Non solo decorazioni: il simbolismo espresso nella ceramica adranita.

Non ritengono (i druidi) lecito
scrivere i loro sacri precetti;
invece per gli altri affari, sia
pubblici che privati,
usano l’alfabeto greco”.

Cesare:  La guerra gallica, VI, XIV

Il lettore che ci ha seguito nel  percorso storico fin qui tracciato, finalizzato a mettere a nudo le radici sicane della Sicilia, di certo non sarà colto dallo stupore se vedrà spingerci ancora oltre  la tesi più volte esposta intorno alle insospettabili conoscenze possedute dai nostri antenati. Non giudicherà neppure peregrina la deduzione  secondo la quale i Sicani potessero esprimere i loro concetti metafisici attraverso un simbolismo che potremmo definire: il linguaggio dello spirito. Il singolo simbolo, infatti, quale immagine semplificata di un archetipo, ha il potere di esprimere un concetto piuttosto complesso, una visione del mondo che, grazie all’immediatezza intuitiva dell’osservatore, riesce ad eludere i filtri apposti dalla attività mentale. L’intuito rappresenta, pertanto, quella qualità dello spirito attraverso la quale la componente umana interagisce col divino. Non deve altresi meravigliare alcuno, se il territorio adranita è cosparso di un cospicuo numero di simbolismi, poiché quel territorio trasudante forze extrafisiche, un tempo abitato dai Sicani, ben consapevoli che lo spazio non era da considerarsi omogeneo, ospitò il primo santuario dell’isola dedicato all’antenato, al capo della stirpe, al quale apposero l’appellativo di Adrano ovvero, “L’avo furioso”.

Ci chiediamo se la cultura della ceramica impressa risalente al VI millennio a.C., e quella della ceramica lineare rinvenibile abbondantemente nel territorio adranita, che riproduce croci, cerchi, frecce, triangoli e segni grafici semplici che,  più tardi, entrarono a far parte dell’alfabeto convenzionalmente definito siculo (il lettore noti come anche i segni sillabici iberici, in uso attorno al 400 a. C., siano molto simili alle rune. Non ci lasceremo altresì sfuggire l’occasione di segnalare in questa sede,  la presenza in Spagna di una città e del suo fiume, che si chiamano entrambi Adrano, così come corre l’obbligo di ricordare a chi ci segue, che l’Iberia, secondo la tradizione cui attinge Tucidide, era abitata dai Sicani) possano semplicemente essere liquidati come motivi geometrici tracciati a scopo decorativo.

Alfabeto iberico in uso nel 400 a. C. in Spagna

A noi sembra piuttosto, che l’arte espressa sulla ceramica, abbia dei tratti comuni a quei segni tracciati nei pezzetti di legno, amuleti, dai popoli del nord e successivamente incisi anche su pietra, come lascerebbero intendere nei loro trattati gli storici latini che vennero a contatto per primi con i popoli germanici, tentando invano di comprenderne la cultura; tra tutti citiamo Cesare (La guerra gallica VI, XIV). Quello che viene affermato dal console romano ci sarà di aiuto per dissipare ciò che in questo articolo potrebbe passare come una serie di illazioni, forzature linguistiche e utilizzo strumentale dei reperti archeologici rinvenuti nel territorio adranita. Pertanto analizzeremo quanto da lui affermato sulle conoscenze acquisite dai sacerdoti galli. Il divo Giulio, che durante la campagna gallica si accompagnava proprio ad un alleato Druida, Diviziaco, sosteneva  che i Druidi non amavano mettere per iscritto, per lo meno non attraverso la scrittura convenzionale che utilizzava l’alfabeto greco familiare a Cesare, le conoscenze che riguardavano la sfera del sacro. E su questo argomento il romano diventa ancora più esplicito quando afferma che, spintosi fino in Inghilterra, terra da cui proveniva, a suo dire, la casta sacerdotale dei druidi galli, interrogando le genti del luogo circa il fenomeno del solstizio, che probabilmente veniva festeggiato celebrando particolari riti che dovettero incuriosire Cesare che in patria ricoprì il ruolo di pontefice, non riuscì ad avere alcuna informazione in merito (La guerra gallica, lib V, XIII). E poiché è ancora Cesare ad affermare che i Druidi conoscevano e utilizzavano l’alfabeto greco per fissare le cose profane, dovremmo dedurre che quell’altra scrittura, la barriforme chiamata runica, venisse utilizzata dai sacerdoti, i Druidi, proprio per esprimere l’inesprimibile, il sacro. Quanto da noi sospettato circa l’ampio patrimonio di conoscenze posseduto dalle genti del nord Europa, patrimonio affidato ad una minoranza, troverebbe riscontro, a nostro avviso, esaminando la stessa etimologia del vocabolo rune con cui vengono indicati i grafemi runici. Esso allude a qualcosa che è velato, significa mistero, silenzio, ruhe nell’odierno tedesco. Dalla autorevole affermazione di Cesare dunque, deriva, conseguenzialmente, la nostra deduzione secondo la quale le conoscenze acquisite nell’ambito del sacro, potessero essere espresse da quella casta sacerdotale soltanto attraverso l’ausilio del simbolo runico. Il simbolismo riprodotto nel territorio adranita, veicolato principalmente attraverso la ceramica sulla quale viene dipinto o impresso a partire dal VI millennio a.C.,  si colloca cronologicamente nello stesso periodo in cui in Romania venivano incisi i segni sulle  famose tavolette ritrovate a Tartaria. Le celeberrime tavolette rumene sono state datate dagli studiosi al 5.500 a.C. Su di esse vi sono rappresentati dei simboli ritenuti la più antica scrittura finora ritrovata, anche se non tutti gli studiosi sono concordi con questa tesi.

La civiltà sicana che Tucidide, rifacendosi a storici locali, ritiene essere stata la prima apparsa nell’isola di Sicilia, sarebbe stata, secondo il risultato delle nostre ricerche, anche quella che avrebbe permeato l’ isola della propria cultura, in gran parte giunta inalterata fino a noi attraverso l’uso di teonimi, toponimi; attraverso l’onomastica, l’oronimia ecc. della quale, in parte, utilizzando il metodo interpretativo ormai noto ai lettori, noi ne avremmo decriptato l’intima essenza. L’affinità tra alcuni segni ritrovati nel territorio adranita incisi su argilla e su pietra, con quelli barriforme runici che si ritrovano nel nord e nel centro dell’Europa, nonché la somiglianza con i segni cuneiformi utilizzati in Mesopotamia, appare, come vedremo, possibile. Segnaliamo di passata, affinché il lettore possa cogliere i molteplici aspetti che collegano i Sicani di Sicilia al nord Europa, alla S(i)cania nel caso specifico, che il dio scandinavo Odino (odhr-Inn), a cui abbiamo equiparato il dio sicano Adrano (odhr-Ano), venne considerato dai popoli del nord Europa l’inventore delle rune. Riteniamo che la causa prima che ha ingenerato l’espansione dei simboli, sia attribuibile, in primo luogo, alla migrazione dei popoli (Cesare sostiene che era opinione comune in Gallia, che l’organizzazione dei Druidi fosse originaria della Britannia e che di lì fosse passata nel continente). Noi, da parte nostra, condividiamo quanto asserito dai  Galli e riportato da Cesare in quanto siamo del parere che in origine le migrazioni furono univoche, da nord verso sud, e ciò a motivo del clima che rese inospitali le regioni del nord. Tutta la storia antica, fino al Medio Evo, documenta tali univoche migrazioni.

A differenza della Sicilia, terra in cui le sovrapposizioni di civiltà si rincorrevano con velocità inusuale, nel nord Europa l’uso delle rune veniva perdurato ancora oltre l’anno mille (nell’isola di Gotland, in Svezia, esse rimasero in vigore fino al XVII sec., mentre nelle regioni di Dalarne è Harjedalen vennero usate fino al XX sec.), ciò a motivo dell’isolamento culturale, geografico e climatico in cui, fino ad epoca relativamente recente, il nord Europa venne a trovarsi. Conseguenzialmente, il significato attribuito alle rune, pur con lieve margine di elasticità nella loro interpretazione, nel nord Europa si è conservato e ininterrottamente tramandato. Per rendere possibile una comparazione tra alcuni dei segni grafici utilizzati dai Sicani con quelli germanici che proporremo in questa sede, essendo la cultura di provenienza di entrambi i popoli affine (consultare gli articoli: “Senone di Mene: i Druidi in Siciliae I Sicani: le origini e il sito), ci siamo avvalsi, non solo, ma in misura predominante, con uno sforzo di semplificazione della vasta materia, degli studi e delle conoscenze del runologo Kenneth Meadows. Per chi volesse ulteriormente approfondire le conoscenze dell’alfabeto runico, segnaliamo il saggio di Meadows: ‘Il potere delle rune’, edizioni L’età dell’acquario.

Poiché è stato da noi già indagato, ed esposto ai lettori in diversi articoli (op. cit. ), il rapporto di affinità che intercorreva  tra la casta sacerdotale dei druidi e quella degli adraniti, uniche detentrici del sapere, per motivi di sintesi trascureremo di ritornarvi in questa sede, focalizzando, pertanto, il nostro interesse soltanto sul simbolismo riprodotto nella ceramica e sulla pietra a partire dal periodo neolitico fino all’età del bronzo. Inizieremo il nostro percorso partendo da due simboli incisi su una pietra ritrovata alla fine degli anni ’50 presso le mura poligonali di Adrano; mura sulle quali notammo già la presenza di un monogramma profondamente inciso su una delle enormi pietre poligonali che lo costituiscono.

Monogramma sulle mura ciclopiche

Corre tuttavia l’obbligo di far notare che il ritrovamento casuale della pietra fuori dal suo contesto archeologico originario, ne limita ogni possibile reale interpretazione. Pertanto, le riflessioni qui vergate si pongono come unico obbiettivo quello di voler dare un contributo, uno stimolo alla ricerca, senza alcuna velleità di fornire certezze.

A primo acchito sembra che i due glifi incisi nella pietra basaltica di forma ovale, di una quarantina di centimetri di diametro, si possano accostare, a motivo della loro forma grafica, a quelli di una freccia (corrispondente all’alfa dell’alfabeto siculo) che si volge a sinistra, nella direzione di una k. Ma, l’attento osservatore, esaminando nei dettagli il simbolismo, non potrà fare a meno di notare l’affinità dei due glifi adraniti con quelli runici corrispondenti a Tyr (↑) e Reid (Κ). Avendo altrove fornito le prove di una corrispondenza culturale tra la civiltà dei Sicani con quella proto germanica, proveremo ad esaminare il simbolismo adranita  dal punto di vista nord europeo, ipotizzando che i Sicani utilizzassero un tipo di scrittura simile a quella dei cugini germanici dal momento che entrambi possedevano un patrimonio linguistico e semantico affine, così come abbiamo ipotizzato attraverso  le nostre ricerche (vedi l’articolo “Jam akaram: la lingua dei Sikani). In seguito di quanto  fin qui affermato, invitiamo  il lettore ad interrogarsi se il significato che attribuiremo ai simboli di seguito proposti, possa essere compatibile con la concezione del mondo che abbiamo attribuito ai prischi Sicani; visione del mondo espressa, più che con l’ausilio del linguaggio, da un sistema di simboli che, per loro natura, hanno la capacità di esprimere concetti difficilmente veicolabili tramite il linguaggio soggetto ad evoluzione continua.

Pietra basaltica con incisi I simboli di Tyr e Reid.

Il segno Tyr, oltre che figurare nella pietra ritrovata in prossimità delle mura ciclopiche di Adrano, lo si ritrova inciso, quale segno alfabetico facente parte di una lunga epigrafe, sulla stele di calcare rinvenuta incassata nelle mura di C.da Mendolito. La stele, che riporta una lunga epigrafe celebrativa utilizzando i segni del l’ alfabeto greco, della quale ci si è occupati nell’articolo “Jam akaram: la lingua dei Sicani”, é stata fatta risalire dagli accademici al VI sec. a.C. Il segno alfabetico, simile ad una freccia, più volte presente nell’epigrafe adranita, viene fatto corrispondere all’alfa dell’alfabeto greco. Il segno siculo, pur conservando il suo valore alfabetico di alfa, potrebbe avere continuato, però, a fungere ancora da simbolo su un altro piano, quello metafisico, utilizzato dalla casta sacerdotale e, dunque, aver veicolato un significato alternativo a quello alfabetico, diretto, potremmo dire, agli addetti ai lavori. Presso altri popoli, come per esempio in quello ebraico, è risaputo che i segni alfabetici avevano, in alternativa, anche valore numerico. Ritenendo possibile, dunque, che ogni simbolo possa esprimere una molteplicità di significati (a tal proposito vorremmo far notare ai cultori di archeoastronomia l’incredibile affinità che intercorre tra i due simboli Adraniti e il geoglifo sovrastante al tumulto di Kanda, in Macedonia. Secondo alcuni studiosi il geoglifo di Kanda starebbe ad indicare la costellazione di Cassiopea),

Geoglifo di Kanda Macedonia

comparando il segno alfa o Tyr che chiamare si voglia, al linguaggio runico, potremmo ipotizzare che il segno Tyr possa aver espresso, nell’intenzione del suo compilatore, la forza che tiene a bada il caos, impedendogli  di espandersi. Nella cultura nordica, il segno Tyr rappresenta la forza penetrante maschile, il coraggio, l’onore, la vittoria e viene attribuita al dio guerriero. Essa spazza via tutto ciò che impedisce di vivere in armonia con la natura, con sé stessi e con gli altri; il sacrificio è una delle qualità di questa runa.

Reid

Quanto attribuito al simbolismo della Reid dal runologo Meadows, potrebbe essere applicato al simbolo inciso sulla pietra adranita?  Meadows afferma che Reid è la forza che spinge il sole nel suo moto celeste. É il moto ordinato. È ciò che causa le stagioni. Causa il ritmo naturale. Determina la forza dell’azione correttamente svolta. Per questo viene definita la runa dei buoni risultati. Ha il potere di controllare le energie. Poiché la runa Reid simboleggia il viaggio del sole, il suo simbolo indica il viaggio interiore, la ricerca della pienezza spirituale che spinge a cercare le risposte ai più inquietanti misteri della vita.

Fin qui, dunque, Meadows. L’ipotesi avanzata dallo studioso Agostiniani in un convegno di studi intitolato “Tra Etna e Simeto”, secondo la quale i grafemi incisi in alfabeto siculo indicavano una sorta di trattato commerciale sancito tra due individui, ci sembra non percorribile a motivo, tra l’altro, della poca praticità dell’oggetto scelto per tali fini; ci si sarebbe  serviti per lo scopo, della tradizionale tavoletta di argilla e, anche questa, già in disuso nell’età storica in cui dovrebbe inserirsi il reperto. Le conclusioni del nostro studioso, sarebbero comunque state viziate dall’errato luogo di rinvenimento indicato dal prof. Manganaro: le mura ciclopiche di Adrano in una prima versione, in C.da Mendolito in una seconda versione. L’agostiniani, probabilmente condizionato dal ritrovamento delle numerose epigrafi, compresa la celeberrima stele  nel territorio del Mendolito, scelse, tra i due luoghi indicati dal Manganaro, il secondo, al fine di poter agevolmente comparare i segni incisi nella pietra con quelli alfabetici greci riconducibili agli altri reperti epigrafici. Noi che abbiamo interrogato il rinvenitore della pietra, il signor Michelangelo Pellegriti, sappiamo con certezza che il luogo di provenienza del reperto è quello presso le mura ciclopiche di Adrano. In ogni caso, l’epigrafe, essendo  stata catalogata come anellenica, si sarebbe, al pari della famosa stele del Mendolito, dovuta leggere da destra verso sinistra.

Frammento di ceramica.

Se, poi, si mettesse in conto la possibile non casuale scelta della durezza della pietra per veicolare un concetto di eternità, stabilità, concetti anch’essi ritenuti immortali, eterni, potremmo avventurarci nel tentare una lettura del concetto di aldilà e/o di sacro elaborato dai nostri prischi antenati ed espresso attraverso i grafemi incisi nella pietra. I simboli potrebbero voler dire che la morte era da intendersi come la fine dell’esperienza terrena e l’inizio del viaggio (REID) verso il “regno della luce” (frase quest’ultima, che si trova incisa su un tegolo funerario rinvenuto in C.da Mendolito e da noi tradotta secondo il metodo interpretativo già conosciuto dai lettori). Se la pietra fosse stata parte di un corredo funerario o una deposizione votiva, si potrebbe ipotizzare che chi incise la pietra volesse auspicare che il defunto (o nel caso della deposizione di un ex voto, rivolto a sé stesso), se fosse stato in vita un guerriero, simboleggiato dal segno della freccia (Tyr),  avrebbe saputo tenere a bada, raggiunto l’aldilà, le forze caotiche (la paura) che avrebbe ivi trovato a sbarrargli il passo, e avrebbe saputo ristabilire nell’aldilà il rapporto armonico che lo avrebbe contraddistinto già nella sua vita terrena. Indirettamente, quindi, il simbolismo inciso sulla pietra, qui esaminato, come l’aforisma inciso sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, invitava ogni individuo a tenere in vita un comportamento armonico, funzionale a fargli raggiungere agevolmente, nell’aldilà, il regno della luce, sede degli Avi.

I SIMBOLI CHE RICORRONO NEL TERRITORIO ADRANITA.

Frammento di ceramica. C. da Fogliuta.

Un segno che ricorre con una certa frequenza, impresso sulla ceramica neolitica e inciso su pietra, è rappresentato dalla croce di S. Andrea o X. Questo simbolo, nel linguaggio barriforme delle rune ha valore fonico g, si pronuncia Ghifu e rappresenta il potere del dono nel senso più estensibile del suo significato, come afferma il Meadows. Ecco perché lo si ritrova apposto su oggetti di ogni tipo:  utilizzati come corredo funerario, rituale, augurale, conviviale, a simboleggiare di volta in volta, il dono della vita, della conoscenza, della saggezza ecc. Questo simbolo rappresenta anche il potere insito nel mutamento, nella trasformazione; il passaggio da uno stadio ad un altro. Ed ecco che il simbolo delle due X poste l’una sull’altra, in una sequenza verticale, lo si può concepire come una catena di continuità, e, se volessimo giocare di fantasia, richiamare la catena degli amminoacidi che formano il DNA umano. Ghifu riflette

Sequenza di X su ceramica.

la forza creatrice e dell’ottenimento; forze potenziali deposte in un recinto che attendono le condizioni adeguate per potersi esprimere. La doppia elica e la croce, si trovano dipinte in uno splendido piatto del II millennio a. C. esposto al museo di Adrano, il piatto era parte di un ricco corredo funerario.

Pesetto da telaio con croce

Il segno  formato da due barre perpendicolari che si intersecano in un punto centrale, lo si ritrova frequentemente inciso sia su pesetti da telaio depositati a corredo funerario assieme ad altri oggetti, sia disegnato su ceramica. Se dovessimo interpretare questo simbolo a forma di croce tenendo conto del suo significato runico, esso esprimerebbe la forza del cambiamento e della ciclicità del cambiamento oltre che quello di coercizione, persecuzione, schiavitù.

Pesi di telaio

Il pesetto da telaio veniva deposto in ogni tomba, come dimostrano gli scavi archeologici intrapresi in C.da Mendolito, ad indicare il compimento del destino del defunto, destino  filato dalle tre Norne: Urd passato, Verdanti presente, Skuld dispensatrice. Quest’ultima, limitandosi ad intrecciare ciò che viene filato dalle prime due, cioè le azioni che il defunto ha compiuto in vita, veicola l’idea secondo la quale il destino non è predeterminato dalle Norne, ma è la conseguenza di una serie di atti compiuti in vita dall’individuo.

Il  simbolo che riproduce una serie di raggi che vanno da un numero di otto a dieci, lo si trova inciso su un considerevole numero di pesetti di telaio, deposti  tra  gli oggetti che fungevano da corredo funerario, nelle tombe pre elleniche di Adrano. Sole o stella che sia, la forma del  simbolo adranita presenta una straordinaria affinità sia con la runa Hagal, sia  con il cuneiforme mesopotamico che indica il dio Anu. Il segno è anche inciso sulla parete della tomba megalitica di “Cairn T. Lough Crew” in Irlanda.

Il cerchio nel linguaggio runico viene indicato come la runa del destino. In Adrano lo ritroviamo su pesetti da telaio, su alcuni capitelli di colonna con una croce inscritta al suo interno e su ceramica dipinti in ocra rossa del II millennio a.C. É anche chiamata la runa di Odino. Rappresenta la runa del cambiamento interiore.

Il disegno che ritroviamo sulla ceramica neolitica sparsa per la campagna adranita, riproducente due triangoli contigui con i vertici che si toccano, se corrispondesse al simbolismo runico, dovrebbe essere equiparata alla runa chiamata Dagaz. “Questa è la runa del risveglio. È il potere dell’alba, che crea nuova luce” afferma il Meadows. Questa runa rappresenta il contenitore in cui sono deposte le esperienze del passato. Poiché la parola Dagaz significa, secondo l’affermazione del Meadows giorno (noi siamo propensi a ritenere il nome formato dall’unione dei lessemi dag, giorno e hass, atto creativo attraverso la parola), alla luce di quanto esposto fin qui, non sorprenderà il lettore se una contrada di Adrano si chiami Dagala. Abbiamo notato che la contrada adranita è esposta a mezzogiorno, il sole, nel periodo estivo, non la abbandona per quattordici ore continue. Il significato del toponimo: dag giorno e alla tutto, nella sua accezione di sempre, perennemente, liberamente tradotto con “luogo perennemente illuminato”, appare appropriato. Questa contrada è altresì cosparsa di ceramica neolitica e ricca di grotte di scorrimento lavico utilizzate come per deporvi i propri cari in epoca neolitica. In una di queste grotte, profanata in tempi remoti, si possono ancora trovare nella sua ampia sala, oltre che ad un muro ben costruito con pietre sovrapposte di cui non si comprende la funzionalità, resti di ceramica del periodo neolitico.

Il simbolo del rombo appare nella ceramica siciliana neolitica del VI millennio a.C., e rappresenta il segno geometrico più diffuso nel mondo. Il fatto che esso si trovi impresso sull’argilla cruda di Malta, Calabria, Puglia, nord Europa (in Irlanda lo si trova inciso assieme a due spirali contigue, nella pietra posta nel tumulto di Newgrange) e medioriente, conferma come il simbolo non possa essere considerato il monopolio appartenuto ad una specifica civiltà, ma in esso devono essere riconosciuti valori universali.

Ad majora.

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