località che aveva conquistato: la valle del Belice(?). Infatti, “La cronaca araba” afferma Umberto Rizzitano – La Sicilia islamica– “precisa che il primo scontro con l’esercito bizantino comandato da Balata avvenne in una località omonima: forse Rahl Balata”. Ci chiediamo ancora se le infinite guerre civili arabe, in Sicilia concluse con la totale espulsione dei Berberi da parte degli Arabi nel 1014, possano essere spiegate alla luce delle differenze etniche e culturali mai sopite tra i popoli del Maghreb.

Ad majora.

Caltavuturo, una porta nel Cielo.

Nel nostro precedente articolo, “Quando gli Arabi erano biondi”, abbiamo tentato di dimostrare, opponendo alle tesi canonizzate in certi ambienti intellettuali, le nostre argomentazioni circa la formazione  dei nomi di alcune città siciliane, toponimi che si credevano di derivazione araba mentre, a nostro avviso, essi erano riconducibili ad una lingua parlata in occidente. Alcuni di questi toponimi, infatti, appaiono in Sicilia già in tempi anteriori all’arrivo degli Arabi. Avendo dimostrato dunque, in quella sede, che  i toponimi di Calatino citato da Tito Livio e quello della città di Calacta fondata da Ducezio nel V secolo a. C., citata da Diodoro, esistevano da oltre un millennio prima che giungessero gli Arabi nell’isola, a noi parve legittimo mettere in discussione l’attribuzione agli Arabi dei toponimi formati con il radicale  “Cal”. Non avendo del tutto esaurito l’argomento ed essendoci inoltrati sempre più nella ricerca, ci siamo imbattuti nella cittadina di Caltavuturo,  nome composto dall’unione di più lessemi il cui significato ci è sembrato essere collegato ad un evento specifico che più giù esporremo. Pertanto, come è nostra consuetudine, condivideremo la seguente  intuizione con i nostri affezionati lettori che ad ogni ora ci manifestano il loro consenso.

Il sito ove sorge l’attuale cittadina di Caltavuturo risulta, come affermato, strettamente collegato ad un episodio di guerra, anzi crediamo che il toponimo sia stato apposto al sito in occasione proprio di quell’episodio per l’eccezionalità’ dei fatti ivi accaduti, fatti che colpirono profondamente l’immaginario collettivo da spingere lo storico siciliano Michele Amari a richiamarli nella sua ponderosa opera intitolata, I Musulmani in Sicilia. Il Nostro, a sua volta, riprese l’episodio attingendo da una agiografia greca e da una araba.

LA PORTA DEL CIELO.

Lo storico siciliano, nel suo prezioso volume descrive i dettagli di una battaglia combattuta nel 882 fra l’esercito bizantino e quello Arabo in un luogo che, secondo quanto riportato dallo storico, avrebbe preso il nome di un comandante arabo, un certo Abu Thur che in nulla si sarebbe distinto, se non per l’aver perduto il proprio esercito fatto a pezzi dai Bizantini e che in nessun altro luogo della storia siciliana trova posto. Poiché il nome del fantomatico Abu Thur oltre che apparire più di origine germanica che araba, non viene citato nella battaglia combattuta nel sito di Caltavuturo, non avendo lo stesso avuto alcun ruolo, a noi stupisce che gli si fosse intitolata una fortezza nella quale egli non mise piede; piuttosto, analizzando i fatti, a noi sembra che il nome del presunto comandante arabo sia stato utilizzato dallo storico per spiegare il significato del toponimo che egli  traduce con la ‘rocca di Abu Thur’, traducendo a sua volta Abu Thur con  ‘Quel del toro’ . La farraginosità della costruzione onomastica e toponomastica di cui si è servito il Nostro, ricorda l’espediente con  cui gli antichi scrittori greci, non sapendosi spiegare le origini etimologiche dei nomi di certi popoli oggetto della loro indagine, liquidavano il problema inventandosi dei patronimici, pertanto si inventano un capostipite per i Siculi di nome Siculo; Italo per gli Itali; Teucro per i Teucri e così via.

Ma andiamo ai fatti svoltisi a Caltavuturo. In breve, lo storico siciliano racconta  che durante i combattimenti i comandanti dei due eserciti che si fronteggiavano sul  campo, ebbero contemporaneamente delle visioni: il bizantino quella di Sant’Ignazio patriarca di Costantinopoli che gli annunciava la prossima vittoria nonostante le difficoltà in cui il comandante versava, suggerendogli addirittura la strategia di manovra bellica da adottare; dall’altro schieramento l’arabo, rimasto gravemente ferito, in coma o in uno stato di premorte come diremmo oggi, ebbe la visione di una schiera di fanciulle  che, salendo e scendendo da scale appoggiate tra il cielo e la terra, portavano su in cielo i caduti sul campo di battaglia.

UN CASO DI PREMORTE.

L’arabo da cui viene raccolta la narrazione si chiamava Abu-Hasan-Hariri. Egli aveva partecipato alla battaglia di Caltavuturo ove i Musulmani erano stati sconfitti. Nel raccogliere i cadaveri per dargli degna sepoltura, Hariri trova semi morto il compatriota Abu-Abd+Selem-Moferreg. Fra le lacrime questi racconta di una mirabile visione: creduto morto, stava per essere condotto  in cielo da una delle Huri – così venivano chiamate queste valchirie arabe-, che già lo teneva fra le braccia, quando accortasi che lo sventurato era ancora vivo, pronunciando parole di biasimo per sé stessa in seguito alla propria inavvedutezza e per l’errore fortunatamente stornato, se ne salì a mani vuote in cielo.

Al di là del fatto miracoloso occorso, oggetto del contenuto dei due episodi raccontati da autorevoli biografi, uno dei quali  era il bizantino Niceta Davidde di Plafagonia, da cui ha attinto lo storico Michele Amari, a noi preme porre l’attenzione sull’aspetto linguistico, tenendo conto che vi furono linguaggi che per erosione si ridussero a frammenti lessicali, uno di questi, crediamo, possa ritenersi l’arabo. In questa lingua si trasferì il termine protogermanica Kalla akta che ritroviamo, come sopra affermato, in Sicilia nella variante kale akte o kalacta come riporta Diodoro (Qal’at in arabo).

Dall’analisi etimologica comprenderemo se il toponimo Caltavuturo apposto a quel luogo in seguito alla battaglia svoltasi, possa essere tradotto, secondo il nostro metodo interpretativo di cui si è fatto riferimento spesso nei nostri articoli, “Calate dal cielo” con riferimento alle fanciulle che curiosamente portano un nome a noi familiare. Tra le numerose analogie ricorrenti tra la cultura medievale occidentale e quella araba messe in evidenza nella ricostruzione storica qui proposta, risalta quella tra le Huri arabe e le Walkirie germaniche deputate a svolgere il medesimo ruolo, quello cioè di raccogliere gli eroi caduti sul campo di battaglia per condurli nei rispettivi paradisi. Non meno curiosa è l’affinità tra il nome delle fanciulle arabe, Huri, e il nome Urio della divinità sicula che Cicerone cita nelle verrine, divinità che trovava sede a Siracusa ed era oggetto di pellegrinaggio da parte della popolazione sicula della Sicilia. Il lessema Ur nella lingua germanica significa antico, primordiale.

VANDALI ED ARABI IN SICILIA

Prima di continuare nel nostro excursus, e al fine di trovare il trait d’union delle analogie che intercorrono tra la cultura araba e quella occidentale europea, è bene ricordare che diversi popoli, muovendo dall’estremo nord Europa, citati da Erodoto, Diodoro ed altri storici antichi, scorrazzavano fin da  tempi antichissimi nei territori del Medio Oriente rendendoli tributari e, con tutta probabilità, lasciandovi  dei prestiti culturali e linguistici che i popoli indigeni avrebbero potuto raccogliere e fare propri; tanto per citare un esempio in cui tali prestiti appaiono evidenti ricordiamo che  i romani, utilizzando il  carro da trasporto introdotto dai Germani, il rada ovvero ruota, introdussero il nome dell’attrezzo di locomozione nel proprio lessico. Tra i popoli germanici che scorazzavano per l’Europa e l’Oriente, più di tutti si distinsero i Goti provenienti dal Gotland, un’isola della Svezia, tanto da far dire allo storico Giordane che i Goti rappresentavano la vagina dei popoli. I Vandali, che erano  un ramo della grande famiglia gotica, scendendo attraverso la Spagna, attraversarono Gibilterra e si stabilirono nel nord Africa nel 429 con un contingente di ottanta mila teste. I Vandali erano i discendenti di quegli Arii di cui riferisce Tacito che preferivano attaccare di notte con il corpo dipinto di nero e che adoravano Wotan-Odino. Forse Sant’Agostino morì di afflizione quando li vide sotto le mura di Cartagine urlando i loro terribili peana o per il terrore che il crudelissimo Genserico incuteva. Roma si trovò costretta a riconoscere ai Vandali, tranne che Cartagine, i possedimenti nordafricani reclutando, tra l’altro, nel proprio esercito questi ingestibili Germani. Dopo la presa di Cartagine – val la pena sottolineare quanto segue per comprendere il futuro rapporto che i Vandali stringeranno con gli Arabi e la  condivisione di molti aspetti religiosi oltre che obiettivi politici-, verrà intrapresa una persecuzione dei cristiani in terra d’Africa. Genserico, al fine di controllare capillarmente l’intero territorio nord africano, insediò i suoi ottantamila individui al seguito, a gruppi di mille, di cui duecento fra questi erano temibili guerrieri. Introdusse i rigidi costumi atavici:  stabilì una austerità quasi monastica facendo chiudere i lupanari, abbattendo gli anfiteatri, condannando l’adulterio e deportando gli omosessuali. Dopo la conquista di Cartagine il Vandalo espulse i romani e nel  440 intraprese una incursione dimostrativa in Sicilia. Nel 455 ‘vandalizzò Roma e fece del regno africano un regno ricchissimo. I Bizantini non potevano restare a guardare. Nel 476 con la morte dell’ottantenne Genserico il regno iniziò la sua parabola discendente e i Bizantini non lasciarono cadere l’occasione. Nel 527 l’imperatore Giustiniano inviava la sua flotta a Cartagine che cadeva nel 533. I guerrieri Vandali furono assorbiti nell’esercito bizantino. Quando vi giunsero i Musulmani nel 652, venuti dal Medioriente,  Michele Amari afferma nel suo trattato che l’Africa era tenuta da quattro popoli diversissimi tra loro e così si esprimeva: “La più moderna era un pugno di gente germanica che alcuni autori chiamano Franchi; e Leone Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali”. L’Amari continua la sua descrizione affermando che un’altra stirpe che avanzava le altre per numero, si era stanziata fin da tempi antichi nel nord Africa provenendo dalla Media, a questa lo storico attribuiva  caratteri somatici caucasici ed era soprannominata Berbera, storpiamento del termine barbaro. La schiatta romana e la fenicia, così come la nera, erano ininfluenti in quella società.

 Questi furono dunque i popoli che nel VI secolo si unirono agli Arabi muovendo dal nord Africa verso la Sicilia agli inizi del VII secolo.

Anticipando quanto diremo più giù, facciamo notare che la conflittualità tra le fazioni arabe, quando queste si impadroniranno della Sicilia, raggiunse livelli tali che gli Arabi scacceranno le tribù berbere dalla Sicilia. Le espulsioni si spiegano alla luce delle differenze culturali mai appianate tra questi eterogenei alleati. In Sicilia dovevano già esservi insediate comunità vandale che, a partire dall’invasione vandalica del 440, facevano da testa di ponte col Magreb.  Se gli Arabi, appena giunti nel Maghreb sono in grado di passare in Sicilia, poiché è nota la ripugnanza degli Arabi per il mare e notoria la dimestichezza acquisita dai Vandali nel percorrere le liquide vie, non lo si può attribuire che all’esperienza marinara dei Vandali. Si spiegherebbe così la meraviglia espressa dallo studioso Umberto Rizzeri (La Sicilia islamica) nel notare  “ l’improvvisa comparsa del naviglio arabo sulla ribalta del Mediterraneo”. A conferma di quanto qui supposto, si tenga conto che le imprese per mare condotte dagli Arabi  e il successivo dominio del Mediterraneo da parte dell’Islam, inizia con la conquista del nord Africa. A questo punto della ricostruzione storica, i nostri lettori non avranno difficoltà ad accettare l’ipotesi che fra le fila dei Saraceni militassero elementi gotici, quei Vandali cioè, che per pragmatismo politico avevano abbandonato Odino per abbracciare l’arianesimo appena giunti nel continente e che ora non si facevano scrupolo di gettarsi fra le braccia di Allah, trovando nei cristiani un comune nemico. Sulle basi dei trascorsi storici del nord Africa, caratterizzati dall’ avvicendarsi e/o dal fondersi dei popoli dominatori, come sopra esposto, sarebbe lecito supporre che Vandali di confessione ariana potessero essere i protagonisti del racconto dei fatti di Caltavuturo, come si potrebbe dedurre dai  loro nomi, Hariri (cioè Ario), Moferreg (l’etimo potrebbe essere stato trascritto sulla base della corrotta pronuncia del vocabolo tedesco Morr-verlegen, ove con Moor si indica un terreno paludoso e verlegen significa differire, rimandare con riferimento alla morte scampata del protagonista) e in qualche modo anche quello di Ab(u) Thur, dalla porta, accettando per il Nostro un ruolo diverso da quello fornito dal racconto, forse mal compreso dallo storico siciliano.

Trascurando che la versione araba dell’episodio raccontato, possa essersi ispirata al mito di Er di cui parla Platone nella Repubblica; nel mito greco si fa infatti riferimento a una esperienza di premorte di un milite sul campo di battaglia, se i fatti raccontati aderissero alla nostra ricostruzione, non sarebbe peregrina la formulazione dell’ipotesi che il toponimo Caltavuturo fosse stato apposto al luogo in seguito ai prodigi di cui si è detto. Nella lingua di Hariri, di Moferreg e di Ab(u) Thur,  se essa fosse stato il vandalico, Kalla-ab-tur, corrotto in Caltavuturo, tradotto verbo pro verbum significa “chiamare evocare, far discendere – dalla – porta (del cielo)”. Ricordiamo ai lettori che era una abitudine consolidata presso le varie civiltà,  nominare un luogo in base l’eccezionalità dell’esperienza vissuta. Infatti, apprendiamo dall’ Antico Testamento che Giacobbe, – Genesi 32,26- dopo aver ingaggiato una lotta con un angelo col fine di non lasciarlo partire senza avergli strappato una benedizione, pose il nome di “Fanuel” al luogo ove si verificò il prodigio. Che la lingua vandalica potesse sopravvivere ancora un secolo dopo l’arrivo degli Arabi nel nord Africa, ci sembra una probabilità assai ragionevole per un popolo, quello dei Vandali, che, come abbiamo esposto sopra, era fortemente radicato nel territorio.

KALAT : IL CASTELLO

Attingendo ancora dal prezioso saggio dello storico siciliano, si può ben osservare che il termine kalat, che dovrebbe essere stato utilizzato per indicare un castello, una rocca o una fortezza, come si pretende in certi ambienti culturali, non viene utilizzato per tutti i siti espugnati dagli Arabi caratterizzati dalla presenza di una fortificazione: non viene utilizzato per rinominare, secondo l’uso arabo o a loro attribuito, l’inespugnabile castello di Gagliano detto, appunto, castel ferrato e che, invece, a detta dell’Amari, lo stesso viene appellato in lingua araba Kasr-el-Hedid; né viene utilizzato per rinominare Castelmola e molti altri siti che ben avrebbero meritato l’appellativo di kalat, castello. Molti dei luoghi in cui gli Arabi costruirono fortificazioni, invece, non vennero paradossalmente appellati con il termine kalat; è il caso dell’accampamento che gli Arabi installarono nel 670 nel castello romano presso Susa, in Tunisia, che chiamarono Kamunia; poi, ancora, citando il Fazello  lo storico siciliano, facendo riferimento alle conquiste siciliane da parte di Abramo Halbi nel’827, afferma che si inviava in Sicilia il capitano Halcamo il quale edificava un castello che da lui prendeva il nome, nome che, se stiamo a quanto affermato dagli studiosi circa la formazione dei toponimi, si sarebbe dovuto chiamare Calatalcamo. L’Amari, per rendere autorevoli le affermazioni del Fazello da cui egli attinge, sostiene che questi avrebbe appreso  dagli annali maomettani quanto raccontato. Sembra incongruente che l’Amari, nel riferire della caduta in mani arabe – riportiamo le sue parole- di “molte castella dell’isola: Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, Sutera, una terra che non so se vada letta Ibla, Avola o Entella” e continuando con l’elenco dei castelli: “kalat-A d-El-Mumin e altre città di cui non si dicono i nomi che tutte avevano promesso obbedienza e tributo ai Musulmani” faccia il nome arabo soltanto di uno dei castelli, forse perché l’unico realmente edificato dagli Arabi? ciò significa che le altre città non lo erano? non lo erano dunque Caltabellotta, Caltavuturo, né Calatabiano, così come non lo erano Calatino, né la duceziana Calacta come sostenuto all’inizio della nostra digressione. Nel formulare la detta conclusione ci soccorre l’autore delle cronache di Cambridge. Infatti, nell’ affermare che nel 938 gli Arabi “sottomettono tre rocche, cioè Caltavuturo, Qal’at ‘as Sirat e Isqlaf.nah”, implicitamente l’ autore delle cronache conferisce origini indigene al toponimo di Caltavuro. Se non bastasse quanto fin qui sostenuto, aggiungiamo che lo storico arabo ‘An Nuwairi riporta in una cronaca che, presa Taormina si pose l’assedio a Rametta ove il comandante Ibn ‘Ammar, “si fece fabbricare un qasr” cioè un castello.

INFLUENZA DELLA  CULTURA ARABA IN SICILIA

Esprimendo fino in fondo le convinzioni maturate dalla ricerca, affermiamo di essere dell’avviso che l’influenza della cultura araba in terra di Sicilia sia stata modesta, in perfetta coerenza con l’aforisma coniato dai Siciliani “Calati juncu ca passa la china” ovvero: Chinati giungo e aspetta che la china del fiume sia  passata per ritornare irto più di prima” nella saggia consapevolezza della transitorietà di ogni evento. Pertanto affermiamo che la suddetta presunta influenza culturale araba non sia entrata in profondità nel tessuto connettivo isolano, ma sia entrato a far parte, piuttosto, dell’immaginario collettivo a motivo dell’orrore e del terrore provocato dalle violente incursioni che, queste sì, rimasero profondamente impresse nella memoria degli abitanti. Le conquiste e assoggettamento dei territori Siculi, sì ci sono state, ma non per un periodo così lungo da poter consentire ad una cultura plurimillenaria quale era la siciliana, già avvezza alle dominazioni, di essere permeata in profondità. Fino al 740 infatti, si può parlare di scorrerie arabe nel territorio siciliano, incursioni veloci e di breve durata  con immediato rientro in Africa. Le incursioni avevano l’unico scopo di fare una gran messe di prigionieri, merce ritenuta preziosa, e di tesori oltre che rendere tributarie quanto più possibile le città isolane. Il cronista che compose il codice di Cambridge, di cui non si conosce l’etnia, ma si sa che era cristiano e visse a Palermo verso la metà del 900, fa iniziare la conquista dell’isola dal 827. Lo sbarco avviene a Mazara: l’anno 831 viene conquistata  e  fortemente arabizzata Palermo che  fungeva di capitale del nuovo impero e di base operativa. Dalla capitale siciliana le incursioni si spingevano verso l’entroterra siciliano; il più delle volte gli eserciti arabi rientravano a Palermo sconfitti; in alcune occasioni i villaggi dell’interno venivano conquistati per un breve periodo e perdute nuovamente come viene affermato nel succitato codice per la città di Noto. Alcune città, pur di evitare spargimento di sangue preferivano rendersi spontaneamente tributarie conservando la libertà. Prima della presa di Palermo gli Arabi erigevano i loro accampamenti in aperta campagna bivaccando sotto  le loro tende. La Sicilia orientale, l’area etnea in particolare, rimase libera per lungo tempo: fino all’860 i musulmani occupavano Palermo e non più di una trentina di città , il resto della Sicilia era libera. Enna viene assediata nel 859; Messina viene espugna nel 843 ma non Milazzo né Rametta; Siracusa nel 878; Taormina viene conquistata soltanto nel 908 e non per molto visto che nel codice di Cambridge si legge che nel 919 gli Arabi stipulano una tregua col popolo di Taormina e le altre rocche tenute dai Cristiani per essere presa – probabilmente si era interrotta la tregua – nel 962. In questa occasione essa viene rinominata  ‘Al Muizziah dal nome del suo conquistatore ‘ Al Muizz. Nella  suddetta cronaca, si apprende che nel 951 i Musulmani assediarono, “senza alcun frutto”, la rocca di Gerace ben difesa dai Cristiani. Alcuni decenni  dopo questi ultimi eventi, un periodo temporale  che riteniamo troppo breve per poter pensare ad una arabizzazione dell’isola, la Sicilia passava sotto il dominio degli uomini del nord, I Normanni, pronipoti di quei Vandali che, muovendo dalla Scandinavia sei secoli prima, erano passati in Africa di cui erano diventati signori, per passare due secoli dopo la conquista  nelle file musulmane e, sebbene si fondessero con gli islamici, non avrebbero del tutto  reciso il cordone ombelicale che li univa culturalmente ai consanguinei uomini del nord.

Ad majora.