Festa in onore di S. Domenica

Valle delle muse

Ogni anno, nell’ultima domenica di agosto, nell’antica Valle delle Muse presso la città di Adrano, nel luogo ove Virgilio, nel IX canto dell’Eneide, poneva il tempio di Marte e a oggi vi è sovrapposta la chiesa dedicata alla martire cristiana, si svolge una festa a lei dedicata. Dunque, non fece difetto neppure in Sicilia il precetto del 601 di Papa Gregorio che, al vescovo d’Inghilterra che lamentava l’irriducibilità dei pagani anglosassoni nel frequentare i loro luoghi di culto, consigliava di porre altari cristiani dentro i templi pagani: “in tal modo”, sosteneva Papa Gregorio, “speriamo che il popolo (…) possa arrivare, frequentando gli abituali luoghi di riunione, ad adorare il vero Dio”. Nel 398, già Sant’Agostino si era accorto della necessità di riutilizzare gli edifici templari pagani, ma Papa Gregorio compie una scientifica operazione di sincretismo religioso. Infatti, l’arguto quanto temerario papa afferma: “Poiché essi (gli Angli) hanno l’usanza di sacrificare molti buoi ai demoni (dèi pagani), facciamo sì che un’altra solennità sostituisca l’antica, come un giorno di consacrazione o una festa dei Santi martiri le cui reliquie siano lì conservate”. Alla luce delle affermazioni di Papa Gregorio, se ne deduce che il culto riservato a Santa Domenica sia da considerarsi la sostituzione con quello osservato nei confronti di Venere della quale lo storico locale sacerdote Petronio Russo affermava esservi il tempio collocato vicino a quello del suo amante Marte.

Bottone patera dedicata a Marte. Lisbona

Virgilio, come affermato sopra, nel suo poema pur facendo riferimento al tempio di Marte, palesa la presenza, nel medesimo luogo, di un culto ancora più antico di quelli greci presenti nella valle sul fiume Simeto, presso Adrano, ancora durante il periodo in cui egli scrive. I culti greci si erano in parte innestati in quelli indigeni in parte vi convivevano parallelamente. Il culto indigeno di origine sicana, che plasmò l’intera isola, denominata Sicania e fornì alla valle i toponimi che sono stati conservati per molti millenni e trasmessi immutati fino all’epoca attuale, era quello dedicato ai gemelli Palici figli di Adrano e Etna. Il culto alla triade divina: Adrano, Etna, Palici cioè padre, madre, figli e, dunque al concetto di famiglia quale istituto sacro che perseverava la stirpe, era l’unico culto immaginato dai Sicani. Infatti, non ci è pervenuto alcun pantheon divino e nessuna gerarchia di dèi. Lo stesso Adrano non era considerato un dio, bensì l’Avo, l’antenato divinizzato. Egli era il primo uomo, il capostipite della stirpe sicana; colui il quale, essendo nato e morto per primo, sottoposto nell’aldilà, da parte degli dèi, alle prove per accedere alla beatitudine, avendole superate, era in grado di indicare la via ai propri eredi. Questi prendendo il nome da lui, più che un patronimico, esprimevano attraverso il proprio nome il primo concetto di consustanzialità tra loro e l’Avo. Infatti, i nomi di Adrano e Sicano sono composti dall’accostamento di più lessemi. Il sostantivo Ano che è comune a entrambi i nomi, nella lingua nordeuropea, lingua da cui noi facciamo derivare quella sicana (vedi l’articolo: “La lingua dei Sicani”) significa Avo, antenato; l’aggettivo “odhr” che compone il nome Adrano, come afferma Abramo da Brera, significa furioso; sic, presente nel nome Sicano, è pronome riflessivo e significa se, se stesso. Pertanto, il termine Sicano, tradotto verbum pro verbo sarebbe se – avo o l’avo in se ovvero consustanziale all’avo. In virtù di codesta identificazione con l’antenato, il sicano accampò il diritto all’eredità spirituale e, perché no, a quella materiale del possedimento del territorio appartenuto all’Avo: la Sicilia, che essi chiamarono in concomitanza Sicania e Trinacria. TrinacriaIntesero così sancire, con il primo nome il diritto divino di possesso e di appartenenza alla stirpe dei Sicani; col secondo nome specificare un concetto metafisico che avrebbe costituito il nucleo della religiosità sicana, religiosità basata, come affermato sopra, sul concetto di triade. Infatti, volendo tradurre il significato del nome Trinacria, utilizzando il metodo da noi esposto in diversi articoli, avremo: triankr o trianakara cioè, nel primo caso, tre avopotenza o forza, nel secondo treavoterritori. Per tre potenze o forze deve intendersi le tre componenti che conferiscono l’immortalità all’unità cioè alla famiglia: la forza creatrice, la forza ricettrice, la forza riproduttrice: padre – madre – figli (ereditarieta’).

ANTROPOMORFIZZAZIONE DEL DIVINO

Possiamo concludere con ampi margini di attendibilità, che non sia arrivato a noi nulla della teogonia Sicana per il semplice fatto che essa non esistette fin tanto che in Sicilia vi fu una omogeneità etnica. Il panteismo fu l’unico credo dei Sicani fino al II millennio a. C. Fino ad allora, essi erano riusciti a mantenere una armonia cosmica, un equilibrio che venne a spezzarsi con l’arrivo di genti provenienti dall’oriente: Cartaginesi, Troiani, Cretesi che avevano già da tempo recise le loro radici con quella religiosità che vedeva nell’uno il tutto e il tutto era riflesso o emanazione dell’uno. Quella che si veniva a innestare nell’armonica terra di Sicilia nel II millennio a. C. era una religione degenerata in una antropomorfizzazione delle manifestazioni di forze naturali che venivano interpretate come autonome, separate dall’uno. Ciò che era unito venne diviso. Ma lo spartiacque più doloroso e incisivo, quello che sancì, attraverso una operazione scientifica di mistificazione, la cancellazione di ogni conoscenza metafisica dei Sicani, fu quello iniziato a partire dall’VIII secolo a. C. con l’arrivo dei Greci. Chiarificatore di quanto affermiamo è ciò che si riesce a costruire attraverso i frammenti dell’opera di Eschilo “le Etnee”. Nell’opera eschiliana, infatti, si comprende come nel mito originale riguardante gli dèi Palici, figli dell’Avo sicano Adrano e della ninfa Etna, viene arbitrariamente introdotta una teogonia greca che non si limita a coesistere con quella indigena ma, spudoratamente, tenta di sovrapporsi. Eschilo, a tal fine, nell’opera si inventa un rapporto extraconiugale tra la ninfa Etna e il re dell’Olimpo greco, Zeus, dal quale nascono i gemelli divini. Il tragediografo non fa altro che riprodurre in terra di Sicilia il mito greco riguardante altri due gemelli, quello di Apollo e Artemide nati da un rapporto extramatrimoniale tra Zeus e Leto. Tuttavia, dobbiamo constatare che l’opera di mistificazione mitologica e il tentativo di commistione tra i miti greci e quelli sicani tentato da illustri poeti quali furono Bacchilide e Eschilo, venuti in Sicilia durante il regno di Gerone nel 478 a. C. chiamati dal tiranno di Catania per celebrare lui e la cultura greca, non fu condotta con totale successo se, nell’arco di tempo tra il 213 e il 211 a. C., i romani che combattevano contro i Siciliani per il totale domino dell’isola, si videro costretti a chiudere, al pubblico culto, il tempio del dio Adrano (e non quello di Zeus che forse non esisteva nemmeno) in quanto assimilato – giustamente, affermiamo noi – al loro dio primordiale Giano Bifronte, attribuirono al contributo del dio siculo fornito agli isolani, l’incredibile combattività di questi ultimi.

Monete adranite pre-greche

Stando a Cicerone (Verrine), ancora nel 70 a. C. i culti indigeni sono praticati dagli isolani con grande partecipazione di popolo se egli racconta che, a Siracusa, per rendere onore a una antichissima divinità chiamata “Urio”, che Cicerone assimila al greco Zeus, provenivano pellegrini da diverse città della Sicilia. Siamo pertanto propensi, e ci ripromettiamo di riprendere l’argomento, che una religiosità sicana sia carsicamente continuata a esser mantenuta da una tenace casta sacerdotale che, come si evince dalla leggenda di una moneta ritrovata nel territorio della città di Adrano, si appellava “ADRANITAN” ovvero coloro che “invocano il furore dell’Avo”.

GLI DÈI INDOEUROPEI.

Dalla Scania alla Sicania; dall’Eufrate al Simeto; dal Mar Nero al Mediterraneo: ODHR.ANO, JAH.ANO, UR.ANO, M.AN(N)O, MANU, ANU/O … quali relazioni?

Attraverso le nostre ricerche, abbiamo ormai appurato che, i nomi conferiti dai nostri Avi alle persone, così come ai luoghi, contenevano quasi sempre, un significato velato. Spesso i nomi alludevano a caratteristiche significative dei personaggi, o dei luoghi, che designavano. Di conseguenza, se il nostro lettore, a seguito delle molteplici prove apportate nei nostri precedenti articoli (molti apparsi sul prestigioso sito di miti3000.eu), ha acquisito fiducia nella tesi circa la derivazione nord europea della lingua sicana, non avrà difficoltà nell’accettare le implicazioni legate al fatto che OdhrAno (Adrano), nella lingua nordica, più affine alla sicana, significhi l’Avo furioso o la furia dell’Avo, così come il significato del nome dell’arcaica divinità greca, Ur Ano, sia quello dell’Avo antico o primordiale; JahAno, l’arcaico dio latino di probabile derivazione sicana, dal momento che il Lazio, fra gli altri popoli, fu abitato pure da Sicani, può tradursi come l’Avo sensitivo percettivo o intuitivo. L’aggettivo, come vedremo, indicherebbe quelle modalità attraverso l’applicazione delle quali egli si sarebbe guadagnato l’accesso all’aldilà. JahAno rappresenta altresì l’equivalente della divinità germanica denominata Manno dai Germani. Infatti, il nome dell’Avo germanico risulta formato dall’unione del lessema “MN” mente, con il sostantivo ANO – avo, antenato. Da Manno, per sineddoche, deriverebbe il nome del popolo degli Alemanni, nome che gli eredi di Manno si attribuirono con orgoglio, come parimenti intesero fare i loro parenti Sich – ane nei confronti dell’Avo furioso che abitò l’isola di Sicania. Di questi ultimi, si può affermare che, attraverso l’utilizzo del pronome riflessivo “sich”, che significa se, se stesso, essi intendessero veicolare, ancor prima che venisse dibattuto nel Concilio di Nicea nel 325 fra Atanasio e Ariano riguardante la figura di Gesù, il primo concetto di consustanzialità che intercorreva tra l’Avo Adrano e gli eredi sicani, concetto che viene ripreso anche dai coevi Veda nel canto IV, 10 della Bhagavadgita. La formazione dei nomi indoeuropei, i quali, come sostenuto sopra, indicavano particolari caratteristiche della persona indicata, come ancora può constatarsi attraverso le regole della grammatica tedesca ancora oggi in uso, avviene attraverso l’unione di più lessemi: da un aggettivo con un sostantivo; da un verbo o una preposizione con un sostantivo. I sostantivi formati da due o più parole sono numerosissimi nella lingua tedesca e danno, spesso, vita a nomi lunghissimi e impronunciabili per noi Italiani. Come affermato in altri articoli, il nome Adrano riferito alla divinità sicana, indicava, per i Sicani che lo coniarono, non un dio ma, piuttosto, l’Avo, l’antenato primordiale, l’iniziatore della stirpe divinizzato, colui il quale si era “conquistato” il diritto ad accedere nell’aldilà e, per utilizzare ancora una volta il linguaggio veda (Canto V), era riuscito a far parte dell’anima universale, concetto quest’ultimo, che per i Sicani si traduceva nella osservanza della religiosità panteistica. Per ciò che concerne il significato dell’aggettivo “odhr”, furioso, utilizzato dai Sicani per indicare la caratteristica del proprio Avo, va citato lo storico Adamo da Brera che lo traduce con l’aggettivo furioso; e poiché lo storico tedesco lo utilizza per indicare le caratteristiche del dio scandinavo Odino, crediamo che il termine vada inteso nella sua accezione di divino furore; modalità violenta con cui tutti i testi sacri dei diversi popoli concordano nel descrivere l’epifania del sacro. Per comprendere il motivo della scelta dell’aggettivo furioso che contraddistingue la divinità sicana, bisognerebbe ricorrere allo studio della idronimia europea, scopriremo allora, grazie al resoconto fornito dallo storico romano Tacito sulle gesta di Germanico, che in Germania, luogo in cui il condottiero romano venne inviato per sedare la rivolta dei barbari, scorreva l’antico fiume Adrana oggi Eder; anche in Spagna, terra sicana secondo quanto riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, e da noi condiviso a motivo dello studio che abbiamo effettuato sulla toponomastica dell’antica Hiberia, incontriamo l’attuale fiume Adrano che scorre nei pressi della città che porta lo stesso nome. Il sito dove sorse il più prestigioso, e in origine unico santuario dell’Avo furioso, l’attuale città di Adrano, nella Sicilia orientale, era caratterizzato – come è stato messo in evidenza attraverso la ricostruzione del territorio, materializzatosi in un imponente plastico esposto presso il Circolo Democratico di piazza San Pietro, in pieno centro cittadino – dalla presenza di numerosi corsi d’acqua che confluivano in fiumi e che, a loro volta, sfociavano in fragorose cascate. È altresì probabile che l’aggettivo furioso conferito all’avo divinizzato sia da addebitarsi al fragore sprigionato dallo scorrere e dal precipitare delle acque dalle alte rocche di antica lava. In pari tempo, la manifesta violenza con la quale le acque vincevano ogni ostacolo facendosi strada verso la meta finale, il mare, dovette, per analogia, suggerire ai Sicani l’immagine che l’Avo, come afferma pure Gesù nel Vangelo di Matteo 11,12, dovette ricorrere, se non alla violenza al divino “furore” per superare le prove dell’aldilà. A questo punto della disamina sul probabile significato da attribuire agli aggettivi utilizzati per indicare, nella tradizione indoeuropea, le caratteristiche del proprio Avo, emerge che ognuno degli avi o capostipiti dei rispettivi popoli, rispecchiava, in fondo, la concezione che ogni popolo aveva circa la conquista dell’accesso per l’aldilà e la via da perseguire per avere successo nell’impresa: JahAno, per esempio, per superare le prove poste nell’aldilà dagli dèi, ricorse a quella dote, l’intuito, che permette di bypassare la funzione mentale la quale, agitata dai sentimenti di paura, scoraggiamento e incertezza, sarebbe stata da ostacolo per il successo dell’impresa. Ecco allora, che, la percezione, la velocità (Jah) d’azione, l’intuizione immediata che, come viene affermato nella Bhagavadgita (Canto IX, 2) “è consustanziale all’ordine sacro” intervengono a inibire l’insorgere della fase scomposta della mente in preda alle incertezze e alla riflessione, stato che avrebbe inibito o fatalmente rallentato l’azione vittoriosa dell’Avo. Nel sostantivo “Ano”, che va a comporre, come abbiamo fin qui osservato, i nomi delle maggiori divinità indoeuropee, da nord a sud, da occidente a oriente, vi si deve leggere la volontà, da parte degli eredi, di ammantare la propria genesi etnica di un prestigio riscontrabile in ogni cultura e che consiste nella propria antica presenza nel pianeta terra: Zeus definisce antico Poseidone, per lusingarlo, per esercitare nei suoi confronti una captatio benevolentiae, quando nell’Odissea questi si mostra adirato con il re dell’Olimpo a motivo del comportamento dei Feaci nei propri confronti; in Erodoto (Storie) nella ricerca commissionata dal faraone ai sacerdoti, per risalire alle origini più antiche di un popolo che egli riteneva il proprio, si cela il tentativo di imporre il proprio prestigio al mondo; nel primo canto della Bhagavadgita è il dio Krsna che, per lusingare Arjuna, il suo discepolo prediletto, gli ricorda l’antica origine della stirpe di cui l’eroe è membro. Dunque, o Adraniti, antica stirpe consustanziale all’Avo Adrano, non vi pare il caso che sia giunto il momento di rientrare nella grande famiglia indoeuropea a far parte dell’anima universale?

Francesco Branchina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *