Dalla Colchide alla Sicania, ovvero dalle tenebre alla luce

E anche Priamo sposò una siciliana (?).

I nostri lettori, ormai avvezzi ai colpi di scena, non si stupiranno del bizzarro titolo che abbiamo dato alla ricerca storica qui condotta, focalizzata più che sulle vicende degli Argonauti e dei Dardanidi sui rapporti intercorsi tra il popolo sicano e quelli che trovarono sede sulle sponde del Mar Nero. Sconcertati saranno piuttosto i lettori di questo pregevole sito che, bontà sua lascia libero movimento alla penna impazzita, i quali invitiamo tuttavia, a tenere duro nella lettura e giungere fino alla fine della esplorazione mitico storica qui tentata, tenendo ben in mente quanto intricata sia stata la rete intessuta fra le parentele dei regnanti di tutta Europa. I re delle nazioni europee, sia quelli in carica sia coloro che hanno dovuto lasciare il posto a forme alternative di governo, sono tutti imparentati tra loro seguendo, forse, una consuetudine ancestrale che affonda le proprie origini nel periodo da noi qui indagato.
È nostra intenzione, nel seguente studio, iniziare l’excursus puntando i riflettori sul re Priamo, in quanto desideriamo dare continuità all’articolo che aveva il titolo di “Enea: l’altra faccia della storia”, nel tentativo di colmare le lacune storiche e cercare spiegazioni agli omissis degli storici riguardo alle parentele intercorse tra gli eroi di schieramenti opposti che si scontrarono nel conflitto più famoso della storia, conflitto che cela, tra le pieghe del racconto, messaggi altri, rispetto a quelli evidenti di carattere storico mitologico. Gli eventi qui analizzati e reinterpretati alla luce delle nuove conoscenze, acquisite grazie alle moderne tecnologie e alle nuove discipline di ricerca scientifica, assumono i tratti di un viaggio nella dimensione ultraterrena ed extrafisica.

Gli omissis storici.

Osservando con quale metodicita’ scientifica venissero ignorate nell’Iliade alcune parentele, a noi ricercatori, sembrava quasi che l’attività pedagogica esercitata da Omero, ma vale per tutti gli storici antichi, imponesse loro di porre un tabù ai conflitti che non avrebbero trovato l’approvazione dell’atavica tradizione e rischiato altresì, rievocandole, di risvegliare le Erinni che non perdonano coloro che versano il sangue familiare. È per questo motivo, supponiamo, che Omero omettesse di dichiarare apertamente la parentela che intercorreva tra Teucro, il figlio bastardo di Telamonio, ed Ettore, i quali si cercavano sul campo e si combattevano l’un l’altro da irriducibili nemici; per lo stesso motivo crediamo che il custode delle tradizioni, Omero, tacesse circa le accuse di collaborazionismo col nemico che gravavano su Enea. Tacque ancora, l’imbarazzato poeta cieco, sulle vicende di Anchepolo Anchisiade, evitando di soffermarsi più del dovuto sul personaggio, onde evitare di incorrere nel rischio di rivelare l’insanabile odio che aveva percorso l’animo degli Anchisiadi e dei Priamidi, i primi scacciati dalla città e dal potere dai secondi. Nessun riferimento da parte di Omero, al greco nipote del troiano Priamo, Teucro, figlio della sorella, che Telamonio, inseparabile compagno di Ercole, aveva preso in moglie. Invece, il poeta, portando l’esempio positivo, utile allo scopo educativo affidato alla sua colossale opera, l’Iliade, mise in luce il nobile ruolo svolto dal cognato di Enea Alcatoo. Questi, aveva cresciuto il figlio di Afrodite, assai più giovane di lui, nella propria casa. In questo commovente passo del poema, si evince altresì, come la vulgata degli storici antichi, i quali asserivano che Anchise avesse avuto oltre a Enea, altri figli e figlie, è accettata anche da Omero, che definisce la sorella di Enea, sposa di Alcatoo: “La maggiore delle figlie di Anchise”.

La Sicilia: vagina di eroi e dei.

Ma torniamo a Priamo non senza prima aver manifestato il dovuto apprezzamento al poeta tedesco Goethe, che nella frase da lui pronunciata: “È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”, ha dimostrato di essere stato capace di penetrare verità ad altri precluse.
Nel lib. VIII, 303, Omero descrive l’arciere greco Teucro, figlio di Telamonio e Esione sorella di Priamo, il quale, nel ripetuto tentativo di scagliare i suoi dardi in direzione del cugino troiano Ettore, colpisce un altro figlio di Priamo, Gorgitione, avuto dal re troiano da Castianira. Priamo l’avrebbe sposata a Esima, una non identificata città o regione, che il re avrebbe visitato durante, presumiamo, uno dei suoi numerosi viaggi. La fugace apparizione nel poema di questa moglie e dello sfortunato figlio di Priamo, la vaghezza con cui il poeta descrive la loro provenienza, il nome del genero di Anchise Alcatoo, il cui suffisso riconduce ai nomi dei re feaci Alcinoo, Nausitoo etc. ed ancora le nozze contratte da Ercole in Sicilia di cui parla Apollonio Rodio nelle Argonautiche, ed ancora l’affermazione degli Scoliasti e di Ellanico di Lesbo, secondo i quali Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte, ci induce a spingere le indagini fino in Sicilia. Proprio qui, in questo divino triangolo di terra, si intrecciarono i destini degli eroi – non solo i loro- che si combatterono in terra troiana e, come appureremo anche oltre il Caucaso

Eroi di tutti gli schieramenti contraggono matrimoni in Sicilia.

L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico mitologico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà che Telamonio, l’inseparabile amico di Ercole, aveva preso con sé la figlia del re di Troia Laomedonte, Esione, dopo che i due eroi greci, diretti in Sicilia con i compagni Argonauti, fuggiaschi e reduci del loro viaggio nel Mar Nero, avevano insediato sul trono di Troia il figlio più giovane di Laomedonte Perdace, successivamente appellato Priamo. Se abbiamo dunque visto bene, in accordo con gli Scoliasti ed con Ellanico, possiamo supporre che i fratelli di Priamo, i quali avevano agli occhi di Ercole la colpa di aver sostenuto contro di lui la causa del padre Laomedonte, erano fuggiti ancor prima che il figlio di Zeus mettesse a ferro e a fuoco la città di Troia. Dalla ricostruzione dei fatti tentata in questa sede, sembra che tutti: eroi greci e fuggiaschi troiani, facessero rotta verso l’ospitale terra dei Sicani dove, un popolo sicano in particolare, quello dei Feaci, aveva fama di essere non solo ospitale, ma, come vedremo, detentore di tecnologie, virtù e qualità sovrumane. A questa gara di virtuosismi consistenti in viaggi avventurosi e perigliosi, funzionali ad alzare il prestigio di re ed eroi, apparirebbe poco credibile che il giovanissimo e piissimo re troiano si astenesse, scrollandosi di dosso a cuor leggero, il filiale amore e il fraterno affetto, dimentico dei fuggiaschi suoi congiunti in terra sicana. Per tal motivo non riteniamo peregrina l’ipotesi, suffragata dagli indizi che esporremo più giù, che anche il giovane figlio di Laomedonte si recasse in Sicilia alla ricerca dei propri cari, se non altro per avvertirli che l’implacabile semidio, figlio di Zeus, Ercole, era alle loro calcagna per portare a termine la vendetta nei loro confronti. Infatti, ecco che, con cronologica puntualità, l’implacabile semidio, giunge nell’isola sicana. Ma, in Sicilia, secondo quanto affermato da Apollonio Rodio nel IV libro delle Argonautiche, Ercole, anche lui ospite del re dei Feaci Nausitoo, prende moglie. Il semidio, avrebbe sposato infatti la figlia del fiume Egeo, Melite, ma noi saremmo propensi a credere che Apollonio aderisca ad un topos e che Melite fosse in realtà la figlia di Nausitoo, dal momento che nella generazione successiva, Alcinoo, erede di Nausitoo, vorrebbe dare a sua volta la propria figlia Nausica in moglie ad un altro illustre eroe, Ulisse. Se la nostra intuizione avesse colto nel segno e Priamo si fosse recato in Sicilia, presso i Feaci, perché avrebbe dovuto fare eccezione rispetto ai principi che ambivano a contrarre matrimoni con la stirpe degli dèi, i Feaci, e non imparentarsi con la più potente dinastia regale siciliana? Se così fossero andate le cose, dunque, ecco spiegarsi la presenza di Alcatoo, un nome feacio, presso la reggia dei Dardanidi. Un matrimonio contratto da Priamo con la principessa dei Feaci, qui ipotizzato, non proviene dalla mera fantasia di chi ha proposto questa ricostruzione storica o, se preferite mitologica, ma dalla stessa affermazione del re troiano ormai anziano, che sulle mura di Troia, ripercorrendo con Elena le antiche sue memorie, fa cenno ad un suo viaggio compiuto in gioventù nella lontana Ascania – luogo che noi identifichiamo con la Sicania-, dove avrebbe appunto preso moglie. Il supposto errore commesso dai copisti nella trascrizione del toponimo Sicania in Ascania, da noi rilevato, prende corpo considerando che nell’Odissea, lo stesso poeta dell’Iliade, fa convivere i nomi di Sicania e Trinacria quando afferma che la serva di Laerte proveniva dalla Sicilia. Come giustificare, poi, il nome del nipote di Priamo, Ascanio, se non collegandolo ai parenti della moglie sicana da cui aveva avuto forse Creusa ? (il nome di persona Sicano, era molto frequente in Sicilia. Tucidide cita con questo nome un comandante siciliano, in carica durante la Guerra del Peloponneso). Nel lib. XIII, 793 dell’Iliade, fra gli alleati dei Troiani, fanno apparizione alcuni condottieri: Palmi, Mori e Ascanio, che provengono, si dice nel poema, dalla “fertile” Ascania. La definizione di fertile riferita ad Ascania, pone poco spazio per una diversa collocazione della regione citata, dalla mediterranea isola, basti infatti leggere nell’Odissea la meraviglia che destava in Ulisse, l’osservare i giardini feaci nei quali dagli alberi si ricavavano più raccolti durante lo stesso anno. Secondo quanto viene affermato dagli Scoliasti e da Ellanico di Lesbo, Egeste ed Elimo, che Enea trova già in Sicilia dopo la fuga da Troia e il suo sbarco a Trapani, erano arrivati nell’isola al tempo in cui a Troia era re Laomedonte; gli eventi e le date in cui essi si svolgono, dunque, convergono con la ricostruzione qui proposta. Anche l’apparente incongruenza tra Apollonio Rodio e Omero circa la sede dei Feaci trova spiegazione: il primo la pone a Trapani, ma Omero, nell’Odissea fa affermare ad Alcinoo, che da lui dipendono dodici (numero sacro spesso utilizzato dagli storici) principi i quali amministrano le dodici province dell’isola. A questo punto dell’indagine possiamo affermare che sono numerosi i punti di contatto rilevati nel nostro excursus, che uniscono Troia alla Sicilia per sostenere che quest’ultima potesse rimanere estranea ai fatti di Troia.

Le jerofanie in Sicilia.

Per quanto concerne la celebrazione dei matrimoni illustri, sembra che la Sicilia fosse il luogo della consacrazione delle unioni se, come emerge da Apollonio Rodio, dalla lontana Colchide, perfino Medea, affrontando un viaggio periglioso per celebrare il proprio matrimonio con Giasone, avverte la necessità, per lei che apparteneva assieme al padre Eeta e la zia Circe, alla stirpe del Sole, di celebrarlo nell’isola e ricevere la benedizione dei Feaci.

Il Manto D’Oro.

Ora, non è scopo di questo breve saggio indagare cosa in realtà gli eroi cercassero in terra di Colchide e ben che meno in cosa consistesse in realtà il famoso vello d’oro, alla custodia del quale, erano state poste forze terribili. Appare comunque evidente, che ci troviamo di fronte ad una allegoria, utilizzando la quale, gli autori evitavano di palesare le terribili forze che si nascondevano dietro i nomi di creature immaginarie quali drago, vello o oggetti dalle caratteristiche extrafisiche quali la nave argo che perfino “parlava”. Tuttavia, osservando quanto il nobile metallo avesse un ruolo centrale nel racconto di Apollonio, non potevamo non cogliere una puntualizzazione sull’argomento: all’arrivo degli Argonauti in Sicilia, viene osservata la presenza nei prati della Trinacria, di greggi con le corna d’oro, pascolati da due figlie del Sole, Faetusa e Lamezia, le quali tenevano in mano, la prima una verga d’argento, d’oricalco la seconda. Ci chiediamo a questo punto, se gli Argonauti (sospetto é il numero di cinquanta che, assieme ad altre caratteristiche, riconduce a quello degli Annunachi sumeri, anch’essi incaricati di raccogliere oro in Mesopotamia e di cui parleremo più avanti), considerato che il vello, elemento centrale del racconto, era d’oro e d’oro erano parti delle “greggi” che pascolavano in Sicilia, in realtà non stessero riportando nell’isola ciò che, probabilmente con dolo, era stato sottratto. A questa conclusione giungiamo grazie alla constatazione che, come meglio diremo oltre, molti degli eroi componenti l’equipaggio degli Argonauti, erano nipoti del dio Eolo.

La Sicilia dimora di Dei.
Feaci e Annunaki: i due bracci di Anu.

Dalla constatazione che eroi e semidei provenienti da tutto il mondo, ambivano a contrarre o celebrare matrimoni in Sicilia, venne spontaneo porci la domanda: perché? La risposta giunse immediata, la fornì indirettamente lo stesso Alcinoo, re dei Feaci, quando nell’Odissea, attraverso la penna di Omero, definisce il suo popolo stirpe degli dèi. Con i Ciclopi e i Giganti, i Feaci sostenevano di appartenere alla stirpe degli dèi, e questi, afferma Alcinoo, usavano intrattenersi normalmente con loro, manifestandosi apertamente, senza veli. Alla luce di queste affermazioni, si può dedurre che nell’immaginario collettivo della casta cui appartenevano gli eroi e i semidei, prendere moglie tra le figlie dei Feaci, significava imparentarsi con gli dèi. Come abbiamo constatato durante il nostro excursus, i Feaci si erano legati attraverso i matrimoni, ai Troiani. Osservando altresì la continuità con cui i Feaci inviavano propri comandanti in supporto ai Dardanidi, impegnati nel famoso conflitto, siamo stati indotti ad immaginare un principio di vasi comunicanti tra le due stirpi, e nel contempo, constatando già la presenza di una globalizzazione, nel periodo qui indagato, della cultura e delle conoscenze acquisite, da rendere indistinguibili, per esempio le sepolture e i corredi funebri Sicani da quelle Micenee (vedi la tomba del principe a S. Angelo Muxaro e quella di Agamennone a Micene), abbiamo tracciato un parallelismo con i miti sumeri. La nostra attenzione si è focalizzata su due luoghi in particolare citati nelle tavolette sumeriche tradotte dallo studioso Zacharia Sitichin. Questi luoghi, l’Eden e l’Abzu, appaiono di vitale importanza per le attività svolte dalla civilta’ mesopotamica.

L’Eden Siciliano.

L’Eden, descritto nell’antico Testamento come una sorta di paradiso terrestre, dagli studiosi viene tradizionalmente posto in Mesopotamia. Anche l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche avrebbe sede nella medesima area geografica. Tuttavia, spingendoci oltre misura con la nostra immaginazione, che qualcuno non tarderà a definire eccessivamente fertile, dovremo prendere in considerazione l’ipotesi che l’Abzu citato nelle tavolette sumeriche, potrebbe avere avuto la sua sede non nella sabbiosa e sterile pianura mesopotamica, bensì nella fertilissima Sicilia, in quanto il significato del toponimo Abzu, secondo il nostro ormai conosciuto e consolidato metodo interpretativo, riconduce al concetto di un “andirivieni”. Infatti, il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi ab, che nella lingua nord europea, e dunque in quella sicana con la quale è imparentata, significa da, proveniente da, e Zu che significa verso, incontro, andare in una direzione. Ecco dunque che l’Abzu, la cui traduzione verbum pro verbo è da/per, diventa il luogo da cui si parte e il luogo dove si viene; esso appare ai nostri occhi come un laboratorio polivalente in cui avviene la sintesi di ogni ricerca, il luogo in cui si forma il coagulo di ogni sapere. Se così fosse, i Feaci avrebbero allora avuto, nella versione siciliana del mito sumero, il medesimo ruolo che gli Annunaki avrebbero assunto a Sumer. Sarà forse un caso che, in Sicilia i Sicani, come gli Annunachi in Mesopotamia, riconoscevano ad Anu il ruolo di capo e padre della stirpe, con la variante che in Sicilia Anu cioè l’Avo, veniva appellato furioso, odhr nella lingua locale. L’aggettivo furioso applicato all’avo siciliano Adrano, appare tra l’altro compatibile con l’episodio dell’ammutinamento – riportato nei testi sumeri- avvenuto nell’Abzu, ammesso che ci venga data ragione e questo luogo possa essere identificato con la Sicilia-, ammutinamento messo in atto da coloro che avrebbero dovuto eseguire gli ordini impartiti da Anu, i Feaci nel nostro caso(nell’ Odissea si fa riferimento a Poseidone adirato con i Feaci che disattendono i precetti del dio). Sarà ancora un coincidenza che molti di coloro che erano al seguito di Giasone, partiti per recuperare qualcosa che è stato tramandato ai posteri come se fosse un vello d’oro, consegnato antecedentemente da Eolo ad alcuni suoi nipoti o forse da questi trafugato, e condotto nella sponda orientale del Mar Nero, a restituirlo fossero ancora dei nipoti del dio dei venti, ma di terza generazione? Eolo, come si sa, aveva la sua reggia in un isolotto, forse a quei tempi unito alla Sicilia, e governava misteriose forze aeree che per semplificazione vennero definite venti.

Il dubbio.

Soffermandosi sulla festosa quanto sospetta accoglienza riservata dai Siciliani agli Argonauti, descritta da Apollonio, essa appare anche ai più ingenui investigatori come eccessiva e ingiustificata se manifestata nei confronti di estranei, che, agli ignari osservatori, sarebbero potuti apparire perfino come potenziali nemici o pirati, che da sempre hanno solcato il Mediterraneo. Ha pertanto richiamato la nostra attenzione un passo sibillino del poema, che Apollonio si fa sfuggire involontariamente: lo storico greco fa partire gli Argonauti da Ortigia, dove nel tempio di Apollo, cioè il dio evocato all’inizio del Poema e che impose l’impresa agli Argonauti per il recupero del vello, gli eroi compiono un sacrificio per ingraziarsi la divinità. Ora, pur ammettendo un caso di omonimia del toponimo come accade spesso tra la Grecia e la Sicilia, si dà il caso, che ancora oggi ad Ortigia, una appendice questa della città siciliana di Siracusa, ove secondo l’interpretazione da noi fornita studiando i fatti narrati nell’Odissea, vi era la reggia dei Feaci, esistono imponenti le vestigia del tempio di Apollo. Inoltre, a conforto della tesi che noi sosteniamo, e cioè che il vello lasciò la Sicilia e nella Sicilia ritornò, si pone ancora l’incomprensibile viaggio degli Argonauti che, partiti dalla Colchide nel Mar Nero, una volta entrati in possesso del vello a costo di rischi e per il quale alcuni eroi ci rimisero la vita, invece di tornare in tutta fretta in Grecia, destinataria dell’ambito trofeo, nella loro navigazione per la Sicilia la superano, portandosi dietro il manto d’oro, con il rischio di perderlo per vie diverse. Ed ancora, come ignorare la totale mobilitazione degli dèi siciliani: Eolo, Efesto, le Nereidi etc. che per garantire un sicuro approdo nel porto dei Feaci utilizzano tutti i poteri di cui dispongono? E invece sembrano assenti, per lo meno in questa fase, le divinità greche: Zeus, Era, Ares… Il riferimento alla Sicilia, più o meno esplicito, è poi così ossessivo nel trattato di Apollonio Rodio, che lo storico greco, descrivendo le coste del Mar Nero da cui si dipartono in tutta fretta gli eroi e facendo riferimento a cartine geografiche molto antiche, redatte antecedentemente al periodo cui si riferisce Apollonio, afferma che uno dei due bracci dell’Istro (l’attuale Danubio) si riversava nel Mare orientale cioè nel Mar Nero, l’altro nel Mare Trinacrio, facendo presupporre, talmente elevato era il prestigio e la potenza marittima della Sicilia a quel tempo, che il Mediterraneo non fosse ancora chiamato con questo nome o che questo convivesse con quello di Mar Trinacria.

Abzu: Laboratorio Alchemico Siciliano.

Tornando all’Abzu, nel mito sumero si apprende che questo luogo era considerato come una sorta di laboratorio, nel quale, se vogliamo seguire l’interpretazione che ha fornito lo studioso Zachariah Sitichin, il dio Enki, figlio primogenito di Anu, creò l’uomo. Facendo ancora ricorso al mito sumerico, mutuato e riadattato da altre civiltà secondo le esigenze culturali locali, ritenuto il più antico ed originale fra quelli che si riferiscono alla creazione, seguendo la traduzione dello studioso Sitichin, uno dei traduttori delle tavolette sumere, pare che l’uomo, creato nell’Abzu ad immagine di dio, venisse successivamente tradotto nell’Eden, luogo questo che sì, va posto in Mesopotamia, per svolgere imprecisati compiti a lui assegnati da dio. Emerge perciò la tesi, suffragata dalla totale assenza di una preistoria sumera, che nel mesopotamico Eden venisse introdotta l’opera finita di un prodotto che veniva prima sperimentato, poi testato e perfezionato nell’Abzu, cioè nel grande laboratorio naturale rappresentato dall’isola siciliana. In questo contesto potrebbe inserirsi il metaforico racconto di Apollonio, basato sul recupero di qualcosa non meglio identificata che per semplificazione si è chiamato manto o vello d’oro.
Soffermandosi ancora sulla fertilità della Sicilia che giustificherebbe l’impianto di un laboratorio botanico ante litteram, non si può ignorare la descrizione che Ulisse fa nell’Odissea del giardino dei Feaci, in cui avvengono nella medesima stagione strane e molteplici fruttificazioni degli alberi, non si può ignorare la straordinaria diversità biologica presente ancora oggi in Sicilia. Ed ancora, volendo dare credito a Diodoro e Cicerone, i quali sostengono che il mito siciliano di Demetra-Cerere sia il più antico del mondo, ripercorrendo il mito di Proserpina emerge che l’invenzione del grano sia stata una esclusività siciliana, che Demetra, soltanto dopo farà conoscere ai popoli orientali, come conseguenza del viaggio che la dea farà in oriente alla ricerca della figlia Persefone. Alla luce di quanto affermato, l’ipotesi che l’Abzu, questo laboratorio scientifico ante litteram in cui si sarebbero creati i primi ogm, non potrebbe essere sorto nella desertica Mesopotamia ma piuttosto nella fertile Sicania, prende sempre più corpo. Volendo condurre alle estreme conseguenze la ricerca fin qui condotta, continueremo a comparare le due aree geografiche: la mediterranea e la mesopotamica e il ruolo svolto dagli Annunachi da un lato e dai Feaci dall’altro, evitando di esprimere giudizi viziati da preconcetti e di entrare in discipline scientifiche in cui, per ignoranza, non sapremmo districarci; ci limiteremo piuttosto ad osservare con spirito laico, con quale atteggiamento gli autori classici si accostavano alla percezione di dimensione altre, extrasensibili, favolose o mitiche che definir si voglia, e tentare di comprenderne il significato recondito da loro attribuito, facendo leva sulle numerose connessioni e corrispondenze culturali tra le aree geografiche qui poste all’attenzione del lettore.

Le tecnologie degli antichi.

Continuando la illuminante lettura dell’Odissea, apprendiamo che all’astuto Ulisse viene rivelato dai Feaci, che le loro navi venivano pilotate con l’ausilio del solo pensiero; dall’altro lato agli Annunachi viene attribuita dagli studiosi, la conoscenza di tecnologie avanzatissime. Apollonio nelle Argonautiche, pone in evidenza che la lama della spada di Giasone era retrattile e l’eroe, a differenza dei combattenti che si facevano guerra a Troia, i quali

Quadranti solari risalenti al primo millennio a. C. Il primo, il più antico e perfetto, in argilla, è stato ritrovato nell’Appennino Emiliano, in Italia, il secondo in argilla, è stato ritrovato in Palestina, a Qumran.

indossavano tutti elmi di bronzo, ne indossava uno d’oro, certamente più bello ma meno resistente ai colpi eventualmente inferti, ma forse l’eroe doveva essere protetto da forze più sottili e occulte rispetto a quelle tradizionalmente conosciute. L’arma di Giasone ci porta altresì al confronto con il bramastra di Krsna citato nei Veda, un’arma che, stando alla descrizione fornita dai Veda, lanciava strali di fuoco e che l’etimologia del suo nome: brand ardere e strahl raggio, sembra confermare; il carro veloce montato dall’eroe Giasone, fa poi correre il confronto con i vimana, veicoli grazie ai quali si spostavano nei cieli le

particolare del quadrante italiano

divinità vediche; non può passare inosservato neanche il riferimento di Apollonio ad antichissime carte nautiche, né il riferimento alla conoscenza della scrittura con la quale veniva conservata l’ antichissima storia dei popoli che costeggiavano il Mar Nero. Questa storia era messa per iscritto su tavole d’argilla incisa con caratteri definiti cuneiformi, conservate da quei popoli e, come davvero si evince dalla traduzione effettuata da Sitichin, sebbene questi non raccolga i consensi di tutti gli accademici del settore, le tavolette raccontano la storia della nascita della civiltà sulla terra.
A questo punto dell’indagine non possiamo sottrarci dal segnalare all’attento lettore la sospetta perfezione stilistica delle pitture rupestri della grotta dell’Addaura, a Palermo, datate a ventimila anni fa. Anche queste pitture, che descrivono in pochi tratti una civiltà avanzata, si colorano ora di una nuova e chiarificatrice luce.

Enna: la Reggia di Anu.

Nei testi sumerici viene affermato che al dio Anu, col fine di trascorrere un gradevole soggiorno sulla terra, adeguato al suo rango, viene costruita una reggia alla quale viene dato il nome di Aenna (forse da Ahne, avi, antenati). Ebbene, una città posta al centro della Sicilia, edificata in illo tempore su un’alta collina, tanto da fargli guadagnare il primato di comune più alto d’Italia, non solo si chiama Enna, ma ancora al tempo di Cicerone, come riporta l’avvocato nelle sue verrine, veniva indicata come una città abitata da dèi. Onde concludere coerentemente col titolo dato a questo breve saggio, a noi piace porre accanto alla definizione ciceroniana, la specificazione di Apollonio circa la natura solare degli dèi che abitavano il fertile (in tutti i sensi) triangolo sacro. La scelta di porre in Sicilia la fine del viaggio, che ristabilisce la luce momentaneamente oscurata a causa del furto, fuor di metafora della luce, ribalta l’antico aforisma che recita: ” ex oriente lux”, ponendo nella Colchide la sede di Ecate o Proserpina, divinità infera o delle tenebre. Corrobora tale interpretazione il significato etimologico del nome di Colchide, che facciamo derivare da kol carbone, nella accezione di oscuro, tenebroso. La Colchide, terra della maga Medea e Circe, corrisponde alla attuale Georgia, nella costa orientale del Mar Nero, terra di sciamani, che ancora oggi praticano l’antica arte di Medea.

Ad maiora.

Glossario etimologico dei nomi.

ABZU. Da ab andare e zu, verso, nella direzione di.

ANU. (Ano in alto tedesco antico). Significa nonno, avo, antenato.

AENNA. Reggia di Anu. Enna è il nome di una città siciliana. Il nome Ahne, che si conserva nella lingua tedesca, indica i parenti, gli avi, gli antenati.

ANNUNACHI. Coloro che compiono la volontà di Anu, da AN avo, Nun, ora, adesso e akt atto, azione.

BRAMASTRA. Da brand bruciare e strahl raggio.

COLCHIDE. Corrisponde alla Georgia, nel Mar Nero. Il nome deriva da Koke carbone, forse ad indicare la fama che avevano le maghe Circe e Medea, probabili sacerdotessa di Ecate, dea del sottosuolo. Un’alternativa interpretativa potrebbe essere quella di un giuramento nefasto, da koke, carbone nella accezione di nero, oscuro, nefasto e eid giuramento, lemmi semanticamente legati ad un concetto di sacralità.

EDEN. Il primo giuramento o promessa, da Eid giurare e En primo.

EN.KI, detto Ea acqua, per le sue doti nautiche. Figlio di Anu. Da En primo e Kiel chiglia della nave.

MEDEA. L’acqua di mezzo, da med mezzo e Ea acqua.

SUMER. ZU-MER. Ricorrendo all’ausilio dell’antica lingua nord-europea, il suo significato è “dal mare” o meglio “in direzione del mare”, con chiara allusione alla provenienza del popolo insediatosi in Mesopotamia.

VELLO. Dall’unione dei lessemi Ve sacro ed hell spazio, indicherebbe un luogo sacro che avesse a che vedere con l’oro: forse delle miniere di estrazione del nobile metallo.

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