Oceano ovvero la stirpe acquatica dell’Avo

Poiché la primordiale stirpe sicana affidava soltanto alla memoria, alla “forza della mente”, la propria perpetuazione spirituale e poiché il mito era la modalità attraverso la quale i nostri antichi progenitori rappresentavano la propria visione del mondo, a noi tocca tentare la decodifica di quella rappresentazione che gli Avi ci hanno tramandato utilizzando un linguaggio metaforico e plastiche allegorie. In questo breve saggio ci occuperemo del mito di Oceano, uno dei figli di Urano e, ancora una volta, nel corso dell’analisi sarà possibile constatare come una globalizzazione culturale informava le civiltà pre storiche che abitavano il pianeta. Sarà ancora possibile comprendere come attraverso l’onomastica, gli Avi intendessero veicolare interi concetti e tradizioni.

Etimologia del nome.

Il lettore avrà certamente riscontrato come spesso nell’onomastica si faccia esplicitamente riferimento, con orgoglio, alle proprie radici etniche. Ebbene, il nome Oceano non fa certo eccezione.
Nel mito greco, Oceano era figlio di Urano.
Ora, al ricercatore non sarà passato inosservato che entrambe i nomi sono formati con la radice An. Il sostantivo Ano, nella lingua antico alto germanico significa avo, antenato, nonno, ma anche cielo, sede degli antenati. Pertanto, se si scompone il nome della divinità marina secondo la lingua agglutinante tedesca, utilizzando la grammatica avremo la sequenza: ö-cened-ano. Chi ci ha seguito nelle ricerche dei significati etimologici attribuiti all’onomastica, ricorderà che Oannes era l’appellativo apposto dai Babilonesi agli uomini pesce, esseri questi, secondo il resoconto del sacerdote babilonese Berosso vissuto nel III sec. a. C., civilizzatori venuti dal mare occidentale. Gli Oannes venivano raffigurati nei bassorilievi mesopotamici come esseri per metà pesce e per l’altra metà del corpo uomini. Nella lingua sumera e babilonese acqua si scriveva ea; ignoriamo la fonetizzazione della sillaba, se non che si constata che nell’attuale lingua francese acqua si scrive eau e si pronuncia O. Non appare pertanto peregrina la tesi secondo la quale il prefisso O del nome Oannes indichi proprio l’elemento acqua. Per quanto riguarda il concetto di stirpe veicolato dal nome Oceano, si riscontra che in antico irlandese, il termine cenedl indica un gruppo umano accomunato da vincoli parentali. Del significato di ano si è già detto e dunque non ci ripeteremo. A questo punto si può azzardare una libera interpretazione del nome Oceano: scomposto in o-cenedl-ano, potremmo dedurre che esso fosse un appellativo per indicare una “stirpe di esseri acquatici” che, padroni dell’elemento acqua, si muovevano con grande padronanza in esso. Questa stirpe – cenedl- si riconosceva forse nel comune antenato – ano- il quale potrebbe corrispondere alla figura del dio mesopotamico Enki appellato Ea, cioè acqua. A corroborare questa intuizione afferisce la presenza di alcuni bassorilievi sumerici di tre o quattromila anni fa, in cui vengono rappresentati uomini che con l’ausilio di respiratori dalla forma di otri, esplorano i fondali marini. Ritorna utile alla nostra ricerca, constatare che filosofi dello spessore di Platone si siano interessati al mito del continente Atlantideo, sprofondato nell’Oceano.

Atlantide.

Il mitico continente sparito sotto i flussi del mare nel giro di una notte, secondo le notizie apprese dal filosofo greco del IV sec. a. C., e riportate dallo stesso in due suoi dialoghi, il Crizia e il Timeo, oltre che aver dato – o forse preso- il nome all’oceano che lo circondava, ha rappresentato un rompicapo per gli studiosi e ricercatori di tutti i tempi. Noi non ci occuperemo della veridicità del mito né faremo cenno ai reperti archeologici sottomarini ritrovati nell’area in cui si ritiene fosse sorto il mitico continente, né ci soffermeremo sugli studi condotti dai geologi che confermerebbero un innalzamento dei mari di 140 m. circa @lin seguito alla deglaciazione iniziata intorno al 10.500 a. C., innalzamento che ebbe come conseguenza l’inabbissamento di parte delle coste di terre emerse e la scomparsa sotto i fondali di intere isole, ma circoscriveremo la formulazione delle nostre tesi allo studio del significato che il mito intendeva veicolare e ciò grazie al contributo multidisciplinare.

La progenie dell’Avo.

Si è fatto sopra cenno al dio Enki, divinità mesopotamica, cosa che potrebbe apparire bizzarra se si volesse tentare un collegamento con Oceano, inteso questo sia come luogo geografico che, come affermato sopra, nome in codice per veicolare una storia comprensibile ad una cultura antidiluviana, etnicamente omogenea, che abitava allora il pianeta, e che si esprimeva per metafore. Per chiarire la nostra ricostruzione di fatti accaduti migliaia di anni fa, dobbiamo fare cenno alla gerarchia divina. In tutte le culture: mesopotamica, greca, romana ecc., le divinità occupavano un loro posto nella gerarchia divina, posizione che si traduceva in termini di potere oltre che di prestigio man mano che si saliva verso il vertice. La posizione occupata dal singolo dio nel Pantheon, veniva collegata ad un numero. Al numero assegnato alla divinità corrispondevano altrettanti nomi o appellativi. Nel caso della divinità mesopotamica Enki, il suo numero era il 40 che, come si è affermato, corrispondeva al numero dei nomi con i quali il dio era conosciuto. Dei quaranta appellativi, quelli che ricorrono con maggiore frequenza per indicare il Nostro, sono collegabili all’elemento acqua: Enki ed Ea. Il nome Enki è infatti composto dai lessemi En che nella lingua norrena significa uno, primo e Kiel che significa chiglia, parte importante di una imbarcazione, riconducibile per metonimia a nave. Dunque, l’appellativo Enki, ci racconta che il dio era considerato un abile navigatore: il primo, il numero uno sui mari, tanto da formare una unica cosa con l’acqua da essere appellato egli stesso acqua, Ea. In effetti, dalla traduzione delle tavolette sumeriche, emerge che il dio, dopo che il comando della terra era passato al fratello Enlil, si fosse dato all’esplorazione del pianeta attraversando i mari, giungendo fino in Africa. Tralasceremo in questa sede di raccontare l’odissea che il dio Enki avrebbe vissuto nel corso delle sue esplorazioni, navigando per i mari, e che, secondo le ipotesi esposte nell’articolo “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico” durante le quali avrebbe deciso, a motivo della biodiversità riscontrata nell’isola, di creare in Sicilia un laboratorio di biologia da cui sarebbero stati diffusi i risultati delle sue ricerche, per tornare al concetto di una globalizzazione della civiltà preistorica. Ma tornando al mito di Oceano, non si può qui evitare di gettare un ponte di collegamento tra il mito greco e il mito sumerico, in quanto Oceano potrebbe essere stato uno degli eredi di Enki emigrato verso occidente, come esporremo più avanti. Infatti, secondo quanto si legge nelle tavolette sumeriche, in quella parte intitolata dagli studiosi Epopea di Erra, a Marduk, il primogenito del dio delle acque, venne assegnato l’Egitto che dovette però abbandonare subito dopo a motivo dell’esilio a cui era stato condannato dal consiglio di dèi, accusato di aver provocato, sebbene involontariamente, la morte del fratello Dumuzil. In quella occasione il regno dei futuri faraoni passò momentaneamente ad un fratello di Marduk, Ningishzidda – Thot per gli Egiziani, Tehuti per i Greci, Teuto per i Germani e i Sicani. Tra i Sicani di Sicilia, nella città di Innessa, oggi Adrano, ritroviamo con questo nome un principe che governò la città nel VI sec. a. C. -. È ipotizzabile che nel regno egiziano, come avviene oggi per chi assume il vescovato nella religione cristiana, Ningishidda cambiò nome o gliene venne aggiunto uno nuovo, quello di Thot. Marduk, richiamato dall’esilio per intercessione dei suoi potenti consanguinei, ritornò in possesso del regno egiziano. A questo punto, una volta reinsediato Marduk al trono egizio, il fratello Thot, che si era ormai affezionato al ruolo di regnante e mal volentieri restituiva il regno, venne a propria volta inviato in esilio, oltremare, là dove fonderà un nuovo regno: Atlantide. Verosimilmente il nome con il quale Ningishzidda/Thoth, verrà chiamato nella nuova sede, sarà quello di Oceano, un appellativo in cui il sostantivo Ano diventa il denominatore comune per indicare coloro che appartenevano ad un medesimo ceppo familiare, quello a cui facevano parte i divini Urano, Oceano, Adrano, Jahno (Giano bifronte), Manno, Manu, Manitou, tutti nomi derivanti da Ano/u, dio citato nei testi sumerici ( Epica di Atra-Hasis) quale capostipite dei fondatori delle città mesopotamiche. Tra i discendenti di Anu potrebbero essere inclusi anche gli Anakiti, abitanti di parte della Palestina, citati nell’Antico Testamento e definiti appunto figli di Anak. Quanto qui dedotto trova una sua giustificazione anche grazie alle affermazioni di Esiodo. Il poeta, nel suo poema, Le opere e i Giorni, afferma infatti, che i figli di Oceano erano tremila, tra i quali figuravano i fiumi Nilo, Danubio, Po.. insomma tutti quei fiumi metaforicamente collegabili alla stirpe degli Indoeuropei: Egiziani, Germani, Italici… In tal modo verrebbe a giustificarsi anche il motivo per cui i Greci accomunavano il mare Oceano al mare Atlantico (Aristotile), identificandolo sempre col Mediterraneo Occidentale con il quale Oceano comunicava.

Dal diluvio alla covid 19.

È con sacro pudore che ci avviamo alla conclusione di questo excursus, accostandoci ad un argomento che apparentemente esula dalle iniziali intuizioni, rischiando così di sconfinare in un terreno scivoloso che potrebbe farci precipitare nella disistima di alcuni lettori. Facciamo pertanto appello a questi ultimi affinché vedano in noi la buona fede nella divulgazione delle ricerche operate.
Come è stato affermato più volte nei nostri articoli, citando il Vico, la storia è destinata a ripetersi ciclicamente, seppur si presenti con modalità diverse, adeguate ai tempi. Infatti, passando in rassegna lo svolgimento dei fatti odierni riguardo alla “pandemia” in corso, chi non intravede nelle modalità messe in atto per affrontarla un ripetersi di quelle messe in atto da divinità ostili al genere umano raccontate dai superstiti del diluvio? Il racconto sumerico della sommersione del pianeta, passato alla storia con il titolo di Epopea di Gilgamesh, poi fatto proprio da molte altre civiltà, descrive una catastrofe causata da fenomeni naturali, non provocata dunque dal volere divino come affermato nell’antico Testamento, e tuttavia dagli dèi conosciuta, cavalcata e nascosta agli umani affinché, il numero eccessivo di questi, ritenuto dagli dèi insostenibile per l’armonico procedere della vita nel pianeta, venisse sensibilmente ridotto.
Ma un dio compassionevole, Enki, biologo, il cui simbolo era quello di due serpenti che si attorcigliavano attorno ad un bastone, creatore del genere umano, costretto dal fratello Enlil appoggiato da un consesso di divinità, al giuramento di non comunicare ad alcun essere umano l’approssimarsi dell’evento catastrofico, trascorreva notti insonni, dilaniato dalla domanda se fosse giusto l’editto emanato dal congresso divino di annientare le sue creature. Giunto alla conclusione di quanto “disumana” fosse la determinazione divina, Enki pervenne all’idea di mettere in atto uno stratagemma che salvasse il genere umano senza venir tuttavia meno al giuramento rilasciato al divino consesso. Entrato dunque nella dimora dell’uomo più saggio della città di Uruk, Ziusudra, si pose di fronte a una parete dietro la quale si trovava l’uomo, e si mise a parlare alla parete, ma in modo che l’uomo potesse udire quanto egli diceva: “parete ho da dirti quanto segue… “, proferiva il buon dio, e raccontando quanto stava per accadere al pianeta terra, suggerì alla parete di mattoni di costruire una nave. Da esperto navigatore quale egli era, detto’ alla parete le misure e le tecniche di costruzione adatte affinché l’imbarcazione potesse resistere alle acque che da lì a poco si sarebbero abbattute sulle terre emerse e che avesse anche dimensioni tali da riuscire a contenere le specie botaniche e animali che potessero ripopolare il pianeta quando la catastrofe fosse cessata. Oggi non sono le acque del diluvio a minacciare il genere umano, ma un morbo, più o meno vero nella gravità della sua manifestazione. Esso, il morbo, si presta al medesimo ruolo che il diluvio svolse dodicimila anni fa: fungere da strumento per riorganizzare il pianeta. Ancora una volta, il motivo per cui gli “dèi” odierni, forse eredi di quelli dei tempi del diluvio, evocano un “reset” del pianeta terra, con la conseguente decimazione della popolazione, è rappresentato, a loro modo di vedere, dalla insostenibilità demografica.
E ancora una volta, il dio compassionevole che salvò, attraverso un escamotage, parte dell’umanità una prima volta, ripropone una seconda volta, attraverso modalità diverse adeguate ai tempi odierni, il medesimo sotterfugio, rivelando cioè, a registi, fumettisti, scrittori di romanzi, cantautori e artisti di vario genere, i piani degli odiatori del genere umano. Questi prediletti del dio, a loro volta, attraverso la produzione delle loro creazioni artistiche e letterarie: films, romanzi considerati di fantascienza etc. avviano la divulgazione in anticipo dei piani che gli odiatori del genere umano intendono mettere in atto. Il messaggio di salvezza diffuso attraverso le criptiche modalità sopra descritte, pur diretto a tutti gli individui, verrà purtroppo decriptato soltanto da pochi, tanto da rendere comprensibile il biblico messaggio secondo il quale “molti saranno i chiamati ma pochi gli eletti”.

Ad maiora.

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