Simeto: Aorta della Sicilia

SIMETO: AORTA DELLA SICILIA

La fluidità del fiume le cui acque scorrendo non sono mai le medesime, sembra essere in antitesi con l’eterna stabilità del primordiale colonnato lavico. Tuttavia, il primo e il secondo rappresentano, sotto antitetiche sembianze, le indomabile forze della natura. Ma ben altre forze albergano in questo luogo che tu, artista degli dei primordiali, hai sapientemente cristallizzato con i tuoi ispirati scatti. Risalendo le correnti, chi se ne rendesse degno, potrebbe vedere, non con occhi umani, giocose Ninfe che rincorrendosi tra i flutti e gli equiseti, schizzano miriadi di smeraldine gocce fluviali. Non si faccia scoprire l’umano osservatore che osi penetrare nel mondo delle divinità , poiché “Tremendi son gli Dei quando appaiono alla luce del sole”, e allora dietro un tronco secolare o una arenaria primordiale, in agguato, si scorgera’ Lui, il dio cornuto, il predatore di vergini, Pan, intento ad osservare le dee per rapire la più bella che, al suono del suo flauto, in estasi, senza indugio lo seguirà per concedersi a Lui affinché altri dei, frutto della incontenibile forza procreativa del dio della natura, popolino quei boschi decantati dal poeta mantovano.

Ascolterà, se ne è degno, non con umane orecchie, l’uomo che avrà l’ardire di continuare il viaggio risalendo i flutti e vincendo le ripide pareti laviche, nei pressi di un ponte che un tempo il genio romano eresse sfidando le cateratte del Simeto, i canti gregoriani di un sant’uomo la cui anima, abbandonato il suo minuto corpo, al paradiso rinunciando, preferì continuare eternamente a calcare quelle rive a lui care. Proprio in questo luogo, alzando lo sguardo, vedrai la diroccata chiesa che lo spirito del Santo non intende abbandonare; lì da presso, una fragorosa cascata precipita sul fiume, dando vita nel luogo ove l’una è l’altro si uniscono, ad una colonia di equiseti, segno della purezza delle acque di quel luogo, e di nuovo il senso del sacro ti sopraffarrà. Sì, perché in ogni epoca i medesimi luoghi produssero, nell’animo dell’uomo sensibile, le medesime emozioni, solo che ognuno le diede nomi diversi. Non solo, mio caro neofita, direi che ognuno lì, può incontrare il Genius loci utilizzando i magici strumenti dell’epoca sua; se al monaco furono congeniali i canti gregoriano o il messale e all’antico siculo l’alloro piuttosto che il sangue di un toro, per te la divinità fluviale si è specchiata nell’obiettivo della tua fotocamera.

Ad majora

Il vallo di Ducezio

Il titolo di questo articolo, con riferimento ad un ipotetico vallo edificato da Ducezio per arrestare l’avanzata dei Greci nell’entroterra siculo dell’isola di Sicilia, analogamente a quello ben più noto di Adriano, voluto dall’imperatore romano per arrestare il passaggio del popolo degli Scoti nell’impero, prende spunto dal ritrovamento delle poderose fondamenta di un muro edificato in illo tempore, presso il paesino etneo di Maletto in territorio di Bronte. Naturalmente non è, e non può essere provato neanche dalla nostra ricostruzione dei fatti storici del periodo, che la edificazione del muro sia stata realmente voluta dal duce siculo  Ducezio, tuttavia la presenza del muro in questione ci fornisce la ghiotta occasione per tentare la ricostruzione di un periodo storico, quello del V sec. a.C. momento in cui la penetrazione greca nell’entroterra etneo raggiunse la massima virulenza. Nella targa esposta presso il muro, per volontà della Sovrintendenza ai Beni Culturali, si lascia sospesa ogni possibile interpretazione del motivo per il quale quel muro fosse stato eretto e il periodo storico (o preistorico) in cui venne eretto. Ma a noi, ricercatori indipendenti, è concesso, liberi da schemi accademici, se ben suffragate da prove letterarie, azzardare tesi sottoponendole direttamente al vaglio dei fedeli lettori, graditi destinatari a cui, fiduciosi, ne affidiamo l’analisi.

Se noi abbiamo richiamato il nome del duce siculo per dare risalto a questa incompresa opera di fortificazione, è perché egli, a nostro modo di vedere, nel suo doppio ruolo di sacerdote e capo militare (vedi l’articolo: “Gli Dei Palici e le sacre sponde del Simeto”), oppositore della politica espansionistica greca, viene direttamente chiamato in causa quale valente costruttore di fortezze, dallo storico Diodoro siculo. Il motivo che spinse il nostro principe all’intervento militare per arrestare l’avanzata greca nel cuore del centro religioso dell’isola, va ricercato nella constatazione che i Greci spingendosi oltre la semplice conquista territoriale, miravano a cancellare la storia, le ataviche tradizioni e la religione sicule, ma su ciò, per quanti volessero approfondire quei riferimenti di metastoria cui spesso facciamo riferimento, rimandiamo al succitato articolo. L’edificazione di muri di sbarramento quale tecnica di difesa bellica, raggiunse in Sicilia una efficacia ancora maggiore di quella affidata all’uso delle armi stesse, e il nostro duce, come afferma lo storico di Agira nella sua Biblioteca Storica, dimostrò di essere un grande stratega fortificando, durante il ventennio che lo vide protagonista e in ascesa nella riconquista dei territori erosi dai Greci ai Siculi, numerosi villaggi siculi spingendolo a fondare più di una città. La necessità di erigere un muro mastodontico, funzionale a sbarrare la via al nemico, produceva, tra l’altro, una devastante ricaduta psicologica sull’umore degli eserciti nemici.  Si pensi, quale parametro di comparazione e di misura della fatica occorrente a superare la costruzione di un muro, seppur eretto in fretta e furia, a quello costruito dagli Achei a protezione del loro accampamento, e all’immane fatica che costò ai Troiani il tentativo di superarlo, senza tra l’altro riuscirvi. Il racconto Omerico fatto nell’Iliade è prezioso in quanto descrive i particolari e i metodi di costruzione del muro acheo. La fretta con la quale venivano costruite le fortificazioni murarie durante la fase dei combattimenti, rappresenta un prezioso parametro di confronto per comprendere la funzione e l’approssimazione delle opere militari di questo genere. Tucidide, per esempio, soffermandosi sulla celerità con cui venne costruito il muro di Atene, ne riconosce la carenza delle più elementari tecniche costruttive che ne compromettevano, oltre che l’estetica, la migliore stabilità.

Se del muro di Maletto rimangono solo labili tracce, il motivo va ricercato, a nostro giudizio, nello scopo per il quale esso fu eretto. Infatti esso andrebbe comparato alle barricate innalzate nel XIX secolo per le vie di Milano contro gli Austriaci invasori, alle trincee scavate sul Piave durante la prima guerra mondiale per arrestare l’avanzata austriaca e al muro acheo descritto da Omero di cui si è detto. Pertanto del muro di Maletto, come per le barricate anti austriache e i numerosi muri su cui Tucidide ampiamente si sofferma nella descrizione della guerra del Peloponneso che si propagò fino in Sicilia, innalzati da tutte le parti in causa: Siracusani, Cartaginesi, Siculi, cessata l’emergenza non se ne curò più nessuno, essi vennero, come detto, o abbattuti dagli stessi abitanti di quei luoghi subito dopo finita l’emergenza per ripristinare le vie d’accesso o li si affidarono all’incuria del tempo.

DATAZIONE E MOTIVAZIONE DELL’EREZIONE DEL MURO

Proveremo ora, dopo aver formulato una ipotesi sul motivo per cui venne innalzato il muro di Maletto, a comprendere il contesto storico e il periodo cronologico durante il quale il vallo possa essere stato realizzato. Dall’esamina parziale del muro abbiamo potuto dedurre che si possa trattare di mura erette come vallo o ostacolo per fermare o rallentare l’avanzata dei Greci verso il territorio siculo, che si estendeva da quel punto fino alla costa tirrenica della Sicilia. Non passi inosservato il fatto che il muro oggi intersechi la strada statale 120 che, partendo da Adrano e costeggiando il fiume Simeto, attraversando la catena montuosa dei Nebrodi conduce alla costa tirrenica. Infatti riteniamo che la detta arteria sia la stessa che nel periodo storico da noi esaminato, mettesse in comunicazione i Siculi abitatori delle pendici dell’Etna con quelli della costa tirrenica. La stradale 120 rappresenta ancor oggi una importante via di comunicazione, una scorciatoia per gli abitanti dei paesi etnei che si trovano a sud e a occidente del vulcano che intendono raggiungere il litorale tirrenico. Questo percorso è infatti certamente preferibile a quello molto più lungo, anche se più agevole, di quello rappresentato dalla via costiera ionica. È verosimile che il muro sia stato posto in essere tra il 475 a. C., quando l’inviso ”tiranno” siracusano Jerone, fratello del ben amato “re”  Gelone, ereditato il regno di Siracusa, pensò bene di accrescere il suo territorio a discapito di quello di Siculi, e il 414 a. C., quando la guerra del Peloponneso, combattuta in Grecia fra Greci, si espanse fino a raggiungere i confini della nostra isola. Nel primo caso (il 475 a.C.) è possibile che Jerone, dopo aver conquistato Catania e aver ottenuto dal senato cittadino di Innessa\Etna (futura Adrano, vedasi argomento dell’incontro tenuto nel Circolo Democratico di Adrano il 5-3-2017) il consenso di insediare simbolicamente una guarnigione siracusana nella città sicula, abbia indotto i Siculi che abitavano il territorio a monte di Innessa\Etna a spostare il vallo tutt’oggi visibile nella contrada del Mendolito, reso inefficace dalla guarnigione siracusana di stanza nella futura Adrano, più a monte, nel territorio dell’odierna Maletto. L’altra data, quella del 414 a. C. è perfettamente compatibile con il racconto che fa Tucidide nella Guerra del Peloponneso circa l’arte e la funzione della costruzione delle mura in corso di una guerra, come mezzo di ostacolo decisivo al risultato bellico. Afferma, infatti Tucidide: “Gli Ateniesi ripartirono per Nasso e, fatti fossati e palizzate attorno al campo vi svernarono (…) anche i Siracusani costruirono un muro attorno alla città (…) lo tracciarono lungo tutta quella parte che guarda le Epipole, perché, in caso di sconfitta, non li si potesse facilmente assediare a poca distanza dalla città” -libro VI,75-. Il contenuto di questo passo potrebbe adattarsi anche al nostro muro, costruito nei pressi di Maletto a sbarrare l’accesso al territorio siculo che veniva, tuttavia, continuamente eroso dai Greci.  Lo sbarramento creato dai Siculi proprio in questo punto strategico risulta funzionale per una imboscata da tendere al nemico. Infatti, con la costruzione dell’imponente muro l’esercito nemico sarebbe rimasto facilmente imbottigliato in uno spazio di terreno e, se vogliamo attuare una storica comparazione, si sarebbe trovato nelle medesime condizioni dell’esercito Romano nel Sannio presso Caudio ove subì la storica umiliazione del giogo. Osservando l’orografia del luogo dell’edificazione del vallo si può osservare facilmente come l’esercito nemico che avesse avanzato verso l’interno dell’isola, dovendosi arrestare a causa del muro nello ampio spazio lasciato artatamente libero, avrebbe avuto impedita la fuga presso le retrovie poiché l’angusto passo alle loro spalle poteva venire facilmente sbarrato da un esiguo numero di militi siculi. Nel formulare questa ipotesi Tucidide sembra venirci ancora in soccorso. Così lo storico greco in VI,32\33: “Nicia manda messi a quei Siculi che controllavano i passaggi ed erano suoi alleati, i Centoripini, gli Alicei e altri, perché non lasciassero passare i nemici e impedissero di aprirsi il cammino (…) i Sicelioti tesero un agguato in tre punti (…) I Siracusani, dopo la disfatta subita nel paese dei Siculi, si trattennero dall’assalire subito gli Ateniesi”. Risulta assai agevole individuare perfino i tre punti non meglio precisati da Tucidide. Il primo potrebbe riferirsi a quello che si trovava tra Centuripe e Innessa (Adrano) fra le quali vi è la via che conduce nel paesino di Troina e poi da lì ancora più all’interno fino alla costa tirrenica; il secondo punto potrebbe corrispondere al passo di Maletto che stiamo esaminando, mentre il terzo potrebbe riferirsi a quello allora controllato dagli alleati Catanesi da cui si aveva accesso alla costa ionica. Per paese dei Siculi, come lo definisce Tucidide, di conseguenza, dovrebbe intendersi quella fascia dell’entroterra chiusa all’interno di questi tre passi e saldamente mantenuta dalle armi sicule. Attraverso la seguente ricostruzione storica da noi azzardata, emerge l’ipotesi che Il vallo di Maletto potrebbe essere stato eretto dopo la caduta di quello precedentemente posto nel territorio di Innessa\Adrano nell’attuale contrada Mendolito. Il poderoso vallo di Innessa di cui rimane ancora visibile un lungo tratto, potrebbe essere stato rinforzato dal duce siculo con le due torri erette a protezione della porta principale, così si giustifica altresì la presenza della famosa stele in lingua sicula presso questa porta. Il vallo di Innessa\Adrano, dopo la disfatta dei siculi guidati da Ducezio, avvenuta nel 444 a.C. potrebbe, dunque, essere stato spostato più a monte, nel villaggio di Maletto, oggi territorio di Bronte. Ritornando sull’affermazione di Tucidide circa il paese dei Siculi, riteniamo che egli intendesse riferirsi alla parte orientale della Sicilia appena descritta, poiché lo si evince dal contenuto del libro VI,62 in cui lo storico afferma che l’esercito ateniese dopo aver messo piede nella costa tirrenica, nei pressi di Himera: “unica città greca della costa (…) con la fanteria retrocedevano attraverso i territori dei Siculi finchè giunsero a Catania”. Dunque l’esercito sbarcato ad Himera potè procedere tranquillamente fino a Catania in quanto tutti i paesetti all’interno di questo territorio (il triangolo Himera-Messina-Catania) erano siculi ed erano loro alleati. Inoltre, riteniamo che questo territorio, a motivo della sua complessità orografica rappresentata principalmente dalla catena montuosa dei Nebrodi, non fosse stato mai sottoposto ad una vera pressione militare Greca, -ciò emerge anche in VI,86 ove si afferma: “ i villaggi dei Siculi che abitavano l’interno e che erano stati sempre autonomi fin da prima, subito, tranne alcuni, furono con gli Ateniesi”- al punto che Ducezio, dopo la definitiva disfatta militare del 444 a. C. che lo vide svernare a Corinto[1] per alcuni anni in un esilio dorato imposto dai Siracusani, nel suo ritorno in Sicilia, sbarcando sulla costa tirrenica, vi può tranquillamente fondare una città: kalè Aktè, l’attuale Caronia, vivere indisturbato e morirvi solo per il sopraggiungere di una malattia.

C’è un ulteriore passo nel lib. VI, 98 che serve a farci comprendere il motivo della velocità della messa in opera e funzione per cui questi muri venivano eretti e recita così: “Gli Ateniesi si mossero per Sice, dove si accamparono e rapidamente costruirono un muro circolare (…) costruirono il muro circolare portando pietre e legname (…) partendo dal porto grande fino all’altro mare (…) i Siracusani elevarono un muro trasversale la dove gli Ateniesi avrebbero dovuto condurre il loro muro e, se fossero stati più veloci, chiuderli fuori”. Il muro di Maletto ha un circuito circolare che sembra strategicamente eretto per essere funzionale ad imbottigliare un esercito nemico al suo interno. Infatti,  inizia da un monte a sud del paese e finisce nella rocca sotto la quale scorre il fiume Simeto. Che il muro possa essere stato eretto per funzioni militari lo si evince dalla qualità edilizia dello stesso. Infatti, oltre a seguire l’andamento orografico del terreno, sfruttando avvallamenti ed elevazioni naturali al fine di risparmiare tempo e manodopera, il muro non ha caratteristiche né estetiche né di solidità stabile, caratteristiche indispensabili per la costruzioni dei muri di cinta che proteggevano le città (vedi mura di Adrano, Siracusa, Argo, Micene, Arpinio ecc.). Tuttavia non si creda che tali muri non adempissero egregiamente al ruolo per il quale erano stati concepiti. Infatti in VII,3 Tucidide afferma che i Siracusani si erano schierati “davanti alle mura degli Ateniesi”, mura che erano state solidamente erette a protezione del proprio accampamento. Nel nostro caso va notato che in prossimità del vallo vi era solo il piccolo villaggio di Maletto abitato da qualche migliaio di cittadini, e poi una enorme, desertica distesa lavica che avrebbe dovuto ospitare le tende dei militari siculi che arrivavano in piccoli contingenti dai piccolissimi centri abitati dei dintorni. Si evince pertanto che, se il muro dovesse soltanto servire a difendere il piccolo villaggio, le sue dimensioni e il dispendio di energie occorse per costruirlo sarebbero state sproporzionate per lo scopo che si riproponeva se sostenute soltanto dalle poche centinaia di uomini abili al lavoro che abitavano il villaggio di Maletto. Sarebbe stato più conveniente, in caso di imminente pericolo, -come fece il Gallo Vercingetorige, incendiando le città che sarebbero facilmente cadute, nella sua tattica antiromana e i Russi in quella antinazista; questi ultimi preferirono incendiare l’importante città di Stalingrado piuttosto che farla cadere nelle mani dei tedeschi-, sacrificare al nemico il piccolo villaggio e ripiegare verso l’interno.  Invece il muro, come detto, aveva lo scopo di fungere da linea di demarcazione e di difesa non del singolo villaggio di Maletto, ma dell’intero territorio siculo rimasto, affinchè in esso potessero raccogliersi e organizzarsi i piccoli contingenti di eserciti provenienti dai piccolissimi villaggi siculi che oggi, come allora, popolavano l’entroterra e le selvatiche selve dei Nebrodi.

LE FAVARE O ACQUE SACRE

Lungo la parte meridionale esterna del muro di cui abbiamo detto sopra, è possibile assistere, durante i mesi primaverili, all’apparizione di un ruscello abbastanza ampio e suggestivo con la creazione di piccoli laghetti e cascate avendo come sfondo l’imponenza del vulcano Etna ancora imbiancato da quelle nevi che sciogliendosi hanno dato vita alle su dette “acque sacre”. Queste acque che ora si dividono in rivoli, ora si riuniscono in laghetti, vennero denominate sacre, come si evince dall’utilizzo del prefisso sacro Ve che va a comporre il nome Favare. Ve, in lingua germanica viene pronunciato fe. L’altro lessema che forma il nome composto è vara il quale, in quasi tutte le lingue indoeuropee, dal sanscrito al protogermanico, significa acqua. Proprio la caratteristica di queste acque, quella di apparire durante la primavera e sparire durante l’estate, gli ha fatto guadagnare l’aggettivo di sacre in quanto, per analogia riconduce al concetto di nascita e morte, nonché a quello di ciclicità che, ritualmente, si ripete ogni anno ad ogni stagione. Il loro apparire e sparire li collega al mito di Innanna fra i Sumeri; Proserpina fra i Greci; i Dioscuri nella mitologia greco romana; gli dèi Palici fra i Siculo/Sicani. Si osservi che questa coppia di gemelli venerati presso il Simeto, cantati da Virgilio nell’Eneide, erano denominati Delli che significa i nascosti in lingua tedesca. Il loro culto si svolgeva in un luogo dove scorrevano e continuano a scorrere dopo millenni, due fonti denominate di acqua chiara e di acqua scura, esse vengono dette acque delle Favare cioè acque sacre proprio come quelle di Maletto (ma ve ne sono molte altre in diversi luoghi della Sicilia) perchè esse stesse sono una trasposizione delle divinità. Nel caso delle favare di Maletto, il ruscello, come le dee sopra citate le quali trascorrevano sei mesi dell’anno negli inferi e sei nell’Olimpo, cioè metà anno nella oscurità e metà anno nella luce, rappresentano la metafora dell’eterno avvicendamento di morte e rinascita della natura. Infatti, come affermato sopra esso si forma in primavera grazie al primo scioglimento delle nevi dell’Etna e sparisce in estate quando le nevi, in virtù della cocente calura del sole siciliano si scioglieranno del tutto.

LA TOPONOMASTICA

Villaggio di Maletto con acropoli dominante la valle ove insiste il valloAnche la toponomastica del territorio  di Bronte e Maletto come quella esistente nel territorio di Adrano di cui ci siamo occupati in articoli precedenti, riconduce ad una derivazione nord europea, lingua che abbiamo ritenuto parlassero i nostri avi Sicani e Siculi e di cui ci siamo serviti per una ipotesi di interpretazione delle epigrafi comunemente definite sicule, le più importanti ritrovate tra i territori Adrano e Centuripe (vedi l’articolo: (“Jam akaram: la lingua dei Sicani” ). Nebrodi è il nome dato alla catena montuosa la cui flora è caratterizzata dalla presenza di grandi distese di boschi di Pini e Querce, del tutto simili ai boschi che caratterizzano l’area geografica del nord Europa. Si può notare l’affinità del nome dei monti siciliani con quello di Nebra, cittadina della Germania in cui fu rinvenuto il famoso disco di bronzo che porta il suo nome. Il disco di Nebra, è stato datato dagli esperti e fatto risalire all’età del bronzo. Su di esso sembra sia stata riprodotta la costellazione delle Pleiadi oltre che il sole e la luna.

Piana Cuntarati, è il nome di una contrada che si trova tra Bronte e Maletto. Il nome della contrada entra curiosamente in relazione con un nome di persona ancora attuale e molto frequente presso i Tedeschi e gli Svedesi, quello di Gunter. Il toponimo Cuntarati sembra essere formato dall’accostamento dei lessemi Kuh vacca e tarn celato, nascosto. La libera traduzione che farebbe intendere che ci si trovi in un luogo di raduno di “vaccari”, appare verosimile se si tiene conto che quella del mandriano è una attività ancora importante e praticata nel territorio preso in esame. Nel dialetto brontese cuntari significa raccontare, contare, enumerare ma anche misurare. Dunque potrebbe essere stato, il nostro, un luogo ove le mandrie provenienti da luoghi vicini, venivano riunite, “contate”, controllate. Non va trascurato il linguaggio metaforico di cui amavano servirsi i nostri avi (di conseguenza il bue potrebbe racchiudere il significato di guerriero, militare. In questa accezione lo utilizza, per esempio Zarathustra nel suo elogio al principe quando gli augura di avere molte vacche nelle sue stalle),  continuato attraverso i poeti e le loro poesie. Pertanto pur volendo considerare la possibilità che il significato del toponimo rientri nella accezione di enumerare, il riferimento potrebbe comunque andare alla mandria e al concetto di moltitudine, di gruppo. Infatti in semitico il numero 1.000 viene espresso con la parola bue. Nella antica scrittura ideografica utilizzata da diversi popoli si prendeva quale simbolo per esprimere il concetto di moltitudine la figura del salmone. Infatti in India, luogo in cui non si sarebbe dovuto conoscere questo pesce che vive solo nelle acque dei fiumi che sfociano nel Mar del Nord e nel Mar Baltico, con la parola sanscrita Laksa, nome con il quale viene chiamato in Germania il salmone (Lachs), viene espresso il numero 100.000. Il salmone, spostandosi in branchi fornisce, infatti, l’idea della moltitudine da cui origina il numero centomila.

Maletto è un piccolo centro arroccato sulle falde dell’Etna. Come testimoniano i reperti archeologici ivi rinvenuti, esso è stato abitato fin dal VI millennio a. C. Secondo la tradizione il toponimo è stato acquisito dal nome del duca Maletta il quale, del villaggio ne fece la propria residenza edificandovi il castello di cui ne rimangono le rovine. L’edificio, a sua volta, venne costruito sulle rovine di una precedente struttura non meglio identificata. Non è difficile dedurre che, secondo le abitudini sicane per ciò che concerne la fondazione delle loro città, la rupe che domina la valle, e su cui insistono i ruderi del castello, corrispondeva all’acropoli che, certamente, ospitava il tempio del nume tutelare del villaggio. Il nome del duca, e dunque del villaggio, riconducono al lessema nordico Mehl, termine che significa farina. Non sembri cosa poco importante la constatazione che durante il pranzo, prima di mettere mano al cibo, i Tedeschi pronunciano la frase mahl zeit, l’equivalente del buon appetito pronunciato da noi Italiani. Il lessema Mehl lo si ritrova inciso in un blocco di pietra arenaria ritrovato in Svezia nella città di Tune datato intorno al 500 circa. Nelle tre righe dell’epigrafe runica un sacerdote si autodefinisce il custode della farina, Mehl. Poiché il cognome Mele è comunissimo nel territorio di Bronte e Maletto è possibile dedurre che il nome o forse l’epiteto, sia diventato il titolo nobiliare attribuito al duca di Maletto  e che in Illo tempore fosse stato utilizzato per indicare in genere un “benefattore o elargitore del pane” o, se vogliamo seguire la tradizione ariana dell’Avesta, il libro sacro degli Irani, l’ordinatore, poiché in esso viene testualmente affermato: ”Colui che diligentemente semina il grano, o Spitama Zarathustra, colui che semina il grano, edifica l’ordine”. Se poi, la vicina cittadina di Randazzo corrispondesse, come ipotizzato dagli studiosi, alla Tissa citata da Cicerone nelle verrine, avremo che nella lingua germanica il termine significherebbe tavola, mensa (Tisch in tedesco)

Acropoli di Maletto. Nella valle sottostante è stato eretto il vallo per una lunghezza di quasi tre chilometri.Tornando al toponimo Cuntarati con cui si è denominata la contrada su citata, alla luce di quanto detto sopra a proposito del rinvenimento della stele runica in Svezia, nazione in cui vi è una regione denominata Gotland dalla quale provengono i Goti, vi si potrebbe azzardare una ulteriore ipotesi interpretativa considerando che il toponimo Guntarati possa indicare un etnico. Infatti, il prefisso ku o Gut potrebbe riferirsi al popolo dei Goti. Essi vengono denominati dagli storici antichi, ora utilizzando l’etnico di Gutei ora quello di Kutei. Il lessema tarn che segue al nome di Gutei, significa celare, nascondere, pertanto il toponimo Ku-tarn potrebbe indicare un luogo ove una minoranza di Goti avrebbe potuto trovare ricovero, nascondersi o celarsi. In questo caso potremmo ipotizzare che il toponimo avesse trovato applicazione nel periodo che vide i Normanni (di origine scandinava) opporsi ai Saraceni che avevano occupato l’isola. Il nome della contrada potrebbe derivare, altresì, dal nordico kunun con il significato di re e tarn indicando un luogo dove sarebbe stato un re a trovarvi ricovero. Anche per ciò che concerne il termine Mehl farina, pane, riteniamo che le ipotesi sul suo significato potrebbero essere diverse. Esso potrebbe essere stato utilizzato in chiave metaforica per sottintendere un nutrimento spirituale. Infatti il termine va a comporre, tra gli altri, il nome del sacerdote Melkisedek colui che iniziò Abramo proprio utilizzando ritualmente il pane. Non passerà inosservato neppure l’utilizzo del pane quale mezzo rituale, di cui si serve il principe ittita Labarna. Ma per ciò rinviamo, chi ne avesse interesse, al nostro saggio, disponibile gratuitamente sul  sito di miti3000.eu: “Il paganesimo di Gesù”.

Ad majora.

[1] Ducezio, una ventina di anni prima che la guerra del Peloponneso si spingesse fino in Sicilia, si trovava in esilio in Grecia, a Corinto. Qui, essendo libero di muoversi,  ebbe intensi rapporti con le famiglie più ragguardevoli di Atene. Abbiamo buoni motivi per affermare che in questa fase il duce siculo concordasse con gli Ateniesi una strategia militare comune che li vedesse futuri alleati in una campagna militare condotta contro i Siracusani. Questi accordi diedero buoni motivi agli Ateniesi per intervenire nei fatti siciliani nonostante la prematura morte del duce, poiché in Sicilia avrebbero potuto, comunque, ancora contare sull’alleanza del potente principe siculo Arconide (lib. VII,1) il quale aveva collaborato con Ducezio nel sostenere la causa sicula e che al suo ritorno dall’esilio lo aveva aiutato a fondare Kalè Aktè.

Rinominazione della città Adernò in Adrano

Epigrafe fascista

” Nessuno pensi di piegarci senza aver prima duramente combattuto”.

Non tema il nostro lettore, non si fermi alle apparenze; questo articolo non è stato concepito per esaltare una ideologia o un periodo storico infausto per certi aspetti, ma come tutti gli altri articoli usciti dalla nostra penna e pubblicati in diversi siti web, nei quali si prendeva lo spunto da singoli episodi, dall’esempio della vita di singoli uomini, da frasi, da eventi particolari per approfondire la ricerca nel tentativo di svelare la storia celata da una spessa coltre apposta dalla polvere dei secoli trascorsi, anche in questo articolo si intende seguire lo stesso metodo, al fine di cristallizzare l’insigne ruolo che la nostra amata città, sede primordiale del culto sicano, occupò nella storia isolana.
Allo scopo si presta, dunque, l’epigrafe sopra riportata, parzialmente picconata da chi avrebbe voluto cancellare, assieme al contenuto della scritta, il succitato periodo storico che, come tutti gli eventi della vita, non può, a nostro modo di vedere, essere portatore soltanto di aspetti negativi. Convinti di quanto sopra asserito, metteremo in evidenza il lato positivo che direttamente riguarda la nostra città e i cittadini che la abitano, quale aspetto invisibile che rappresenta l’altra faccia della medaglia. Infatti, per dirla con il poeta: “Per umana conformazione gli uomini sono portati a vedere solo ciò che appare loro evidente. A pochi è dato vedere oltre le apparenze”. L’aspetto fausto cui facciamo riferimento, si nasconde tra le righe della felice proposta espressa, durante lo svolgersi di una seduta in un consiglio comunale riunitosi nel 1929, dall’allora consigliere comunale professor Luigi Perdicaro. L’illustre concittadino, animato da ardore patrio, illuminato da una scintilla divina, cogliendo un vento favorevole che spirava nella direzione del recupero della nobile storia italica e del ripristino di antiche tradizioni, proponeva per la nostra città, che in quel momento si chiamava Adernò, fra le altre cose,che potesse riprendere l’antico toponimo di Adrano, nome andato perduto a causa di uno storpiamento di pronuncia di esso da parte dei popoli stranieri sopraggiunti a dominare l’isola; e non dunque per una ben precisa volontà del despota di turno, cosa che, secondo la nostra ricostruzione storica apparsa, oltre che nel saggio “Adrano dimora di Dei”, in diversi siti web, potrebbe essersi verosimilmente verificata in seguito ad un compromesso avvenuto tra le istituzioni della città di Etna e Dionigi il vecchio. Il tiranno, infatti, vedeva nella nostra città, che allora si chiamava Etna, una spina nel fianco poiché Etna, città anti-tirannica per istituzione, come riportato da Diodoro nella sua Biblioteca storica aveva fornito supporto militare agli oppositori politici del tiranno che lo assediavano nella sua reggia siracusana. Dopo l’insuccesso del tentativo di deporlo, la futura Adrano aveva offerto ospitalità ai transfughi siracusani democratici suoi oppositori. Il tiranno, assediando la città di Etna nel tentativo di abbatterla e porre fine alla opposizione politica democratica, non riuscendo in questo intento, riesce però a strappare un compromesso (insistiamo sull’ipotesi del compromesso in quanto, mai e poi mai un greco avrebbe apposto spontaneamente un toponimo barbarico ad una città che si considerava greca) al senato cittadino di Etna. Ottenuto in parte quanto richiesto, il tiranno con il cambiamento di nome da Etna in Adrano e lo stanziamento di un contingente di militari siracusani nell’acropoli, si illudeva di cancellare la nobile storia della città di Etna. Invece, Dionigi, accettando la proposta delle istituzioni Etnee, rinominandola col nome del dio eponimo Adrano, commise un doppio errore: evocò il dio primordiale che fungeva da collante per i Siculi così come Jahvè funse da cemento fra gli Ebrei della diaspora, e inconsapevolmente fece affiorare forze che soltanto trentasei anni dopo i fatti narrati, si sarebbero scagliate come un boomerang contro la sua stessa stirpe, decretando la cacciata dallo scranno siracusano del suo erede Dionigi il giovane.

ADERNÒ
Come sopra affermato, il toponimo Adernò si affermò in seguito ad un difetto di pronuncia del nome Adrano da parte delle decine di popoli stranieri che si succedettero al governo dell’isola. Il nome Adernò indicava comunque il luogo abitato dall’Avo sicano e, come trapela dalla penna dello storico arabo Idrisi, incaricato di scrivere una storia della Sicilia, in pieno medioevo Adernò continuava ad essere una cittadina di rilievo al punto da essere scelta, quale propria residenza ponendo la sua dimora nel castello costruito dall’avo, dalla contessa Adelicia nipote del gran conte normanno Ruggero d’Altavilla.

Castello normanno di Adrano, in piazza Umberto I, oggi sede del museo regionale “S. Franco”

Il toponimo Adernò rimase ad indicare la città dell’Avo sicano per un millennio circa, l’equivalente di un anno per gli Dei se vogliamo dare credito a quanto affermato nel testo sacro degli Indù, il libro dei Veda, periodo in cui il dio Adrano, ma sarebbe più corretto definirlo, seguendo l’etimologia dell’appellativo che lo caratterizza, Avo, andò in letargo. Lo risvegliò, pronunciando per la prima volta il suo nome dopo mille anni, il divino intuito dell’illuminato Luigi Perdicaro, concittadino non abbastanza ricordato dalle generazioni successive, forse perché ebbe la ventura di nascere nel secolo sbagliato o militare dalla parte politica perdente.
Tuttavia, noi che intendiamo pronunciare il nome dell’Avo con la stessa potenza evocativa con cui lo pronunciò il Perdicaro, dirigendo la nostra attenzione alle proposte del nostro concittadino di cui andiamo fieri, piuttosto che guardare al colore della camicia che indossava, non possiamo non celebrarlo per le sue patriottiche posizioni. Pertanto, per quanto concerne l’epigrafe con cui abbiamo aperto la nostra disquisizione, che per ironia del destino, seppur monca sopravvive ancor oggi a ricordare quale monito, di che pasta son fatti gli Adraniti, non possiamo non affermare con decisione che quanto affermato in essa, seppur diretto alla stirpe italica, si adatta perfettamente alle posizioni che assumono i tenaci cittadini Adraniti nei confronti delle avversioni. Infatti, essi in mille occasioni dimostrarono il loro valore, in pochi casi documentato. Uno di quegli episodi documentati è rappresentato, – atteso che si accetti la nostra tesi, secondo la quale Innessa, Etna, Adrano, Adernò siano nomi che indicano la stessa città in diversi periodi storici- dalla battaglia passata alla storia come la battaglia di Himera, di cui ci viene narrato da Diodoro di Agira, nella quale gli Etnei, futuri Adraniti, con il loro contributo cambiarono le sorti della stessa e nel 480 a. C. contribuirono a cacciare i Cartaginesi dall’isola. Altra occasione, mai abbastanza ricordata e osservata dalla giusta direzione, è quella inerente la cacciata dei tiranni greci dalla Sicilia sotto la guida del condottiero Timoleonte. A partire dal “ladrone” romano Verre, il fenomeno del banditismo siciliano è un aspetto che lascia intravedere, per quanto erroneamente applicato, la tenacia, l’orgoglio, lo spirito di giustizia che l’adranita applica tenendo conto del proprio giudizio maturato fra i meandri della propria coscienza, incurante a volte delle istituzioni da cui non si sentì mai rappresentato in quanto messe in piedi da popoli stranieri che negli ultimi duemila anni si sono avvicendati al comando dell’isola con una celerità incredibile. Anche nell’infausto caso, la città di Adrano, ma sarebbe meglio affermare, alcuni cittadini di essa, così come avvenne durante la symmachia prima citata formatasi per scacciare i tiranni greci nel 344 a. C., assurse ad esempio e divenne la città più attenzionata dalla repressione governativa, sia per il numero che per il carisma dei componenti che avevano dato vita al banditismo adranita: un battaglione di militari, oltre alle forze dell’ordine locali, furono inviati in un quartiere della città di Adrano per la cattura di un singolo uomo, Vincenzo Stimoli. Il fenomeno del banditismo, esploso tra il caos dell’ultimo colpo di coda della seconda guerra mondiale, nel marzo del ’44, quando perfino re, generali, dirigenti fuggivano eroicamente, è stato da noi ampiamente esaminato nel saggio “Adrano dimora di Dei” (a questo saggio rinviamo chi volesse approfondire l’argomento). Qui ci preme affermare che nessun periodo storico è stato solo bianco o nero e che il carattere degli Adraniti che emerge in ogni periodo che li vede coinvolti, rimane immutato ad ogni riapparire di crisi sociali: esso rimane monolitico nonostante la differente composizione che lo costituisce e le differenti posizioni assunte dai cittadini. Luigi Perdicaro fu concittadino di questa tempra, degno erede dell’Avo sicano e non ebbe timore di opporsi al regime fascista lui stesso fascista, per difendere i colori della patria adranita. Infatti, a lui siamo debitori se nello stendardo della città di Adrano viene ancora rappresentata quell’aquila simbolo di dominio delle altezze a

Stemma del comune di Adrano

cui solo i grandi aspirano, e che il romano governo voleva sopprimere perché solo dominasse il cielo e la terra italica. Ma come l’aquila fu cara a Giove, altrettanto, sapeva il preside del liceo classico adranita, fucina di menti, Luigi Perdicaro, che la sicana divinità adranita, Odhr-Ano, rappresentava il corrispettivo sicano romano di Jah-Ano e non ebbe difficoltà a convincere il governo romano che nella capitale italica come nella sede sicana adranita, le due aquile avrebbero concorso a meglio vegliare, sorvolando entrambe sull’italico cielo e sull’Italica stirpe. Approvata dunque dal consiglio cittadino la proposta del recupero del teonimo-toponimo, il nostro concittadino faceva imprimere il nome Adrano sul bianco calcare e faceva apporre la targa celebrativa sulla prestigiosa facciata del palazzo dei Bianchi.

COMPAGNIA DEI NOBILI BIANCHI

Nulla è lasciato al caso, o se volete, per dirla col noto scrittore, il mondo cospira. Infatti, il palazzo dei nobili Bianchi che divenne la sede della casa comune cittadina, prima era stata una privata dimora patrizia, abitata dalla famiglia Ventimiglia e successivamente dai Moncada. Essa venne riadattata per ospitare la suddetta compagnia la quale, come prevedeva anche lo statuto dettato da San Bernardo di Chiaravalle ai templari e previsto pure negli altri ordini monastico cavallereschi, non ultimo l’ordine dei Teutoni stabilitosi in Polonia dopo il fallimento in Terra santa ove si intendeva liberare il santo sepolcro dalla dominazione araba, non avrebbero potuto accedervi coloro che non avessero potuto vantare nobili natali. Numerosi furono gli interventi della compagnia dei nobili Bianchi sul terreno della solidarietà umana: soccorrere gli indigenti, i fratelli più sfortunati che abitavano la città del dio che fu padre di tutti, Adrano. Dopo la sede di Palermo, fondata nel 1541, viene costituita nel 1568 quella della città etnea. Al fine di rendere edotti i nostri concittadini, onde rincuorarli circa il valore creativo dei nostri Avi e del ruolo centrale che ebbero nell’isola, sappiano che il nostro teatro Bellini fu costruito prima di quello di Catania che lo riprodusse in scala più grande. Perfino la compagnia ritenne opportuno fondare la sua sede prima ad Adrano piuttosto che a Catania. Le nostre ricerche, ancora in essere, ci inducono ad azzardare la tesi secondo la quale la Compagnia dei Nobili Bianchi possa essere sorta da una costola del disciolto ordine dei templari. Lo scioglimento dell’ordine venne ufficialmente messo in atto, dopo anni di persecuzioni, dal re di Francia nel 1312. L’ordine monastico cavalleresco dei templari del resto, prima che Filippo il bello li espellesse dalla Francia rendendoli invisi, a motivo di false accuse mosse contro di loro, in molti paesi dell’Europa (in Italia le prime sedi dei templari ad essere chiuse furono quelle di Brindisi e Chieti), non potevano essere assenti in una importantissima città quale era quella di Adrano. Taceremo in questa sede, per esigenza di sintesi, sui molteplici aspetti in cui la città sacra, come la definisce Plutarco nella “Vita di Timoleonte”, cara all’Avo, primeggiava; abbiamo accennato alla costruzione del piccolo ma magnifico teatro Bellini, riteniamo che la città di Adrano, senz’altro importante lo fosse dal punto di vista religioso, simbolico ed esoterico,

Simboli incisi su arenaria. Fiume Simeto presso l’ara dei Palici

(per verificare queste asserzioni leggansi gli articoli apparsi su miti3000.eu: La musica degli dei e simbologia è ascesi nell’ Adrano arcaica) discipline di cui i templari erano grandi estimatori. La città di Adrano, si rende necessario ricordarlo, era la sede del culto primordiale dell’Avo sicano Adrano, culto la cui origine si perde nella notte dei tempi, motivo per cui si può affermare che ogni sapere d’ordine metafisico vide la luce ad Adrano, tra le solide colonne del santuario dedicato alla divinità eponima, prima che altrove. Il culto al dio sicano veniva tributato dalla colta casta sacerdotale appellata Adraniti, ovvero coloro che evocano il furore dell’Avo (Odhr-Ano-Iti). Non sappiamo fino a quando il culto del dio sicano continuasse ad essere praticato nel tempio dell’Avo Adrano dopo che i Romani ne decretarono nel 211 a.C. la chiusura al pubblico e prima che la nuova religione si imponesse. Crediamo che, comunque, nonostante il culto cristiano, in seguito all’editto di Tessalonica del 380 d.C. si imponesse e in qualche modo, si sovrapponesse a quelli pagani, non senza prima aver messo in atto quella magistrale operazione di sincretismo operata dai primi padri della Chiesa Cristiana, la casta sacerdotale degli Adraniti, per via carsica dovette continuare a tramandare i propri riti, la simbologia e le proprie conoscenze scientifiche ancora per qualche secolo. Le conoscenze scientifiche della casta sacerdotale degli Adraniti non dovevano essere inferiori, (consigliamo la lettura dell’articolo: La geometria sacra nella costruzione delle città sicane – miti3000.eu) se non abbiamo fallito nella interpretazione della simbologia sicana giunta fino a noi attraverso i reperti archeologici ritrovati, da quella posseduta dai consanguinei druidi del nord Europa, né da quella posseduta da Sumeri, da Egizi e Veda. Alla luce di quanto affermato fin qui, ci è sospetta la tempestività con cui vengono fondate in Italia la compagnia dei Bianchi dopo la chiusura delle sedi templari. Infatti, la prima sede attestata, dei Bianchi, viene fondata a Firenze nel 1375 e da lì, percorrendo l’Italia da nord a sud, approda, come affermato, a Palermo. In tutta Europa, dopo la messa al bando ufficiale dei monaci guerrieri, vi fu un tentativo di rimodulare la posizione dei templari che dalle loro sedi originarie, definibili a rischio, migravano in luoghi più sicuri, fuori dall’orbita di influenza del potere esercitato dal re di Francia e dal papa che lo assecondava. Si ha notizia, pertanto, che molti dei componenti dell’ordine dei templari ripiegarono in Scozia, altri confluirono nell’ordine degli ospedalieri di S. Giovanni; in Portogallo, invece, i templari fondarono un nuovo ordine, l’ordine di Cristo, con l’obiettivo apparente di combattere i Mori, mentre in Spagna i templari si riconvertirono nell’ordine di Montesa. Alla luce dei molteplici esempi di trasformazione dell’ordine templare sopra riportati, giunge ancora sospetto che tra la compagnia dei Bianchi e i templari si scorgano importanti analogie: l’abbigliamento adottato dagli uni e degli altri era formato da un saio di lino bianco. Aggiungasi all’abito indossato la coincidente ritualità svolta da entrambi gli ordini. Infatti, i Bianchi come i templari erano legati al santo Giovanni il battista; questo santo, coevo di Gesù, vissuto in Palestina ove i templari fondarono il loro ordine ottenendo come propria sede le rovine del tempio di Salomone, veniva a sua volta collegato al pagano rito del solstizio d’inverno. Che un rito del solstizio venisse praticato anche in Sicilia ab illo tempore lo conferma la presenza di numerosissime rocce forate che si fanno risalire al neolitico se non al paleolitico,

Pietra perciata di Nicosia

equivalenti dei Dolmen, di Stonehenge, delle fortezze di Trelleborg ecc. del nord Europa. Nel vastissimo territorio di pertinenza alla città di Adrano, che in tempi antichissimi si estendeva, con molta probabilità, a nord fino a Bronte, ad est fino a S. M. di Licodia, a sud oltre il fiume Simeto, essendo assente la morbida roccia di arenaria ove praticare il foro, presente invece nelle decine di siti siciliani che ospitano i suddetti “santuari preistorici”, supponiamo che la roccia forata venisse sostituita con la costruzione di un tempio vero e proprio realizzato con la messa in opera del duro basalto lavorato

Colonne e capitelli con bassorilievi di simboli solari. Area di rinvenimento Mendolito, Adrano

in blocchi squadrati e di cui le colonne con i rispettivi capitelli decorati con motivi solari, esposti al museo di Adrano, ne siano i resti. Avanziamo l’ipotesi, vista la natura esoterica della religiosità sicana, che un tempio solare in Adrano, venisse costruito per le medesime finalità per le quali furono concepiti quelli sopra citati: fare convergere in un punto ben preciso, nell’alba del ventuno Dicembre e nell’equinozio di primavera, i raggi del sole, simbolo di rinascita e di fecondazione.

LA SCALA DEI BIANCHI

Ad Adrano esiste una scala, ma sarebbe più opportuno definirla strada o salita, che noi opiniamo sia stata intitolata ai titolari della confraternita poiché è detta, la scala dei Bianchi, che per semplificazione viene denominata semplicemente scala bianca, nonostante di bianco non vi sia assolutamente nulla essendo stata ricavata scalpellando il nero basato della Rocca lavica sulla quale si inerpica. La scala in questione è la continuazione di una delle due arterie che formavano le principali vie di comunicazione dell’antico sito di Adrano e che dividevano la città in quattro settori. Oggi la scala bianca è impraticabile nonostante due anni orsono la liberammo, con la collaborazione di un gruppo di volontari, dai rovi che l’avevano invasa. La strada a cui ci si riferiva sopra che costituiva una delle due arterie che divideva la città in quattro settori, realizzata in basolato lavico, era larga sette metri. L’arteria che venne alla luce durante alcuni saggi di scavo e poi ricoperta, doveva essere la continuazione della scala dei Bianchi. Questa, vincendo il forte dislivello della Rocca Giambruno, rocca che costituì il naturale bastione di difesa del centro siculo sicano dalla quale un tempo precipitavano suggestive

Ricostruzione attraverso un plastico delle cascate

cascate d’acqua, attraversa l’area sacra di sud est ove insiste tutt’oggi, posta su un piccolo colle lavico frantumato, un’ara neolitica, si dirige, costeggiando il fiume Simeto, nella direzione di Lentini. Con la fantasia (o con l’intuito), componente lecita per il ricercatore se dichiarata e necessaria per la ricostruzione di fatti svoltisi distanti nel tempo, ci piace immaginare che i Bianchi, e prima di loro i templari, percorressero questa sicula strada per recarsi in quella suggestiva area sacra in cui pullulavano percepibili forze naturali, forze ancora percepibili (da noi richiamate attraverso la scientifica ricostruzione in scala di un plastico che riproduce parte del territorio adranita, così come doveva presentarsi quattromila anni fa in tutta la sua suggestiva bellezza)

Fotografia storica delle cascate

per coloro il cui spirito non si è mai sopito, ed ivi celebrarvi il rito del Natale Solis e/o quello dell’equinozio di primavera. Gli ignari coloni che con estatica visione, dai loro ubertosi campi li osservavano incamminarsi in ieratica fila incappucciati, e ne udivano i canti all’alba, ognuno recante una candela accesa in mano, dovettero rimanere assai impressionati dallo scenario che si offriva ai loro occhi; da lì, la denominazione di scala dei Bianchi. Non sarebbe peregrina la formulazione della tesi secondo cui in Adrano, siano perdurate per via carsica le conoscenze esoteriche della casta sacerdotale denominata degli Adraniti, considerando che nella città dell’Avo Adrano, ancora nel XIX secolo erano presenti ben sette logge massoniche; ma sull’argomento che riguarda questa discussa associazione di studi esoterici, la massoneria, preferiamo cedere il passo al ricercatore Alessandro Montalto che ha condotto interessanti ricerche in merito, e rinviare quanti volessero approfondire l’argomento ai suoi lavori.

Ci preme fare rilevare al lettore, che ad Adrano non era assente neppure il prestigioso ordine dei cavalieri di Malta.

Croce dell’Ordine dei Cavalieri di Malta presso la chiesa di S. Francesco

Rimane ancora a testimoniare la loro presenza, la cui sede si trovava presso la chiesa di S. Francesco che in periodo arabo fu adattata in moschea, una croce scolpita sul nero basalto. Ci chiediamo: perché tutti gli ordini di prestigio, dai templari ai massoni, scelsero il sacro suolo dell’Avo per insediare le loro associazioni? Ed ancora: le antiche forze di attrazione emanate dal suolo in cui fu edificato il tempio di tutti i Siciliani, si sono esaurite?

Ad majora.

La lingua degli Adraniti: Epigrafi anelleniche.


Epigrafe in alfabeto anellenico del Mendolito.

Risale a molti decenni fa il ritrovamento della stele di calcare in contrada Mendolito, a tre chilometri dall’abitato di Adrano, città, quest’ultima, in cui sorgeva il santuario dell’Avo Adrano venerato in tutta la Sicilia fino a quando l’isola rimase etnicamente e culturalmente integra, e conservò il toponimo di Sicania. La stele del Mendolito contiene l’epigrafe anellenica più lunga che sia stata ritrovata in Sicilia. Ci piace considerarla un monito arrivato dalla polvere dei millenni a ricordarci il prestigio che la vetusta città di Adrano ebbe nei millenni passati e perché essa, oggi, Cenerentola del Mediterraneo, venga ripensata dagli studiosi secondo il posto che le spetta nella storia, conservato fino all’infausto arrivo dei tiranni greci i quali, pian piano, le sovrapposero secondo i propri piani di mistificazione, i loro miti e la loro cultura. A noi Adraniti  piace credere che l’epigrafe abbia voluto trasmettere un testamento spirituale col quale i nostri antenati di due millenni e mezzo fa, intesero veicolare uno spirito imperituro e un concetto di Nazione e amor patrio che vediamo assai affievolito nella percezione delle generazioni presenti. Ci preme segnalare ai lettori, che la stele non si trova nella sua sede naturale, il museo di Adrano, presso le ampie sale del prestigioso castello edificato dal conte Ruggero il normanno, ma nel moderno, orientaleggiante museo di Siracusa nel quale, negli anni sessanta del secolo scorso, vi venne condotta per essere studiata e restaurata e, da allora, mai più restituita ai legittimi proprietari, gli odierni Adraniti, figli di coloro che in quel calcare, incisero le criptiche lettere. Non ci soffermeremo in questa sede sul contenuto di quella lunga epigrafe; infatti, l’argomento è stato ampiamente affrontato sul prestigioso sito di miti3000.eu nell’articolo “jam akaram, la lingua dei Sicani“. In quella sede ne fornimmo la traduzione secondo il nostro, ormai conosciuto metodo interpretativo, che vede nel protogermanico, la lingua di riferimento. Il protogermanico è in realtà una lingua ricostruita dagli studiosi attraverso la comparazione di lessemi delle lingue di derivazione germanica quali l’inglese, il gotico, il norreno. In questa sede intendiamo altresì sollecitare gli studiosi e appassionati ad intraprendere uno studio sistematico della lingua dei nostri Avi, lingua con la quale i primi abitatori dell’isola esprimevano  – anche attraverso l’uso della simbologia perfettamente in sintonia con il concetto dell’aldilà -, i profondi concetti d’ordine metafisico. È probabile che ad Adrano, sede del culto religioso che accomunava, anzi cementava, gli abitanti dell’isola, la lingua primigenia si mantenesse viva e inalterata per un periodo di tempo assai più lungo che nelle altre città della Sicilia, e ciò grazie alla presenza della casta sacerdotale degli Adraniti, nome che per sineddoche, nel periodo a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., venne attribuito anche agli abitanti della città dove sorgeva il santuario, che allora si chiamava Etna (vedi l’articolo: “Rinominazione della città Etna in Adrano“). La casta sacerdotale degli Adraniti, dunque, fu in condizione di tener in vita “la lingua degli dei” fin tanto che il culto dedicato all’Avo primordiale Adrano, venne esercitato con profonda devozione. Infatti, la lingua sicana, come quella latina per i cristiani, o ebraica per i Giudei, rappresentava la lingua sacra, l’unica attraverso la quale era possibile la comunicazione tra l’umano e il divino; il divino non avrebbe riconosciuto dei suoni che non gli fossero stati familiari. Quanto affermiamo rientrava in una antica conoscenza esoterica che si inseriva in un remoto periodo temporale, quando cioè, uomini e Dei comunicavano attraverso l’utilizzo di suoni e simboli convenzionali. Sulla base di queste affermazioni appaiono chiare le esortazioni del riformatore dell’antica religione mazdea Zarathustra, dirette al sacerdote sacrificante. Al sacerdote, Zarathustra, raccomandava che pronunciasse correttamente le formule rituali. Esse dovevano essere chiare e scandite, la pronuncia delle stesse non doveva subire inflessioni di sorta, una pronuncia falsata avrebbe provocato l’aborto del rito. Anche nel libro sacro dei Veda,  che è un complemento dell’Avesta, si insiste sulla necessità di conservare l’esatta pronuncia delle formule rituali. Ma tornando alla lingua dei Sicani, primi abitatori della Sicilia come sostiene Tucidide, il quale, a sua volta, si rifà agli storici locali.

ADRANO CENTRO RELIGIOSO DELL’ISOLA.

Come affermato sopra, la città di Adrano, in quanto sede del culto nazionale sicano, rappresenta per noi lo scrigno da cui va tratto ogni spunto di studio della lingua primigenia: la sicana. Qui risiedeva, e ciò è fondamentale per comprendere il motivo di una lunga, inalterata sopravvivenza della lingua, la casta sacerdotale degli Adraniti. Facendo la dovuta comparazione linguistica con la lingua ebraica, infatti, si può constatare che le liturgie giudaiche hanno utilizzato per oltre due millenni la lingua ebraica biblica quale lingua rituale. L’ebraico biblico che viene letto e compreso da un rabbino del ventesimo secolo, non si discosta enormemente da quello parlato dal colto Giuseppe Flavio. Esso continuò ad essere l’idioma rituale anche quando il volgo non lo parlava e non lo comprendeva più durante la diaspora, poiché il sacerdote, non con il popolo doveva interloquire, ma col divino. Dunque ad Adrano, come nel Vaticano o a Ninive, capitale dell’Assiria, dove è stata rinvenuta la più ricca e  importante biblioteca della regione — si calcola che siano stati oltre diecimila i testi ospitati nella biblioteca reale —, doveva conservarsi la conoscenza delle arcane cose e la lingua con cui esse venivano comunicate ai neofiti. Tuttavia, se abbiamo colto nel segno, la casta sacerdotale denominata Adraniti, come quella dei consanguinei druidi del nord Europa, non amava mettere per iscritto il proprio sapere: non a tutti erano aperte le porte della conoscenza, ma solo a coloro che, per loro innata predisposizione, avevano la capacità di comprenderne il profondo e, talvolta, gravoso significato ed essere in grado di sostenerne il peso. Questo atteggiamento misterico, non era prerogativa di adraniti e druidi, ma rientrava nella struttura esoterica del sacerdozio di tutti i popoli facenti parte della grande famiglia dei popoli convenzionalmente denominati indoeuropei; perciò anche dai saggi indiani, i rishi. Infatti, i sapienti indù esortavano il saggio a non scandalizzare la mente dei semplici comunicando loro concetti metafisici ad essi incomprensibili.

Vogliamo concludere formulando l’auspicio che possa nascere un centro studi telematico sulla lingua sicana che abbia in Adrano il suo baricentro.

Ad majora

Rinominazione della città Etna in Adrano

Nell’articolo “La musica degli dei”, pubblicato in questo sito qualche giorno fa, abbiamo richiamato l’attenzione dei lettori sulla rinominazione della città di Etna in Adrano, frutto di un compromesso intercorso tra il tiranno Dionigi e le istituzioni etnee. Riteniamo sia necessario approfondire, attraverso una verosimile ricostruzione storica da noi tentata, i motivi che indussero l’uno e gli altri a raggiungere, tra il 403 e il 400 a. C., il suddetto compromesso.

Pianoro di Adrano

Se volessimo definire il ruolo della città di Adrano in seno alla civiltà sicana della Sicilia, non potremmo non paragonarla, per il suo ruolo di capitale sacra, all’odierno stato del Vaticano, portatrice però di un valore aggiunto, visto che essa è annoverabile fra le città della Sicilia, militarmente più temibili. Poiché la storia, scritta unilateralmente dai Greci, non rende giustizia al ruolo svolto, nella politica isolana, dai Siculi Adraniti, spetta a noi eredi riscattare i nostri valorosi padri, risvegliandoli dall’oblio a cui i Greci li condannarono.

Chi ci ha seguito nei precedenti articoli, converrà che la casta sacerdotale degli Adraniti, il cui nome si legge da destra verso sinistra in monete chiaramente pre elleniche, rappresentò il cuore pulsante della religiosità isolana nel periodo pre greco. Gli Adraniti erano i sacerdoti del dio, ma sarebbe più esatto utilizzare il sostantivo Avo (ano), Adrano, il cui santuario sorgeva nella città denominata Innessa, sotto il principato di Teuto, e successivamente Etna, secondo la nostra ricostruzione, in onore della figlia di Teuto. Ben presto la città avrebbe cambiato ulteriormente nome, assumendo quello odierno di Adrano, in seguito ad una complessa operazione politico-militare compiuta dal tiranno siracusano Dionigi il vecchio.

Per comprendere l’attività suddetta, risulta necessario passare a setaccio  le gesta che portarono il tiranno al comando della polis più potente dell’isola. Nel 405 a. C., appena proclamatosi tiranno di Siracusa, Dionigi subisce le ostilità degli aristocratici democratici siracusani i quali, dopo avergli sterminata la famiglia, per poco non riescono ad eliminare lo stesso tiranno. Riavutosi, attraverso inganni e tradimenti e sopratutto grazie all’utilizzo di mercenari campani, consolida la propria tirannia nella città; nel 403 a. C. inizia una operazione di assimilazione dei territori Siculi dell’entroterra. La prima città che il tiranno assedia , in atto di rappresaglia è Etna, poiché questa potente città Siculo/Sicana – retta democraticamente attraverso l’istituto delle assemblee, presiedute da un primus interpares, che deliberavano su problemi di importanza capitale per la città – aveva inviato duemila cavalieri affinché dessero man forte agli aristocratici siracusani, che assediavano Dionigi nella sua reggia. Il tiranno si reca presso Etna, ma constatandone l’inespugnabilità, si limita a fare promesse ai rifugiati siracusani, che avevano trovato ospitalità nella città anti-tirannica, per convincerli a tornare in patria. Alcuni si lasciano convincere, ma i più, non fidandosi del tiranno, preferiscono rimanere in Etna, nella quale sentono meglio garantita la propria libertà; altri infine, guidati da un cavaliere di nome Soside, il cui discendente si sarebbe reso protagonista, nel 213 a. C. della presa della polis da parte dei Romani, partono come mercenari in medioriente, arruolandosi nell’esercito che Ciro sta approntando contro il fratello Artaserse, come ci tramanda Senofonte.

Diodoro siculo – storico di Agira

La scelta dei siracusani ostili a Dionigi di rifugiarsi in Etna piuttosto che in altre città più vicine, crediamo possa rintracciarsi nei passati rapporti più che amichevoli intercorsi tra le due città, Siracusa ed Etna, fin dai tempi dell’illuminato re Gelone. Questi, infatti, dopo la battaglia di Himera del 480 a. C., volle fare dono di un tempio agli eroici Etnei che, come si evince dal racconto di Diodoro, nonostante la scarsa enfasi con cui lo stesso fa cenno al ruolo degli Etnei, furono determinanti per la sconfitta dei Cartaginesi. L’edificazione di un tempio greco nella città sicula di Etna, capitale della religione degli antenati, ebbe certamente un alto valore simbolico, che si traduce come un innalzamento dello status politico/militare di Etna e sopratutto segnava un cambiamento epocale sotto il profilo religioso; infatti, per la prima volta, nella sicula Etna avveniva l’introduzione di un culto greco. Tale apertura da parte degli Etnei nei confronti dei Greci, molto probabilmente subita dai  sacerdoti Adraniti, custodi delle antiche tradizioni sicane, avrebbe dato i suoi frutti politici, garantendo ai cittadini un trattamento privilegiato da parte dei tiranni.

Dionisio e la spada di Damocle Di Richard Westall – own photograph of painting, Ackland Museum, Chapel Hill, North Carolina, United States of America, Pubblico dominio, Collegamento

Intanto Dionigi, non rinunciando al suo progetto imperialistico e abbandonando per il momento l’assedio dell’inespugnabile Etna, continuava la sua battaglia per l’annessione dei territori Siculi con ogni mezzo, non mantenendo la parola data e facendosi beffa di tutte le regole etiche che avevano fatto delle gesta belliche atti eroici da epopea  fin dai tempi di Omero. Pertanto, mostrando di non temere gli dei, spergiuro e mendace, conquistate col tradimento Catania, Lentini e Naxos, ne deporta gli abitanti superstiti, dopo aver passato i più a fil di spada. Il suo cruccio rimane tuttavia l’indomita e potente città di Etna, ammantata di sacro ardore con quel suo Dio primordiale che sarebbe stato temuto ancora duecento anni dopo dagli stessi Romani. Fin qui non si aggiunge nulla alla narrazione dello storico Diodoro. Da questo momento in poi proveremo a leggere tra le righe di una storia superficialmente raccontata, non esitando a ricorrere all’indagine psicologica dei personaggi che fecero la storia, avendo imparato che perfino un Annibale non poté sottrarsi ad una determinante sconfitta psicologica nel confronto con Scipione, ancor prima di subire quella militare.

Con un pizzico di fantasia, dote concessa allo storico qualora venga apertamente dichiarato al lettore tale sconfinamento, si potrebbe immaginare perfino il dialogo avvenuto durante l’ipotetico incontro tra Dionigi e il consiglio cittadino di Etna: i sacerdoti Adraniti, con le loro vesti di lino bianco, il bastone ricurvo (lituo) e forse la lira d’oro del dio, con la quale evocavano il “furore dell’Avo” Adrano, assieme ad una rappresentanza di cittadini illustri, scortati da un piccolo contingente di guerrieri armati di lancia ed elmo andavano incontro al tiranno. Questi, da parte sua, assistito dal fido amico e astuto retore Filisto, che poco prima, convincendolo a non cedere lo aveva salvato dall’assedio degli aristocratici democratici siracusani, avrà certamente sfoderato le celeberrime capacità oratorie vanto dei Greci, che gli avrebbero consentito di tener testa, negli anni successivi, alla stessa filosofia di un improvvido Platone che, venuto a trovare il tiranno, sarebbe stato poi venduto da questi come schiavo.

Dionigi, nel suo progetto di trovare una soluzione onorevole per entrambe le città, dovette innanzitutto ricordare alla sacra rappresentanza etnea, l’antica amicizia contratta con Siracusa fin dai tempi del re Gelone. Il piano del tiranno consisteva nell’ottenere dagli Etnei di ospitare in città una insignificante guarnigione siracusana (o magari quei mercenari campani che vi avrebbe trovato Timoleonte cinquant’anni dopo), più politicamente simbolica che militarmente efficace, onde dare valore e visibilità politica alla propria azione militare; in seconda istanza intendeva cambiare il nome alla città, denominandola Adrano: questo mutamento di nome, da un lato, per i Greci, avrebbe avuto un valore simbolico di rifondazione, dall’altro, per i Sicani, che del resto avevano già accettato che Innessa venisse denominata Etna, avrebbe sancito un nuovo inizio, sotto l’egida diretta del loro potente dio. I sacerdoti Adraniti, consultato il dio circa la soluzione proposta dal tiranno, dovettero trarne auspici positivi, così gli Etnei, incoraggiati dal parere dei sacerdoti, decretarono di chiamarsi, da quel momento innanzi, Adraniti.

Da quel momento, come è possibile notare attraverso la lettura di Diodoro, il nome della città di Etna non sarebbe più apparso nelle cronache politico militari dell’isola, che pure l’avevano vista protagonista degli eventi precedenti, sostituito dal nome Adrano, città nata già adulta, la quale si sarebbe imposta da subito sul territorio, giungendo, nel 344 a. C. a rendersi protagonista della cacciata dei tiranni dall’isola e continuando altresì inalterate tutte le tradizioni siculo/sicane (e non greche) che i padri avevano trasmesso e perdurato nei millenni precedenti. Appena fu possibile, nel 344 a. C., gli Adraniti “restituirono il favore” al tiranno, recandosi a Siracusa, dove abbatteranno la tirannide, che era passata a Dionigi II, e istituirono un consiglio cittadino, a imitazione di quelli siculi, formato da Siracusani democratici, da cittadini adraniti, tindaridi e tauromeni, tutte città che, riunitesi in lega, avevano contribuito militarmente all’operazione anti-tirannica.

L’influenza adranita su Siracusa, a partire da questa data e fino al 213 a. C. fu maggiore di quanto appaia dalla superficiale lettura della storia, raccontata del resto da storici greci, restii ad ammettere e narrare tale influenza: Adranodoro, genero di Gerone II e pretendente alla tirannide dopo la morte del suocero, avvenuta nel 216 a. C., fu probabilmente un cittadino di provenienza adranita, appartenente ad una famiglia aristocratica trasferitasi a Siracusa con incarichi politici di rilievo, tale ipotesi appare altresì ovvia se si considera che Timoleonte, per ripopolare Siracusa, resa deserta dalle continue guerre di Dionigi, dovette richiedere uomini perfino a Corinto la quale, raccogliendo uomini attraverso un bando, riuscì ad inviarne sessantamila. Plutarco aggiunge esplicitamente che anche da tutta la Sicilia, rispondendo al suddetto bando, si erano recati uomini a Siracusa per abitarci.

Busto di Cicerone Musei Capitolini

Altro motivo per credere che l’influenza politica sicula su Siracusa fu sempre incisiva, sopratutto dopo i fatti del 344 a. C., è la presenza nella polis di un antichissimo tempio che Cicerone, nelle verrine, afferma essere dedicato ad un antico Dio locale che i Greci chiamavano Urio. Era dunque un dio non greco la cui statua veniva paragonata da Cicerone, semplificando, a quella del dio romano Giove, che si ergeva sul Campidoglio: allo stesso modo Diodoro (90-27 a. C.), nel lib. XXXIV, cap. 28, avrebbe chiamato “Giove etneo” il dio Adrano (o perché il suo santuario si trovava nella città di Etna-Adrano o perché questo culto era ormai ristretto al territorio etneo). Ora si dà il caso che Ur, in lingua germanica, significhi antico, primordiale. L’unica divinità sicula che corrispondeva a tale appellativo era appunto Adrano, l’Avo  l’antenato. Va ricordato a tale proposito che, prima di essere conquistata dai Greci, Siracusa era una città sicula, come conferma il suo stesso nome (sicher-usa, casa sicura o la dimora certa, inespugnabile, caratteristica di Ortigia, luogo del primo insediamento umano) e che i killiroi (Cilljri in siciliano) erano in realtà i Siculi sottomessi, i quali esercitavano il culto del dio Adrano. Urio era dunque l’appellativo che i Siculi-Killiroi avevano dato al tempio pre greco del dio antico, il tempio primordiale, edificato per primo e dedicato all’Avo, all’antenato, in poche parole il tempio dove si esercitava il culto del dio Adrano. Tale culto sarebbe caduto in disuso  nella Sicilia romana dopo che i Decemviri, tra il 213 e il 211 a. C., ne avevano decretato la chiusura alla pubblica devozione; sarebbe stato sconosciuto perfino al colto Cicerone, così come ai Greci, tra cui Diodoro.

Eviteremo in questa sede  di fare riferimento alle argomentazioni di carattere geografico, culturale e militare, suffragate rispettivamente dai testi di Strabone, Plutarco e Cicerone, che provano l’identificazione delle città Innessa, Etna e Adrano; eviteremo altresì di dimostrare come sarebbe stato impossibile per Dionigi, impegnato, fino al 397 a. C., data in cui subisce una pesante sconfitta navale nel porto di Catania costringendolo ad una vergognosa ritirata a Siracusa, in una spossante campagna militare contro i Cartaginesi, fondare la città di Adrano, sicché si sarebbe limitato in realtà di attribuire il nuovo nome (Adrano) e a ripristinare qualche tratto delle imponenti antiche mura pre greche.

Ad majora.

La musica degli dèi: la lira dell’avo Adrano

“Pan mentre intonava con il suo zufolo i suoi canti alle belle ninfe oso’ disprezzare i canti di Apollo. Ciò provocò una contesa tra le due divinità di cui fu giudice il vecchio Tmolo. Pan cominciò a suonare producendo un suono rozzo (…) Apollo dopo aver cinto il biondo capo con l’alloro del Parnaso resse con la sinistra la lira mentre con l’altra reggeva il plettro: la sua posa era quella di un artista; poi con il pollice pizzico’ abilmente le corde dello strumento producendo una dolce armonia che conquistò Tmolo”.
Ovidio, Metamorfosi XI, 146-180.

Moneta adranita con lira

Il titolo di questo articolo prende spunto dal rinvenimento di alcune monete adranite, la cui caratteristica è quella di avere, nel verso, effigiata la lira con l’iscrizione anellenica ADRANITAN, eviteremo in questa sede di commentare l’iscrizione anellenica che in altre monete si presenta pure in senso antiorario, evidenza che aggiunta ad altre prove da noi portate durante diversi convegni, suffraga la tesi da noi fortemente sostenuta della rinominazione e non della fondazione della città di Adrano nel 400 a. C. ad opera di Dionigi il vecchio quale un compromesso avvenuto fra il tiranno e il senato della città di Etna prima chiamata Innessa, come afferma Diodoro nella sua opera, Biblioteca Historica .

Moneta adranita con lira

Ma tornando al simbolismo della lira nella monetazione riportata dallo storico, nostro concittadino, Salvatore Petronio Russo nella sua Illustrazione storico archeologica di Adernò a pag 50, non è passata a inosservata la constatazione che la presenza di questo strumento musicale nella mitologia di altre civiltà, anche enormemente distanti tra loro geograficamente, quale la mesopotamica e la sicana, caratterizzasse le divinità maggiori.

Moneta con iscrizione  rovescio “Adranitan”

Infatti, in Mesopotamia la lira era lo strumento di cui si serviva il Dio An, Anu o Ano che chiamar si voglia, per intonare le melodiche note; in Sicilia, per quanto nessuna caratteristica del dio Adrano, oltre che quella di guerriero, implicitamente fornita da Plutarco (vita di Timoleonte) venga tramandata, come vedremo oltre e come si intuisce dalla leggenda ADRANITAN e dalla testa di una divinità effigiata nel recto che il Petronio con errore attribuisce ad Apollo, la lira raffigurata nel verso della moneta ad altri non potrebbe attribuirsi che a lui, Adrano, nella sua veste di musico al pari di Anu ed Apollo.

LA LIRA.
Nel corso dei nostri studi, nella fase delle ricerche che avevano come oggetto la comparazione tra le teogonie delle civiltà a noi più familiari dell’ occidente e del medioriente, nella fase di osservazione delle attività religiose svolte dai sacerdoti in onore dei propri dei, ci è stato possibile constatare come la lira avesse avuto un posto di rilievo tra gli strumenti musicali utilizzati sia dalle divinità, che da coloro che intendevano emularle, celebrarle o compiacerle. A Babilonia, per esempio, durante la celebrazione dell’ anno nuovo, la lira veniva suonata dagli Eribbitj, i sacerdoti che stavano innanzi alla processione che si dirigeva al tempio del Signore; in Irlanda la lira rappresentava lo strumento musicale preferito da maghi, sacerdoti e re; in Palestina, il futuro re Davide venne introdotto nella reggia del re Saul in quanto col tocco sapiente delle corde dello strumento, attraverso le note melodiche che ne derivavano, riusciva a guarire il re dalle sue frequenti e insopportabili emicranie; come non fare riferimento al greco Orfeo a cui i poeti, per generazioni, dedicarono strofe su strofe per celebrare la sua arte di musico? Sempre in Grecia si constata che non esiste statua del dio Apollo priva della presenza della lira posta ai suoi piedi; in Palestina, Jubal figlio di Lamech vissuto, secondo i biblisti, intorno al 3300 a. C., fu detto Padre di quelli che suonano la lira.

L’ ACCESSO AD UNA DIMENSIONE EXTRAFISICA.

Abbiamo constatato che non solo la lira, ma anche altri strumenti venivano utilizzati dagli dei per fini diversi a secondo la caratteristica della divinità .

IL FLAUTO.
Il dio Pan prediligeva suonare il flauto in quanto egli, Dio della fecondità e della forza rigeneratrice, con il suono emesso dallo strumento, induceva le ninfe e le fanciulle, oggetto del suo desiderio, ad entrare in una fase di estasi e, in preda a quello stato estatico, non ricercato né voluto, concedersi al Dio.

LA CETRA
Ermes era il fratellastro di Apollo, generato a Zeus dalla ninfa Maja. Secondo quanto riportato dal mito, Ermes avrebbe fatto al fratello il dono di una cetra, strumento da lui inventato. La conseguenza di questo mito fu quella che i poeti dell’epoca, di volta in volta, quando ispirati dalla Musa componevano versi per celebrare il dio della luce, attribuivano a lui quale strumento utilizzato, ora la lira ora la cetra. Ma non vi è alcun dubbio che lo strumento preferito da Apollo fosse la lira. Questa ipotesi prende corpo riflettendo sul contenuto del mito raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. Secondo il mito, Ermes, geloso delle doti musicali del fratello, lo sfidò ad una competizione di esibizione musicale dalla quale uscì vittorioso il dio della luce, Apollo. Dal mito pervenutoci, emerge che Apollo fosse già un musicista prima ancora che il fratello gli facesse dono della cetra e lo strumento che predilige a era appunto la lira. I Greci, del resto, tradizionalmente celebravano Apollo come sommo dio della musica ed infatti non esiste nella statutaria né nella monetazione dell’epoca, un Apollo raffigurato senza la lira ai propri piedi, mentre, al contrario, non è mai presente la cetra.

Apollo citaredo.

Ci siamo voluti soffermare su questo particolare che, a prima vista, potrebbe apparire banale, poiché come vedremo in seguito, la lira possiede qualità sonore che la cetra non ha e che sono funzionali al ruolo di armonizzatore dell’ universo esercitato da Apollo. Infatti, il suono emesso dalla lira rappresenta l’antitesi del suono erotico emesso dal flauto del dio fecondatore Pan e del suono frenesiaco emesso dal tamburo. La lira suonata da Apollo emana un suono armonico, solare e civilizzatore. Apollo, dunque, con il suono della sua lira non solo si contrappone al caos cosmico, orgiastico e sensuale in cui fa precipitare il flauto di Pan con la precisa volontà di condurre i propri adepti ad un ritorno all’indistinto, ma crea le condizioni per il ripristino dell’ ordine e dell’armonia cosmica raggiungibile grazie ad una prima percezione aristocratica di sé e, in secondo luogo, dal ritenere il mondo un campo di applicazione di questa qualità.

Lira ritrovata ad Ur.

Per quanto riguarda ora la cetra, ora la lira, attribuiti dai poeti ad Apollo, crediamo che la loro confusione derivi, come si evince da alcune raffigurazioni della lira su vasi greci, dal fatto che la base di appoggio della lira avesse la forma di una cetra così come le lire d’oro e di argento ritrovate nella città di Ur, sede del dio Anu in Mesopotamia, deposte nelle stanze funebri di re e regine, avevano modellata in legno, come base di appoggio, la testa di un toro.

LA LIRA DEL DIO ADRANO.
Nessuna tradizione, né orale né tantomeno scritta, è giunta fino a noi da parte degli storici del tempo, per ciò che riguarda le caratteristiche dell’Avo sicano. Soltanto dalle superficiali informazioni di Plutarco, al quale premeva soffermarsi più sulle eroiche gesta compiute in terra di Sicilia dal suo compatriota Timoleonte che sulle tradizioni adranite, si ricava la caratteristica predominante di un dio guerriero; ma gli dei sono, si sa, polivalenti e possiedono diverse caratteristiche parimenti importanti. I tratti che caratterizzavano Apollo, per esempio, erano cinque: la luce, la divinazione, la scienza medica, la vita pastorale e la lira. La lira di Apollo aveva la caratteristica di essere fornita di sette corde così come sette sono, nelle raffigurazioni che lo ritraggono, i raggi che emette la corona che ha sul capo. Poiché il numero sette figura spesso quale elemento simbolico, gli studiosi sono propensi a credere che esso indicasse il posto che la divinità occupasse nella gerarchia divina. A Zeus, il padre degli dei spettava il dodicesimo posto, il più elevato. Il numero sette però, è anche collegabile alla costellazione delle pleiadi che tanta importanza ebbe in diverse civiltà del medio oriente.
Ma tornando alla lira, ben poco sappiamo circa il fatto che lo strumento in questione possa ritenersi utilizzato dall’Avo adranita, anzi, per amor del vero bisogna affermare che nessuna fonte lo attesta. Tuttavia, chi ha seguito le nostre ricerche sa che si è fatto più volte riferimento alle affinità che intercorrevano tra i Sicani della Sicilia e i Sumeri della Mesopotamia, rimandando quanti volessero approfondire l’argomento, all’articolo pubblicato su miti3000.eu Un dio tra il Simeto e l’ Eufrate riteniamo utile riproporre in questa sede, la tesi che le due divinità, l’Anu sumero e l’Ano sicano, appellato odhr in Sicilia ovvero furioso, se non corrispondessero alla medesima divinità facente capo ad un’unica primitiva tradizione, avessero comunque in comune la caratteristica di essere entrambi dei musici. Val la pena ricordare ai nostri lettori che il sostantivo Ano significa avo, antenato, progenitore e che in ogni luogo in cui gli emigranti appartenenti allo stesso ethnos giungevano, in base a criteri di ordine semantico inerente la cultura d’origine, potevano aggiungere un aggettivo al sostantivo ano che servisse a caratterizzare l’avo: in Sicilia era appellati odhr ovvero furioso, in Grecia ur, Ur-ano ovvero antico; nel Lazio l’appellativo era quello di sensitivo o percettivo (jah) è così via. Per ciò che riguarda l’Avo mesopotamico, ad Ur, città a lui dedicata, è stato ritrovato un frammento in cuneiformi che, anche se molto lacunoso, si comprende chiaramente che lo chiama in causa assieme alla sua lira, né riportiamo la traduzione: “in quel luogo luminoso (. lacuna.) la residenza di Innanna. deposero la lira di Anu (. lacuna.)“. Come già affermato, nella città di Ur, la città di Anu, venne ritrovata una lira d’oro lo strumento le cui note emesse favoriscono l’armonia cosmica. Guarda caso, l’ideogramma in cuneiformi per rappresentare il dio suonatore di lira mesopotamico era formato da otto cunei a forma di stella (o sole), numero che richiama la legge dell’ottava.

LA LEGGE DELL’ OTTAVA E IL SIMBOLISMO DELLA DOPPIA SPIRALE.

Caratteri cuneiformi di Anu

Questa legge si basa sul fatto che le vibrazioni che rientrano nei multipli di otto, creano le condizioni per ottenere un’ armonia cosmica. La scienza che studia le vibrazioni si chiama cimatica. Se Adrano, come noi crediamo, fosse il corrispondente sicano di Anu, dovremmo trovare in Sicilia le stesse analogie musicali e simboliche che si riscontrano in Mesopotamia e che fanno riferimento al numero otto. Ma cerchiamo di capire se, come accade per Anu, anche al dio Adrano sia collegabile il numero otto. La spirale, simbolo presente nel territorio adranita, rappresenta il simbolo per eccellenza dell’armonia, le due spirali contigue scolpite nei capitelli Siculi di Adrano esposti nel museo cittadino, una avvolgente l’altra espandente, formano il numero otto; il troncone della colonna su cui poggia il capitello con le spirali incise in bassorilievo, è ottogonale, ha cioè otto lati. Molto dei pesi da telaio portano inciso il simbolo del sole con otto raggi. È stato constatato dagli studiosi che la frequenza terrestre, indicata come respiro della terra è di 8hz. La terra emana delle pulsazioni, come se il suo cuore battesse. Ecco dunque, che il numero otto appare indirettamente in Adrano attraverso il simbolismo della doppia spirale

Capitello adranita con spirali.

L’ ORGANISMO UMANO IN RELAZIONE ALLA LEGGE DELL’ OTTAVA E LE FREQUENZE.
Ogni cellula dell’organismo umano, secondo Hans Jenny, ha una propria vibrazione, pertanto la vita è, secondo la opinione dello studioso, il risultato delle vibrazioni specifiche di ogni cellula. La frequenza di 432hz, multiplo di otto, rappresenta la miglior frequenza musicale per la percezione della nostra mente. È stato altresì constatato dagli studiosi che la frequenza degli 8hz predispone la persona ad imparare inducendo il cervello ad essere creativo, ad avere profonde intuizioni di natura scientifica, mistica o comportamentale. Il nostro cervello, perciò, è molto sensibile a qualsiasi strumento che emetta onde di frequenza di 8hz, cioè 8 cicli per secondo. Il ricercatore Puharich notò che ad una frequenza di 10,80hz si provocava un comportamento violento nell’individuo, mentre a 6,60 se ne causava la depressione. Sempre lo stesso ricercatore poté notare che onde di frequenza di 8hz sono in grado di penetrare qualsiasi barriera fisica o energetica, svelando una loro natura di vettore multidimensionale non soggetto alla materia del nostro spazio-tempo. Gli 8 cicli per secondo inducono ad una sincronizzazione tra i due emisferi cerebrali destro e sinistro.

LA RISONANZA MAGNETICA NEL LUOGO DOVE SORGEVA IL TEMPIO DELL’ AVO ADRANO.
Dato per buono quanto affermato da prestigiosi ricercatori, tra questi includiamo il prof. Paolo Debertolis dell’ università di Trieste, il quale studiando molti siti preistorici ha osservato che i luoghi ove i siti vennero costruiti, hanno delle frequenze che incidono sugli emisferi cerebrali al punto da creare pulsioni di natura mistica, noi ci poniamo la domanda se il sito ove sorgeva il santuario dell’Avo Adrano, non emettesse, possedendo le caratteristiche indicate dal professore triestino per altri luoghi, le medesime vibrazioni e se esse non potessero essere state magistralmente utilizzate o manipolate dai sacerdoti che, appunto per queste capacità, vennero denominati Adraniti cioè: Coloro che evocano il furore dell’Avo. È possibile che l’Avo venisse evocato dai sacerdoti adraniti ora nella sua veste di guerriero col suo furore bellico, ora in quella mistica di suonatore di lira. Gli adraniti, grandi conoscitori della cimatica, in poche parole, erano in grado di manipolare le vibrazioni che provenivano dal sottosuolo attraversato da acque carsiche, ancora fluenti sotto le fondamenta della Chiesa Madre ove anticamente sorgeva il tempio edificato in onore dell’Avo sicano, Adrano. Sarebbe auspicabile una collaborazione con l’università triestina al fine di appurare se nel luogo del tempio, si verifica l’emissione di onde di 8 cicli per secondo.

Ad majora.

Sulle tracce dell’antico anfiteatro

ALESA

Teatro Romano di Petra, Giordania

Nel corso degli scavi archeologici condotti ad Alesa, è stato ritrovato un teatro romano. Alesa era una città la cui fondazione potrebbe definirsi di ultima generazione. Infatti essa viene fondata nel 403 a. C. dal principe Arconide. Il principe, che non intendeva piegarsi al tiranno Dionigi il vecchio, preferì l’esilio al compromesso. Arconide abbandonò la propria città, Erbita, non condividendo l’atteggiamento morbido che il Senato cittadino manifestava nei confronti del tiranno siracusano. Da quello che emerge, attraverso la lettura della ‘Biblioteca Historica’ di Diodoro siculo, il Senato era disposto a scendere a patti col tiranno e, come si deduce dagli studi da noi condotti, (www.miti3000.eu – Gli dei Palici e le sacre sponde del SimetoAlesa: da Vercingetorige ad Arconide) le ripercussioni che quegli accordi ebbero nei confronti della tradizione sicula furono dure; perciò, appare giustificata la reazione del principe-sacerdote Arconide, custode e difensore delle ataviche tradizioni. La fondazione di una nuova patria, in un territorio siculo, al sicuro dalle mire espansionistiche del tiranno greco, come custodita in uno scrigno, nell’ottica del principe siculo avrebbe consentito di salvaguardare la religione e le tradizioni dei padri.

Ma torniamo sul tema che ha stimolato la nostra ricerca. È da tempo che ipotizziamo l’esistenza di un teatro greco ad Adrano e, forse, anche la presenza di un altro teatro, molto più grande, costruito dai romani dopo la loro conquista dell’isola, quando la città, tra il 214-211 a. C., passò sotto il controllo delle legioni e, secondo i canoni dell’edilizia romana, si espanse a dismisura, duplicando sia il territorio costruito che la densità della popolazione civile di Adrano, grazie anche all’ingresso di schiavi per il fabbisogno agricolo.  Questa ipotesi sarebbe motivata da più di una riflessione che ci piace condividere con i lettori: la città di Adrano è antichissima, essendo la sede del dio venerato nell’intera isola; essa fu prestigiosa oltre misura e ricchissima al punto da stimolare gli appetiti predatori del tiranno di Agrigento, Falaride. Questi, intorno alla metà del VI sec. a. C., come racconta lo stratega Polieno nel suo trattato “Stratagemmi” , ricorrendo, appunto, ad uno stratagemma, riesce a rubare dall’erario della città gli ingenti tesori. In una città così prestigiosa quale era Adrano (rinominata Adrano dopo i precedenti nomi di Innessa e successivamente di Etna. Questi due ultimi passaggi sono attestati da Diodoro siculo. La tesi della rinominazione in Adrano è frutto delle nostre ricerche e di una logica ricostruzione, esposte nel saggio “Adrano dimora di dei” ediz. SIMPLE) non poteva mancare un luogo di cultura quale era considerato il teatro greco. Al lettore basti constatare che, anche la più piccola fra le città siciliane, non ne era priva. Non potrebbe essere diversamente per la popolosa e prestigiosa Adrano se, come appurato, un teatro vi era ad Alesa che, come affermato, sia per antichità che per prestigio non superava, di certo, Adrano. Si evince, tra le righe di quanto ci ha fatto pervenire Cicerone (Il processo di Verre – lib. III, 61/63 ediz. Bur) , che la città, sede dell’Avo, Adrano, era fornita di terme che, come appurato dalle ricerche dello scrivente, si estendevano su un ettaro di superficie. I Romani, come si evince dai ritrovamenti archeologici, ampliarono oltre misura il territorio abitato di Adrano. L’imponenza dei bagni è stata immortalata dagli acquerelli del noto pittore francese J. Houel e confermata, come detto, dalle nostre ricerche condotte in loco; un teatro greco e/o romano non poteva essere assente laddove si registrava una importante presenza demografica nella quale si inserivano prestigiosi elementi dell’aristocrazia romana quale era quella a cui apparteneva il cavaliere romano Lollio, citato da Cicerone nelle verrine. Cicerone, nel raccontare le ‘gesta‘ del tirapiedi di Verre, Apronio, presentava una Adrano (che l’avvocato citava con l’antico e prestigioso nome di Etna, non ignoto ai giudici che presiedevano al processo, si era sempre distinta per le sue lotte contro i tiranni, ai quali viene paragonato Verre) non priva di strutture ricettive: taverne, musicanti, palestre (vedi l’articolo ‘il turismo ad Adrano da Cicerone ai giorni nostri) frequentate da Apronio durante il suo soggiorno nella nostra prestigiosa città, sede del primo ed unico santuario dedicato all’avo della stirpe siciliana, venerato dai Siculi dell’isola fin dalla prima ora. La frequenza giornaliera da parte della moltitudine di pellegrini – motivo che ci ha indotti a coniare per la città di Adrano l’attributo di Vaticano della Sicilia- che si recavano nella città di Innessa, rinominata, come affermato, Etna (Diodoro– Biblioteca Storica- libro XI, 72, 3) ed infine Adrano, città dove sorgeva il favoloso santuario dell’Avo primordiale Adrano, dovette, per forza di cose, attrezzarsi di strutture alberghiere onde ospitare i numerosissimi pellegrini che giungevano da tutta la Sicilia (Plutarco – vita di Timoleonte-). Apronio, due secoli e mezzo dopo i fatti narrati da Plutarco, nel 71 a. C., può, nonostante le due disastrose guerre condotte dagli Adraniti contro i Romani (quella del 263 a.C. e quella del 214 a.C. con le quali la città subì gravi danni) usufruire di tutte le strutture turistico ricettive del luogo. La disastrosa guerra del 214 a.C. aveva perfino comportato la chiusura al pubblico culto del tempio di Adrano, tempio che, tra l’altro, rappresentava, grazie alle elargizioni dei devoti della divinità, una enorme fonte di ricchezza. Ai preziosi donativi elargiti al santuario dai pellegrini, andavano aggiunti, quali ulteriori strumenti di ricchezza, i ricavati della vendita delle immagini sacre ed ogni forma di commercio praticato, per non parlare della fiorente agricoltura locale (Strabone). Crediamo che l’enorme quantità di monete ritrovate negli anni settanta vicino al luogo ove sorgeva il tempio, durante gli scavi in una abitazione civile, disperse fra le tasche delle decine di manovali che lavoravano nel luogo, testimonino a carico della ricostruzione storica da noi azzardata. Quel sito, a nostro avviso, faceva parte dell’enorme area commerciale sorta nei pressi del tempio. Forse, il luogo ove furono ritrovate le oltre mille e cinquecento monete di bronzo e argento, (valutazione fatta alcuni giorni dopo il ritrovamento, dagli stessi operai) era la bottega di un cambiavalute, uno di quelli che esercitavano quella professione presso i maggiori templi del Mediterraneo, uno di quelli a cui Gesù, nel tempio di Gerusalemme fece saltare il banchetto, irritato da quel tipo di commercio indegno, e pur necessario.

IL TURISMO AL TEMPO DEI ROMANI

Ma la città di Adrano possedeva moltissime risorse, il turismo religioso non rappresentava l’unica fonte di guadagno per gli enormi introiti cittadini, e dopo l’ordinanza romana della chiusura del tempio al pubblico culto, gli Adraniti misero in campo nuove risorse. Strabone infatti, aggiunge un ulteriore tassello al grande mosaico da noi ricostruito attraverso la descrizione di Cicerone e quella di Plutarco. Strabone afferma che da Adrano (anche da lui chiamata con il nome di Etna; probabilmente il geografo aveva attinto dagli appunti dell’avvocato romano; infatti, essendo amico dei figli e, dunque, frequentatore della casa di Cicerone, poteva avere accesso agli appunti di quest’ultimo appena reduce dell’avventura siciliana) partivano i turisti che si recavano sul vulcano, attratti dai fenomeni che, ancor oggi affascinano i turisti moderni provenienti da tutto il mondo. Adrano, o Etna, come la chiama il geografo, era infatti ubicata alle pendici del vulcano, anzi, come afferma lo stesso Strabone, faceva parte del vulcano ed era la sede di residenza delle guide. Il territorio adranita, che geograficamente e orograficamente coincide con la descrizione che fa Strabone di Etna, la quale ancora al tempo di Cicerone doveva conservare suggestive componenti paesaggistiche – in parte da noi ricostruite attraverso un grandioso plastico esposto in una mostra permanente, ubicato nella sala ottocentesca del Circolo Democratico, nella centralissima piazza San Pietro-, con la presenza di fiumi, cascate, fitti boschi, colonnati lavici.

DOVE CERCARE IL TEATRO?

Ma dove andare a cercare il teatro? Chi conosce il nostro territorio sa, che nessun altro luogo offre una sommatoria di elementi che farebbero preferire il luogo della rocca a qualsiasi altro luogo. Le antiche mura ciclopiche iniziano dalla rocca Giambruno, nei pressi dell’attuale cimitero, che, descrivendo un poligono, chiudono l’antica città ad ovest, fino al belvedere di via della Regione, dove tutt’oggi, vi è l’ultima torre sopravvissuta delle antiche mura. Il luogo dove immaginiamo possa essere ubicato il teatro domina l’intera valle del Simeto, ed è, pertanto, strategicamente idoneo. La posizione strategica del luogo avrebbe permesso, durante lo spettacolo offerto ai cittadini, di poter, nello stesso tempo che godevano della visione della tragedia, controllare il passo da cui, tradizionalmente, giungevano i nemici: la valle del Simeto (vedi l’arrivo degli Ateniesi nel 414 a. C., durante la guerra del Peloponneso o quello del tiranno Iceta nel 344 a. C.). Inoltre il luogo offriva un paesaggio naturale che forniva la scenografia ideale al teatro stesso. La particolare attenzione nella scelta: strategica e scenografica, si conferma se si osservano i siti in cui sono ubicati tutti i teatri costruiti in Sicilia, da quello di Taormina a quello di Segesta, di Tindari, Eloro, Halaesa etc. Tutti sono caratterizzati dalla visione di paesaggi mozzafiato.

ALLA RICERCA

Sulla base di questi ragionamenti percorremmo il margine della rocca, all’interno delle mura ciclopiche che circoscrivevano l’antica città, e fummo colpiti dalla particolare conformazione al margine della rocca. Ivi scorreva una piccola cascata, residuo di una antica e assai più copiosa; accanto ad essa notammo pietre enormi e squadrate, delle quali affiorava soltanto la loro parte superficiale, sembravano opportunamente lavorate, ma il sito non permetteva di essere indagato oltre, poiché il cactus opunthia dominava sovrano; verificammo semplicemente che, mentre al di qua e al di là di questo luogo la rocca aveva le sue pareti scoscese, perpendicolari ed invalicabili, proprio in questo luogo il terreno digradava, come se, grazie ad una pendenza, nel tempo, trascinato dalle piogge, fosse scivolato in basso dalla rocca riducendone l’altezza e la originaria perpendicolarità. La roccia di duro basalto, appariva in questo luogo, come modellata, tale da farci venire il sospetto che la sua parte più bassa potesse prestarsi ad essere la cavea. La scala dei Bianchi, una delle strade di accesso alla antica città sicula che dalla Rocca, cioè dalla acropoli portava alla valle (all’inizio di essa si notano gli stipiti dell’antica porta realizzati con pietre poligonali della stessa fattura delle mura ciclopiche) correva tutt’intorno al sito del presupposto teatro, fino a valle. Lungo il margine sinistro della scala abbiamo ritrovato fonti d’acqua incanalata attraverso opere nelle quali ci è sembrato fosse stata utilizzata la pozzolana: il collante idraulico tipico delle costruzioni romane. Verosimilmente, la faticosissima salita, denominata in tempi recenti scala bianca o dei Bianchi, contemplava una serie di piazzette di ristoro durante il percorso.

Probabile fonte di ristoro ai margini della scala dei Bianchi.

Abbiamo ritrovato il teatro? Non ne siamo certi; di certo vi è, che noi perseveremo nella ricerca di quel luogo ove Eschilo dovette rappresentare ‘Le Etnee’, certi che la dea Fortuna, commossa dall’amore patrio da noi manifestato, ci condurrà per mano fin dove potremo udire, non con umane orecchie, il coro che evoca, tutt’oggi, Etna, il nome della amata figliuola di Teuto, unica figlia del principe, alla quale il padre donò la città perché la governasse dopo di lui. Da lei, la città di Innessa, prese il nuovo nome di Etna e successivamente quello dell’Avo Adrano.

Ad majora.

Il turismo ad Adrano: da Cicerone ai tempi nostri

Verre Gaio Licinio

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Apronio, il fido liberto del pretore romano Verre, il ladrone delle opere d’arte siciliane, poteva banchettare nei ristoranti della piazza di Adrano accompagnato dal suono dei flauti, arte che i locali musici avevano appreso dalle Muse, e della lira, antico strumento prediletto dal dio Adrano. Quegli stessi musici suonavano anche per i turisti escursionisti citati dal geografo e storico Strabone, i quali, per visitare le pendici dell’Etna (scarica etna_Virgilio.pdf ), erano costretti a partire da Adrano, unico luogo in cui potevano trovare esperte guide montane. Sì, proprio da Adrano partivano le guide dirette alle pendici del vulcano, ancora oggi delizia di studiosi, pittori, poeti che continuano ad immortalarlo attraverso canti e strofe, pitture e foto che lo ritraggono ora placido, a giganteggiare quale antico custode dell’isola, ora furioso distruttore del territorio, ora come un innocuo padre adirato che, tuonando, rimbrotta i propri distratti figliuoli. Il nostro geografo, essendo stato compagno di scuola dei figli di Cicerone, molto probabilmente si avvalse, per la compilazione della sua opera, anche degli appunti di quest’ultimo, redatti dall’oratore romano sia per motivi di lavoro, quando accettò di difendere in un processo i Siciliani vessati dall’ingordo pretore romano Caio Verre, sia per curiosità di antiquario, nel periodo in cui fu pretore in Sicilia, nel 75 a.C.
Certo né Strabone né Cicerone chiamano Adrano col proprio nome in quanto il primo, come già affermato, utilizza quale fonte Cicerone, che denomina Adrano con il precedente nome di Etna, certamente per un espediente processuale, come abbiamo dimostrato nelle nostre precedenti pubblicazioni . Infatti, chi ci ha seguito fin qui nelle nostre ricerche, credo non abbia più dubbi sul fatto che Adrano abbia subito nel tempo diverse rinominazioni, ultima in senso cronologico quella di Adernò che, dal periodo arabo, si è protratta fino al 1929, data in cui, per lungimirante e divino intuito del concittadino consigliere professor Luigi Perdicaro, mai abbastanza ricordato per tale merito, è stato ripreso l’augurale nome del dio Siculo Adrano. Strabone afferma:

Adrano vista da Centuripe.

Vicino Centuripe c’è la città di Etna (… ); essa dà accoglienza a quelli che salgono sul monte (Etna) e fornisce ad essi la guida: è là (Etna\Adrano) che inizia la zona della vetta. Le terre intorno sono nude e cineree, coperte di neve d’inverno; in basso sono occupate da foreste e piantagioni di ogni specie”.
Grazie a questa descrizione del geografo, assolutamente compatibile con Adrano, possiamo immaginarci una città, denominata Etna da Cicerone e Strabone, caratterizzata dalla medesima grande e splendida piazza che ancora oggi dà ampio respiro al nostro centro; unica differenza, al posto del castello medievale e della chiesa Madre, prestigiosi monumenti che oggi troneggiano nella piazza, visibili icone di una grandezza dello spirito adranita che attende pazientemente d’essere ridestata, si trovava il tempio del dio cui tutti i siculi di Sicilia rendevano omaggio: il dio Adrano.

Dio Adrano

Il dio siculo però nell’età di Cicerone non era più all’apice del culto, a motivo della chiusura del suo tempio al pubblico culto, decretata dai Decemviri tra il 215 e il 213 a.C.; chiusura dettata dalla paura che l’irriducibile combattività degli Adraniti nei confronti dei Romani fosse dovuta al sostegno di quel temibile dio, tanto simile alla loro primordiale divinità, Giano, l’avo sicano non ancora scalzato dal giovanile impeto di Giove.

Canosa di Puglia (Bari). 1902 Statua di divinità in marmo. Inv. 51742 La presenza della folgore nella mano destra. e il tipo iconografico rappresentato consentono di riconoscere nella scultura l'immagine di Giove, eseguita forse in epoca tanto antoniniana (138-161 d.C. ) - II secolo d.C. Marble statue of a deity. Inv. 51742 The presence of the thunderbolt in the right hand, together whit the iconography idenitifies the sculpted image as Jupiter, likely carved in the late Antonine period (A.D. 138-161) - 2nd century A.D.
Statua di divinità in marmo. Inv. 51742

Apronio, in quel lontano I sec a.C., doveva trovarsi così bene nella turistica cittadina di Adrano che, durante i giorni della razzia perpetrata a danno delle città confinanti, ne fece il suo quartier generale. Irridendolo, Cicerone lo paragona ad un “tiranno” di greca memoria, istituendo verosimilmente un parallelismo tra Dionigi/Apronio ed Etna/Adrano, città notoriamente ostile al tiranno greco; quando si ritirava dai bagni o dalla palestra, la cui memoria è stata immortalata in un dipinto ottocentesco del pittore “turista” francese Jean Houel, amava starsene nella piazza centrale, banchettando, dove riceveva i Centuripini ed altri commercianti ed agricoltori dei paesi vicini, che volevano trattare con lui le loro questioni.
Strabone si limita a citare un fiorente turismo sportivo, quello dell’escursionismo sul monte Etna, e nell’espressione “dà accoglienza”, da lui utilizzata in riferimento alla città, non facciamo fatica ad immaginare la presenza di strutture atte ad ospitare gli escursionisti; possiamo anche presumere la presenza di un “turismo” religioso, visto che Plutarco, raccontando la vita di Timoleonte, cita espressamente la presenza di pellegrini lentinesi nel santuario di Adrano, mentre era in corso una funzione religiosa, che attentarono alla vita del generale greco. Il fatto che la presenza di questi sicari stranieri in veste di pellegrini dentro al tempio non avesse destato alcun sospetto nei circospetti Adraniti, è chiara dimostrazione del fatto che, durante le festività in onore del dio Adrano, nel nostro santuario confluivano moltissimi pellegrini provenienti dalle città sicule della Sicilia. Infatti la città di Adrano, con il suo prestigioso tempio, edificato sull’acropoli perché facesse da faro all’indomito spirito degli isolani, ancora al tempo di Timoleonte (344 a. C) rappresentava per i Sicani\Siculi quello che il Vaticano rappresenta per i cristiani o la Mecca per i musulmani. E a testimonianza del fatto che lo spiritus loci non si è mai allontanato dall’antica acropoli adranita, che ospitava la statua munita di lancia del furioso avo (odhr-ano), nonostante oggi nelle nostre sacre contrade troneggino profanatrici montagne di rifiuti quali nuovi santuari del progresso, non possiamo non citare l’illustre principe di Torremuzza Paternò-Castello che, attento e colto “turista”, agli inizi del Novecento, lasciando la nostra città, ancora rivestita di sacrale aura, dopo averla visitata, e volgendo lo sguardo là ove non aveva dubbio potesse tributarsi l’antico culto al dio indigeno Adrano, poté pronunciare le seguenti parole:
Mai tu (città di “Adranum”) sarai da me dimenticato, signore e dominatore d’una terra divina, sacra ai frutti d’oro delle Esperidi. Io mi allontano sì ma nell’orecchio mio risuonano ancora i latrati dei cento molossi cari al tuo dio e il canto augurale dei tuoi sacerdoti.
Parole così pregne di religioso ardore possono scaturire solo da chi è capace di avvertire, grazie alla propria nobiltà d’animo, l’ancora forte presenza dello spiritus loci di un territorio carico di energie. Energie che a nessuno potevano sfuggire una volta entrati nella loro influenza se il compilatore del Dizionario di Geografia Universale, redatto a Torino dalla Società Editrice Italiana nel 1854, citando la città etnea di Adernò, non poté fare a meno di dissertare abbondantemente sul dio tutelare Adrano, sulle imponenti mura che cingevano la città, sul suo “bellissimo sito”.

ara dei Palici

Va detto che, oltre due millenni fa, era tutta la contrada adranita che godeva di una fiorente economia visto che, particolarmente nel periodo timoleonteo, si produceva in loco una pregevole fattura di vasellame (vedasi l’articolo: Etna, un matrimonio illustre nella Adrano del VI sec a. C.), esportato in tutta la Sicilia orientale. Non ci soffermeremo ulteriormente sulla fama di cui godeva il culto dei gemelli Palici, che attirava i poeti fra i boschi di alti frassini attigui al Simeto, come apprendiamo da Virgilio; è il caso però di ricordare che presso il Simeto sorgeva la primordiale “zona industriale” di Adrano, giunta al suo maggior sviluppo produttivo e occupazionale nel periodo di Timoleonte. Infatti, nel sito archeologico del Mendolito, che si trova a soli tre Km da Adrano, secondo le nostre motivate deduzioni, avevano luogo le attività di fonditura, tessitura, artigianato, coltura e trasformazione dei prodotti agricoli, zootecnia, nonché lo stoccaggio nei depositi in loco dei prodotti, parte venduti nelle botteghe, parte imbarcati dai Cilliri del Simeto verso il porto di Catania e, da qui, verso le altre rotte del Mediterraneo. L’area del Mendolito costituiva un enorme emporio sulle rive del Simeto ove sussistevano le condizioni per allevare, nei recinti sacri, e poi vendere ai pellegrini le ingombranti vittime sacrificali per i vicini culti del dio Adrano e dei Palici: tori, capretti e cinghiali, che certo i pellegrini non potevano portare dalle loro città di provenienza ma acquistare in loco, così come in loco dovevano acquistare gli ex voto esposti nelle numerose botteghe: statuette e suppellettili varie, che facevano la fortuna dell’artigianato locale. I pellegrini e gli escursionisti di cui parla Strabone soggiornavano invece nell’acropoli, in comode strutture ricettizie. Immaginiamo i numerosi turisti che, nelle caldi notti estive, cenavano negli affollati ristoranti della piazza centrale, rilassati dall’armonico suono dei citaristi, sorseggiando l’allegro vino delle nostre ricche contrade, godendo, se erano fortunati, dell’incantevole spettacolo di un’eruzione e dell’ineguagliabile bellezza delle fanciulle, prolifere antenate delle attuali, mentre giunoniche nelle loro perfette fattezze, messe in evidenza dal capriccioso libeccio che giocava con le loro lunghe vesti, solcavano le lastricate vie della nostra evoluta città.
Leggendo Cicerone e Strabone, confrontando i loro tempi ai nostri, constatiamo che nulla è cambiato. Il fiume non ha mutato il suo corso e continua ancora ad accarezzare col suo placido incedere il gran masso su cui è stata ritagliata dal devoto scalpello adranita l’ara degli dei Palici; l’Etna continua a dare vita alle sue spettacolari, estive eruzioni e le nostre fanciulle non sono meno belle delle loro antenate; i numerosissimi luoghi di culto della nostra città ospitano ancora divinità, diverse e forse più sobrie di quelle di due millenni fa, ma altrettanto attraenti, ritratte in pregevoli pale di Zoppo da Gangi, mentre ori cesellati e fini stucchi coprono gli archi che sostengono le ampie navate delle chiese; la piazza centrale, che tanto attirava perfino l’infame Apronio, è ancora lì, grande e prestigiosa come allora, ai “ristoranti” in cui egli e molti altri turisti piacevolmente s’intrattenevano, si sono aggiunti eleganti bar, nei quali ci si può altrettanto piacevolmente intrattenere.
Gli Adraniti, che Cicerone adulava durante la sua arringa nel processo a Verre, non si piegavano di fronte a nessuna difficoltà ed erano d’animo forte, primeggiavano in eloquenza, visto che Cicerone li conduce a Roma per farli deporre contro il vile pretore romano. Gli Adraniti che ci descrive Cicerone erano intraprendenti, avevano iniziativa e certamente spiccato senso degli affari se, dopo poco più di un secolo da quando la città era stata rasa al suolo dall’assalto romano, in seguito ad un’eroica resistenza, Cicerone la descrive opulenta, con piazze, bagni e palestre, abitata da cittadini facoltosi e, soprattutto, da abili retori e politici. Questi ultimi, come dimostrano gli apprezzamenti di Cicerone, seppero riconquistare l’antico prestigio della città antitirannica, minato, se non del tutto perduto, dopo la sconfitta bellica del 213 a. C. Era accaduto, infatti, che in seguito alla sconfitta subita, i Romani avevano confiscato ai cittadini Adraniti e fatto diventare ager pubblico tutto il terreno agricolo, dandolo successivamente in affitto, per la maggior parte, ai Centuripini. Anche il trasporto fluviale, che era sempre stato nelle mani degli armatori adraniti, detti Cilliri (vedasi articolo I Cilliri del Simeto), era passato ai Centuripini, dato che Cicerone accenna ad un episodio, legato al processo di Verre, dal quale si evince che la città di Centuripe possedeva navi nel porto di Catania. Ebbene, “la politica patriottica” intrapresa dai nostri abili concittadini di due millenni or sono fu così ben congegnata che, in breve tempo, la città seppe riappropriarsi di tutto ciò che era andato precedentemente perduto e probabilmente acquisì perfino nuovi privilegi visto che prestigiosi cavalieri romani come Lollio decisero di abitarvi. Anche il transito fluviale ritornò in mano degli Adraniti visto che, ancora nel mille e ottocento, la Chiesa Madre, che ne aveva ricevuto in dono l’appalto, lo diede in affitto alla famiglia adranita degli Spitaleri.
Se oggi quei nobili scranni dell’emiciclo comunale, sui quali si assisero i nostri degni avi per deliberare la creazione delle piazze, delle ampie strade, dei giardini, dei palazzi prestigiosi di cui è pieno il centro, fiore all’occhiello della nostra città, sono occupati da arrampicatori sociali che solo qualche giorno fa hanno appreso dell’esistenza di un’epigrafe nella Valle delle Muse, della presenza di un’ara degli dèi Palici o delle stesse millenarie mura ciclopiche che, per palese servile attegiamento, hanno rinominato “dionigiane”, attribuendole ad un tiranno cui Etna/Adrano fu sempre ostile; se la loro occupazione consiste solo nell’inseguire un’effimera visibilità, nell’attesa di cavalcare l’onda perfetta, ciò non deve precludere al cittadino comune, vero erede e detentore delle tradizioni, di contribuire, nell’ambito del proprio ruolo e delle proprie possibilità, a conservare, preservare e far conoscere le proprie radici, utilizzando gli strumenti di cui dispone. Abbia cura il contadino, che ha la fortuna di aver il proprio podere in un antico “centro di forza”, delle antiche vestigia che ivi insistono, come fossero un’eredità personalmente ricevuta dagli avi; vi dedichi dieci minuti del suo tempo per togliere i rovi che le ricoprono, così come i cristiani e i musulmani li dedicano per togliere la polvere dagli altari delle loro chiese e moschee. Abbandoni il commerciante adranita l’antico e contagioso male dell’esterofilia, che lo porta a far uso di nomi incomprensibili per intitolare le proprie attività e utilizzi per queste simboli e lingua “sicula” affinché, in un’epoca in cui le uniche onde sonore prodotte in quest’area si manifestano sotto forma di cacofonici sproloqui, possano fungere da possibile messaggio evocatorio degli antichi splendori. Ritorni perciò il simbolo della Lira, strumento caro al dio Adrano, quale insegna di un bar o icona di un biglietto da visita della banda musicale cittadina. Riappaia nelle insegne dei ristoranti e dei negozi artigianali il capo coronato d’alloro del dio Adrano in veste sacerdotale o quello in veste guerriera con elmo. Le dormienti Muse tornino a suonare i loro flauti negli eleganti bar che, numerosi, propongono ai clienti deliziose specialità locali, nella grande piazza, sotto un castello che l’Europa ci invidia. Torneranno allora, malgrado l’attuale aridità amministrativa, Apronio, il principe Paternò-Castello, Jean Houel, gli escursionisti citati da Strabone, i pellegrini delle antiche pietre, ma soprattutto le famiglie adranite, prime ad aver il “diritto” di rivivere la propria città, di far nutrire i propri figli dei simboli di forza che, sotto forma di “eterne pietre”, sopravvivono ai caduchi individui inseguitori di personali opportunità.
Che l’Adranita si lasci affascinare dal sopravvissuto ma ancora magnetico paesaggio, dalla propria storia, dai ruderi che di questa sono silenti testimoni e soprattutto impari ad ascoltare lo spiritus loci, in particolare quello che, su quell’ara non più fumante di odorose vittime, se ne sta seduto, con il mento stretto nel palmo e lo sguardo assorto, guardando al fiume, ai suoi eterni flutti che, come gli uomini, si avvicendano, attendendo che un erede riaccenda l’estinto fuoco. Impari a guardare con gli occhi del principe Paternò-Castello che, sentendosi in cuor proprio un po’ Adornese, di Adrano scrisse:
Se v’è luogo in Sicilia dove maggiormente fiorisce l’arancio, dove il verde delle piante si conserva perenne e dove l’Etna nevoso si mostri in tutto il suo vetusto splendore è appunto questo. Il Simeto, il più gran fiume dell’isola, sacro alle leggende mitiche, scorre placido sottostante, e questa striscia d’argento, cara ai poeti, ora lambisce luminose arene, ora si restringe in sassose sponde, ora tortuosa gira una costa, ora rasenta, increspata, i muri d’una casa colonica, ma sempre il suo corso è apportatore di bene e di ricchezza, d’ubertosità sana e fresca e la sempreverde conca adornese che abbiamo sott’occhio, forse il più bel pezzo di Sicilia, n’è prova manifesta
(Giovanni Paternò-Castello – Nicosia, Sperlinga, Cerami, Troina, Adernò – Italia artistica -Bergamo 1907).
Ad maiora.

Festa in onore di S. Domenica

Valle delle muse

Ogni anno, nell’ultima domenica di agosto, nell’antica Valle delle Muse presso la città di Adrano, nel luogo ove Virgilio, nel IX canto dell’Eneide, poneva il tempio di Marte e a oggi vi è sovrapposta la chiesa dedicata alla martire cristiana, si svolge una festa a lei dedicata. Dunque, non fece difetto neppure in Sicilia il precetto del 601 di Papa Gregorio che, al vescovo d’Inghilterra che lamentava l’irriducibilità dei pagani anglosassoni nel frequentare i loro luoghi di culto, consigliava di porre altari cristiani dentro i templi pagani: “in tal modo”, sosteneva Papa Gregorio, “speriamo che il popolo (…) possa arrivare, frequentando gli abituali luoghi di riunione, ad adorare il vero Dio”. Nel 398, già Sant’Agostino si era accorto della necessità di riutilizzare gli edifici templari pagani, ma Papa Gregorio compie una scientifica operazione di sincretismo religioso. Infatti, l’arguto quanto temerario papa afferma: “Poiché essi (gli Angli) hanno l’usanza di sacrificare molti buoi ai demoni (dèi pagani), facciamo sì che un’altra solennità sostituisca l’antica, come un giorno di consacrazione o una festa dei Santi martiri le cui reliquie siano lì conservate”. Alla luce delle affermazioni di Papa Gregorio, se ne deduce che il culto riservato a Santa Domenica sia da considerarsi la sostituzione con quello osservato nei confronti di Venere della quale lo storico locale sacerdote Petronio Russo affermava esservi il tempio collocato vicino a quello del suo amante Marte.

Bottone patera dedicata a Marte. Lisbona

Virgilio, come affermato sopra, nel suo poema pur facendo riferimento al tempio di Marte, palesa la presenza, nel medesimo luogo, di un culto ancora più antico di quelli greci presenti nella valle sul fiume Simeto, presso Adrano, ancora durante il periodo in cui egli scrive. I culti greci si erano in parte innestati in quelli indigeni in parte vi convivevano parallelamente. Il culto indigeno di origine sicana, che plasmò l’intera isola, denominata Sicania e fornì alla valle i toponimi che sono stati conservati per molti millenni e trasmessi immutati fino all’epoca attuale, era quello dedicato ai gemelli Palici figli di Adrano e Etna. Il culto alla triade divina: Adrano, Etna, Palici cioè padre, madre, figli e, dunque al concetto di famiglia quale istituto sacro che perseverava la stirpe, era l’unico culto immaginato dai Sicani. Infatti, non ci è pervenuto alcun pantheon divino e nessuna gerarchia di dèi. Lo stesso Adrano non era considerato un dio, bensì l’Avo, l’antenato divinizzato. Egli era il primo uomo, il capostipite della stirpe sicana; colui il quale, essendo nato e morto per primo, sottoposto nell’aldilà, da parte degli dèi, alle prove per accedere alla beatitudine, avendole superate, era in grado di indicare la via ai propri eredi. Questi prendendo il nome da lui, più che un patronimico, esprimevano attraverso il proprio nome il primo concetto di consustanzialità tra loro e l’Avo. Infatti, i nomi di Adrano e Sicano sono composti dall’accostamento di più lessemi. Il sostantivo Ano che è comune a entrambi i nomi, nella lingua nordeuropea, lingua da cui noi facciamo derivare quella sicana (vedi l’articolo: “La lingua dei Sicani”) significa Avo, antenato; l’aggettivo “odhr” che compone il nome Adrano, come afferma Abramo da Brera, significa furioso; sic, presente nel nome Sicano, è pronome riflessivo e significa se, se stesso. Pertanto, il termine Sicano, tradotto verbum pro verbo sarebbe se – avo o l’avo in se ovvero consustanziale all’avo. In virtù di codesta identificazione con l’antenato, il sicano accampò il diritto all’eredità spirituale e, perché no, a quella materiale del possedimento del territorio appartenuto all’Avo: la Sicilia, che essi chiamarono in concomitanza Sicania e Trinacria. TrinacriaIntesero così sancire, con il primo nome il diritto divino di possesso e di appartenenza alla stirpe dei Sicani; col secondo nome specificare un concetto metafisico che avrebbe costituito il nucleo della religiosità sicana, religiosità basata, come affermato sopra, sul concetto di triade. Infatti, volendo tradurre il significato del nome Trinacria, utilizzando il metodo da noi esposto in diversi articoli, avremo: triankr o trianakara cioè, nel primo caso, tre avopotenza o forza, nel secondo treavoterritori. Per tre potenze o forze deve intendersi le tre componenti che conferiscono l’immortalità all’unità cioè alla famiglia: la forza creatrice, la forza ricettrice, la forza riproduttrice: padre – madre – figli (ereditarieta’).

ANTROPOMORFIZZAZIONE DEL DIVINO

Possiamo concludere con ampi margini di attendibilità, che non sia arrivato a noi nulla della teogonia Sicana per il semplice fatto che essa non esistette fin tanto che in Sicilia vi fu una omogeneità etnica. Il panteismo fu l’unico credo dei Sicani fino al II millennio a. C. Fino ad allora, essi erano riusciti a mantenere una armonia cosmica, un equilibrio che venne a spezzarsi con l’arrivo di genti provenienti dall’oriente: Cartaginesi, Troiani, Cretesi che avevano già da tempo recise le loro radici con quella religiosità che vedeva nell’uno il tutto e il tutto era riflesso o emanazione dell’uno. Quella che si veniva a innestare nell’armonica terra di Sicilia nel II millennio a. C. era una religione degenerata in una antropomorfizzazione delle manifestazioni di forze naturali che venivano interpretate come autonome, separate dall’uno. Ciò che era unito venne diviso. Ma lo spartiacque più doloroso e incisivo, quello che sancì, attraverso una operazione scientifica di mistificazione, la cancellazione di ogni conoscenza metafisica dei Sicani, fu quello iniziato a partire dall’VIII secolo a. C. con l’arrivo dei Greci. Chiarificatore di quanto affermiamo è ciò che si riesce a costruire attraverso i frammenti dell’opera di Eschilo “le Etnee”. Nell’opera eschiliana, infatti, si comprende come nel mito originale riguardante gli dèi Palici, figli dell’Avo sicano Adrano e della ninfa Etna, viene arbitrariamente introdotta una teogonia greca che non si limita a coesistere con quella indigena ma, spudoratamente, tenta di sovrapporsi. Eschilo, a tal fine, nell’opera si inventa un rapporto extraconiugale tra la ninfa Etna e il re dell’Olimpo greco, Zeus, dal quale nascono i gemelli divini. Il tragediografo non fa altro che riprodurre in terra di Sicilia il mito greco riguardante altri due gemelli, quello di Apollo e Artemide nati da un rapporto extramatrimoniale tra Zeus e Leto. Tuttavia, dobbiamo constatare che l’opera di mistificazione mitologica e il tentativo di commistione tra i miti greci e quelli sicani tentato da illustri poeti quali furono Bacchilide e Eschilo, venuti in Sicilia durante il regno di Gerone nel 478 a. C. chiamati dal tiranno di Catania per celebrare lui e la cultura greca, non fu condotta con totale successo se, nell’arco di tempo tra il 213 e il 211 a. C., i romani che combattevano contro i Siciliani per il totale domino dell’isola, si videro costretti a chiudere, al pubblico culto, il tempio del dio Adrano (e non quello di Zeus che forse non esisteva nemmeno) in quanto assimilato – giustamente, affermiamo noi – al loro dio primordiale Giano Bifronte, attribuirono al contributo del dio siculo fornito agli isolani, l’incredibile combattività di questi ultimi.

Monete adranite pre-greche

Stando a Cicerone (Verrine), ancora nel 70 a. C. i culti indigeni sono praticati dagli isolani con grande partecipazione di popolo se egli racconta che, a Siracusa, per rendere onore a una antichissima divinità chiamata “Urio”, che Cicerone assimila al greco Zeus, provenivano pellegrini da diverse città della Sicilia. Siamo pertanto propensi, e ci ripromettiamo di riprendere l’argomento, che una religiosità sicana sia carsicamente continuata a esser mantenuta da una tenace casta sacerdotale che, come si evince dalla leggenda di una moneta ritrovata nel territorio della città di Adrano, si appellava “ADRANITAN” ovvero coloro che “invocano il furore dell’Avo”.

GLI DÈI INDOEUROPEI.

Dalla Scania alla Sicania; dall’Eufrate al Simeto; dal Mar Nero al Mediterraneo: ODHR.ANO, JAH.ANO, UR.ANO, M.AN(N)O, MANU, ANU/O … quali relazioni?

Attraverso le nostre ricerche, abbiamo ormai appurato che, i nomi conferiti dai nostri Avi alle persone, così come ai luoghi, contenevano quasi sempre, un significato velato. Spesso i nomi alludevano a caratteristiche significative dei personaggi, o dei luoghi, che designavano. Di conseguenza, se il nostro lettore, a seguito delle molteplici prove apportate nei nostri precedenti articoli (molti apparsi sul prestigioso sito di miti3000.eu), ha acquisito fiducia nella tesi circa la derivazione nord europea della lingua sicana, non avrà difficoltà nell’accettare le implicazioni legate al fatto che OdhrAno (Adrano), nella lingua nordica, più affine alla sicana, significhi l’Avo furioso o la furia dell’Avo, così come il significato del nome dell’arcaica divinità greca, Ur Ano, sia quello dell’Avo antico o primordiale; JahAno, l’arcaico dio latino di probabile derivazione sicana, dal momento che il Lazio, fra gli altri popoli, fu abitato pure da Sicani, può tradursi come l’Avo sensitivo percettivo o intuitivo. L’aggettivo, come vedremo, indicherebbe quelle modalità attraverso l’applicazione delle quali egli si sarebbe guadagnato l’accesso all’aldilà. JahAno rappresenta altresì l’equivalente della divinità germanica denominata Manno dai Germani. Infatti, il nome dell’Avo germanico risulta formato dall’unione del lessema “MN” mente, con il sostantivo ANO – avo, antenato. Da Manno, per sineddoche, deriverebbe il nome del popolo degli Alemanni, nome che gli eredi di Manno si attribuirono con orgoglio, come parimenti intesero fare i loro parenti Sich – ane nei confronti dell’Avo furioso che abitò l’isola di Sicania. Di questi ultimi, si può affermare che, attraverso l’utilizzo del pronome riflessivo “sich”, che significa se, se stesso, essi intendessero veicolare, ancor prima che venisse dibattuto nel Concilio di Nicea nel 325 fra Atanasio e Ariano riguardante la figura di Gesù, il primo concetto di consustanzialità che intercorreva tra l’Avo Adrano e gli eredi sicani, concetto che viene ripreso anche dai coevi Veda nel canto IV, 10 della Bhagavadgita. La formazione dei nomi indoeuropei, i quali, come sostenuto sopra, indicavano particolari caratteristiche della persona indicata, come ancora può constatarsi attraverso le regole della grammatica tedesca ancora oggi in uso, avviene attraverso l’unione di più lessemi: da un aggettivo con un sostantivo; da un verbo o una preposizione con un sostantivo. I sostantivi formati da due o più parole sono numerosissimi nella lingua tedesca e danno, spesso, vita a nomi lunghissimi e impronunciabili per noi Italiani. Come affermato in altri articoli, il nome Adrano riferito alla divinità sicana, indicava, per i Sicani che lo coniarono, non un dio ma, piuttosto, l’Avo, l’antenato primordiale, l’iniziatore della stirpe divinizzato, colui il quale si era “conquistato” il diritto ad accedere nell’aldilà e, per utilizzare ancora una volta il linguaggio veda (Canto V), era riuscito a far parte dell’anima universale, concetto quest’ultimo, che per i Sicani si traduceva nella osservanza della religiosità panteistica. Per ciò che concerne il significato dell’aggettivo “odhr”, furioso, utilizzato dai Sicani per indicare la caratteristica del proprio Avo, va citato lo storico Adamo da Brera che lo traduce con l’aggettivo furioso; e poiché lo storico tedesco lo utilizza per indicare le caratteristiche del dio scandinavo Odino, crediamo che il termine vada inteso nella sua accezione di divino furore; modalità violenta con cui tutti i testi sacri dei diversi popoli concordano nel descrivere l’epifania del sacro. Per comprendere il motivo della scelta dell’aggettivo furioso che contraddistingue la divinità sicana, bisognerebbe ricorrere allo studio della idronimia europea, scopriremo allora, grazie al resoconto fornito dallo storico romano Tacito sulle gesta di Germanico, che in Germania, luogo in cui il condottiero romano venne inviato per sedare la rivolta dei barbari, scorreva l’antico fiume Adrana oggi Eder; anche in Spagna, terra sicana secondo quanto riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, e da noi condiviso a motivo dello studio che abbiamo effettuato sulla toponomastica dell’antica Hiberia, incontriamo l’attuale fiume Adrano che scorre nei pressi della città che porta lo stesso nome. Il sito dove sorse il più prestigioso, e in origine unico santuario dell’Avo furioso, l’attuale città di Adrano, nella Sicilia orientale, era caratterizzato – come è stato messo in evidenza attraverso la ricostruzione del territorio, materializzatosi in un imponente plastico esposto presso il Circolo Democratico di piazza San Pietro, in pieno centro cittadino – dalla presenza di numerosi corsi d’acqua che confluivano in fiumi e che, a loro volta, sfociavano in fragorose cascate. È altresì probabile che l’aggettivo furioso conferito all’avo divinizzato sia da addebitarsi al fragore sprigionato dallo scorrere e dal precipitare delle acque dalle alte rocche di antica lava. In pari tempo, la manifesta violenza con la quale le acque vincevano ogni ostacolo facendosi strada verso la meta finale, il mare, dovette, per analogia, suggerire ai Sicani l’immagine che l’Avo, come afferma pure Gesù nel Vangelo di Matteo 11,12, dovette ricorrere, se non alla violenza al divino “furore” per superare le prove dell’aldilà. A questo punto della disamina sul probabile significato da attribuire agli aggettivi utilizzati per indicare, nella tradizione indoeuropea, le caratteristiche del proprio Avo, emerge che ognuno degli avi o capostipiti dei rispettivi popoli, rispecchiava, in fondo, la concezione che ogni popolo aveva circa la conquista dell’accesso per l’aldilà e la via da perseguire per avere successo nell’impresa: JahAno, per esempio, per superare le prove poste nell’aldilà dagli dèi, ricorse a quella dote, l’intuito, che permette di bypassare la funzione mentale la quale, agitata dai sentimenti di paura, scoraggiamento e incertezza, sarebbe stata da ostacolo per il successo dell’impresa. Ecco allora, che, la percezione, la velocità (Jah) d’azione, l’intuizione immediata che, come viene affermato nella Bhagavadgita (Canto IX, 2) “è consustanziale all’ordine sacro” intervengono a inibire l’insorgere della fase scomposta della mente in preda alle incertezze e alla riflessione, stato che avrebbe inibito o fatalmente rallentato l’azione vittoriosa dell’Avo. Nel sostantivo “Ano”, che va a comporre, come abbiamo fin qui osservato, i nomi delle maggiori divinità indoeuropee, da nord a sud, da occidente a oriente, vi si deve leggere la volontà, da parte degli eredi, di ammantare la propria genesi etnica di un prestigio riscontrabile in ogni cultura e che consiste nella propria antica presenza nel pianeta terra: Zeus definisce antico Poseidone, per lusingarlo, per esercitare nei suoi confronti una captatio benevolentiae, quando nell’Odissea questi si mostra adirato con il re dell’Olimpo a motivo del comportamento dei Feaci nei propri confronti; in Erodoto (Storie) nella ricerca commissionata dal faraone ai sacerdoti, per risalire alle origini più antiche di un popolo che egli riteneva il proprio, si cela il tentativo di imporre il proprio prestigio al mondo; nel primo canto della Bhagavadgita è il dio Krsna che, per lusingare Arjuna, il suo discepolo prediletto, gli ricorda l’antica origine della stirpe di cui l’eroe è membro. Dunque, o Adraniti, antica stirpe consustanziale all’Avo Adrano, non vi pare il caso che sia giunto il momento di rientrare nella grande famiglia indoeuropea a far parte dell’anima universale?

Francesco Branchina

Antichi bagni termali di Adrano: dove cercarli?

Veggonsi tuttora le macerie dei bagni termali presso l’orto denominato Capritti (…) conservarsi i cinque archi (…) il proprietario ha convertito questo luogo in una vasca d’acqua. Egli è vero sono lasciate adesso, come colonne, le basature degli archi fatte di pietra vulcanica e fasce di mattoni (…). – Salvatore Petronio Russo, Storia di Aderno’, cap. VII-“.

Per fortuna, nel secolo precedente a quello nel quale il P. Russo metteva per iscritto le sue ricerche storiche, il principe Biscari, faceva realizzare delle incisioni. Queste riproducevano, fedelmente, le terme romane nella loro grandiosità. Tuttavia dobbiamo ringraziare il nostro concittadino P. Russo, per averci fornito i dettagli utili al ritrovamento, forse, del luogo ove sorsero le terme, e dove tuttora, rimangono visibili le colonne descritte dal nostro. Infatti, il Petronio Russo, nella sua illustrazione storico archeologica, afferma che il proprietario, nel periodo in cui egli scrive, era in procinto di convertire in vasca una delle stanze di quegli antichi bagni. Seguendo le indicazioni del nostro illustre concittadino, cercammo in quella direzione. Dopo aver visionato diverse vasche, realizzate nella contrada indicata dal Russo, trovammo, finalmente, quella giusta. Infatti, all’interno di quella che doveva essere una semplice vasca di raccolta, osservammo la presenza di archi e colonne, come sopra affermato, che non solo non erano funzionali allo scopo per cui la vasca era stata costruita, ma che per il proprietario avrebbe rappresentato un inutile costo, sia economico che di energie.
Notammo ancora, una ulteriore anomalia: la vasca, in una delle quattro pareti, aveva infissa una splendida pietra, scanalata nella sua anima interna e lavorata con motivi elegantemente decorativi, da cui si gettava, per riversarsi nella vasca, l’acqua proveniente, forse, da una sorgente ormai prosciugatasi. La vasca si trova ubicata ad un centinaio di metri dall’ultima abitazione della città, a nord est di questa. L’ abitazione segna il confine tra il centro abitato e l’aperta campagna ove, il tenace colono adranita, con sodi muscoli e copioso sudore, seppe strappare, alla viva lava, le zolle che, tutt’oggi, rendono ubertosi quei fondi. Nella abitazione sopra descritta, confinante con le terme, – o nella strada adiacente ad essa -, dalle indiscrezioni da noi raccolte dall’ultra ottantenne che allora esegui i lavori per la sua edificazione, apprendemmo che si nasconde un mosaico. Per ciò che riguarda chi scrive, egli può, a sua volta, raccontare di una confidenza affidatagli da un fraterno amico, scomparso prematuramente, proprietario di un fondo adiacente alla casa di cui si è detto, fondo poi venduto dalla famiglia e su cui si è costruito un edificio per civile abitazione. L’amico confidò, allo scrivente, in camera caritatis, che, durante i lavori per la costruzione dell’edificio, effettuati molti decenni fa, egli poté osservare, nel giorno in cui lavorava il proprio podere superstite della vendita, che era venuto alla luce un doppio pavimento, fatto con mattonelle di terra cotta piuttosto grezza, che così descriveva: il pavimento sovrastante, era sorretto da pilastri di circa venti cm. funzionali a separarlo da quello sottostante. Dunque tra quello sovrastante e quello sottostante vi era una camera d’aria? Avevano forse rinvenuto il calidarium? I ritrovamenti, che a nostro avviso facevano parte della prestigiosa struttura termale, ripresa alla fine del settecento dagli acquerelli del pittore francese J. Houel, pare che arrivassero fin alle fondamenta dell’attuale liceo scientifico, distante circa duecento metri dalla nostra vasca, che per costruirlo non si lesinò cemento. Dobbiamo rilevare che, se da un lato il duro collante rese sicure le vite degli studenti che avrebbe ospitato, dall’altro seppelli parte dell’antico prestigio della vetusta, quanto sacra, città di Adrano. Siamo consapevoli che, non potendo portare prove a sostegno della veridicità delle storie raccolte, si potrebbe inficiare quanto fin qui sostenuto. Tuttavia, chi è vissuto nella nostra città, la vetusta Adrano, sede del santuario del Dio omonimo, che fu Dio a tutti i Siciliani, allora chiamati Sicani; chi è cittadino di essa, sa che Adrano fu, è, e sarà, una miniera di rinvenimenti archeologici, più o meno fortuiti, come quel rinvenimento di mille e cinquecento monete di bronzo ed argento che riempì le tasche di decine di manovali presenti quel giorno, avvenuto presso gli unici scavi rimasti visibili al visitatore, in piazza Dionigi il vecchio. Nello stesso luogo, durante la costruzione di abitazioni private, furono rinvenuti, oltre alle monete citate, mosaici di una fattura da fare invidiare quelli della villa del casale. Continuando con le indagini dirette alle terme, ci rendemmo conto che gli antichi bagni termali, dovevano estendersi su una superficie di circa un ettaro.

Branchina F. e prietra con simboli
Branchina F. e pietra con cerchi concentrici.

Dobbiamo qui confessare che, a motivo di esperienze antecedenti, riteniamo inutile segnalare alla sovrintendenza quelle che potrebbero definirsi delle semplici intuizioni. Tali riteniamo quelle qui esposte. È infatti doveroso fare presente, a quanti di dovere, che due anni or sono, segnalammo alla sovrintendenza di Catania, con lettera protocollata, il rinvenimento, sul greto del fiume Simeto, di due reperti: una pietra arenaria che portava delle incisioni sulla superfice superiore di essa, e una struttura muraria che, a prima vista, ci sembrò si trattasse dei resti di un ponte romano. Dopo il lungo silenzio degli organi preposti, a cui rivolgemmo il nostro urlo di gioia, che credevamo si sarebbero pronunciati in merito, decidemmo di fare esaminare, privatamente, il reperto da prestigiosi geologi. Secondo le loro opinioni le incisioni sulla pietra arenaria furono eseguite da mani umane.

Particolare dei ruderi del ponte romano sul Simeto.

La imponente struttura muraria fu, anch’essa, fatta esaminare da ingegneri qualificati, da noi portati in loco per esprimere giudizi tecnici, i quali ci rilasciarono regolare relazione tecnica autografa. Come affermato, a tuttora, la sovrintendenza non ha fornito alcuna risposta. Ciò nonostante, se gli organi preposti ritenessero utile quanto da noi qui esposto, non ci sottrarremo dalla dovuta collaborazione. Chiunque, fra gli accademici, volesse adoperarsi per far risorgere la nobile storia adranita e gli edifici che con la loro presenza la testimoniano, troverebbe in noi i più ardui sostenitori.

Ad majora.